II.
Riflessi
Travis sistemò lo specchietto
retrovisore, un gesto che ormai gli veniva quasi automatico, e
osservò il
riflesso del suo passeggero che si sistemava sul sedile posteriore.
Teneva
spesso gli occhi bassi. Non era come lui, così abituato a
guardarsi attorno, a
notare qualsiasi cosa lo circondasse, a soffermarsi sul
benché minimo
particolare. Lo vide gettare indietro la testa e sospirare. Si
passò i palmi
delle mani sul volto e allentò il nodo alla cravatta che
indossava.
Travis pensò di rompere il
ghiaccio. «Giornata lunga?» chiese, senza voltarsi,
e sempre attraverso lo
specchio, il suo interlocutore gli restituì uno sguardo a
metà tra il sorpreso
e l’interrogativo, come se non si aspettasse quella domanda.
Si sentì
incredibilmente stupido: la vita dei suoi clienti non erano affari
suoi.
Travis stava per scusarsi,
pensando di essere stato invadente, quando vide l’uomo
annuire e spostare lo
sguardo fuori dal finestrino: «Sì. Sì,
decisamente lunga e stressante».
Travis si sentiva la gola
secca. Girò le chiavi nel cruscotto e mise in moto
l’automobile. «Se non le
dispiace, svolto solo un attimo l’angolo»
annunciò, controllando che non
arrivassero altri veicoli da dietro. «Non mi va molto di
salutare i miei
colleghi, se escono anche loro».
Non aveva idea del perché
avesse esternato quel pensiero ad alta voce, ma l’altro uomo
ne rimase
divertito e proruppe in una risata educata. Travis non poté
fare a meno di
lanciargli un’altra occhiata nello specchietto. Non lo aveva
mai sentito
ridere, non lo aveva mai visto con quell’espressione in
volto: sembrava quasi
un’altra persona, pareva più rilassato,
più umano. Avvertì una bizzarra
sensazione al basso ventre, come se una mano lo pizzicasse in
prossimità della
cintura.
Aveva appena svoltato
l’angolo in una traversa della Settima Avenue quando
l’altro uomo parlò di
nuovo: «Non le piacciono i suoi colleghi?»
Travis accostò a un
marciapiede e scrollò le spalle.
«Sono okay» rispose,
lanciando uno sguardo alla moltitudine di persone oltre il parabrezza
che
ignoravano di essere costantemente osservate e giudicate dal suo
sguardo
inquisitore «Però non siamo esattamente intimi, mi
spiego? E a volte diventano
fastidiosi, dicono stupidaggini... Se fossero amici puoi anche
sopportare, dare
corda o, eventualmente, discutere –ma se sono solo colleghi
che vedi durante le
pause… »
Lasciò la frase in sospeso,
non sapendo bene come concluderla, e mordicchiandosi il labbro
inferiore.
D’altronde, che ne sapeva lui dell’amicizia? Non
ricordava di avere mai avuto
un vero e proprio amico, nemmeno quando frequentava la scuola, e la
vita da
liceale se l’era fatta mancare andando a lavorare a
quattordici anni nel
negozio di alimentari dei suoi genitori. Questo aveva influito
parecchio sulle
sue capacità nel relazionarsi con altre persone, con i suoi
coetanei, con le
donne. Queste sembravano essere il più grande rompicapo che
Dio avesse mai
creato per l’uomo comune, figuriamoci per uno come Travis:
sembrava sbagliare
continuamente con loro, non le capiva, non ci si raccapezzava, anche
solo un
approccio innocente sembrava offenderle. Sapeva di aver fatto un errore
con
l’ultima ragazza con cui era uscito, un errore a cui aveva
disperatamente
tentato di rimediare, ma anche ogni sua buona intenzione veniva
ignorata.
Il giovane tassista si rese
conto di essere rimasto immerso nei propri pensieri un po’
troppo allungo
perché il suo silenzio non venisse notato. Questa volta fu
il suo passeggero a romperlo.
«Già, non é esattamente la stessa
cosa» sospirò. «Mio padre dice sempre
che
l’amicizia, quella vera, quella che prevede
lealtà, è l’unica cosa importante
quanto la famiglia. Che si basano sullo stesso concetto. Rispetto,
amore,
protezione»
«Suo padre ha ragione»
«Lei crede?»
Travis mosse di nuovo gli
occhi sullo specchietto e si accorse che l’altro uomo
sembrava essersi
irrigidito: «Io penso che le amicizie si possano scegliere e
valutare se ne
vale la pena. Se risultano imprevedibili, a quel punto si ha
l’opzione di
tagliarle fuori dalla tua vita. Con i famigliari è
già più complicato, temo.
Per quanto tu possa cercare di allontanarti, a volte, non hai
scampo».
Travis non condivideva al
cento per cento quella constatazione, ma ciò che lo aveva
colpito di quel
discorso era la palese confessione a cuore aperto che uno sconosciuto
aveva
appena fatto trapelare. E così, il suo misterioso e
affascinante straniero si
era lasciato sfuggire di avere una situazione famigliare complicata.
Che
vagasse per le strade di notte per allontanarsene? Per evadere? Forse
era
davvero una checca come sostenevano Dollaro e Charlie T. e ai suoi
parenti non
stava bene la cosa. Ma anche se fosse stato così, Travis non
riuscì a fare a
meno di dispiacersi un poco per lui. Di provare pena. Non poteva
aiutarlo a
sistemare la sua vita in famiglia.
«Dove vuole che la porti?»
Gli parve saggio cambiare
discorso. Il suo passeggero assunse un’espressione dapprima
pensierosa, per poi
scuotere la testa con gli occhi persi nel vuoto: «Vorrei
saperlo anche io.
Qualunque posto va bene, suppongo, purché mi tenga lontano
da casa per un po’».
Quel discorso stava
cominciando a prendere una piega deprimente, così Travis
tentò di alleggerire
la situazione: «Non posso sconfinare nel New Jersey senza un
permesso, però!»
L’altro uomo rise di gusto e
il tassista si sentì compiaciuto di quella sciocca battuta,
ma ancora di più
della reazione che aveva suscitato. Le sue battute sembravano non far
mai
ridere nessuno. Ricordava una volta, appena qualche settimana prima, in
cui aveva
provato a sdrammatizzare innocentemente sul fatto che il suo libretto
della
patente fosse pulito quanto la sua coscienza e il tipo che gli stava
concedendo
un colloquio lo aveva subito zittito, pensando che volesse fare il
furbo con
lui. Probabilmente avrebbe dovuto nominare il New Jersey anche in
quell’occasione.
«Brooklyn, allora» si decise
infine il giovane uomo, allungando una mano sullo schienale del sedile
anteriore, appena vicino alla spalla di Travis. «Non ho
ancora deciso
esattamente l’indirizzo, ma è già
qualcosa».
Travis annuì e fece ripartire
l’auto: c’era tempo per pensare a una vera e
propria destinazione, almeno fino
al ponte. E per parlare. Ormai era sicuro che potessero farlo, che
tenere una
conversazione con lui gli piacesse e che la cosa fosse reciproca.
Diavolo, non
sapeva nemmeno il nome di quel tizio.
«Mi chiamo Travis!» si
presentò, domandandosi subito dopo se non fosse svalicato
troppo oltre la
cortesia professionale. Gli era sempre difficile capirlo e
probabilmente era
quello il motivo per cui non chiacchierava spesso con i passeggeri. Non
che di
solito li considerasse degni della sua attenzione.
«Lo so» rispose
l’altro uomo
e il giovane tassista quasi sobbalzò nell’udire
quella risposta: «Davvero?
Come?»
«Ho letto il nome sulla
patente».
Travis si sentì un idiota e
lanciò uno sguardo in cagnesco alla targhetta sul cruscotto
con la copia della
propria patente in bella vista. «Odio quella
fototessera» grugnì e sentì
ridacchiare dietro di sé. «Ho una faccia
stupida»
«Nessuno viene mai bene nelle
fototessere» Sembrava un tentativo di conforto. «Le
farei vedere la mia, se non
stesse guidando. Anzi, no, mi vergognerei troppo»
«Sono sicuro che non sia così
male».
Lui non lo era di certo.
Travis scacciò subito via quel pensiero. L’altro
uomo scosse la testa: «Non se
ne parla. Sembra quasi una foto segnaletica. Avevo sedici
anni»
«Touché».
Altre risate. L’aria nel
piccolo taxi sembrava essersi fatta improvvisamente più
calda e accogliente.
Quando Travis si fermò a un
semaforo rosso, sentì nuovamente una mano contro la propria
schiena.
L’uomo si sporse in avanti
per parlare con lui più da vicino: «Il mio nome
é Michael».
Il suo respiro solleticò per
un breve attimo l’orecchio di Travis che, quando
ripartì, avvertì come se le
viscere gli sprofondassero.
Lo guardava da lontano da
almeno due settimane e finalmente aveva un nome da associare a quel
volto.
Michael. Gli si addiceva. Come l’angelo che
scacciò Lucifero dal Paradiso. Il
Bene che trionfava sul Male.
Il tragitto da Times Square a
Brooklyn durava circa un quarto d’ora, sfrecciando
velocemente nel traffico
cittadino. Travis si arrovellò velocemente le meningi alla
ricerca di un nuovo
argomento su cui provare a intavolare una discussione, ma questa volta
fu
Michael a parlare per primo: «Quindi lei fa tutta la
città?»
Travis annuì.
«Ogni notte?»
«Prima sì. Ora ho due riposi
a settimana»
«Passerà le giornate a
dormire, immagino».
Come no. Gli sarebbe piaciuto,
ma addormentarsi era come abbassare la guardia, viveva
nell’ansia costante che
qualcuno gli sarebbe piombato addosso mentre le sue difese erano
praticamente
nulle. Viveva in un’enorme città con un tasso di
criminalità impressionante, un
vero e proprio campo di battaglia non troppo diverso da quelli su cui
aveva
combattuto in Vietnam, strade dove tutti erano in guerra con tutti.
Per tutta risposta, Travis si
strinse nelle spalle. «Non molto, in
realtà» ammise. «Qualche ora al
pomeriggio, niente di più. Di solito, quando finisco il
turno, vado al cinema»
Nello specchietto, vide
Michael distogliere lo sguardo dal finestrino e inarcare un
sopracciglio. «Alle
sei del mattino?» chiese, incuriosito, ma sembrò
realizzare subito dopo averlo
detto perché scoppiò di nuovo a ridere:
«Oh! Ho capito, mi scusi! È solo
–quello non aiuta? A dormire, intendo».
Travis si sentì avvampare,
mentre imboccava un cavalcavia. Per lui era una routine consueta,
ancora prima
che facesse domanda come tassista, stare in giro tutta la notte e
infilarsi poi
in uno di quei piccoli squallidi cinema sulla Quarantaduesima Strada
alle prime
luci dell’alba. Non perché fosse chissà
quale estimatore di quel genere di
film, semplicemente erano a disposizione di chiunque e lui poteva
starsene seduto
a mangiare popcorn e riempirsi di Coca-Cola. Quello che passava sullo
schermo
non gli faceva differenza, non lo eccitava nemmeno. Non andava
lì per toccarsi,
come tutti gli altri avventori attorno a lui che non si preoccupavano
di
nascondere il loro apprezzamento, era solo un modo come un altro di
avere un
posto dove recarsi. Una meta, un qualcosa. Da quando era tornato dalla
guerra,
Travis si era ridotto a una solitaria anima errante, senza uno scopo,
senza
qualcuno che lo facesse sentir vivo o che portasse il cambiamento nella
sua
triste quotidianità. Lavorava per lunghe ore, aveva
già messo da parte un sacco
di soldi, e non se ne faceva niente se non ordinare cibo spazzatura.
Anche i
punti sparsi per la città dove si fermava per far scendere
la gente non erano
una destinazione sua, ma dei suoi passeggeri. Era come se
l’unico scorcio di
vita che Travis vivesse fosse solo attraverso gli altri, attraverso le
loro
malefatte, la loro gola di sesso violento e autodistruzione. Ma quel
Michael
sembrava diverso. Sembrava.
«É che io non mi intendo di
film» disse, come se c’entrasse qualcosa con quello
che l’altro uomo gli aveva
chiesto –non gli andava a genio l’idea di parlare
dei propri genitali.
Michael si mosse un poco sul
sedile posteriore. «Io li adoro» ribatté
«Quando sono tornato a New York, una
delle prime cose che ho fatto é stata fiondarmi al cinema.
Ha mai visto Tutti gli uomini del Presidente?»
Travis non resistette e fece
in modo che nello specchietto si vedesse la propria espressione
interrogatoria:
«Cosa dal titolo dovrebbe farmi capire che non sia un porno
anche quello?»
Vide Michael nascondersi il
volto tra le mani e singhiozzare a ritmo delle risate. Travis
ridacchiò a sua
volta e, quando l’altro si fu ripreso, notò come
il suo bel volto olivastro si
fosse arrossato in prossimità delle guance. Travis si morse
involontariamente
il labbro inferiore.
«No, é un film con Robert
Redford e Dustin Hoffman» spiegò e il tassista
annuì, nonostante quei nomi non
suonassero in alcun modo familiari al proprio orecchio. In ogni caso,
rimase
comunque ad ascoltare interessato Michael che, ben preso, snocciolava
la trama
del film che, a quanto pareva, ripercorreva tutta l’inchiesta
svolta da due
giornalisti del Post che avevano
portato alla luce lo scandalo Watergate.
«Io ho votato Nixon» ammise
Travis con un ghigno e Michael storse il naso nello specchietto
retrovisore.
«Anche mio padre» rispose
«Difatti mi sono ben guardato dal trascinarlo con me a vedere
il film. I fatti
reali erano stati un colpo già troppo duro per
lui»
Nella mente di Travis
riaffiorarono per un attimo alcuni ricordi d’infanzia.
«Ehi, a dirla tutta
ricordo un paio di film che ho visto!» esclamò.
«Beh –in realtà non ricordo
proprio i titoli, ma so che mi piacevano i cowboy»
«Come a tutti»
Mentre parlavano, si erano rapidamente
avvicinati alla meta. Travis vedeva già un pilone del ponte
di Brooklyn
stagliarsi contro il cielo puntigliato di stelle. Un po’ se
ne dispiacque: non
voleva che Michael scendesse, non così presto. Non quando
finalmente aveva
avuto l’occasione di parlargli. Chissà se anche a
lui avrebbe fatto piacere? Se
solo Travis non avesse avuto almeno altre cinque ore prima di finire il
turno…
«Lei vive a Brooklyn?»
domandò a un certo punto il tassista, curioso, mentre la
piccola autovettura
saliva lungo la rampa per entrare sulla carreggiata del ponte.
«Non ho potuto
fare a meno di notare l’accento, mi scusi»
Michael ridacchiò dietro di
lui. A Travis piaceva quella risata, sembrava smuovergli qualcosa nelle
viscere. Si rese conto che il proprio pensiero non aveva alcun senso e
si
affrettò a cacciarlo via, insieme alla marea di altre
riflessioni che lo
avevano assillato dalla prima volta che aveva visto l’uomo
entrare nel diner.
«Long Island» lo corresse
Michael «Lo so, possono essere somiglianti, a volte. Sono
nato a Little Italy,
comunque».
Travis sorrise tra sé e sé
per aver azzeccato le origini italiane.
Michael tirò sul con il naso.
«É lì che lavoro»
spiegò. «Più o meno. Mio padre ha messo
su una compagnia di
importazione di olio d’oliva, quasi trent’anni fa.
Ho appena ereditato la
direzione».
Travis, che aveva ipotizzato
una cosa, alzò un dito: «Ma è mica la
Genco?»
«Quella»
«Allora sono un vostro
cliente! È il miglior olio della città»
«Siamo la marca più venduta
della East Coast. I prodotti ci arrivano direttamente dalla
Sicilia».
Travis emise un piccolo “Ah”
di ammirazione: «É da lì che viene la
sua famiglia?»
Nel frattempo, avevano
attraversato quasi tutto il ponte. Dentro di sé, un piccolo
Travis mugugnava
indispettito.
Michael annuì. «Ho vissuto
lì
nell’ultimo anno» aggiunse «Per affari.
Mi sono pure sposato».
Travis si domandò perché
quell’ultima affermazione lo avesse colpito allo stomaco come
una palla di
cannone che aveva appena lasciato una voragine. Istintivamente,
portò lo
sguardo in basso: lo stomaco era ancora lì, ma non se lo
sentiva.
Una volta superato il ponte,
Michael si sporse nuovamente in avanti, questa volta con tutto il corpo
e
Travis rabbrividì quando sentì il suo gomito
contro il proprio bicipite. «Può
svoltare a destra? Ho appena deciso di passare la notte
all’hotel Mountview».
Travis eseguì.
Michael notò qualcosa: «Il
tassametro?»
«Lasci stare, le offro la
corsa»
«Ma dai!»
«Sul serio. Non ricordo
l’ultima volta che ho avuto un passeggero così
piacevole».
Travis si morse la lingua
fino a farsi a male: non voleva dare l’impressione che ci
stesse provando.
Anche perché non era così. Non voleva che lui
fraintendesse, non voleva
bruciarsi l’opportunità di poter parlare
nuovamente con lui.
L’italiano, però, non
sembrò
infastidito da quell’affermazione, anzi, per tutta risposta,
gli strinse la
spalla con una mano. «E io un tassista così
efficiente» rispose e prese subito
a frugarsi nelle tasche alla ricerca di qualcosa. Quando la
trovò, alla fine,
allungò una sigaretta oltre il sedile anteriore per passarla
a Travis. «Si
faccia almeno offrire una sigaretta, per piacere, anche se non
fuma».
Travis la prese e lo
ringraziò con un sorriso, mentre si accostava, infine,
proprio di fronte
all’hotel Mountview, la cui facciata in mattoni rossi
fronteggiava il fiume.
Mise il freno a mano e si
voltò dalla parte del suo passeggero. Aveva fatto male i
calcoli: non si
aspettava di trovare il suo volto così vicino al proprio e,
nell’incrociare i
suoi occhi scuri, Travis si sentì avvampare per qualche
stupido motivo. Sperò
che l’abitacolo fosse abbastanza buio perché
l’altro non lo notasse.
«Io -» balbettò il
tassista,
cercando disperatamente di non far tradire il tremolio nella propria
voce.
«Penso – penso di potermi fermare cinque minuti per
una sigaretta».
Intanto il tassametro era
immobile.
Michael sembrò gradire
quell’affermazione. Annuì, si sistemò
la giacca di tweed e aprì la portiera dal
suo lato. Travis fece altrettanto e scese dalla vettura. Si
appoggiarono entrambi
alla fiancata e il tassista lasciò che l’altro
accendesse per lui. Rimasero in
silenzio per un po’, esalando sbuffi di fumo, portati via dal
venticello che
risaliva dall’East River. Ogni tanto, Travis lanciava rapide
occhiate di sbieco
all’italiano che, invece, sembrava perso in pensieri ben
più lontani da lui.
Poco male. A Travis piaceva guardarlo, gli piaceva studiarne quei
lineamenti.
Lo avrebbe giudicato quasi statuario, una bellezza più greca
che siciliana.
Erano entrambi a metà delle
loro sigarette quando Michael, passandosi il pollice sul labbro
inferiore,
ricambiò il suo sguardo e gli chiese: «Vuoi salire
in stanza?»
A Travis andò di traverso il
fumo. Cominciò a tossire e sputacchiare rumorosamente e,
quando si riprese,
sentiva di avere la faccia paonazza e, probabilmente, non solo per la
fatica di
prendere fiato.
Michael non aveva fatto una
piega, la sua espressione era rimasta impassibile e, anzi, si era
già
tranquillamente finito la sigaretta. Lo osservava in attesa di una
risposta.
Travis distolse lo sguardo in
tutta fretta e prese ad agitarsi sul posto. «Non posso, io-
devo tornare a
lavorare» balbettò. Non riusciva a tenere le mani
ferme, si tormentava gli
occhi e spostava il peso da una gamba all’altra come se
stesse saltellando. Alla
fine, prese un respiro e si impose di darsi una calmata, ma
evitò di alzare
nuovamente lo sguardo su Michael: sentiva di non potercela fare, che
l’imbarazzo
lo stava avvolgendo come una coperta pesante in piena estate.
«Devo davvero
andare, mi dispiace» mormorò «Il
tassametro… non può stare fermo troppo a
lungo»
«Certo, capisco»
Travis no, non capiva: aveva
davvero mandato i segnali sbagliati? E dire che fino a pochi minuti
prima era
lui che non voleva rischiare che Michael pensasse fosse intenzionato a
sedurlo.
Forse si stava facendo troppe paranoie. Magari voleva solamente
invitarlo a
bere qualcosa.
Si sforzò di alzare di nuovo
gli occhi sull’uomo. Si sorprese nel vedere che anche lui
aveva abbassato lo
sguardo. Per caso lo aveva offeso? Travis inspirò:
«Però può offrirmi qualcosa
la prossima volta che ci incontriamo in quel diner».
Vide Michael sorridere e
annuire. Questa volta, tornarono a guardarsi negli occhi. Travis
deglutì e sentì
il cuore battere all’impazzata nella propria cassa toracica.
«Perché no?» fu la
risposta
dell’italiano. «Spero di rivederla presto, allora,
signor Bickle».
Quindi sulla patente aveva
letto anche il cognome, oltre che il nome. Travis si
domandò, forse un po’
stupidamente, se questo significasse qualcosa.
Il tassista non scostò lo
sguardo dalla sua figura snella fino a quando non scomparve oltre la
porta
dell’albergo. Velocemente, zompò di nuovo al
volante dell’auto e ripartì sfrecciando
per le strade di Brooklyn. Si passò una mano sul volto e
constatò quanto fosse
accaldato e imperlato di sudore. Un turbinio di domande e altri
pensieri si
fecero strada nella sua testa, ma Travis cercò in tutti i
modi di non cedervi,
di pensare ad altro. Più avanti, vide un uomo che gli faceva
segno di fermarsi.
Il piccolo taxi giallo accostò e fu quando si fu fermato per
far salire il
prossimo passeggero che Travis notò qualcosa sul sedile
accanto al suo, dove
teneva la tabella dei prezzi e la scatola con i contanti.
C’erano una sigaretta
e un fazzoletto di carta piegato su cui vi era scritto qualcosa con un
pennarello. Travis lo afferrò, mentre il suo nuovo cliente
biascicava il nome
della prossima destinazione, e lo spiegò per rivelare una
serie di numeri
seguiti da un nome: Mike Corleone.
«Mi ha sentito?»
abbaiò l’uomo
dal sedile posteriore. Travis non rispose: si limitò a fare
un cenno col capo e
a spostare nervosamente lo specchietto retrovisore. Le luci al neon di
un’insegna
balenarono per un attimo nel riflesso.
Il suo passeggero grugnì:
«Allora
si muova, non ho tutta la notte».
Travis si inumidì le labbra,
incollò le mani al volante e spinse
sull’acceleratore, ripartendo a tutta
velocità. Brooklyn era quasi completamente deserta a
quell’ora. A chiunque
avrebbe fatto paura, specialmente con un uomo di mezza età
come ospite del
proprio sedile posteriore, sporco e che parlottava tra sé e
sé come in preda a
una nevrosi.
Con un gesto fulmineo, Travis mise il fazzoletto nella tasca interna del proprio giubbotto e vi posò una mano sopra. Il cuore batteva ancora forte sotto tutta quella stoffa.
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Ed eccoci al nuovo aggiornamento! In ritardo di una giornata rispetto al previsto, ma rispetto alla mia solita lentezza é un vero e proprio traguardo! Così facendo, magari, conto di portare avanti regolarmente sia questa storia che Bridge Over Troubled Water (che sarà il prossimo aggiornamento).
Ringrazio vivamente chi ha letto e apprezzato il primo capitolo e chi ha inserito la storia nelle Seguite. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione, trovo estremamente utile ricevere pareri altrui e critiche costruttive e mi farebbe un immenso piacere <3
A presto, spero, con il terzo capitolo. Vedremo cosa combinerà il nostro Travis adesso che quel furbacchione di Mike non ha decisamente perso altro tempo per farsi avanti con lui.