Data: 18/19 novembre 2018
Tipologia: one shot
Rating: per tutti
Genere: generale, introspettivo, drammatico
Personaggi: Harry Potter, Severus Snape, Hermione Granger, Nuovo Personaggio
Pairing: Severus/Harry
Epoca: post 7° anno
Riassunto: "Sempre la stessa storia, le stesse parole che a lui
non va di sentire, che non vuole ascoltare neppure per un tempo infinitesimale.
Stanno bene insieme, lì, nella loro casa, perché devono lasciarsi? Perché
buttare tutto all’aria per delle parole?
Parole, vocaboli, sillabe, era tutto lì, il problema stava sempre nelle
consonanti, i guai nelle vocali, erano loro a creare nient’altro che casini,
perché dargli tutto quel potere? Silenzio e mani gelide da riscaldare, non
poteva bastare quello? Non poteva essere sufficiente loro due e nessun
altro?"
I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì
a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. La trama di questa storia è invece
di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per
pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Tornare a casa
Fa freddo.
Di quello che ti entra nelle ossa.
Continua a camminare, gli piace,
nonostante il clima e i brividi che lo scuotono fino alla punta dei piedi. Si
stringe nel cappotto, tirando su il bavero almeno per provare a fermare quel
vento gelido dietro la nuca.
Manca ancora poco e poi sarà a casa, ad
attenderlo un piacevole tepore e il sorriso di chi ha smesso finalmente di
nascondersi. Labbra tutte per sé e per nessun altro. Labbra che ha salvato
quando la neve era solo un ricordo, strappandolo da dita viola che si facevano
via via più nere.
Pochi passi ancora e dietro la curva lo
attende casa, lo attende lui.
È ancora presto per tornare fuori, lo
sa, anche se ha provato a piccoli tratti, ogni giorno uno di più, ma il corpo è
ancora debole e l’anima ancora a brandelli, come quei puzzle che tieni da così
tanto tempo da esserti perso più di un pezzo, e puoi metterci tutta la volontà
di cui disponi, ma rimarranno per sempre dei buchi, macchie nere sul tavolo che
nessuno mai sarà in grado di chiudere.
Lui è un po’ così, il suo grosso puzzle
che con pazienza ha cercato di ricostruire, nel fisico e poi più dentro, ed ora
lo aspetta a casa.
È sicuro di trovarlo davanti al camino a
leggere l’ennesimo libro – gli ha promesso di portargli alcuni volumi nascosti
nella parte più profonda e vecchia del Ministero, alcuni tomi pesanti più del
suo stesso corpo che, a detta sua, gli sono utili per una ricerca che gli
frulla per la testa da parecchio come il più agitato dei Boccini –,
probabilmente con una tazza di caffè in mano, nero e amaro come solo lui sa
essere.
La porta è a pochi passi da lui,
oltrepassa il piccolo cancello e si ferma per un attimo a guardarsi intorno, il
giardino curato – dalle sue mani, ovvio, lui non sarebbe in grado neppure di
badare alla più semplice delle piante – e il patio in ordine. La luce filtra
dalle finestre e più in alto vede il comignolo fumare come il più incallito dei
tabagisti.
Sorride, per un attimo pensa al mago che
è un po’ il suo segretario, quello che appena può corre da qualche parte ad
accendersi una sigaretta, Nathan qualcosa, si dimentica sempre il suo cognome,
forse perché all’uomo con cui divide la casa e la vita non è mai piaciuto. Non
lo sa il motivo, si sono incontrati appena un paio di volte quando è venuto a
portargli a casa alcuni documenti che doveva visionare con urgenza.
Uno Stupido Vizio Babbano, lo chiama
sempre, anche quando alla televisione vedono qualche programma, lui grugnisce e
sputa quell’insulto, e il suo orgoglio tutto Grifondoro lo porta a voltarsi
verso di lui, e a ricordargli tutto ciò che i maghi hanno compiuto di malvagio
pur potendo far del bene con un solo colpo di bacchetta.
Lui risponde sempre con un’alzata di
spalle e torna poi al televisore.
È sempre così tra di loro, quello strano
rapporto costruito sui silenzi e piccoli gesti, emozioni da scoprire dietro
agli sguardi, in quegli occhi che per anni si sono soltanto odiati, respinti e
nulla più; e continuano ad essere silenzio e piccoli movimenti, strane crepe
che non riescono a colmarsi.
La maniglia è fredda, la temperatura è
scesa così tanto in quelle ore che gli sembra di toccare un pezzo di ghiaccio,
un piccolo iceberg tra le dita che gli squassa la pelle e la carne fin dentro
all’animo stesso.
Si è di nuovo dimenticato i guanti a
casa, lo sa e sa che lo sgriderà ancora per la sua sbadataggine e per quanto
poco si curi di se stesso, ma non lo fa apposta, anche se, inconsciamente,
adora quella sua preoccupazione negli occhi, in quei frutti neri che
scintillano quando corre arrabbiato verso di lui e gli afferra le mani per
scaldargliele. Un gesto che ama, che sa di vita e di tenerezza.
Basterebbe un incantesimo, ma non
avrebbe lo stesso calore, la stessa dolcezza di dita che s’incastrano in altre
dita.
Stringe entrambe le mani alla maniglia
gelida per renderle ancora più fredde e sorride sfacciatamente per quello
stratagemma: quella sera lo cingerà ancora più a lungo e non potrà che esserne
felice, tanto da fargli accelerare il cuore.
«Sono tornato!»
La porta si apre e il caldo lo colpisce in faccia come uno schiaffo, un colpo
piacevole.
Lo sente lamentarsi, ma sa che in fondo
è contento di averlo tra i piedi, come dice lui, anche se è un po’ il contrario
visto che la casa è la sua, ma quella correzione se la tiene per sé perché ama averlo tra i piedi. Tra le mani e tra il gelo dei suoi dolori.
Avverte i suoi passi farsi più vicini,
conta i secondi che lo separano da lui, come sempre quando entra a casa, il
tempo che impiega a percorrere quel misero spazio che li divide, quel vuoto tra
i loro corpi che vorrebbe non ci fosse mai.
«Ti sei di nuovo dimenticato i guanti»
alza un sopracciglio mentre lo fissa, spazientito e irritato, nemmeno fosse
ancora un ragazzino nella sua aula, ma la sua risposta è solo un’alzata di
spalle, come quella che spesso fa l’uomo che gli è davanti con
quell’espressione che ama e che vorrebbe vedere ogni giorno, uno dopo l’altro
fino alla fine della propria esistenza.
«Non cambierai mai, vero?»
«Perché dovrei cambiare?»
«Perché io ad un certo punto non ci sarò
più.»
Sempre la stessa storia, le stesse
parole che a lui non va di sentire, che non vuole ascoltare neppure per un
tempo infinitesimale. Stanno bene insieme, lì, nella loro casa, perché devono
lasciarsi? Perché buttare tutto all’aria per delle parole?
Parole, vocaboli, sillabe, era tutto lì,
il problema stava sempre nelle consonanti, i guai nelle vocali, erano loro a
creare nient’altro che casini, perché dargli tutto quel potere? Silenzio e mani
gelide da riscaldare, non poteva bastare quello? Non poteva essere sufficiente
loro due e nessun altro?
«So che non vuoi sentirle queste parole,
non sei mai stato uno che ascolta, ma oggi o domani dovrai conviverci con
queste frasi, e sarà meglio per te che lo faccia prima di essere troppo tardi.»
«Perché vuoi lasciarmi? Non stai bene
con me?»
«Lo sai che non è per questo.»
«E allora cosa?»
«Perché devo.»
Se ne torna in cucina, lasciandolo solo,
e per un attimo tutto il gelo che ha lasciato fuori dalla porta, lo colpisce in
pieno, avvolgendolo come un abbraccio, come un amante frettoloso che pensa a
null’altro che al proprio piacere. E quel gelo, nemmeno le fiamme calde e alte
del camino potrebbero sconfiggerlo.
La riunione col Primo Ministro Babbano
lo aveva stancato più di quanto si sarebbe immaginato. Era un ometto fastidioso
e arrogante con due occhietti che si vedevano a malapena, guizzanti in modo
febbrile da una parte all’altra come se si aspettasse qualcosa da un momento
all’altro, cosa, Harry non lo aveva mai compreso.
Essere il Ministro della Magia si era rivelata
un’immane seccatura, pile di scartoffie e nulla più, mentre lui voleva andare
da una parte all’altra del mondo con la bacchetta in mano, sentire l’azione
scorrergli nelle vene e quel senso di appagamento che si ha soltanto quando si
compie qualcosa di buono.
E voleva andarci con Severus.
Sbuffò piuttosto sonoramente, senza
provare a nascondere tutto il disagio che stava provando in quel momento.
«Ti sto annoiando?»
«No, scusa, sono solo stanco, è da
questa mattina presto che tengo un incontro dopo l’altro,» mentì, si stava
annoiando sul serio, ma non poteva confessarlo alla sua amica perché di sicuro
lo avrebbe affatturato nonostante la carica che aveva, anzi, a maggior ragione,
rifletté, soprattutto considerando da quanti anni la salvaguardia degli elfi
domestici le stava a cuore.
Hermione poggiò le pergamene sulla
poltrona vuota accanto a lei, avvicinò un po’ la sua per guardarlo e parlargli
meglio: «Quant’è che non dormi?» la sua voce tradiva un filo di preoccupazione.
Aveva messo da parte per un attimo l’avvocato per essere di nuovo la sua amica
di sempre, la compagna di tante avventure. La persona che più di tutti
conosceva i suoi dolori e le sue paure.
«Un po’, ma sono sempre così sommerso
dal lavoro, non c’è un minuto che passa in cui non ricevo gufi, lettere,
promemoria, reclami, denunce, avvistamenti, e Godric solo sa quanto vorrei
stare in mezzo a qualche foresta a dare la caccia a qualche mago oscuro
scampato alla guerra, ai criminali. E invece sono chiuso qui ad ammuffire,
sento persino le ossa coprirsi di muffa giorno dopo giorno.»
«Prenditi una pausa o esploderai.»
Ma lui stava già esplodendo, e voleva
soltanto andarsene a casa e stare tutto il giorno e tutta la notte con Severus a tenergli le mani, stringerle nelle sue, a
scaldarlo e basta, fare l’amore senza mai stancarsi – come poteva dimenticare
l’odore del suo corpo, di quella lieve traccia di sudore che lo copriva dopo
l'amplesso, era un promemoria che si portava dietro per riscaldarsi, quando
l’umore precipitava a livelli critici –, mentre altrove non faceva altro che
sentirsi tutto l’inverno addosso, persino quand’era estate.
«E poi perché in questo dannato ufficio
si gela?» aggiunse veloce, guardandosi intorno, come se si fosse accorta
soltanto in quel momento che non c’era nulla a riscaldare l’ambiente, il camino
tristemente – per lei, per l’espressione che aveva in volto – spento mentre
fuori la neve continuava a cadere e a formare mulinelli.
Estrasse la bacchetta dal mantello che
non si era neppure tolta e la puntò verso la pietra vuota che tempo prima aveva
accolto legna e cenere, calore e pace, ma era stato tutto spazzato via, pulito
come si pulisce un pavimento sporco, e il grido che gli proruppe dalla gola le
gelò ulteriormente il sangue. Un no che veniva dallo stomaco e dal cuore.
«Prenderai un malanno se non riscaldi un
po’ qui dentro.»
Voglio tornare a casa gelido, farmi
avvolgere da nient’altro che il freddo, perché lui mi aspetta, il suo mantello
pronto per le mie spalle, e il suo profumo a cullarmi i sogni. Questo, però,
Harry non glielo disse, non poteva, non poteva svelare a nessuno il loro
segreto.
A nessuno.
«Mi aiuta a concentrarmi,» mentì di
nuovo. «Col caldo mi viene sonno e non posso permettermi di cedere alla
stanchezza.»
Era diventato terribilmente bravo a fingere,
sarebbe stato fiero di lui se lo avesse visto.
Quel pensiero lo fece sorridere, e il
desiderio di tornare a casa crebbe ancora.
«Torniamo alla tua proposta,» la esortò
alla fine, cercando di riportare la conversazione su binari più accettabili,
soprattutto dalla propria anima e dal proprio cuore.
Hermione finì di spiegargli tutto, anzi,
ricominciò da capo perché aveva capito perfettamente che lui non aveva
ascoltato neppure una parola, ma non si era fatta scoraggiare, aveva ripreso
con ancora con più foga e per un po’ contagiò persino lui.
Prese le pergamene e le promise che
avrebbe istituito una commissione specifica il cui unico scopo era controllare
lo stato di salute di quelle piccole creaturine e il trattamento loro
riservato. A quelle parole entrambi si rilassarono un po’. «Come sta Ron? Non
ci vediamo da un sacco.»
Ron era un Auror, uno di quelli che
spesso erano fuori dal Regno Unito, e lui lo invidiava da morire. Si morse un
labbro per non lasciar trasparire quel turbamento che improvvisamente lo aveva
colto.
«Sta bene, mi ha scritto proprio ieri
che la missione in Portogallo si è conclusa nel migliore dei modi e presto sarà
a casa.»
«Bene, mi fa piacere.»
«Che ne dici se quando torna, vieni a
cena da noi? Tutti e tre, come ai vecchi tempi.»
Già, i vecchi tempi… che ne era rimasto?
Si era tutto sgretolato come un castello di sabbia costruito male, quelli che
lui non aveva mai fatto – se mai avesse avuto un figlio, si ripromise di passare
le estati a modellarne uno dopo l’altro, gli sarebbe piaciuto andarci con
Severus, costruire una famiglia con lui, ma l’estate era ancora lontana e lo
sarebbe stata a lungo.
«Certo,» mentì ancora una volta: non
aveva alcuna intenzione di andarci, per lui i vecchi tempi non c’erano più,
c’era solamente casa, il tepore della sala in cui si accoccolavano a guardare
la televisione mentre Severus si lamentava quando gli poggiava la testa sulla
spalla come due vecchi sposi, il caldo della camera da letto con le lenzuola
che per lui sarebbero potute rimanere perennemente sfatte.
Hermione è andata via, sono andati via
tutti e lui vuole solo andarsene, sparire da lì prima che si presenti
qualcos’altro, un problema dell’ultimo minuto che non ha alcuna intenzione di
sbrigare né di dargli la minima attenzione.
Stavolta si mette a correre, un piede
dopo l’altro anche se il corpo non è più abituato e lo avverte con il fiato
corto e il sudore che gli fa appiccicare i capelli alla fronte e alla nuca, e
il freddo fa il resto, trasformando quelle piccole gocce calde in cristalli che
gli agitano la pelle e la carne più sotto, un brivido a seguirne un altro.
Rallenta, casa è ancora lontana, ma gli
piace camminare tra le strade affollate che cominciano a riempirsi dei colori e
degli odori del Natale.
Lui lo aspetta e questo gli basta a
cancellare tutto il resto.
Non è ancora riuscito a prendergli quei
volumi che aspetta da giorni, se ne duole, ma vuole farlo di persona senza
delegare qualcun altro, vuole toccarli e lasciare poi una parte di sé per farla
afferrare solo e soltanto da Severus. Guarda la vetrina di un negozio e
sorride, è un piccolo gesto, vuole fargli un regalo per ringraziarlo e per
farsi perdonare di quella mancanza, soprattutto per quello, lo sa, e lo capirà
anche lui, lo ha sempre capito, gli ha sempre letto dentro, mentre lui per anni
non ha voluto conoscere niente dietro quegli occhi neri, quello sguardo
scolpito soltanto dal dolore.
Gli piacerà, si dice, o almeno lo spera,
è sempre imprevedibile e non è uno che ama i regali, questo lo ha capito tempo
fa, suo malgrado; non li ama perché non pensa di meritarli, di non meritare
niente in questa vita.
Domani, costi quel che costi, andrò a
prendere quei libri, lo giura a se stesso e poi apre la porta.
Quando esce, è soddisfatto, del
contenuto, del pacchetto e persino di ciò che ha scritto nel biglietto che
gentilmente si è fatto dare.
Casa, ora, è più vicina, la vede come
sempre spuntare dietro la curva, il comignolo avvolto da nebbia bianca e grigia
che a tratti si fa più scura, il prato curato e i fiori che cercano con forza
di resistere al gelo che cala ogni notte come la scure di un boia, affilata e
lucente.
Mani di nuovo gelide abbassano la
maniglia prima di entrare e venire ancora una volta colpiti dal calore dell’interno,
quel leggero odore di fumo che se ne scappa verso il cielo.
«Sono tornato!» Il suo è un po’ un mantra,
gli piace pronunciare quelle due parole, non lo sa perché, non se l’è mai
chiesto, aspetta soltanto i passi che vengono dopo. È una costante, quella,
potrebbe regolarci un orologio, uno due tre, un secondo due e poi tre, e alla
fine spunta dal corridoio e lo fissa mentre si toglie il cappotto e lo getta
distratto su di una poltrona senza centrarla, facendolo puntualmente finire a
terra.
Severus lo guarda irritato e si avvicina
per raccoglierlo: «Non sono la tua domestica. Impara un po’ di
ordine, Harry Potter, perché io, ad un certo punto, non ci sarò più.» Ancora
quelle parole a martellargli la testa, a pugnalarlo a ripetizione, una sillaba
e la lama s’infila nella spalla, una consonante e giù nel braccio, una pausa e
la gamba si squarcia, sfiorando appena l’arteria femorale.
Il sangue, però, non fuoriesce, se ne va
soltanto la vita.
Ah, voler la morte,
abbraccio di puttana,
a farti soffocare da un corpo
un piacere che non c’è,
esce e basta,
ma sei soltanto un cadavere
che aspetta,
involucro vuoto
fino alla decomposizione.
«Perché allora non te ne vai e basta?» sbotta
all’improvviso, gettandosi a terra, appesantito da tutto quel dolore, da quella
consapevolezza che non fa altro che procurargli sofferenza.
«Perché sei tu a non lasciarmi andare.»
Sparisce e basta, lasciando tutto in
silenzio, anche il fuoco sembra muto e persino i suoi singhiozzi non hanno
voce, lacrime e basta che gli confondono pure il legno a terra. Un ghirigoro,
una macchia, c’è sempre stato?, si chiede. Anche quello? Lo sguardo convulso su
ogni angolo della stanza, a terra, il soffitto, ogni lato, ogni fotografia
appesa al muro, a quei quadri che nemmeno gli piacciono, ma glieli hanno
regalati e non vuole far rimanere male nessuno.
Si alza da terra, cercando di recuperare
almeno un po’ della dignità caduta tra le assi, e se ne va per un attimo al
bagno, non per reale bisogno, vuole solo guardarsi allo specchio, quel volto
che non sa più a chi appartiene, se è il suo o quello di un altro a cui ha
rubato il corpo.
L’acqua scorre, gli piace il suono
quando tocca la ceramica, è gelida, ma in quel momento niente è più freddo del
proprio cuore, di quell’anima strappata a morsi che continua a portarsi dietro
come un cancro ingombrante e velenoso. La tocca per un attimo e una scarica gli
attraversa il corpo, la sfiora anche con l’altra mano mentre il volto è fisso
allo specchio, alle occhiaie che lo fanno sembrare quell’animale di cui non
ricorda il nome.
Si chiama panda, ignorante, sei
diventato Ministro per sbaglio? Se lo immagina dietro di sé a dirgli quelle
parole, a sorridere, ma lui, quell’incarico, si sente davvero di averlo
ottenuto per sbaglio, o meglio, solo per nome, pur non avendone alcuna
capacità.
«Panda, giusto…»
Torna in salone, il fuoco ancora
crepita, anzi, è più forte, segno che ha aggiunto legna di recente. Lo trova
sul divano, ad aspettarlo, Severus lo guarda piegando appena la testa, con una
strana espressione, forse anche lui si è accorto del panda. Sorride e si siede
accanto a lui.
«Hermione mi ha invitato a cena quando torna
Ron. Verresti anche tu?»
«Lo sai che non posso venire.»
«Perché?»
«Non chiederlo.»
«Ma…» si alza dal divano e si allontana
ancora una volta, forse va in cucina a prendersi dell’altro caffè, magari
bollente, vorrebbe chiedergliene un po’ per togliersi quel nuovo gelo sceso sul
proprio corpo, ma non ne ha il coraggio, aspetta solo che ritorni di fianco a
lui ad occupare quel posto in cui il calore sta svanendo. E lui non vuole che
nulla svanisca.
È di nuovo lì, due tazze tra le dita,
bollenti, un piccolo rivolo di fumo che si muove da una parte all’altra e che
gli ricorda sempre l’intro di Aladdin, l’unica parte del cartone che ricorda,
l’unica che ha visto prima di essere sbattuto nuovamente nel ripostiglio per
aver riprodotto senza volerlo quelle volute. Un arabesco che gli carezzava il
palmo della mano.
«Vediamo un film?» parla prima che possa dire
altro, che possa pronunciare quelle parole che odia con tutto se stesso. Non le
vuole sentire e basta, ma sa che alla fine dovrà farci i conti, solo che non è
ancora il momento perché lui non è pronto, non è pronto a non vederlo più per
casa, il suo ordine maniacale e il profumo che ha ormai invaso le pareti.
Severus annuisce e si siede nuovamente
accanto a lui e quel vuoto comincia di nuovo a riempirsi e scaldarsi, sorride
perché è la sensazione più bella del mondo. Gli passa la tazza di caffè e Appella
la cena che aveva preparato. «Cosa vuoi vedere?»
Non sa come chiedergli di guardare un
cartone Disney, si sente tremendamente in imbarazzo, così lascia che gli entri
nella mente come già gli era entrato nel cuore anni prima.
Alza perplesso entrambe le sopracciglia,
anzi, giurerebbe di vedere sconcerto sul suo volto e a fatica trattiene una
risata, freddata sul nascere da quello sguardo sempre più cupo, poi, però, scorge
i suoi muscoli rilassarsi e i nervi sciogliersi e, stranamente, annuire a
quella richiesta, piuttosto bizzarra a proprio dire.
Armeggia qualche minuto con la tv mentre
Severus rimane fermo a sorseggiare il caffè, sempre piuttosto disinteressato
verso tutta quella tecnologia moderna Babbana.
Prima di far partire il film, si blocca,
come colpito da qualcosa, poi si volta a fissarlo: «Mi
dimenticavo di darti una cosa!» e si alza, eccitato come un bambino davanti ad
un negozio di giocattoli, e recupera il cappotto, fruga in una tasca ed estrae
un piccolo pacco, di quelli che stanno facilmente in una mano.
«Prometto che domani, cascasse il mondo, vado
a prendere quei libri, ma intanto, per farmi perdonare, ti ho preso questo» e
gli porge il regalo.
Severus sembra perplesso e piuttosto a
disagio come spesso gli capita quando riceve qualcosa, ma lo prende e lo
osserva con gli occhi attenti di Pozionista, caratteristica che non ha mai
abbandonato e che continua a piacergli tremendamente.
«Cos’è?»
«Aprilo!»
«D’accordo, ma non agitarti o rischi di
cadere per terra.» Scioglie il fiocco argentato con estrema lentezza e cura,
poi strappa la carta, con più foga, perché così si usa, no? Sembra chiedergli e
lui muove la testa, in attesa. Apre la confezione. «Non sono tipo da collane.»
«Lo so, ma volevo che avessi qualcosa che ti
ricordasse per sempre me.»
«Harry, io mi ricorderò per sempre di te-»
Ma non lo fa continuare: «Come me
che ti ho sempre accanto.»
«Harry…»
Una lacrima fugge al suo controllo e
scappa sulla pelle, scappa alla gravità che la trascina comunque in basso e a
quel freddo che gliela appiccica in faccia come un fiocco di neve, uno di
quelli che fa male e taglia. E poi un’altra e una ancora.
«Harry…» ripete. «Prima o poi dovrai lasciarmi andare.»
La Sezione Proibita della Biblioteca di
Hogwarts in confronto a quella era un bicchiere d’acqua che galleggiava in
mezzo all’oceano, non faceva altro che guardare a destra e sinistra e ad aprire
e chiudere la bocca meravigliato.
«Ministro!» un
mago sottile come una bacchetta gli si avvicinò a passo svelto, allegro,
gentile, con un sorriso sempre aperto sulla bocca e occhi grandi e azzurri che
per un attimo gli fecero tornare alla mente il vecchio Dumbledore. «Cosa posso
fare per lei?»
Non avrebbe voluto chiedere, ma trovare
quei libri lì dentro era come cercare un ago in un pagliaio e la pazienza non era
mai stata il suo forte, soprattutto con gli anni che passavano e le incombenze
che aumentavano.
«Sto cercando questi volumi, può
aiutarmi, signor?» non conosceva il suo nome, ma non poteva di certo conoscere
ogni impiegato di ogni anfratto del Ministero.
«James. James Anderson, molto piacere!»
e gli strinse la mano con vigore, troppo a suo modesto parere, ma non protestò,
per un po’ si lasciò contagiare da tutto quell’entusiasmo. E pensò a suo padre
di cui non ricordava nulla. Gli passò un foglio che lesse avidamente. «Bene,
molto bene, se vuole aspettare qui, glieli porto subito.»
«No!» si accorse di aver gridato
disperato solo dopo e cercò di correggere il tiro. «No, cioè… le basta solo
indicarmi dove sono, e vorrei prenderli da me.»
Il mago sembrava un po’ dispiaciuto, ma
era pur sempre una richiesta del Ministro della Magia, così acconsentì e prese
la bacchetta: «Questo piccoletto l’accompagnerà, sarà come se fossi io,
Ministro.»
Dal legno era scaturita una luce viola
che si era prima ammassata in una forma indefinita e poi, pian piano, aveva
iniziato ad assumere contorni sempre più nitidi finché non divenne un piccolo
falco che si posizionò sul braccio del suo padrone. «Lo segua» lo esortò dopo
che il piccolo animale ebbe spiccato il volo verso un corridoio davanti a sé.
«Spero ti siano utili per la tua ricerca»
aveva parlato a voce alta senza essersene neppure reso conto, il falco si fermò
ed emise un suono strano che non gli sembrava per niente il verso dell’animale.
«Scusa, parlavo da solo.» Sbatté un paio di volte le ali e poi iniziò a
picchiettare un volume. «È questo?»
Lo prese e poi gli altri due, lo
seguivano levitando alle sue spalle, protetti da un incantesimo: non voleva che
nessuno li sfiorasse, neppure per sbaglio, quel tocco sarebbe stato loro e loro
soltanto.
Quando tornò in ufficio, le pergamene
erano aumentate e un paio di gufi aspettavano sui loro trespoli, ed Hermione
era di nuovo lì.
«Avevamo un appuntamento?» domandò,
andando a sedersi alla sua poltrona mentre i libri erano ancora a mezz’aria
vicino a lui.
«No, passavo di qui» stavolta era lei a
mentire, Hermione Granger non passava mai per caso, e quello sguardo
significava solo che aveva un motivo ben preciso. «Il camino è ancora spento,»
ma si limitò ad alzare le spalle in risposta.
«Faccio portare qualcosa di caldo?»
«No, grazie.»
«D’accordo, allora dimmi il vero motivo
per cui sei qui.»
«Harry, sei sempre più pallido, hai
sempre più occhiaie.»
Harry non voleva dormire, se lo avesse
fatto, Severus avrebbe potuto lasciarlo lì e gli sarebbero rimaste soltanto
orme nella neve mentre non desiderava altro che gli fosse accanto per sempre,
una presenza fissa nella sua esistenza, uno squarcio di sole nero nella sua
routine grigia. Non voleva accontentarsi di sogni lontani, fasulli, voleva
guardarlo e basta, sentirlo mentre gli stringeva le mani per scaldargliele.
«E non dirmi che sei solo stanco, lo so
benissimo che hai.»
No, non lo sa nessuno, avrebbe voluto strillare,
ma rimase in silenzio a scrutare gli occhi nocciola della sua amica, dell’unica
che sapeva, che aveva sempre saputo.
«Non puoi continuare a torturarti così,
sai?»
Sapeva tutto, tranne quella piccola
parte che teneva solo per sé, per loro due e nessun altro perché quelli erano
soltanto i loro momenti e nessuno glieli avrebbe portati via.
«Sono due anni che è morto. Lascialo
andare.»
Come si fa a lasciar andare la persona
che più si ama a questo mondo?
Casa è dietro la curva, curata e pulita,
la neve a coprire il prato e i fiori, persino il tetto, e il comignolo sbuffa
più forte che mai. Casa è lì e lo attende. Ha i libri con sé.
Apre la porta, la maniglia è sempre
gelida, a terra c’è il biglietto che aveva scritto, deve essergli caduto dalla
tasca quando ha preso il pacchetto, strano che Severus non lo abbia visto, si
dice.
«Sono tornato!»
Un passo, due, tre.