Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    03/03/2019    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
---
[On going: dicembre 1941]
---
[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

N.d.A.

Din-dong! Annuncio importantissimo prima di lasciarvi alla lettura!

Questo sarà un capitoletto di transizione relativamente tranquillo, in modo da creare una piccola cerniera prima di buttarci nella seconda fase del Barbarossa e quindi di ricominciare con i pestaggi, i combattimenti, e i vari avvenimenti traumatizzanti che ci piacciono tanto. Dalla prossima settimana, invece, quindi dalla ripresa del prossimo arco narrativo e dell’Operazione Tifone, il Miele torna bisettimanale!

Fino alla fine di aprile, i capitoli si alterneranno di settimana in settimana con un’altra piccola fan fiction di Hetalia di cui avevo già dato l’annuncio sotto Natale. Pensavo di riuscire a pubblicarla in contemporanea al Miele ma, ahimè, il tempo è quello che è, e l’unica soluzione per decidermi a postarla è alternare come facevo quando stavo dietro alla saga dei London Cubs, altrimenti non ne verrò mai a capo e mi dispiacerebbe perché, pur trattandosi di una sciocchezzuola, mi sto divertendo parecchio nello scriverla e non vorrei rischiare di lasciarla a metà. Sarà una Frying Pangle, tanto per dare un’idea del grado d’ignoranza di cui sarà intrisa. Ma ogni tanto un po’ d’ignoranza ci vuole. :)

A maggio, invece, comincerò la pubblicazione di una long originale! Quindi alternerò quella ai capitoli del Miele a tempo indeterminato.

La brutta notizia infatti è che non ho idea di quanto lunga potrà venire l’altra long, ma in cuor mio so che non sarà una cosa rapida (ho già contato una decina di archi narrativi, sigh), quindi per me si tratta dell’ennesimo salto nel vuoto da cui non so se uscirò viva o per lo meno integra. La buona (?) notizia è che anche l’altra storia sarà ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale, quindi per me dovrebbe essere relativamente più facile transitare da quella al Miele senza sentirmi sballottata fra due universi completamente differenti.

Al solo pensiero di ricominciare daccapo tutta la guerra mi viene da prendermi a padellate in testa (^-^)”, ma almeno di là non dovrò ripercorrerla battaglia per battaglia, yee. E almeno dovrò coprire solo il punto di vista dei tedeschi. Penso proprio che sfrutterò l’occasione per rifare un pochino meglio certe cose e per approfondire certi aspetti del conflitto che col Miele non possono venire fuori. Tipo il Nazismo. Dettaglio insignificante quando si parla di WW2, proprio.

Ringrazio anticipatamente tutti quelli che continueranno a leggermi nonostante l’ennesimo rallentamento e ringrazio anche quelli che magari verranno a dare una sbirciata anche alle altre storie. ^-^

Bene. Lo sproloquio è finito, leggete in pace.


192. In stallo e In ammollo

 

 

Fuori dal parabrezza dell’auto scorreva la lunga pellicola di strada asfaltata battuta solo dalla marcia dalle loro tre berline. Le luci dell’alba si rovesciavano su quella sconfinata lingua scura che affondava fra le ali dei campi ormai falciati e pronti per l’autunno, tingevano il paesaggio di colori caldi che serbavano ancora il morbido tepore dell’estate appena trascorsa. Sfumature dorate oscillavano attraverso le frastagliature di terra rossiccia. I raggi di un sole ancora basso si frammentavano sui tratti di vegetazione dorata ma non ancora spoglia, sulla boscaglia scura e fitta da cui sorgevano i fumi evaporati dalle città e dai villaggi che non avevano smesso di bruciare dopo i bombardamenti che avevano crivellato l’intera Ucraina.

Prussia spinse il piede sull’acceleratore e stette al passo della berlina che apriva la fila, guidandoli attraverso gli intrecci di strade attraverso cui ogni tanto incrociavano altre pattuglie tedesche, mezzi blindati, e carri che trasportavano truppe. Buttò un occhio allo specchietto retrovisore, scavalcò con lo sguardo i sedili posteriori, e si soffermò sul muso dell’auto che chiudeva la fila, la berlina su cui viaggiavano Austria, Ungheria, Romania e Bulgaria. Non erano riusciti a procurarsi un mezzo che li portasse tutti e nove.

Sistemata fra i fianchi di Germania e Spagna, i polsi ancora ammanettati e il viso pallido, gli occhi chini e nascosti nella penombra dell’abitacolo, Ucraina sedeva in silenzio, senza aver proferito nemmeno una parola da quando erano partiti.

La luce che filtrava dai finestrini, di sbieco, toccava il viso di Germania rivolto all’esterno, alle distese di campi e ai villaggi nascosti dalla boscaglia che si stavano lasciando alle spalle. Gli occhi fermi sotto la ruga delle sopracciglia, quella luce fissa e fredda che nemmeno i raggi rossicci dell’alba riuscivano a intiepidire.

Dal lato opposto, Spagna spostò lo sguardo dal suo finestrino – teneva il gomito premuto contro lo sportello – e incrociò quello di Prussia che lo scrutava dallo specchietto retrovisore. Prussia vi riconobbe la stessa espressione afflitta che lo stava perseguitando da quando Italia era stato rapito, gli stessi occhi spenti che trasmettevano anche a lui un peso al cuore che condividevano, lo stesso freddo sconforto che non dava tregua ai loro animi.

Lo lasciò perdere.

Prussia fece tamburellare le dita sul volante, strinse più forte l’arco, ficcando le unghie nella pelle, e tornò a concentrarsi sul paesaggio martoriato, sulle colonne di fumo color piombo che risalivano il cielo già azzurrino al di sopra delle punte degli alberi. Il loro tragitto ricalcava le impronte che avevano solcato durante l’invasione, passava attraverso i crateri che avevano seminato loro stessi su quella desolazione che si stavano già lasciando alle spalle.

Una volta sarei scoppiato d’orgoglio nel trovarmi davanti a uno scenario del genere, nel rendermi conto di aver ottenuto un vantaggio così grosso su una nazione come l’Unione Sovietica. Prussia dovette allentare il bavero dell’uniforme e massaggiarsi la gola per poter respirare l’aria densa di tensione che stagnava nella loro auto, per alleggerire i battiti del cuore soffocato da un insistente formicolio d’ansia. E invece non c’è nulla per cui valga la pena di festeggiare, nonostante la buona riuscita della campagna.

Un raggio di sole affondò nel parabrezza, tagliente come una lama, e lo costrinse a sollevare una mano per non accecarsi. In quel bagliore bianco, lampeggiò l’ultima immagine di Russia, l’ultimo sguardo con cui li aveva sfiorati da dentro il riverbero delle fiamme, quella sua larga ombra che li aveva raggelati, gettata su loro come un drappo di buio.

Nonostante tutto quello che stiamo provocando alla sua terra e ai suoi alleati, Russia dava l’idea di non essere nemmeno scalfito. E ora che Ita è in pericolo, fra le mani di quel pazzo...

Nei suoi ricordi, il corpicino di Italia si torse fra le braccia di Russia, tese le spalle in avanti per liberarsi, spanse quel pianto amaro che gli aveva inondato il viso consumato dal terrore, e innalzò di nuovo quel grido d’aiuto doloroso come un coltello nel cuore.

Prussia stritolò le mani sul volante. Un’ondata d’odio nei confronti di Russia affondò dentro di lui, rossa e rovente come quel raggio di luce gettato dal sole dell’alba. Non perdoneremo mai Russia per quello che gli ha fatto. La pagherà cara, e ci rimetterà ben più che la sua capitale, o l’intera guerra. Lo giuro sul mio onore.

Piccole scintille color acciaio lampeggiarono dal sedile accanto a quello del guidatore, catturarono lo sguardo di Prussia.

Romano teneva gli occhi bassi, mentre le dita rigiravano fra le punte quella scintilla metallica che ogni tanto tintinnava contro le unghie. Il bossolo del proiettile che non aveva più rinfilato in tasca da quando Italia era stato rapito. Il suo viso mostrava la stessa espressione di Spagna, quel malsano grigiore ad annebbiargli gli occhi. La fronte contratta in una ruga di tensione, la stessa di Germania. La testa china, i capelli in disordine, e quell’oscurità a circondarlo, a stargli attorno come il fumo che solcava la campagna ucraina.

Prussia si lasciò sciogliere da una breve ma sincera ondata di compassione. Poveretto. Non oso nemmeno immaginare come debba sentirsi davanti a tutto questo. È da quando lo hanno separato da Ita che non ha né chiuso occhio né mangiato nulla. Ma non posso biasimarlo. Vedere il proprio fratello venire rapito in quella maniera... nemmeno io riuscirei a rimanere in me se succedesse qualcosa di simile a West. Scosse il capo per allontanare quel pensiero dalla testa. Ma Romano non deve lasciarsi andare in questa maniera. Abbiamo bisogno della forza di tutti per poter proseguire la campagna e per poter prevalere su un nemico come Russia.

Prussia staccò una mano dal volante per sporgersi a battergli due pacche d’incoraggiamento sulla gamba. “Tutto okay, Roma?”

Romano ingoiò un piccolo sussulto e fece uno scatto col ginocchio per sottrarsi. Sbatté due volte le palpebre, corrugò la fronte, gli occhi emanarono un abbaglio di ostilità. “Secondo te?” Inghiottì la scintilla metallica nel pugno scricchiolante. “Che domanda del cazzo.”

“Scusa.” Prussia imboccò la stessa curva aperta dalla berlina che viaggiava loro davanti e filò lungo una strada liscia e dritta. L’orizzonte rossiccio spalancato davanti a loro, i campi a stiracchiarsi fin dove l’occhio non poteva arrivare, e i fumi delle esplosioni sottili come nastri di vapore sorti da fiammiferi spenti. “Fatti un pisolino, mentre andiamo. Hai una faccia. Non ti fa bene stare sveglio così a lungo.”

Romano sbuffò. “Non voglio dormire.” Riprese a rigirare il bossolo di proiettile con una mano sola e spinse il gomito contro lo sportello, la tempia abbandonata sul vetro del finestrino. Così vicino alla luce bassa dell’alba, i segni di stanchezza solcati sul suo viso si fecero ancora più scuri e marcati. “Dormire è l’ultima cosa di cui ho bisogno.”

Prussia gracchiò una risata sdrammatizzante. “Hai paura che intanto che dormi io vada a sbattere? Sta’ tranquillo, guarda che il Sottoscritto guida benissimo.” Lanciò uno sguardo ai sedili di dietro, alzò il tono per farsi sentire sopra le vibrazioni del motore. “Diteglielo come guido bene, dai.”

Germania fece scivolare solo un’occhiata fugace allo specchietto retrovisore e tornò sul panorama della nazione conquistata. Spagna tenne il viso basso, le labbra piatte e mute, e si diede una strofinata al braccio.

Romano lasciò cadere il capo fra le spalle e si prese la faccia, abbandonandosi a un sospiro. “Tutto il viaggio così...” Stropicciò la pelle cinerea sotto le palpebre, tirò le guance, tornò su a frizionare le tempie, e si girò verso Germania. “Quanto diavolo impiegheremo per tornare a Smolensk?”

Germania scosse il capo. “Non siamo diretti a Smolensk, ma a Roslavl.” Accavallò le gambe urtando con il ginocchio quello di Ucraina. “È da lì che faremo partire le armate. O, almeno, uno dei due bracci della tenaglia.”

Romano serrò la mandibola, un ringhio gli scivolò fra i molari. “Non m’interessa un accidenti della tua dannata strategia, voglio solo sapere quanto cazzo ci impiegheremo ad arrivare e a far ripartire questo fottuto esercito.” Tuffò il viso nei palmi aperti, affondando le dita fra le ciocche, e gli tremò il respiro, assecondato dal rapido battito del cuore gonfio d’ansia. Il fiato si appesantì, la voce fu un gorgoglio implorante. “Ti prego.”

Spagna sentì male al petto, risvegliato da quella voce che aveva sentito piangere così tante volte e che ancora non riusciva a consolare. Fece scivolare una mano fra lo sportello e il suo sedile, ma non riuscì a raggiungerlo.

Germania si soffermò sulla desolazione di quelle strade, su quell’alba di sangue, sul fumo che non aveva ancora smesso di sorgere. Non perse freddezza. “Probabilmente saremo lì entro questa sera stessa. O entro domattina, nel caso dovessimo imbatterci in qualche imprevisto o nel caso ci fosse bisogno di qualche sosta per il carburante. Poi le strade sono molto dissestate a causa del passaggio dell’esercito, e non sempre avremo accesso a quelle asfaltate. Porta solo un po’ di pazienza.”

Romano tenne i palmi schiacciati contro il viso. Si lasciò scuotere da una risata amara che gli lasciò le labbra torte in un sorriso sbilenco. “Eggià. Perché possiamo proprio permetterci di sprecare tempo, ovvio.” Si girò a fulminare Germania. Gli occhi lucidi apparvero ancora più iniettati di sangue, racchiusi nel gonfiore delle palpebre. “Perché invece non siamo andati in aereo? A quest’ora saremmo...”

“Troppo rischioso.”

“Che palle.” Romano riaffondò le spalle contro lo schienale, batté la tempia sul finestrino, stando accasciato sul fianco, e ricominciò a rigirare il proiettile fra le dita fredde e sudate.

Ucraina sospirò, impietosita. Anche lei sporse le spalle come aveva fatto Spagna per raggiungerlo con una mano incatenata. “Romano, ascolta...”

“Non mi toccare.” Romano si rannicchiò con uno scatto per non finire nemmeno sfiorato dal suo tocco. Strinse le ginocchia, tornò a capo basso, e le unghie stridettero sul proiettile raccolto nel guscio del pugno. Di nuovo quella nube nera lo inghiottì nella sua oscurità. “Non mi parlare. Non mi guardare, non fiatare, non pensare nemmeno di rivolgermi la parola.”

Spagna spostò lo sguardo da uno all’altra – la figura china e tremante di Romano, il viso addolorato e inconsolabile di Ucraina – e rabbrividì sotto quella tensione così fitta da chiudergli lo stomaco. Tossicchiò. Volle cambiare discorso. “Quindi, Germania...” Lo guardò di striscio. “Hai intenzione di sferrare un altro attacco a tenaglia? Useremo sempre la tattica delle sacche, come abbiamo fatto finora?”

Negli occhi azzurri di Germania sfilò già l’ombra di nuove cappe di fumo che avrebbero soffocato l’Unione Sovietica; nelle sue orecchie rimbombarono le tuonate che si sarebbero schiantate al suolo e che avrebbero illuminato i cieli lampeggianti; sotto i piedi, le vibrazioni dell’auto si trasformarono nei tremori che avrebbero scosso la terra sotto il passaggio del suo esercito. “La tattica a tenaglia si è rivelata la strategia più conveniente e fruttifera, dato che implica l’annientamento delle armate, oltre che la presa del territorio. E io infatti voglio sterminare la massa dell’esercito russo ancora prima di prendere Mosca.”

Ucraina incassò la crudeltà di quelle parole direttamente nella cicatrice del petto. Ancor più dolorosa fu l’immagine di Russia bagnato dalla pioggia di sangue che sarebbe presto scrosciata sul suo paese.

“Suddividerò questo nuovo attacco in due fasi,” proseguì Germania. “Durante la prima fase impiegherò le armate per un doppio movimento a tenaglia, uno nel settore di Bryansk e uno nel settore di Vyazma, ossia quello dove opereremo noi.” Visualizzò l’abbraccio a tenaglia, le armate tedesche che sfondavano come frecce ricurve e che chiudevano la morsa in due bolle disegnate sotto e davanti a Mosca. “In questo modo, sfonderemo il Fronte Occidentale sovietico e faremo avanzare i gruppi corazzati fino a far congiungere la Nona e la Quarta Armata, più il Terzo e il Quarto Gruppo Corazzato, intrappolando in questo modo le truppe nemiche. La stessa cosa avverrà nel settore sud, su Bryansk, ma con la Seconda Armata e il Secondo Gruppo Corazzato.”

Romano sollevò un sopracciglio. “E la seconda fase, invece?”

“Una volta che le armate sovietiche saranno accerchiate e distrutte...” Germania rispose con la stessa freddezza. “Potremo avanzare su Mosca e conquistarla definitivamente.”

“Ci saranno due sacche, quindi.” Spagna si strinse il mento, sollevò gli occhi sul basso soffitto dell’abitacolo e visualizzò anche lui l’attacco sul ricordo della mappa topografica che aveva già sfogliato tante volte. Evocò la città di Vyazma trafitta dall’autostrada che da Smolensk sprofondava dentro Mosca. “Perché allora hai scelto proprio di seguire quella a nord? Perché sarà quella più vicina a Mosca?”

“Non solo. Ho scelto di partire da Roslavl perché quello è il nostro principale nodo ferroviario per l’arrivo delle scorte e delle riserve. Inoltre, è da lì che partirà il Quarantesimo Corpo d’Armata Corazzato, e voglio esserci io alla sua guida, dato che sarà il corpo che contribuirà alla spinta maggiore lungo tutto il territorio.” Sul viso di Germania cadde una maschera di buio. I suoi occhi erano schegge di ghiaccio nel nero. “Voglio essere io quello ad andare a caccia di Russia.” Contrasse le mani sulle braccia conserte, assecondò un bruciore che non gli dava pace. “Non lascerò che mi sfugga una seconda volta e non gli darò nemmeno occasione di starsene rintanato a Mosca.”

Ucraina ripensò alla prima frase di Germania. Nacque in lei un nuovo nodo di preoccupazione. Si sta portando più vicino a dove sa che arriveranno i rifornimenti di armi, cibo e vestiti. Questo vuol dire che... “Ho notato che non indossate ancora le uniformi invernali, e che non sono nemmeno arrivati gli equipaggiamenti per la stagione fredda.” Tornò a posare i pugni sulle cosce, facendo tintinnare le manette. “Vi rimedierai presto?”

“Non ne avremo bisogno.” La risposta di Germania fu secca e lapidare. “Prima che arrivi l’inverno, noi saremo già a Mosca.”

Avvinghiato al volante, Prussia se la rise. “Non preoccuparti per i nostri vestiti,” disse, rivolto a Ucraina. “Anzi, comincia a pensare a come far vestire tuo fratello una volta che sarà nostro prigioniero.” Uno sguardo fulmineo allo specchietto retrovisore, un lampo scarlatto scoccato ai sedili posteriori. “Sempre che riesca a sopravvivere, ovvio.”

Spagna corrugò la fronte. Dentro di lui, vorticò la stessa scura spirale di dubbio che aveva aggredito anche Ucraina. Mi auguro anch’io che riusciamo ad arrivare a Mosca prima dell’inverno. Se il freddo, e il fango, e la neve dovessero arrivare prima del previsto, potremmo non disporre di risorse necessarie per far arrivare gli equipaggiamenti invernali. Soffiò un lungo sospiro stanco e si abbandonò con le spalle contro lo schienale. Reclinò il capo all’indietro, sul poggiatesta troppo basso. E Russia non ci darà di certo un’altra occasione per ripetere un attacco del genere. Se non ce la faremo adesso, non ce la faremo mai più.

Ucraina scivolò più vicina a Germania, gli toccò la gamba con la sua e gli sfiorò il fianco con il gomito. “Perché stai portando anche me sul campo di battaglia?” Tenne la voce abbastanza bassa da non farsi sentire dagli altri. “Perché mi stai facendo partecipare all’attacco?” Rievocò le ultime parole di Russia –“Italia in cambio di mia sorella, Germania” – e il suo sguardo si avvilì. “Hai sul serio intenzione di cedere al ricatto di Russia?”

“Certo che no.” Davanti a Germania, Prussia guidava tranquillo, solo un braccio flesso sul volante; Romano si teneva rannicchiato nel suo angolino, il bossolo di proiettile a rotolare fra le dita; e Spagna riposava con le palpebre chiuse e il capo reclinato all’indietro. Le orecchie di tutti lontane dalla loro conversazione. “Russia crede di avermi coinvolto in un ricatto,” proseguì Germania, “ma non si è reso conto che io sono ancora in grado di dettare le regole, senza dovermi abbassare alle sue. Darò inizio all’Operazione Tifone, invaderò ciò che resta dell’Unione Sovietica, conquisterò Mosca, ucciderò Russia, e mi riprenderò Italia, senza dovergli cedere nulla in cambio.” Rivolse a Ucraina uno sguardo raggelante. “Non intendo barattarti in cambio della vita di un mio alleato. Non sono disposto a cedere a trattative, non in guerra, perché ormai tu sei un mio territorio. Ho invaso la tua capitale e tu ti sei consegnata. Nulla potrà più cancellare il tuo destino.”

“Allora non capisco.” Ucraina incrociò le caviglie e si strinse nelle spalle. “Perché non mi hai semplicemente fatta trasferire e imprigionare a Berlino, tenendomi lontana da una battaglia dove c’è rischio che la mia famiglia mi liberi?”

Romano captò di striscio quelle parole e tese l’orecchio, smise di far trillare il proiettile contro le unghie.

“Perché tu potresti rivelarti ancora molto utile dalla mia parte durante l’avanzata,” le rispose Germania. “Tu conosci queste terre, conosci l’Armata Rossa, e conosci tuo fratello. Potrei estorcere qualsiasi informazione utile sul suo conto, in qualsiasi momento. Qualsiasi informazione utile per vincere.”

“Potrei sempre mentirti.”

“Non lo faresti mai, lo sappiamo entrambi.”

Romano si girò sul fianco facendo scricchiolare la pelle del sedile e squadrò entrambi con un’espressione scura e truce. “Fino a ieri eravamo convinti che non sarebbe stata in grado nemmeno di imbrogliarci, invece guarda quello che è successo...” Allontanò gli occhi che si erano fatti di nuovo gonfi e lucidi, arrossati agli angoli delle palpebre, prima di rischiare di rimettersi a piangere davanti a tutti. Abbassò la voce. “Sono tutti uguali.” Stritolò il proiettile quasi a volerselo conficcare nel palmo. “Lei, suo fratello, e l’altra pazza...” Scosse il capo e tornò a gettarsi nel suo angolino. “Nazioni psicopatiche del cazzo.”

Germania schivò la frecciata del dolore, rispose solo a Ucraina. “Potrei sempre estorcere le informazioni con la forza e spingerti a collaborare per avere un accesso sicuro a Mosca. E forse...” Strinse i pugni, ricacciando indietro una vampata di rabbia, e assottigli gli occhi, rendendoli di nuovo taglienti e penetranti come lame. “Potrei vendicarmi io stesso di Russia, uccidendoti davanti ai suoi occhi come non sono riuscito a fare a Smolensk. Dopotutto, sei una diretta responsabile della cattura di Italia. Che motivo avrei di risparmiarti?”

Ucraina socchiuse le palpebre. Non una ruga a scomporle quell’espressione mite. “Penso che, se avessi voluto uccidermi, lo avresti già fatto.”

“Lo so,” rispose Germania. “So che avrei dovuto farlo.” Tornò a guardare fuori. “Un grosso errore, lo riconosco.”

“No. Io invece devo ringraziarti.”

“Non farlo.” Davanti agli occhi di Germania si spalancò di nuovo quella visione bruciante che lo stava tormentando dal giorno in cui Italia era stato rapito. Una visione rossa come il cielo dell’alba rovesciato sui campi neri e spogli. Lui che piantava la pistola nella nuca di Ucraina, che premeva il grilletto, e che lasciava che cadesse a terra, ad affogare nel suo stesso sangue. “Potrei ucciderti in qualsiasi momento, non dimenticartelo.” Potrei ucciderti e mettermi il cuore in pace per quello che è capitato a Italia.

La voce di Romano s’insinuò nuovamente fra loro, “Per una volta mi aggrego”, e lo distolse da quei pensieri stridenti come un’unghiata sul vetro.

Ucraina si riproiettò nel bunker di Kiev, schiacciata dal peso della città che veniva bombardata sopra la sua testa, soffocata dall’umidità e dalla polvere di cemento armato, ma con i polsi liberi dalle manette. Russia in piedi davanti a lei, il suo sguardo duro ma scosso di timore, il braccio teso e la pistola puntata alla fronte della sorella. “Potrei essere io quello a ucciderti, prima che lo facciano loro.”

Le venne da sorridere. Un sorriso triste. Quanti ancora desidereranno uccidermi per poter ritrovare la pace dentro di loro?

Non riuscì a provare alcun risentimento nei confronti di Russia. C’era solo quell’amore cieco e incontrollabile che le faceva desiderare di vederlo al sicuro e di riabbracciarlo presto. 

“Forse sarebbe meglio,” disse.

Germania corrugò un’espressione interrogativa e Ucraina lo tornò a guardare negli occhi. Quegli occhi che trasudavano lo stesso dolore che lei aveva sempre letto in quelli di Russia.

“Forse sarebbe davvero meglio se mi uccidessi, Germania. Dovresti davvero accettare quello che ti sta succedendo piuttosto che rinnegarlo. Dovresti sentirti libero di dargli sfogo.”

Il viso di Germania divenne granitico. “E cosa mi starebbe succedendo?”

“Il tuo animo è turbato.” Gli occhi di Ucraina invece brillarono come specchi d’acqua limpida. Un’acqua che non ha nulla da nascondere, che non ha paura di mostrare il suo fondo. “Ho avuto modo di osservarti molto, Germania.” Ucraina sciolse un pugno, spostò il braccio accompagnata dal trillo delle manette, e gli toccò una mano. “La tua anima sta soffrendo, Germania. Lo riesco a percepire bene perché il tuo è un dolore simile a quello che affligge anche mio fratello. È un dolore che so riconoscere e che sto affrontando da tanto tempo, ormai.”

Dal sedile del guidatore, Prussia distolse lo sguardo dalla strada e si lasciò catturare da quelle parole.

Germania strappò il tocco da quello di Ucraina, come se lei gli avesse ficcato uno spillo nella carne. “Io e Russia non abbiamo nulla in comune.”

“Temo di sì, purtroppo.” Il cuore trafitto di Ucraina batté un sincero palpito di dolore. “E tutto questo ti distruggerà, Germania. Quello in cui ti stai imbattendo distruggerà entrambi, sia colui che perderà sia colui che avrà la meglio sul campo di battaglia. La guerra non porta mai nulla di buono.” Scosse il capo. “Reca con sé solo dolore.”

“La guerra comporta cambiamenti,” ribatté Germania. “La guerra rafforza lo spirito dei combattenti, e distrugge chi è immeritevole di vivere e coloro che sono troppo deboli, fortificando i popoli degni di occupare la terra conquistata. Se tu non sei ancora riuscita ad accettarlo, nonostante la tua natura...” Le rivolse un’espressione inflessibile, una di quelle che scagliava sempre su Italia durante un rimprovero. “Forse è vero che meriti di soccombere.”

Ucraina, ferita più dal destino che Germania si stava scavando da solo che da quelle parole, scosse il capo. “Ho pena di te, Germania. E prego solo...” Strinse le mani in grembo. Le chiuse a guscio, vi raccolse dentro quel battito di speranza. “Che questa guerra ti dia ancora un’occasione per sfuggire alla sua crudeltà, prima che sia troppo tardi.”

“Troppo tardi per chi?”

“Per tutti noi.”

Prussia tornò a sollevare gli occhi sullo specchietto retrovisore e incrociò gli occhi di Spagna. Lo stavano cercando.

Spagna reclinò il capo di lato e indicò Germania con quel piccolo cenno impercettibile, sollevò le sopracciglia e sottolineò quel pensiero che era passato attraverso la mente di entrambi.

Prussia diede un’aggiustata allo specchietto retrovisore e inquadrò l’immagine di Germania. Di nuovo quegli occhi gelidi e distaccati che non riusciva a raggiungere e a decifrare, quella barriera scura a proteggerlo come una corazza. Prussia tornò a stringere le mani sul volante, fece tamburellare le dita. Com’è possibile che West sia così freddo davanti al rapimento di Italia? Com’è possibile che trovi dentro di sé la forza di non crollare? Capisco che lui è tosto, ma... Sospirò, sconfortato, e guidò passivamente, seguendo la scia dell’auto che gli marciava davanti. Mi auguro solo che Ucraina non abbia ragione. E che West non si stia solo sforzando di tenersi tutto dentro pur di non scoppiare.

Alle sue spalle, però, Germania stava lottando in silenzio.

Risvegliate dalle parole di Ucraina, due forze opposte cozzavano nel suo animo, addentandogli il cuore e gettando una nube di buio nella sua mente. Da una parte, i battiti del suo cuore addolorato lo tormentavano supplicandolo di sbrigarsi a salvare Italia, a colmare quello spazio vuoto che la sua perdita aveva scavato nell’anima. Dall’altra parte, la sua testa gli ordinava di concentrarsi solo sulla guerra e di tenersi pronto anche all’estremo sacrificio pur di non compromettere le sorti del conflitto. Ma dentro di lui l’immagine di Italia era un marchio a fuoco ancora fresco e lacrimante. Lo vedeva ogni volta in cui batteva le ciglia. Udiva le grida della sua voce, l’invocazione del suo nome, ogni volta in cui cadeva il silenzio. Provava il bisogno di tornare a legarsi al suo calore ogni volta in cui brividi di freddo gli scivolavano sulla pelle.

Germania tenne il gomito piegato contro il finestrino, strinse il pugno e lo accostò alla fronte aggrottata. Chiuse gli occhi. La colpa di quello che è successo a Italia e di quello che sta succedendo anche a me è solo mia, non di Russia. Trattenne il respiro come sperando di placare quel bruciore che gli stava divorando il cuore. Ecco perché non ho alcun diritto di arrabbiarmi. Russia conosce il legame che unisce me e Italia, sa cosa io significo per lui e sa cosa lui significa per me, altrimenti non avrebbe mai pensato di rapirlo. Sciolse il pugno accostato alla fronte e si guardò il palmo. Mosse le dita che tante volte si erano intrecciate a quelle di Italia, più sottili e delicate delle sue, e che questa volta non era riuscito a trattenere. Il legame con Italia dovrebbe essere la ragione per cui sentirmi più forte, dovrebbe essere la ragione per la quale combatto, e invece si è trasformato nella mia debolezza. La massa di dolore si trasferì sullo sterno, picchiò sulla croce di ferro, rievocò quella cicatrice ancestrale che aveva ripreso a sanguinare da quando Italia gli era stato portato via, da quando la guerra gli aveva strappato il suo tesoro più caro. Non avrei mai dovuto legarmi a lui in questa maniera. Le nazioni non sono fatte per amarsi e per sostenersi, ma solo per distruggersi a vicenda. Quand’è che lo imparerò?

La voce di Prussia lo riportò all’interno dell’auto, cancellò la dolorosa immagine di Italia dalla sua testa. “Se ora l’obiettivo sarà incrementare l’attacco del Gruppo Armate Centro e riportare in azione i gruppi corazzati dopo che avevamo lasciato solo la fanteria...” Riaprì e strinse le mani sul volante, assecondando quel formicolio nervoso ed eccitato allo stesso tempo. “Forse sarà il caso di avvertire Finlandia e di farci rispedire le divisioni che gli avevamo inviato per la presa di Leningrado.”

Germania sospirò a lungo, si passò la mano fra i capelli e massaggiò il collo indurito, le vertebre indolenzite. “Parlerò con Finlandia e lo chiamerò non appena arriveremo a Roslavl, prima di cominciare l’Operazione Tifone.” Annuì. “E lo informerò della situazione.”

Spagna tirò su la testa, stupito e di nuovo privo della patina sugli occhi. “Cosa? Finlandia? Ma...” Indicò alle sue spalle, verso l’auto che seguiva la loro, verso il profilo di Kiev che si stava rimpicciolendo all’orizzonte. “Pensavo lo avessi già chiamato e avvertito di tutto.”

“No. Non ancora.”

“Ma allora...” Spagna flesse il capo di lato e si strofinò i capelli dietro l’orecchio, mantenendo quell’espressione dubbiosa. “A chi hai fatto quella telefonata prima che partissimo da Kiev?”

 

♦♦♦

 

30 settembre 1941

Baia di Kagoshima, Isola di Kyushu

Giappone

 

Giappone galleggiava in ammollo, cullato dalla tiepida acqua dolce di cui era riempita la piscina installata nella zona delle esercitazioni, nell’area del porto a cui avevano accesso solo lui e il suo gruppo di ammiragli. Sdraiato di schiena, le braccia cadenti lungo i fianchi, le mani aperte sul pelo dell’acqua come fiori di loto, i capelli a formare una corona di ciocche nere attorno al capo, e il viso bianco affacciato al cielo notturno, rischiarito dalla luce della luna. Indossava l’uniforme. Gli abiti zuppi non pesavano a contatto con la pelle, gli permettevano di galleggiare rilassato, senza andare a fondo. Tiepide e piacevoli onde d’acqua dolce gli carezzavano le guance e la fronte, come una serie di sottili e delicate mani affusolate lasciate scorrere sulla pelle. Nelle profondità dei suoi occhi neri si specchiava la distesa di stelle di cui era inondato il cielo del porto. Quello splendido cielo notturno che pareva non aver fine e che rovesciava la sua luce fra le creste d’acqua del Pacifico.

Giappone chiuse gli occhi, respirò a fondo, flesse i gomiti e fece oscillare le braccia per lasciarsi scivolare sull’acqua fino al centro della piscina. Reclinò il capo all’indietro e il solletico dell’acqua gli percorse la fronte, da tempia a tempia, delicato come il tocco di una piuma.

Le orecchie riempite d’acqua si fecero ovattate, isolate dai rumori del porto, dallo scrosciare delle onde che si schiantavano sulla costa, e dal brusio proveniente dal cantiere. Affiorarono i ricordi della telefonata risalente a quello stesso pomeriggio. La voce di Germania integra, ma scossa nel profondo. “Non abbiamo potuto impedire che lo rapisse. Forse si sarebbe potuta evitare una disgrazia del genere, ma l’errore è stato mio.” Giappone aveva riconosciuto quello sforzo, quel desiderio di mostrarsi ancora forte mentre Germania gli parlava. “Ho abbassato la guardia, credevo che Italia fosse al sicuro, credevo di essere io stesso al sicuro, e credevo di essere in grado di proteggerlo da qualsiasi pericolo.” Una nota di dolore aveva spezzato la voce di Germania. “A quanto pare non è così.”

Quello stesso dolore si riversò anche nell’animo di Giappone.

Nell’oscurità dei suoi occhi chiusi apparve l’immagine di Italia tenuto prigioniero da Russia. Il suo sguardo spaventato, il suo corpicino tremante, le lacrime a corrergli lungo le guance. Italia è prigioniero di Russia. Giappone irrigidì, ingabbiato in quel duro senso di impotenza davanti al suo alleato così lontano e irraggiungibile. E ora Germania ne è così turbato. Non vorrei che tutto questo...

L’odore selvaggio di mare e di costa gli soffiò in faccia, lo riportò davanti a un cielo grigio, a un oceano in burrasca, ai giorni in cui la guerra non era ancora scoppiata, prima ancora del Patto Tripartito, prima ancora del Patto d’Acciaio. Germania affianco a lui, affacciato alla scogliera, stretto nel cappotto e chiuso nel suo vortice di dubbi. L’incertezza nel suo sguardo e gli occhi azzurri che, volti all’orizzonte, avevano assunto lo stesso colore grigio delle nubi in tempesta. E quella frase che non aveva avuto timore di pronunciare. “Forse è lui la mia unica debolezza.”

Quella frase che Giappone non aveva mai dimenticato riecheggiò più volte nelle orecchie otturate dall’acqua. La sua unica debolezza.

Fece scivolare le mani sulla superficie dell’acqua, le sovrappose al torso, ancora gocciolanti, e andò in cerca del tocco freddo della croce di ferro allacciata al polso. Il ciondolo pulsò di vita. Il cuore ancora vivo e battente della loro alleanza.

Russia se ne sarà sicuramente reso conto, considerò Giappone. La sua abilità di leggere nell’animo delle persone è straordinaria, e dobbiamo riconoscerglielo. Deve aver compreso da molto tempo che persino una nazione imperturbabile come Germania sa perdere lucidità e freddezza quando si tratta di Italia. Sul suo viso candido, inondato dalla luce argentea della luna, s’increspò un’ombra di timore. Il suo cuore si strinse in un crampo d’ansia che lo fece sentire più pesante in quell’abbraccio d’acqua. Ma cosa ne sarà della guerra se dovesse realmente succedere? Se Germania si lasciasse pervadere dagli impulsi e dovesse perdere lucidità contro un avversario simile che ha già saputo riconoscere la sua debolezza, questo potrebbe compromettere non solo la campagna in Unione Sovietica, ma l’intero conflitto. Russia non è ancora sconfitto, dopotutto. Mosca si sta difendendo ed è certo che lui impiegherà fino all’ultimo uomo disponibile per salvaguardare la sua capitale. Per di più... Riaprì le palpebre. I suoi occhi erano neri, profondi e sconfinati come quel cielo che lo sovrastava, come quel vortice che gli stava inghiottendo l’animo. Strizzò i pugni gocciolanti. I suoi alleati aumentano ogni giorno.

Le parole di Germania erano ancora vive e impresse nel suo cuore. “Un nuovo trattato,” gli aveva detto durante la telefonata. “La resa formale dell’accordo fra America, Inghilterra e Russia. Ciò comporterà diversi aiuti materiali ed economici rivolti all’Unione Sovietica, questo è inevitabile.”

Il corpo di Giappone scese più a fondo. Il livello dell’acqua risalì le mani sovrapposte sul torso, gli toccò gli angoli degli occhi, le labbra, la radice del naso. La Carta Atlantica. Inspirò e riemerse. Fronteggiò la luna a cui mancava solo uno spicchio per essere piena. Un patto del genere, un’alleanza così potente... sicuramente renderà più audace l’atteggiamento delle Forze Alleate, America per primo. E ora, con l’ennesimo embargo stabilito dal suo governo...

Giappone serrò le mani intrecciate, e il ciondolo a cui era appesa la croce di ferro vibrò assieme al suo respiro. Soffiò l’aria fra le labbra socchiuse per evitare che quel pensiero gli appesantisse l’animo e che lo trascinasse a fondo.

Perché America mi provoca in questa maniera? Conosce la mia situazione economica, sa che le mie riserve di carburante e di materie prime stanno esaurendo e che la mia quantità di nafta e benzina per le navi e gli altri mezzi riuscirà a coprire solo un altro anno di guerra. Sembra quasi che mi stia provocando di proposito, che mi stia spingendo ad attaccarlo, e in questo modo trovare un pretesto per dichiararmi guerra formalmente. Ma se lo facessi davvero... Le dita intrecciate sul petto sbiancarono per la tensione, e una scintilla color acciaio brillò su un braccio della croce. Ne ricaverei davvero un vantaggio a livello di tempistica?

Le ultime raccomandazioni di Germania rimbombarono nelle orecchie colme dell’acqua, parvero provenire proprio dal fondo della piscina. “Tu tieniti pronto nel caso fosse necessario un intervento del tuo esercito o della tua marina dall’Est, nel caso...” Aveva sospirato e la sua voce era tornata granitica. “Nel caso il mio attacco su Mosca dovesse subire rallentamenti. O se Russia dovesse riuscire a respingermi.”

“Ma il patto di aprile...”

“Dimenticati del patto. L’unica responsabilità che ora hai è quella nei confronti dell’Asse, e Russia ormai non fa più parte della nostra alleanza, ricordatelo.”

Giappone non riuscì a non pensare a quell’incertezza nel tono di Germania, a quella frase che lo aveva fatto tentennare attraverso la linea del telefono. Nel caso Russia dovesse respingerlo, mi ha detto. Ma non è da Germania pensare a un eventuale fallimento. Questo significa che non è poi così sicuro riguardo la riuscita dell’operazione? Sciolse l’intreccio di mani dal torso e spalancò un’altra bracciata che lo fece scivolare fra le morbide onde d’acqua dolce. Forse perché l’inverno è alle porte.  Il suono limpido dell’acqua aperta dal suo passaggio gli carezzò l’udito, rotolò lungo le guance, fin dentro il bavero della giacca. Forse perché le truppe non possono più fare affidamento sulla spinta iniziale. Ma allora, anche io dovrei...

“Forse potrebbe essere difficile per me coprirti a Est,” aveva risposto Giappone, e anche la sua voce si era fatta più incerta. Si era sentito grato del fatto che Germania non fosse stato in grado di trovarsi davanti alla sua espressione di colpevolezza. “Con i territori in Indocina, e il pericolo di uno sbarramento da parte di America, forse farei meglio a...”

Era caduto un silenzio bianco, come se la linea telefonica fosse saltata.

Le parole di Germania erano riaffiorate, più morbide, ma di nuovo scosse da un brivido di indecisione. “Sei sicuro che non ci sia nulla di cui...” Aveva esitato. “Vorresti parlarmi?”

Una riga di sudore freddo aveva attraversato la tempia di Giappone. Lui aveva serrato la mano sulla cornetta, aveva stretto il pugno tremante al fianco, e aveva resistito al tonfo del cuore caduto nello stomaco. “N-no.” Aveva ripreso fiato. Il cuore aveva rallentato, il viso era tornato tiepido, il respiro regolare e il tono di voce fermo. “No, assolutamente di nulla.”

Tirato dal peso di quell’azione che gli era rimasta sull’anima, Giappone abbandonò le forze, rammollì i muscoli, smise di respirare, e si lasciò sprofondare verso il fondale della piscina. Un paesaggio d’acqua gli riempì gli occhi, offuscò la vista, ridusse la forma della luna a un faro appannato e oscillante, sempre più piccolo.

Giappone schiuse le labbra, lasciò uscire fiato e parole. “Non mi piace l’idea di ingannare Germania.” La sua frase si condensò in una scia di bolle cristalline che risalirono l’acqua, placide e silenziose come meduse, ed esplosero solo una volta raggiunta la superficie. I capelli oscillarono contro le guance. La croce di ferro allacciata al polso compì un giro su se stessa, scintillando, e urtò la manica della giacca dondolante, gonfiata dalla corrente. “Non mi piace tenerlo all’oscuro dei miei piani militari,” si disse ancora. “Ora che Italia è prigioniero, poi, la nostra stessa alleanza rischia di diventare vulnerabile. Forse...” Irrigidì il corpo. Smise di andare a fondo. “Forse non è questo il momento più adatto a compiere un attacco del genere.”

Un abbraccio d’ombra lo circondò, più freddo rispetto all’acqua in cui era immerso. Labbra ghiacciate gli sfiorarono l’orecchio, capelli neri e ondeggianti come i suoi gli toccarono la guancia, un paio d’occhi rossi si accesero nell’oscurità.“E invece il tempo è proprio dei migliori.” Le braccia della sua ombra si strinsero, lo tirarono ancora più in basso, tenendolo imprigionato nell’oscurità del fondale. La voce ruvida ma suadente. “Ora che America ha firmato quell’idiozia della Carta Atlantica, è giunto il momento di fargli capire che noi non abbiamo intenzione di farci sottomettere da un trattato del genere, e che non sarà un pezzo di carta a dirci cosa fare e ad allontanarci dai nostri obiettivi.”

Giappone girò la guancia per non fronteggiare quello sguardo. I capelli gonfiati dal moto dell’acqua gli ondeggiarono davanti agli occhi. “In che modo un attacco del genere potrebbe metterci in una posizione di vantaggio rispetto a lui?” Altre bolle risalirono dalle sue labbra. “America comunque non morirebbe per un semplice attacco a una base navale.”

“L’obiettivo non è mai stato uccidere America.” La mano fredda e sottile della sua ombra gli strinse le guance, fece pressione, ma non riuscì a fargli girare il volto. “Ma colpire coloro che gli sono più vicini, fargli capire a cosa andranno incontro se osassero mettersi contro di noi, e fargli rendere conto che anche noi conosciamo le debolezze dei nostri avversari, proprio come Russia ha compreso quelle di Germania. Senza contare il fatto che, attaccando una base navale di tale calibro, il vantaggio sul Pacifico sarebbe nostro. E America potrebbe impiegare anche un anno intero prima di potersi riarmare adeguatamente. A quel punto, le nostre conquiste saranno ormai concluse. Non avrà speranze di riottenere quel che avrà perso.”

Giappone scosse il capo. Un brivido intimorito gli attraversò il viso, quell’espressione ancora rosa dai dubbi. “Germania potrebbe non esserne felice.” Si lasciò scivolare sul fianco con una sforbiciata di gambe, e diede le spalle alla sua ombra. “Potrebbe arrabbiarsi. E se il suo attacco dovesse fallire in Unione Sovietica, allora tutto si ritorcerebbe contro di noi.”

“Germania non fallirà mai in Unione Sovietica.”

“Ma l’arrivo dell’inverno potrebbe...”

“Germania sta conquistando i più importanti giacimenti petroliferi e carboniferi del Caucaso.” La sua ombra compì una sbracciata, disegnò un arco nero sopra di lui, si lasciò scivolare verso il basso, di nuovo davanti al suo sguardo, e gli sfiorò la fronte con la sua. Gli occhi rossi gli penetrarono il cranio. “Quelle scorte gli permetterebbero di conquistare l’intero continente, e non solo l’Unione Sovietica. Non perderà mai contro Russia, non ora che la posta in gioco è Italia. E, una volta che avrà avuto la meglio su Russia, noi avremo ottenuto il vantaggio su America.” L’ombra raccolse il viso di Giappone fra i palmi, mostrando un sorriso più fine. Distese le dita sui suoi zigomi, risalì le tempie, affondò le punte all’attaccatura dei capelli, e discese a massaggiargli i bordi delle palpebre.“È un piano perfetto,” mormorò con quel tono basso e ipnotico. “Non hai nulla da temere.”

Giappone si morse il labbro inferiore e sollevò lo sguardo, nascose i suoi dubbi dietro l’ombra della frangia resa rigonfia dall’acqua. La sua vista attraversò il fondale della piscina, si soffermò sulla palla quasi piena della luna, sulle bolle che parevano fatte di vetro soffiato. Lasciò che anche i ricordi si gonfiassero e gli vorticassero attorno alla stessa maniera.

Tutte le settimane trascorse a esercitarsi in quella baia così simile a quella di Pearl Harbor. Le stesse concavità e frastagliature della costa, la stessa profondità e conformazione dei fondali, e tutti i dubbi e le perplessità che ancora attanagliano sia lui che i suoi ammiragli davanti ai risultati.

“L’operazione però è ancora mal organizzata,” disse Giappone, questa volta usando un tono più fermo. “Non è perfetta come dovrebbe esserlo una missione simile. La nostra marina è più moderna rispetto a quella di America, è vero, ma potrebbe non essere ancora abbastanza per un attacco di tale calibro.” Chiuse gli occhi. Dalle labbra risalirono altre bolle più piccole. “E le Hawaii sono una zona rischiosa da colpire. Il Pacifico è composto da una fitta rete di flotte navali statunitensi. Come faremo a passare inosservati con un convoglio simile? E se dovessero scoprirci prima dell’inizio dell’attacco...”

“Non lo faranno.” La sua ombra tornò a scivolargli davanti con un tuffo, come una larga gettata d’inchiostro nero sospinta dalla corrente d’acqua. Gli occhi rossi erano l’unica fonte di luce, pulsavano di vita propria, ancor più rispetto al fascio di luce lunare proveniente dal cielo. “È da mesi che monitoriamo quella base navale, le difese dell’isola, lo stato delle navi ormeggiate, persino l’attività civile e militare. Uno come America non sarà mai abbastanza sveglio da rendersi conto in anticipo dei segnali d’allarme.”

“Non voglio sottovalutare America. E non voglio sottovalutare il suo potenziale militare.”

“È solo uno stupido ragazzino.”

“No. Non lo è.” Giappone lo rivide attraverso la patina nebulosa dei loro ultimi incontri. Quella scintilla nei suoi occhi azzurri, quell’innato sguardo da guerriero, quella splendente aura di forza e nobiltà che emanava quando si trattava di proteggere un alleato e di imporsi davanti a un nemico. “America è in grado di trasformarsi.” Giappone non riuscì a nascondere un sincero sentimento di ammirazione e rispetto nei suoi confronti. “Dà l’idea di comportarsi da irresponsabile, di avere la testa piena di sciocchezze, di essere solo un bambino che gioca con armi più grandi di lui, ma quando affronta una guerra...” Brividi di timore si mescolarono a un rovente fremito di eccitazione che gli ribollì nel sangue. Giappone scosse più volte la testa. “Non possiamo sapere con certezza di cosa sarebbe capace pur di vincere. Davanti a un conflitto, davanti alla paura di perdere la propria terra e di vedere ferito il nostro popolo, chiunque è in grado di trasformarsi. È la natura di noi nazioni.”

“Ed è per questo che non dobbiamo rimandare l’attacco, infatti.” L’ombra tornò ad appendersi alle guance di Giappone, usò una presa più dura e gli fece voltare lo sguardo. Lo fissò dritto negli occhi, lo costrinse ad annegare nelle sfumature color sangue che gli riempivano le iridi. “Dobbiamo uccidere America prima che lui stesso si renda conto del suo potenziale.” Strinse le dita. Le unghie fecero pressione contro la carne delle guance. “Dobbiamo impedire che trovi la forza di reagire, e dobbiamo fare in modo che sia tagliato fuori dal conflitto prima che si trovi costretto a tirare fuori quell’oscurità della sua anima di cui nemmeno lui è consapevole. Fidati.” Posò la fronte sulla sua, trasmettendogli una scossetta attraverso quel tocco che si fece più rassicurante e caldo. “E segui quello che ti dice il tuo cuore, per una volta.” Gli scostò la frangia con un ampio gesto delle dita che non fecero fatica a intrecciarsi con le ciocche districate dall’acqua. “Non solo quello che ti suggerisce la testa.”

Nella testa di Giappone, la voce di Germania lo intimava alla pazienza e all’obbedienza; nel suo cuore, la voce della sua stessa nazione reclamava la sete di sangue e vendetta che le spettava dopo anni di attesa. E Giappone sapeva che esisteva solo un modo per mitigare quell’istinto e mettere a tacere quella voce.

Sconfitto, distese le braccia attorno a quel corpo nero che lo teneva imprigionato nel fondo dell’acqua, s’incatenò a lui, premette il viso contro la sua spalla, incrociò le gambe alle sue, e lasciò che l’oscurità inghiottisse l’ultimo angolo di luce del suo animo.

 

♦♦♦

 

30 settembre 1941

Šlissel’burg, Sobborghi di Leningrado

Unione Sovietica

 

Finlandia strizzò la mano attorno al ricevitore del telefono accostato all’orecchio, sgranò gli occhi in un’espressione allibita. “Cooosa?” esclamò. “Un trasferimento dei gruppi corazzati? Ma...” Una botta di vertigini dovute alla confusione, alla deprivazione di sonno, alla fame, e alla tensione, gli ronzò attorno al capo, facendogli vedere doppio. Finlandia si dovette aggrappare al portellone del mezzo blindato a cui avevano agganciato l’apparecchio telefonico – antenne sbucavano ai fianchi del furgone collegato a una delle linee ancora intatte –, e spostò lo sguardo alle sue spalle per non sentirsi accasciare sotto quel tremolio di ginocchia. Truppe di soldati tedeschi marciarono sull’orlo della strada. Un autocarro le sorpassò trasportando casse di materiali protette da teli impermeabili, e sfilò via spalancando la visuale sulle file di casette evacuate che gli uomini stavano circondando con reti e filo spinato. Finlandia si strofinò la nuca, sconfortato dalle notizie. “Proprio adesso che abbiamo raggiunto un punto stabile e che ho completato la chiusura del cerchio d’assedio attorno a Leningrado? Non sarà un po’ controproducente?”

“Sapevi che non sarebbe stata una situazione definitiva e che quelle divisioni ti avrebbero supportato solo per l’accerchiamento,” gli rispose Germania dall’altro capo della linea. “E ora per me è giunto il momento di ritrasferire il Quarto Gruppo Panzer e l’Ottavo Fliegerkorps nel Gruppo Armate Centro, ne ho bisogno per l’avanzata su Mosca.” La sua voce si fece più dura. “È un ordine, Finlandia, non ammetto alcuna discussione a riguardo.”

“Ma...”

Qualcosa toccò gli stivali di Finlandia e gli grattò l’orlo dei pantaloni.

Finlandia guardò in basso.

Hanatamago s’infilò fra le caviglie del padrone, sollevò una zampetta, tornò a grattargli l’orlo dei pantaloni, abbassò il musetto e gli rosicchiò la punta dello stivale. La codina bianca spazzolò l’aria, tutta contenta e in cerca di attenzione.

Finlandia si chinò a raccogliere la cagnetta per il pancino, la mise distante dai suoi piedi, per non rischiare di calpestarla, e tornò a fronteggiare il ricevitore del telefono. Lo sguardo serio e ingrigito da un velo di preoccupazione. “Ma come faccio a portare avanti l’attacco e a concludere l’assedio se non avrò abbastanza uomini e mezzi?”

“Il tuo non sarà un attacco a sfondamento,” rispose Germania, “ma sarà un accerchiamento. È sulla tattica che devi fare affidamento, non sulla forza bruta.”

Finlandia rimase a bocca aperta, le labbra congelate in quella smorfia perplessa. Gli ballò una palpebra. Sì, facile metterla su questo lato. Ma se mi mancano mezzi e uomini, e per di più se i suoi ordini mi impediscono di creare una resistenza flessibile, proibendomi di arretrare per qualsiasi motivo su qualsiasi linea e dandomi uno spazio di manovra così ristretto, come faccio a disporre di una tattica efficiente? Si passò una mano fra i capelli – un gesto tremante e nervoso – e reclinò il capo all’indietro, affacciandosi al cielo polveroso ma ancora azzurro, sfumato dalla luce dell’estate che si stava appassendo. Fino a qualche giorno fa, per Germania erano Kiev e Leningrado gli obiettivi fondamentali di questa campagna, e ora invece il punto vitale è diventata improvvisamente Mosca. Germania non è tipo da cambi di programma così repentini. Credevo che, una volta impossessatosi di Kiev, sarebbe intervenuto di persona quassù a Leningrado e che avrebbe espugnato la città guidandomi con la stessa tattica, lasciando la conquista di Mosca per la prossima primavera. Inarcò un sopracciglio. Si può sapere che gli è preso tutt’a un tratto?

Di nuovo la voce di Germania vibrò contro l’orecchio. “Il fronte è consolidato?” gli domandò con tono autoritario. “Hai raggiunto i punti prestabiliti?”

Finlandia scosse il capo e si riprese. “Uhm.” Si girò verso il rombo di un’altra fila di automezzi che gli stavano scorrendo alle spalle. “Sì, ho consolidato il fronte di difesa il venticinque, e ho stabilito dei capisaldi, dato che non posso ancora espugnare la città.” Si strinse nelle spalle, impotente. “È una difesa statica, tutta basata su posizioni di blocco, ma penso di potercela fare. Mi sono stabilito sul fronte del Volchov per impedire che arrivino soccorsi da parte sovietica.”

“E le tue truppe in Carelia?”

“Sono riuscite a riconquistare tutti i territori che avevo perso durante la Guerra d’Inverno.” Quel pensiero invece riuscì a spolverargli le guance di rosa, a sollevare gli angoli delle labbra in un sorriso disteso, e a farlo sentire con i piedi a una spanna da terra. “Almeno questo mi ha ridato un po’ di fiducia.”

“Non ti sei ancora ricongiunto con le truppe provenienti dal tuo territorio, però.”

“No.” Se solo non mi sottraessi le divisioni che mi servono, allora potrei anche riuscirci! “Ma almeno abbiamo tagliato l’ultimo collegamento ferroviario, la linea di Murmansk. Leningrado ormai è isolata dal Paese, e abbiamo interrotto i traffici di ferro con la Scandinavia.” Deglutì e ricacciò nello stomaco l’aspro sapore di quella botta improvvisa di sensi di colpa. La sana tinta rosea che avevano assunto le sue guance sbiadì, i piedi tornarono a battere sull’asfalto. “Se ne sta occupando Sve.” Finlandia si sporse di lato, sbirciò da dietro il portello spalancato dell’autocarro, e andò incontro ai fumi lontani che sorgevano dagli edifici più alti di Leningrado, quelli dei cantieri industriali che si riuscivano a intravedere anche dai sobborghi. “Ora non dovrebbero essere più in grado di ricevere rifornimenti, al contrario delle nostre truppe. Ma le fabbriche all’interno della città sono ancora operative.”

“La città è isolata, hai detto?”

“Sì,” confermò Finlandia. “Completamente. Abbiamo già cominciato a bombardarla sia con la Luftwaffe sia con l’artiglieria, e...”

“Non sprecare troppe munizioni,” lo ammonì Germania. “Se i russi dovessero dimostrarsi fin troppo tenaci...” Ci fu una pausa abbastanza lunga da permettere a Finlandia di udire il frastuono dei bombardamenti sputati dalle artiglierie a lunga gittata. “Lascia che muoiano di fame.”

A Finlandia si gelò lo stomaco. Una fitta rete di ghiaccio nacque nel ventre, risalì il petto, il cuore, e gli si conficcò nel cervello come un proiettile. Finlandia sbatté le palpebre, tornò a occhi sbarrati. La faccia bianca come una maschera di gesso. “Cosa?”

Hanatamago smise di saltellargli fra le gambe. Sollevò la testolina facendo ciondolare le orecchie e la piegò di lato, emettendo un piccolo mugolio preoccupato davanti a quella scossa di turbamento del padrone.

“Se hai detto che la città è isolata e che il fronte è stabilizzato,” riprese Germania, “significa che le loro risorse sono destinate a esaurirsi, mentre noi possiamo contare su un rifornimento costante. Nel caso non dovessi riuscire a espugnare la città, allora lascia che muoiano.”

“M-ma Germania...” Finlandia afferrò il ricevitore con entrambe le mani. Alzò la voce senza accorgersene, tanto che due ufficiali si voltarono a guardarlo. “Ci sono i civili, ci sono donne e bambini, e noi non possiamo...”

“Questo non si è mai rivelato un ostacolo.”

Finlandia si morse la bocca fino a sentire il sapore del sangue. Le labbra vibrarono. Respirò a fondo, si costrinse a smettere di tremare, a ingoiare quel boccone che proprio non andava giù. Perché si comporta così? Rivolse un’occhiata sbieca al ricevitore, come se Germania si fosse trovato lì davanti a lui. Dev’essere successo qualcosa. Qualcosa che deve averlo destabilizzato. Germania non è più freddo e razionale come lo era all’inizio della campagna, e non capisco perché. Forse sente di essere in pericolo, ma non ha senso, le operazioni proseguono senza alcun intoppo, l’avanzata verso Est procede alla grande. Si prese la fronte, massaggiò le tempie e sfregò la pelle sudata a cui erano rimaste incollate alcune ciocche di capelli scompigliati. In ogni caso, non posso farci nulla. I suoi occhi tornarono velati di stanchezza. Io non ho alcun potere su Germania, e tutto quello che posso fare è eseguire gli ordini.

“C’è...” Finlandia raddrizzò le spalle, appoggiò la mano al portellone aperto dell’autocarro, e tenne la testa alta. “C’è qualcos’altro che devo sapere? Altri ordini da darmi?”

“Per il momento no.” Un fruscio scricchiolante disturbò la linea. Forse stava per cadere. “Mantieni le posizioni, non dar tregua a Leningrado, e fai in modo di completare l’accerchiamento anche con le truppe provenienti dal tuo paese. Questo è tutto quello su cui ti devi basare.”

“Mh.” Finlandia annuì. Arrotolò il cavo del ricevitore attorno all’indice e sfregò l’unghia sulla gomma. “Ho capito.” Un ultimo sospiro. Un augurio sincero. “Buona fortuna per Mosca.” E interruppero le comunicazioni.

Finlandia si appoggiò di schiena all’autocarro, affondò le mani fra i capelli, reclinò il capo all’indietro, strofinandosi la testa attraverso cui cominciava a pulsare un pressante principio di emicrania simile al ronzio di un trapano, e inspirò a fondo quella fredda aria di lago dove però si mescolava anche il tanfo bruciato e ferroso proveniente dalle fabbriche. Si chinò a raccogliere Hanatamago che aveva ripreso a grattargli l’orlo dei pantaloni, la strinse fra le braccia, le carezzò la pelliccia strofinandola dietro le orecchie, e marciò attraverso il tratto di strada occupato dal corpo d’armata tedesco stabilizzatosi lì a Šlissel’burg.

E così ci stiamo davvero preparando a una guerra di stagnamento.

Oltre i tetti delle piccole case di periferia, oltre i profili degli autocarri più alti, quelli che trasportavano le artiglierie smontate, le rive del Lago Ladoga spargevano bagliori che erano scaglie argentate contro l’azzurro sporco del cielo. I fumi delle fabbriche risalivano le nubi, si addensavano dove gli incendi provocati dai bombardamenti tedeschi sui sobborghi ancora consumavano l’aria, spargendo l’ormai familiare odore di bruciato.

Finlandia strofinò un’altra carezza sulla pelliccia di Hanatamago che profumava di prato e di sapone per bucato. Carezzarla lo tranquillizzava. Speriamo che non si trasformi in una battaglia fin troppo lunga, altrimenti c’è il rischio che i soldati si deprimano. Sospirò. Un forte senso di mancanza gli aprì un vuoto nel petto. E a me manca già Sve, anche se è via solo da pochi giorni e anche se so che tornerà presto. È così facile sentirsi soli durante una guerra del genere. E chissà se riuscirò davvero a congiungermi presto con le mie truppe, e a tornare a casa. I volti degli altri gli apparvero, evanescenti come quelli di tre fantasmi. Il sorriso di Danimarca, gli sguardi posati di Norvegia, e gli occhi agguerriti di Islanda. Gli salì un’ennesima fitta di nostalgia. A rincontrare gli altri.

Hanatamago gli posò le zampette sul petto e abbaiò. “Bau!” Gli diede una grattata alla giacca e riprese a scodinzolare.

Finlandia rise e la sollevò davanti al viso. “Lo so, lo so che tu ci sei sempre per non farmi sentire solo.”

Hanatamago gli leccò la punta del naso, si rimise a fargli le feste.

Finlandia la tornò a posare con le zampette a terra. “Su, ora vai a giocare. Ma non disturbare i soldati.”

Hanatamago attraversò la strada, superò un gruppetto di soldati che stavano scaricando casse di legno dal retro di un autocarro, e trotterellò verso gli scorci di prato che non avevano ancora imprigionato dietro il filo spinato o le reti di sbarramento.

Finlandia si levò sulle punte dei piedi, tese la mano davanti alla fronte, e tornò a posare lo sguardo sul tratto sottile del Lago Ladoga che splendeva come una striscia di alluminio all’orizzonte. Una porzione d’acqua così corta a separarli da Leningrado. Siamo così vicini, pensò con rammarico, eppure non ci è possibile posare nemmeno un piede su Leningrado. Se dovesse arrivare l’inverno, il lago ghiaccerà, gli abitanti patiranno la fame. Tornò a posare le suole a terra e tolse la mano dalla fronte. Spero solo che i sovietici si rendano conto da soli della situazione disperata e che chiedano la resa. Ma per loro si tratta pur sempre di seguire gli ordini di un capo come Russia. E uno come lui non si arrenderebbe nemmeno davanti alla prospettiva di una strage di civili e di innocenti pur di salvare l’onore. E se Germania non dovesse riuscire a conquistare Mosca...

Quel pensiero gli suscitò un brivido che dovette sfregare via strofinandosi le braccia.

Finlandia scosse il capo. No, ma che dico? Riscoprì un tiepido raggio di ottimismo. È di Germania che stiamo parlando. Lui non si farà sconfiggere per nulla al mondo. E dovrei essere per lo meno felice del fatto che ora Russia sarà impegnato nella capitale e che quindi non sarà in grado di salire a difendere Leningrado di persona. Per me sarà facile continuare a combattere senza paura. Se tutto andrà per il meglio, allora la guerra finirà ancora prima che io abbia tempo di affrontarlo su un campo di battaglia. Riuscì addirittura ad abbozzare un sorriso. Sì, devo credere in Germania. Devo credere alla vincita di questa guerra. Solo così potrò riscattare l’onore perduto della mia nazione.

“Signore.” Un giovane ufficiale tedesco gli si approcciò. Batté i tacchi e gli rivolse il saluto militare. “Stiamo terminando il perimetro di filo spinato. Pensavo che volesse supervisionarlo di persona, così...”

“Oh, certo.” Finlandia annuì e si ricompose, spolverò la giacca ripulendosi da qualche pelo bianco che gli era rimasto incollato dopo aver abbracciato Hanatamago. “Sì, avete fatto bene ad avvisarmi.” Lanciò un fischio verso la cagnetta e la chiamò con una sbracciata. “Hana, andiamo.”

Lei tornò scodinzolando ed entrambi seguirono l’ufficiale che li condusse su uno degli autocarri che avevano già svuotato dalle munizioni. Presero la strada che portava alla periferia. Viaggiarono da soli.

“Si stanno verificando problemi?” Finlandia si sistemò sul sedile e tenne Hanatamago acciambellata sulle cosce.

L’ufficiale scosse il capo tenendo lo sguardo rivolto al parabrezza. “Nossignore, stiamo stabilendo il caposaldo senza nessuna difficoltà. Solo che...” Si strinse nelle spalle. Le dita si contrassero sull’arco del volante. “Ecco, le risorse forse non sono delle migliori. Ci stiamo proteggendo adeguatamente in caso di assalto sovietico, questo sì. Filo spinato, fasce di mine Teller.” Gettò un’occhiata fuori dal finestrino laterale, verso la boscaglia che proteggeva la visuale sul lago. “Ma disponiamo solo di quattro mortai, cinque cannoni controcarro, due pezzi contraerei, due cannoni campali, e un solo Panzer III. I soldati sono meno di ottocento, e le mitragliatrici solo sessantotto.” Una ruga d’incertezza gli contrasse la fronte. “E se ora dovremo far trasferire le divisioni nel Gruppo Armate Centro...”

Finlandia annuì. Lo capiva. “Purtroppo non è qualcosa su cui possiamo intervenire.”

“Capisco. Ma se si dovesse verificare la necessità di un assalto...”

“Non dovrà succedere. Noi abbiamo l’ordine di accerchiare la città, non di assalirla. Non ancora, per lo meno.” Finlandia si abbandonò con le spalle contro lo schienale, si lasciò circondare dal forte e tiepido odore di pelle e di lubrificante per le armi, e passò un’altra carezza sulla schiena di Hanatamago. “Perciò tutto quello che possiamo fare ora è continuare con i bombardamenti, sperando per lo meno di radere al suolo le fabbriche e impedire che i russi continuino a rifornirsi da soli. E sperare che chiedano la resa.”

L’ufficiale si lasciò scappare una risata. “Sarà dura. I sovietici...” Diede un colpo al copricapo che gli stava cadendo sulla fronte. Nascose quell’indesiderata espressione di rispetto nei confronti del nemico. “Sono un popolo di tutto rispetto, d’altronde, signore. Non si arrenderanno facilmente.”

“Già.” Finlandia fermò le carezze lungo il pelo di Hanatamago. Sulla sua pelle soffiò il gelo bruciante in cui aveva combattuto durante la Guerra d’Inverno. Tornarono gli sguardi coraggiosi di tutti i soldati sovietici che aveva affrontato sul campo di battaglia, nel buio dei boschi, nel bianco della neve tinta di sangue. “Un popolo di tutto rispetto.”

L’ufficiale si fermò – i freni del mezzo stridettero – per lasciar passare una doppia fila di fanti che reggevano zaini rigonfi tenendo le armi allacciate alla spalla. “Ma è per questo che ci avvantaggeremo con la costruzione di tutti questi capisaldi. Per lo meno gli impediremo di riconquistare le posizioni perse e avremo sempre a diposizione dei punti saldi per l’arrivo delle artiglierie e dei rifornimenti.” Sollevò le sopracciglia. “Sempre se l’inverno non bloccherà anche i nostri sistemi di trasporto.”

Finlandia sentì un’altra botta di sconforto schiaffeggiargli la nuca. Si tenne stretto ad Hanatamago, guardò fuori dal finestrino dell’autocarro, verso i fumi neri di Leningrado, domandandosi solo quando la città avrebbe smesso di respirare e di lottare.

L’arrivo dell’inverno, il freddo che impedisce i trasporti, Russia che diventa più forte nel suo elemento naturale, le città che non cedono nonostante gli accerchiamenti, i sovietici che si incattiviscono resistendo tramite la lotta cittadina. Germania...

Chiuse gli occhi. Si aggrappò a quell’ultima speranza bianca, calda e soffice come il corpicino del suo cane.

Sbrigati a vincere, ti prego. E poni fine a tutto questo una volta per tutte.

 

♦♦♦

 

settembre 1941

Mosca, Unione Sovietica

 

Camminando per il lungo corridoio deserto, i loro passi risuonavano secchi in quell’ambiente di marmo, rimbalzavano da una parete all’altra seguendo le loro tre larghe ombre distese dalla luce autunnale che affondava attraverso le file di finestre parallele.

Estonia sfogliò i bollettini di guerra che si era procurato assieme al resto dei documenti premuti sul suo petto – lui e Lituania marciavano ai fianchi di Russia con la stessa nobiltà di due mastini da guardia –, aggiustò gli occhiali, e accostò allo sguardo uno degli ultimi rapporti battuti a macchina. “Leningrado è accerchiata, signore, e ormai ogni collegamento ferroviario è interrotto. Gli scambi con il resto del Paese sono pressoché impossibili. Inoltre è sempre costante anche la minaccia di un attacco dal nord, probabilmente stanno tentando un possibile accerchiamento con le truppe finlandesi ora che si trovano in uno stato di stallo.” Passò a un altro foglio. Un’ombra sconfortata gli solcò le palpebre rese più scure dall’ambiente chiuso. “Si sono verificate delle offensive frammentate, ma i tedeschi non sono ancora riusciti a penetrare la città. Per lo meno finora.”

Anche Lituania inarcò un sopracciglio e rivolse a Russia uno sguardo preoccupato. “Nonostante le fabbriche continuino a essere operative, sarà dura far giungere scorte e riserve, anche se tentassimo la via aerea.” Strinse le mani che teneva giunte dietro la schiena. Un brivido lo percorse. “E con l’arrivo della stagione fredda, poi...”

“Forse dovremmo fare subito qualcosa a riguardo, signore.” Estonia raccolse i fogli fra i gomiti e accelerò per stare al passo con entrambi. “Almeno prima che la situazione si aggravi.”

Russia infilò l’ultima manica del cappotto leggero che si era fatto portare non appena erano rientrati a Mosca, abbottonò i lembi e diede una lisciata alla stoffa lungo il fianco. Il passo leggero ma incalzante. Nemmeno un’ombra di tensione ad annebbiargli le guance rese più rosee dal sole pomeridiano. “Della situazione a Leningrado mi occuperò solo quando Mosca sarà definitivamente fuori pericolo.” Rimboccò anche la sciarpa sopra le spalle e fece sventolare un lembo color panna dietro le gambe. “La mia priorità rimane distruggere Germania, e so che sarà lui a venirmi incontro qua a Mosca, quindi non devo fare altro che spalancare la trappola e lasciare che sia lui stesso ad affondarsi con le proprie mani. Una volta respinta quest’offensiva, occuparsi di Leningrado sarà molto più facile per noi.” Giunse le mani dietro la schiena, continuò a passeggiare a cuor leggero, come se si fosse trattato di attraversare un prato di margherite. Il sorriso tiepido e sereno, gli occhi rischiariti dalla gioia di trovarsi di nuovo inglobato al centro del suo cuore, e l’animo alleggerito, consapevole di aver guadagnato un vantaggio. “E per me non sarà più un pericolo assentarmi dalla capitale per guidare il mio popolo anche a nord.”

Estonia serrò le mani sui bordi dei fascicoli fino a screpolare piccole fossette nella carta. Dentro di lui, un pensiero fisso come un chiodo nel cuore gli martellò nelle costole. “Ehm, signore...” Si strinse nelle spalle, chinò la fronte, e diede un colpetto alla montatura degli occhiali per evitare che scivolassero sulla punta del naso. “S-se per lei ora sarà troppo difficoltoso, con la difesa di Mosca e tutto il resto, allora posso farmi trasferire io a Leningrado e portare avanti la difesa. Tanto...” Tentennò, nascose quell’espressione colpevole camuffandola con un sorrisino ammaliatore. “Tanto per tenere la situazione sottocontrollo di persona.”

La stazza di Russia messa fra loro parò l’occhiataccia di Lituania.

Russia sorrise. Batté soffici carezze fra i capelli biondi di Estonia. “Non ti devi preoccupare di questo.” Gli sfilò la mano dalla testa e tornò a giungerla dietro la schiena. “Ho fiducia nel mio popolo, ho fiducia nella sua forza d’animo, e so che non mi deluderà. I tedeschi non riusciranno a posare nemmeno un piede sulle strade di Leningrado. Poi ho fatto una promessa a Ucraina.” Annuì. “Le ho giurato che non mi sarei fatto più separare da nessuno di voi per nulla al mondo. E intendo mantenere la promessa.” Una nuvola scivolò davanti ai raggi del sole, e quella breve oscurità depose sul viso di Russia un velo di fredda malinconia. “Inoltre, devo riporre fiducia nella decisione di Ucraina. Anche lei è una nazione come noi, e so che non permetterà a Germania di farsi sottomettere così facilmente. E so anche che riusciremo a liberarla. Piuttosto...” Infilò una mano nella tasca del cappotto ed estrasse un paio di guanti puliti, di tessuto leggero. “Andiamo a occuparci del nostro prigioniero.” Indossò il primo, lo tirò fino al polso, e sgranchì le dita carezzate dalla morbidezza della pelle. Rinnovò un sorriso compiaciuto. “È lui che deve temerci.”

Lituania corrugò un’espressione timorosa. Un inconscio brivido rovente risalì la schiena, cicatrice per cicatrice. “Signore, mi stavo chiedendo...” Piegò un braccio dietro la spalla e si diede una strofinata fra le scapole, dove era rimasta un’impronta di dolore. “Non sarà rischioso far del male a Italia? La vendetta di Germania potrebbe sempre torcersi su Ucraina.”

“Non ci sarà alcuna vendetta,” rispose Russia, con la stessa tranquillità, “perché Germania non avrà nulla di cui vendicarsi. Non lascerò alcun segno su Italia, non lo sfiorerò nemmeno con un dito. Anzi...” Sul suo viso raggiante ricadde il buio. Gli occhi si accesero, il sorriso disteso fra le labbra divenne crudo e tagliente, e il suo cuore si gonfiò di desiderio e aspettativa. La sua voce fu un mormorio, un brivido dietro l’orecchio. “Sarà Italia stesso a supplicarmi di torturalo o di ucciderlo, dopo quello che gli farò.”

Lituania ed Estonia si guardarono di striscio. L’aria del corridoio divenne di ghiaccio, nonostante il bel sole spezzettato dai rami degli alberi tinti dalle sfumature ramate dell’autunno. Estonia deglutì, si tenne stretto nelle spalle, abbracciato ai fascicoli di documenti, e camminò guardando in basso, allontanandosi da visioni che già immaginava e che non gli avrebbero dato pace per i mesi avvenire.

 

.

 

La cella sotterranea era umida, fredda, e silenziosa. Vibrazioni metalliche gorgogliavano attraverso il corridoio di cemento armato – il respiro sofferto degli impianti di ventilazione difettosi. Una goccia ticchettava a cadenza regolare, picchiava su una superficie metallica, probabilmente spanta da una tubatura rotta. I singhiozzi soffocati di Italia rimbalzavano da dietro le sbarre che lo tenevano imprigionato nel suo cunicolo, all’angolo della cella, affianco alla panca di legno su cui giaceva la coperta ripiegata che non aveva nemmeno toccato.

Italia strinse le braccia attorno alle gambe premute contro il petto, fece scivolare le suole degli stivali sul pavimento di cemento, e affondò il viso nelle ginocchia. Non piangeva più, aveva smesso di farlo da quando erano arrivati a Mosca, da quando poi lo avevano bendato e condotto nelle segrete, senza fargli capire di quale edificio si trattasse.

Italia tirò su col naso e ingoiò i continui singhiozzi che non gli davano pace dopo essersi prosciugato i polmoni a forza di lacrimare. Una morsa di paura lo attanagliò e gli riempì il cuore e lo stomaco di gelo, di un freddo ancora più fitto e penetrante rispetto a quello che regnava nella prigione deserta. Ricominciò a tremare, strizzò gli occhi e si tenne rintanato nel buio, la fronte spinta sulle ginocchia e le gambe schiacciate al petto, dove il vortice di angoscia era più pesante da sostenere. Sfilò una mano dalle gambe e raggiunse la croce di ferro che pendeva dal collo, il suo unico appiglio di consolazione. La strinse fino a farsi male.

La presa sulla croce evocò una cascata di immagini in successione. Immagini di Germania, di Romano, di tutti gli alleati con cui aveva combattuto e da cui era stato separato. Del nonno. I ricordi lontani di Nonno Roma, del suo caldo viso sorridente, erano i più dolorosi.

Il bruciore bollente delle lacrime risalì gli occhi. Gemiti soffocati scivolarono fra le labbra tremanti, dove i denti battevano di paura, in preda agli spasmi. Nonno.

Il pensiero del nonno riportò Italia nei Balcani, al giorno in cui lui era comparso sotto la pioggia e il nevischio, sul campo di battaglia tappezzato di fango e circondato da pareti di roccia scoscesa, a combattergli affianco e a sostenere le sue braccia. Italia si ritrovò anche davanti agli occhi placidi di Grecia che lo aveva risparmiato. Grecia lo aveva sconfitto, avrebbe potuto ucciderlo, ma si era limitato a coprirlo con la sua giacca e a lasciarlo a terra, proponendogli l’armistizio che lui aveva rifiutato. Ora al posto dei calmi e verdi occhi di Grecia c’erano quelli lividi e spietati di Russia, c’era la sua presa d’acciaio che l’aveva strappato alle braccia di Germania, e non c’era più la presenza del nonno a stargli affianco e a carezzargli i capelli per tranquillizzare il suo pianto e placare la sua paura.

Nonno, ti prego, se mi senti... Italia strizzò le mani sui pantaloni. Innalzò quella preghiera fino al cielo. Se mi senti allora vieni a salvarmi. Non so cosa fare.

Affiorarono altre immagini. Immagini che presto sarebbero divenute reali. Il suo corpo in ginocchio, il sangue che grondava attraverso i vestiti, la pozza rossa sempre più dilatata sotto di lui. Strumenti duri e metallici che affondavano nella sua carne, che strappavano pelle, che tranciavano ossa, e Italia che gridava tutto quello che Russia voleva sentirsi dire pur di non provare altro dolore.

Italia strinse i denti. Ho paura. Singhiozzò e ricacciò indietro le lacrime e la nausea. Vogliono farmi del male. Non so cosa fare, non posso scappare, non c’è nessuno che può difendermi, non posso combattere. Ho tanta paura.

Passi percorsero il corridoio, si avvicinarono alla cella, secchi e decisi, e si fermarono davanti alle sbarre. Rumore ruvido e stridente di una chiave che scivola nella serratura, un giro, due giri, uno schiocco secco, e il cigolio delle sbarre che si spalancano. Una voce lo chiamò. “Italia Veneziano.”

Italia tirò su la testa di colpo, schiacciò la schiena all’angolo della parete e ingollò un ansito squittente.

Lituania varcò per primo la soglia della cella e si tenne davanti all’entrata. Le spalle dritte e lo sguardo freddo, la posa statuaria. “Alzati. Devi venire con noi.” Dietro di lui, Estonia teneva gli occhi bassi, nascosti in un’ombra di turbamento.

Italia tornò a soffocarsi con un nodo di panico che lo fece sbiancare fino alle punte dei capelli. Spinse i piedi a terra, si girò sul fianco per proteggersi, e si aggrappò con una mano al freddo muro di cemento. “Cosa volete farmi?” squittì. “Dove...” Guardò al di là dei loro profili, verso l’oscurità del corridoio. Nessuna presenza di ghiaccio, nemmeno un barlume violaceo di quegli occhi siberiani che gli facevano gelare il sangue. Italia deglutì. La sua bocca sapeva di ferro. “Dov’è Russia?”

Lituania si girò a guardare Estonia da sopra la spalla. Gli inviò un cenno col mento, Estonia annuì, ed entrambi raggiunsero l’angolino dove Italia si era rannicchiato. Si chinarono a raccogliergli un gomito ciascuno, lo sollevarono da terra – Italia si lasciò maneggiare, molle e impotente come una marionetta – e lo tennero stretto contro i loro fianchi per evitare che ricadesse.

Lituania gli posò una mano sulla schiena, lo sostenne con quel gesto inaspettatamente caldo e compassionevole, e i suoi occhi assunsero una sfumatura costernata. “Cammina, coraggio.”

Non gli misero nemmeno le manette. Lo scortarono tenendo i fianchi incollati ai suoi, ma senza nemmeno minacciarlo con una pistola alla nuca o facendogli indossare le catene ai polsi.

“Cerca di non opporre resistenza,” gli disse ancora Lituania, una volta imboccato il corridoio. “Sarà più facile per tutti.”

“P-perché?” balbettò Italia. “Cosa...” Compì un passo più insicuro, incespicò, piantò le suole a terra facendole frusciare sul cemento, gli ballarono le ginocchia, i muscoli s’indurirono, attanagliati da crampi di paura, ma sia Estonia che Lituania lo costrinsero a camminare con una spintarella. Gli occhi di Italia s’infossarono in un’ombra di panico e il cuore accelerò, divenne di piombo. “Dove volete portarmi?”

Nessuno dei due fiatò. Proseguirono e gli fecero imboccare una delle ali laterali della prigione, percorsero uno dei corridoi che risaliva il sotterraneo.

Una divampante voglia di gridare risalì il petto di Italia, infiammandogli le guance ancora umide di lacrime. Un groviglio di pensieri neri e sciamanti si gonfiò nella sua testa, appannandogli la vista e facendogli fischiare le orecchie. Tornarono le immagini delle torture, l’odore nauseabondo del sangue appena zampillato dalle ferite fresche, la sua pelle aperta e bruciante di dolore, gli schiocchi delle ossa spezzate, e il sapore della bile e delle lacrime scivolate in gola dopo tutte le grida che avrebbe cacciato. Gli tremarono le labbra. “Dite qualcosa.” Non gridò. La gola gli faceva troppo male, non aveva fiato in corpo, la paura gli aveva succhiato l’aria dai polmoni.

Lituania gli aprì di nuovo la mano fra le scapole. Tenne lo sguardo distante come Estonia, gli diede un colpetto d’incoraggiamento. “Forza.”

Lo condussero fuori dalle prigioni, senza bendarlo, questa volta, e Italia avanzò sulle gambe molli come gomma. Andò incontro al suo destino.

 

.

 

Lituania spalancò la porta della camera. Lui ed Estonia vi portarono Italia al suo interno e tornarono a dividersi, in modo da coprire i suoi fianchi e impedire che facesse marcia indietro.

Una forte luce artificiale picchiò sugli occhi di Italia già doloranti dopo aver pianto così a lungo. Italia socchiuse le palpebre, si riparò con una mano, sbatté più volte le ciglia umide, e mise a fuoco l’ambiente.

Una figura prese forma davanti alla parete di fondo, dietro all’unica scrivania presente, affianco a un mobile suddiviso a scomparti che toccava il soffitto. Girò il capo verso di loro, reggeva un fascicolo aperto fra le mani. “Benvenuto, Italia.” Russia richiuse le ali di cartone del documento. Gli sorrise con la stessa dolcezza con cui lo aveva rapito, lo accolse con tono allegro. “Spero che il tuo soggiorno qua a Mosca si stia rivelando abbastanza piacevole. Uhm, forse la cella è un tantino troppo fredda, o no? Ma non temere...” Depose il fascicolo su uno dei ripiani del mobile, incastrandolo fra altri documenti, e si accostò alla scrivania. La sua espressione si delineò. Occhi fini che covavano una furbizia tagliente, un tenero sorriso da bambino che non significava altro che guai. “In base a quello che ci racconterai oggi, in base a tutto quello che succederà qua fra di noi, forse potresti addirittura meritarti un posto più caldo dove poterti riposare.”

Italia sbatté di nuovo le palpebre per abituarsi alla luce che regnava nella stanza e si guardò attorno.

Una camera come un’altra, un piccolo ufficio che profumava di pelle e cera per superfici di legno, di quell’aroma speziato che gli aveva solleticato il naso anche quando si era trovato stretto a Russia. Niente catenacci ai muri, niente tavoli con ganasce, niente file di coltelli per lacerargli la carne, niente collezioni di pinze per cavargli le dita, niente valigette di martelli per rompergli le ossa, niente ferri roventi per ustionargli la pelle, niente cappi di corda per soffocarlo, e niente catini d’acqua gelida dove fargli tuffare la testa e annegarlo. Una doppia lampada a soffitto gettava la sua luce e riempiva l’ambiente di un riverbero biancastro. Teli neri pinzati da spilli tappavano i vetri delle due finestre, in modo che da fuori non penetrassero né raggi di sole né raggi di luna. Non c’erano orologi, e il tragitto dalla prigione sotterranea alla stanzina si era districato fra corridoi bui senza alcuno spiraglio sull’esterno. Italia non seppe riconoscere se fosse giorno e o notte.

Un viscido brivido d’inquietudine si arrampicò dalle sue gambe e si annodò alla bocca dello stomaco. “M-ma cosa...” Italia si soffermò sul viso di Russia, su quella sua espressione rosea e luminosa, e spinse un piede all’indietro, guidato da un istinto bruciante che gli gridava di scappare via, di averne paura. In viso si fece ancora più pallido, cinereo sotto le palpebre gonfiate dalle ore di pianto. “Cosa vuoi farmi?”

Russia tenne gli occhi socchiusi, le labbra incurvate. “Solo una piacevole chiacchierata, non trovi?” Rivolse un cenno del mento a Lituania.

Lituania annuì e chiuse la porta alle spalle di Italia, diede due giri di chiave, la sigillò, e si riportò al suo fianco assieme a Estonia.

Russia tese un braccio verso la parete, accese un altro interruttore, spalancò un’ennesima luce sulla camera, e scostò la sedia per accomodarsi alla scrivania. “Ora che siamo soli, Italia, senza nessuno a disturbarci e a interferire...” Si sedette, piegò i gomiti sul ripiano, intrecciò le mani, e il suo sorriso divenne di colpo cupo, viscido come un cubetto di ghiaccio infilato sotto la giacca. “Cerchiamo di divertirci come si deve.”

Ebbe inizio la tortura.

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_