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Autore: BrainscanSF    06/03/2019    0 recensioni
In un mondo diviso tra regni in lotta, dove la nobiltà regna sovrana a scapito del popolino, è difficile trovare il proprio posto. Lo sa bene Ignis, che ha fatto della sopravvivenza un'arte. Messa da parte ogni ambizione, il giovane divide le sue giornate tra scorrerie e bevute al pub; sarà l'incontro con Scilla, capricciosa aristocratica fresca di diseredamento, a metterlo di fronte a un bivio: perseverare in una vita priva di sbocchi o rischiare il collo nel tentativo di riportarla a casa, nei Quartieri Alti? La risposta sembra scontata, ma l'impresa non è facile come potrebbe sembrare, nemmeno per chi, come lui, può contare su pessimi modi e un'ironia discutibile...
"Non possiamo sapere quando la nostra vita prenderà una piega imprevista. Possiamo provare a prevederlo, tutto qui. Ma io so che la fortuna è imprevedibile, viceversa per i suoi tragici rovesci. Non so come definire lei. Non so come definire noi.
Non possiamo sapere quando la nostra vita prenderà una piega imprevista, è vero, ma possiamo scegliere di scappare o di affrontare di petto l'ignoto. Io lo so. Mi è appena successo.
Cosa ho scelto? Be'..."
Genere: Avventura, Erotico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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La tensione si taglia col coltello. Improvvisamente siamo i protagonisti della serata. Sarei un ipocrita se dicessi che la cosa mi dispiace. Voglio che l'umiliazione pubblica di questa donna sia totale, cocente e assoluta, in modo che tutti loro, dal primo all'ultimo, capiscano chi è che comanda. Questa sera si gioca Fondo degli Ultimi contro Linguadiragno: nessuno sconto.
Ci misuriamo a vicenda, fermi uno di fronte all'altra.
Lei guarda in su, verso di me, deve tenere la testa reclinata all'indietro per farlo. Ed è buffo che una cosa del genere mi passi per la testa proprio ora, ma non avevo ancora notato il colore delle sue iridi, e vederlo ora, con questa intensità, mi lascia un po' stranito. Violetto. Un suggerimento, un timido suggerimento, “color pervinca”, si affaccia nella mia mente annebbiata, e sì, posso affermare che i suoi occhi replichino proprio quella precisa sfumatura di viola, più scuri attorno alla pupilla, per poi sfumare al lilla al confine con la sclera.
Color pervinca. È un fiore, giusto? La pervinca è un fiore.
È come se il cervello mi nuotasse nella scatola cranica, e all'improvviso l'idea di darmi un pugno sulle palle mi sembra un'ottima idea. Ma certo, perché non ci ho pensato prima? Ora mi colpirò le palle, piazzerò un bel destro che mi faccia strabuzzare gli occhi e... Già pregusto l’istante in cui tutta l'aria nei polmoni se ne uscirà sotto forma di sbuffo improvviso, lasciando il campo ad un poderoso urlo in cui trovi scampo il dolore lancinante che sto per infliggermi.
Tutto giusto. Questo è il piano. Ah! Quella splendida fanciulla dovrà rinunciare a quel sorrisetto, glielo cancellerò dalla faccia una volta per tutte!
No, non era così. Riproviamo. Quella splendida fanciulla avrà quello che si merita: una vittoria schiacciante. Sì, ecco, bene. Sarebbe così bello essere il suo schiavo. Non riesco ad immaginare nulla di meglio. Io voglio essere il suo schiavo. È la mia vocazione, l'unica cosa che conta davvero.
Forse la mia idea iniziale era un'altra, d'accordo, ma questa mi sembra nettamente migliore sotto ogni aspetto. Anzi, sento che posso anche spingermi oltre. Non solo posso, ma devo. Perché io per lei farei di tutto. Mi strapperei il cuore dal petto e lo arrostirei a fuoco lento solo per servirlo a questa diafana bellezza.
È il momento. Faccio dondolare il pugno per imprimere più forza al colpo, e infine libero tutta la forza accumulata in un’unica, fluida distensione, lasciandomi andare persino anche ad un verso soddisfatto. Devo aver calcolato male le distanze, però, o forse qualcuno nel muro di folla alle mie spalle mie spalle mi ha spintonato all'ultimo momento, o entrambe le cose, perché malgrado le mie buone intenzioni (e con mio grande disappunto) l'assalto va a vuoto. Il pugno sfreccia a poca distanza dalla patta e dal suo prezioso contenuto, e per un attimo la mia mente si riempie del più profondo disgusto per me stesso: non sono altro che un verme strisciante, un indegno parassita.
Come se non bastasse, l'energia messa in quel tentativo mi sbilancia miseramente in avanti, facendomi finire lungo disteso prima che possa provare a stendere le braccia per fermare la caduta.  
Si sente un tonfo da far tremare le pareti. Il mio cervello esplode di pensieri incoerenti, furiosi.
Passano dieci secondi prima di rendermi conto di essere finito addosso a quella splendida creatura ultraterrena, e altri dieci per iniziare a percepire la fitta al torace.
Se non altro quella ha il potere di strapparmi potentemente all'oblio. Sento qualcosa allentare la presa, uno strappo dalle parti del cervello, e il filtro pastello che mi è sceso sugli occhi si dissolve. Tutto ritorna al consueto schifo, gli odori del pub (birra e piscio su tutto) tornano a invadermi il naso, e ora posso sentire distintamente la fiamma che mi consuma il torace.
«Aah... Brutta puttana...» esalo, rotolando su un fianco.
Ammettilo, Ignis, la spada non l'avevi proprio prevista.
«Ah... AARRGH!» Stringo i denti, la estraggo con un colpo solo e la getto via. Disegna un semi-cerchio scuro sul pavimento, e io non posso credere a quello che vedo: il mio sangue mi imbratta le dita, rosso e viscoso. Quella ricca stronza mi ha trapassato col suo stuzzicadente.
Il mio sgomento muta repentinamente in furia cieca quando noto la salva di braccia che si stende per rimetterla in piedi, spolverandole la gonna con gesti affettati e adoranti. La mascella mi sprofonda ulteriormente verso il basso quando vedo che nel nutrito gruppo che si prodiga per portarle un bicchiere d'acqua e farla accomodare ci sono anche i miei compari, Carlo in testa a tutti.
Voglio dire... Carlo! Proprio quello che passa le giornate ad aspettare che la vicina sessantacinquenne diabetica e patologicamente obesa metta i reggiseni sullo stendino; lo stesso che nel tempo libero spara ai piccioni con la fionda o preannuncia ogni scorreggia con un roboante "Ecco la vendetta di Surgatanus!". Proprio lui.
Non che gli altri abbiano giustificazione, chiaro. Quello che si prodiga tanto a sbracciarsi per far aria alla principessa, Oscar, l'ho visto con i miei occhi staccare la testa di un serpente coi denti e masticarla tutto soddisfatto. Tanto per dire.
E ora eccoli tutti presi in quella coreografia ridicola, mentre l'oggetto del loro desiderio allontana le mani con aria infastidita, beve a labbra strette, storna il viso schifata facendo mulinare vezzosamente i riccioli biondi.
«Cielo, è stato oribìle» esala il fulcro di quelle attenzioni, posandosi la manina bianca sulla fronte. «Ho ponsato di morire sotto ad un jigantesco bruto sonsa alcun senso pour la mode.»
Senza senso della moda? Istintivamente, prima che possa impedirmelo, abbasso lo sguardo sulla mia tenuta in pelle, ed è lì che lei mi coglie, il nasino aristocratico arricciato per la disapprovazione.
«Ignis. Come hai potuto?»
«Ma vaffanculo, Carlo! Sto sanguinando, cazzo! Vi sta masturbando il cervello con qualche potere ipnotico.»
Sollevo cautamente la mano dal buco prodotto da quel dannato fioretto, e il sangue riprende a sgorgare. Alla fine il trucchetto si palesa in tutta la sua semplicità. Nel caso mi servisse qualche altra motivazione per odiarla, eccola qui: normalmente nemmeno i nobili sono autorizzati a servirsi dei Doni su altri esseri umani, ma è evidente che per lei siamo alla stregua di animali su cui affilare gli artigli. Non ha esitato a scatenarsi a piena potenza, e la sua presenza invade la stanza. Il risultato è qualcosa a metà tra il tragico e l'esilarante, una visione che mi accompagnerà per molto tempo.
La Signora delle Camelie si avvicina con degnazione, ondeggiando sui tacchi.
Alle sue spalle lascia occhi sconvolti, teste che si girano smarrite, bocche semi-aperte di chi sta cercando di raccapezzarsi su quello che è accaduto negli ultimi minuti. Rimasti improvvisamente orfani della loro divinità, gli avventori del pub si guardano attorno boccheggianti, ma lei non presta loro la minima attenzione, veleggiando verso di me come se stesse fluttuando nell'aria.
«Imajino di dovermi occupare di voi, ora» sospira, con una smorfia.
«Cosa diavolo intendi dire?»
Per un secondo (è più forte di me) la vedo china al mio capezzale con una cortissima divisa da infermiera che mette in mostra la biancheria di lusso. Poi ricordo la scintilla di malizia che ho colto nei suoi occhi, la noncuranza con cui si è rivolta a noi dal suo piedistallo dorato, e ogni illusione svanisce. Non la speranza, però. Perché a dispetto della sua raccapricciante personalità, il suo aspetto esteriore continua a farmi un certo effetto.
Emette una risatina affettata. «Che divertonte» gorgoglia nel suo accento ostentato delle classi alte. «Anche come perdente non avete smarrito quel vostro spirito così... agreste.»
«Nonono, aspetta, frena un attimo, bella! Chi ha detto che ho perso? Chi l'ha deciso?»
«Ma io l'ho desciso, sciocchino!» ride. «Avete chiaramente gridato. Vi abbiamo sontito tutti distintamente.» E a conferma delle sue parole, alle sue spalle si scatenano applausi educati, flemmatici, da platea di ottuagenari ad una partita di croquet («Una superba vittoria, signorina» si complimenta Carlo).
«Cosa... Aspetta. COSA?» Ora sì che urlo, incurante del flusso di sangue che aumenta a vista d'occhio, imbrattandomi i pantaloni. «MA SE NON MI HAI NEMMENO COLPITO!»
Non mi dà nemmeno la soddisfazione di sobbalzare, ripagandomi per la copiosa perdita di sangue che la mia protesta ha innescato. Se ne sta lì con la testa piegata di lato, le labbra piegate in un sorrisino di compatimento, a guardare mentre mi prosciugo.
«Suvvia, non preoccupatevi. Oserei dire che questa scommessa è stata oltremodo amusant. Imajino sarete impasionte di prendere servisio
«ASSOLUTAMENTE NO!»
«Un piccolo appunto, prego.» Il sorriso le si è congelato, i suoi occhi brillano improvvisamente in una maniera che non mi piace. «Non amo che mi si dica di no.» Butta fuori il labbro inferiore in un incantevole broncetto.
«MA CHI SE NE IMPORTA DI QUELLO CHE...» Vengo interrotto da un potente accesso di tosse che mi mozza il fiato. Sento di stare vivendo l'episodio più surreale della mia intera esistenza.
«Vi prego di considerare la cosa sotto un'altra lusce. Pour esompio...» Di nuovo, la sua versione “porno-soft ospedaliero” torna a stuzzicare la mia immaginazione. La caccio via debolmente, con riluttanza. «Potrei pagarvi le spese mediche. Scibo, allojo, dei vestiti descionti» elenca. «Je me sens magnanime. Non dovete preoccuparvi minimamente per essere caduto sulla mia spada» mi rassicura, conciliante. «Non sono in collera con voi.»
«Ah. Ma pensa. Che culo» riesco a dire, debolmente, prima che il pavimento mi attragga inesorabilmente verso di sé.
Tutto viene avvolto dalla nebbia dell'incoscienza e io ci piombo attraverso con un carpiato liberatorio. Non voglio più sentire nulla. Abbraccio le tenebre ed esco di scena.
 
La prima cosa che vedo quando apro gli occhi è un viso dal candore lunare, con grandi occhi violetti che mi scrutano da sotto una cuffietta bianca. Un profumo delicato mi riempie il naso. La ragazza-sogno è qui, china su di me in un tripudio di tende candide gonfiate dal vento, e dalla divisa sbottonata fa capolino il pizzo del reggiseno. La sua sagoma pare quasi brillare nella luce del mattino.
«Come state, mio caro?» cinguetta, arrotando le erre. «Posso fare qualcosa per farvi sentire melio
«Be', pensandoci bene... qualcosa c'è.» Azzardo una sbirciata alla sua espressione, aspettandomi di vederla cambiare da un momento all'altro, chiudendosi come un cielo all'arrivo di un temporale, ma lei continua a sorridere amorevole.
Gli posa l'indice sulle labbra. «Credo di avere capito» dichiara, con un sorriso birichino. Senza esitazione, senza pudore, mi prende la mano e la guida sulla sua schiena, fino all'orlo della gonna. Quando raggiungo la morbidezza delle natiche vorrei piangere. Ci indugio il tempo necessario a seguire il nastro di raso del reggicalze che affonda nella carne, estasiato.
Sento come dei piccoli scoppi alle tempie, boati di fuochi pirotecnici lontani. Si può morire col cuore gonfio di felicità? In questo momento tutto mi sembra possibile.
«Voi avete un dono.»
«E non hai ancora visto niente, tesoro.»
«No, voi avete un Dono» ribadisce lei, tagliente.
Vengo strappato brutalmente al sogno e ributtato brutalmente nello stesso letto, sullo stesso cuscino. La scena è simile a quella che la mia mente ha ricostruito mentre ero in stato di semi-incoscienza, salvo che per l’atmosfera che vi si respira. La Valchiria è sì china su di me, ma la sua biancheria mi è preclusa dallo strato di organza di una camicetta e la mano che le ho posato sulla gonna viene schiaffeggiata, respinta. Anche il dolore al torace torna a reclamare i suoi diritti, pulsando da sotto la fasciatura.
Lo scricciolo mi pianta le unghie nel collo, parlando ad un centimetro dal mio naso.
«Comme c'est possible... Solo i nobili lo possiedono, e se sc'è una cosa di cui sono sicura è che non avete nemmeno una stilla di sangue nobiliare» sibila.
Come? La bambolina è arrabbiata?
Improvvisamente mi darei una pacca sulla spalla, congratulandomi con me stesso per essere riuscito ad incrinare quella sua maschera perfetta, anche se tutto quello che ho fatto, da che io ricordi, è stato dormire. Non è solo arrabbiata, è furiosa.
«Dono? Non capisco di cosa tu stia parlando.»
«Non fate l'innoscente» mi accusa. «Mi avete ingannata!»
«No, ma chère» ribatto, con la mia orrenda pronuncia nasale. Le tocco la punta del naso con l'indice. «Si dice "Tu m'as trompé".»
Il verso di frustrazione che le sfugge la strappa per un momento alla sua essenza divina, ma solo per un attimo. Quando si volta verso di me è di nuovo capace di trafiggere l'aria solo spostando una ciocca dietro l'orecchio.
«Comunque hai ragione. Non sono un nobile» confermo, calmo. «Sia lode a Falaride. Altrimenti sarei costretto ad atteggiarmi come te.»
«E allora come fate?» sbotta lei, impaziente.
«A fare cosa?»
«Lo sapete benissimo!»
«No, non lo so» ghigno dal mio cuscino, godendomela nella sua versione furente, con le guance arrossate.
«La mia spada vi ha trafitto in prossimità della milza» accusa lei, quasi che mi fossi lanciato appositamente sulla sua lama. «Ma contro ogni leje fisica, l'ha evitata.» Brandisce quella che sembra la mia cartella medica, sfogliandola con tanta foga da rischiare di strappare le pagine. «Nemmeno il dottore è in grado di spiegarlo! Ma io so» scandisce «che siete un bujardo
«Ehi, vacci piano, zuccherino, ok? Non sono stato io ad auto-eleggermi vincitore della nostra scommessa. Quindi non fare tanto la santarellina.»
«Mais il est impossibile! Il mio Dono non può fallire!»
Sollevo le spalle, con aria innocente. «Fortuna?»
Non capisco perché sia tanto alterata. Dopotutto il mio Dono è solo una traccia impalpabile rispetto alla sua emanazione psichica. Forse questa tenera cerbiatta non ha mai provato l'ebbrezza di venire sfidata apertamente, fatto sta che è divertente vederla dimenarsi come una bambina capricciosa.
«Voi non avete idea di chi state sfidando.»
«Già, già, a proposito, tu saresti...?»
Lei prende fiato, ma non riesco a prevedere la sequela di nomi che si prepara a rovesciarmi addosso fino a che questa non mi travolge con tutta la sua spocchia.
«Je suis Priscilla Arabella Clairedelune de Noireforêt-Ravasse, duchesse de Cielsombre.»
«Quindi sei un pezzo grosso, lassù...»
«È esattamonte così.»
«E che ci fai quaggiù tutta sola?»
Per la prima volta sembra vacillare, per poi riprendersi alla velocità della luce. «Non che siano affari vostri, ma stavo... valutando delle proprietà immobiliari» risponde, con la dignità di una gran dama.
«Proprietà? Qui?»
«Per l'appunto.»
Approfitto del momento di quiete per riflettere. Ho l'impressione che mi stia nascondendo qualcosa, ma ci sarà tempo per indagare. La sua giustificazione zoppica, e non poco: se a Linguadiragno possono evitare la fatica di grattarsi il culo si può star certi che incaricheranno qualche lacchè che lo faccia al posto loro; per questo non ho creduto nemmeno per un secondo alla storiella sulle proprietà immobiliari. Quello che maggiormente mi colpisce, però, è la semplicità con cui ha rivelato la sua identità, che lascia trasparire tutta l'arroganza tipica dei nobili. Gli aristocratici che vivono lassù, nei loro giardini avvolti dalla Notte Perenne, sono convinti che il loro titolo possa salvarli da qualsiasi cosa. Ma qui siamo al Fondo degli Ultimi, dove è la sopravvivenza a dettare le regole della partita.
Tutto ciò è molto interessante. Noireforêt-Ravasse di Cielombrato: ho sentito parlare di loro, non proprio in termini lusinghieri.
Ma ecco il piano: sono un brutto ceffo, e ho a disposizione la figlia di un riccone. Vedete come le due cose si incastrano alla perfezione? Lo sentite il "click" dei due pezzi che vanno ad occupare il loro posto?
Mettiamo il caso che faccia arrivare al padre di questa fanciulla un certo messaggio che suona pressappoco così: "Se vuoi rivedere intatta la tua dolce creatura (e con intatta intendo sia dal punto di vista psico/fisico nonchè per quanto riguarda la sua preziosa virtù), fatti trovare al Molo Gitano venerdì notte con seicento pezzi d'oro. Non provare a coinvolgere la Gendarmeria, o a farne le spese sarà la ragazza." Ecco, se facessi una cosa simile, potrei star sicuro che quei pezzi d'oro verrebbero sganciati senza se e senza ma, in cambio della salvezza della preziosa erede.
Ora che ci penso, meglio fare ottocento. Anzi, ottocentocinquanta. Per loro non è nulla, rispetto al sollievo che proveranno quando potranno riabbracciare l’adorabile Prillabella o come diavolo si chiama. Magari non sembra, ma amo le storie a lieto fine. Sono solo uno qualunque a cui è capitato di trovare una fortuna in dobloni d’oro mentre piantava bulbi di tulipano in giardino, tutto qui.
«Io sono...»
«Temo che questo non abbia alcuna rilevonsa.» La mia sirena pone ancora una volta l’accento sulla sua amabile personalità.
«Senti, signorina...»
«Potete chiamarmi Scilla» concede, con l'aria della sovrana che faccia una concessione al suo suddito preferito. «E darmi del voi, come si confà alla mia posizione.»
«Credo che dovremmo rivedere i termini della scommessa. Scilla.»
«E perché mai?»
Ora attento, Ignis. Cerca di prenderla con le buone. Fattela amica.
«Be', perché se sei... se siete scappata di casa come penso, avrete bisogno di un amico, più che di uno schiavo.»
«Amico?» ripete, incredula. «Per gli Oscuri, siete davvero presuntuoso! Sapete con chi state parlando, almeno?»
Presuntuoso io?
«Io sì, e tu?»
Il silenzio si dilata tra noi. Spero che lo usi per riflettere sulla disparità fisica che c'è tra noi, e che tragga le sue conclusioni. Se mi rende suo nemico, dovrà accettarne le conseguenze.
«No, e non mi interessa» dice invece, altezzosa.
A quel punto mi muovo. Scendo dal letto con uno scatto, il lenzuolo che si deposita lentamente alle mie spalle. Quel che lei non sa è che ho saggiato le mie reazioni fisiche per tutto questo tempo, mentre parlavamo, e ora sarei pronto ad acchiapparla anche se provasse a fuggire. Sono allenato, e ho le gambe lunghe.
«State indietro. O ve ne pentirete.»
No, Scilla, questa volta non andrà come vuoi tu.
«Non ho motivo di farti del male.»
I suoi occhi si spostano rapidamente, da me alla porta, dalla porta a me. Sta cercando di calcolare tempi e distanze, ma nell'equazione la mia reattività costituisce un'incognita. Quanto al fioretto, giace ai piedi del letto, dove lei stessa l'ha lasciato. Non può prenderlo senza arrivare alla mia portata.
Arretra di un passo.
«Siete impazzito? Verrete impiccato se osate toccarmi con quelle sudisce mani! Vi ordino di fermarvi.»
«Nessuno sa che sei qui.»
«E di voi lo sanno, invesce
Non raccolgo la provocazione. Invece, afferro la sua spadina, lo stuzzicadente col quale mi ha pugnalato. «Ti riporterò a casa, che ti piaccia o no. E nel frattempo mi tratterai civilmente. Come un essere umano.»
A quel punto, accade qualcosa che non avevo previsto. Il suo minuscolo corpo viene percorso da un tremito, le braccia risalgono intrecciandosi attorno al busto e d'un tratto la mia bambolina scoppia in un pianto a dirotto, mentre le spalle delicate sussultano al ritmo dei singhiozzi.
Persino in un momento come questo è da togliere il fiato, al punto che arrivo ad un passo dal cedere, proponendole un piano alternativo talmente folle che basta il pensiero a farmi diventare le orecchie bollenti. Mi vedo ad intascare il riscatto e a fuggire con lei da qualche parte, lontano dall'ombra incombente della capitale, obblighi nobiliari e qualsiasi altra cosa. Se mi sforzo posso persino visualizzare dei bambini, sani, biondissimi, con la pelle color caffelatte.
Ma, ecco, già è difficile dover dire una cosa del genere, e di sicuro le sue lacrime non aiutano.
«Senti, Scilla...»
«Non posso tornare a casa» mi interrompe lei, il trucco che le si scioglie sulle guance.
«Non...»
«Sono stata diseredata.»
Oh. Questo è un duro colpo per le mie speranze, devo ammetterlo.
«Se torno mi uscideranno. Non ho più alcun titolo nobiliare. Non mi rimane nulla.»
Mi sono avvicinato a lei senza nemmeno rendermene conto, mentre i nostri figli immaginari salutano agitando le manine paffute, prima di svanire del tutto.
«Come potrai intuire, non ho alcun valore. Questa casa» compie un cenno in direzione della camera piena di sole, al centro della quale il mio senso di colpa emerge come sotto l'occhio di un riflettore «l'ho pagata col denaro del mio fondo fidusciario. L'ho prelevato poco prima che venisse conjelato
Alla fine piega le gambe affusolate, lasciandosi cadere sul pavimento in una posa struggente.
È ingiusto che sia così bella, che le sue lacrime mi tocchino così profondamente. Il suo dolore mi scava dentro una voragine che poco a poco va a riempirsi di indignazione.
A situazioni invertite, lei si sentirebbe altrettanto coinvolta? Non lo so, e a dirla tutta nemmeno mi interessa.
Per la prima volta sono consapevole di avere due braccia lunghe, ingombranti. Non so bene dove metterle. Se le tengo lungo i fianchi sembrerò un idiota, ma se provo a toccarla, solo per solidarietà, temo che lei possa ritrarsi.
Alla fine depongo il fioretto sul comodino, prendo un fazzoletto dalla scatola lì accanto e mi avvicino per porgerglielo, senza toccarla.
«M-merci» mormora, prendendolo. Mentre si tampona le palpebre è l'immagine stessa dell'infelicità, e io sono ormai pronto per dare la scalata a Linguadiragno con un coltello tra i denti, per farla pagare a tutti i suoi parenti.
Lentamente, con esitazione, la sua mano si fa avanti per stringermi il polso. È piccola e morbida, la mano di chi non ha fatto nulla di più faticoso nella vita che reggere il ventaglio. La guardo attonito, senza parole.
«Non ve ne andate» supplica lei.
No. Non me ne vado. Non l’avrei fatto comunque, con ogni probabilità, ma quella richiesta supplicante mi ha incollato al pavimento, legandomi a doppio filo alla sua stessa sorte. Mi rendo conto che dovrebbero far saltare in aria il pavimento sotto i miei piedi per indurmi a muovermi, e forse non basterebbe in ogni caso.
Non possiamo sapere quando la nostra vita prenderà una piega imprevista. Possiamo provare a prevederlo, tutto qui. Ma io so che la fortuna è imprevedibile, viceversa per i suoi tragici rovesci. Non so come definire lei. Non so definire noi.
Non possiamo sapere quando la nostra vita prenderà una piega imprevista, è vero, ma possiamo scegliere di scappare o di affrontare di petto l'ignoto. Io lo so. Mi è appena successo.
Cosa ho scelto? Be'...
   
 
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