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Autore: Saelde_und_Ehre    06/03/2019    11 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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II.
Feuer Frei!


“Giù!” si sentì gridare.
Il tenente von Kleist si gettò a terra fino quasi ad affondare il viso nel fango, ricaricò l’MP38 e rispose al fuoco dei fanti in avvicinamento. Subito dopo, un obice da artiglieria campale fendette l’aria greve e impattò contro il fianco del crinale, sollevando schizzi di mota e detriti. L’odore acre della polvere da sparo invadeva le narici e faceva pizzicare gli occhi, il fumo delle esplosioni aveva sollevato una caligine bollente che si andava sempre più addensando. In sottofondo qualcuno bisbigliò un’imprecazione, subito soffocata dalle rampogne del maresciallo capo Eichmann.
Friedrich si tirò su e scivolò dietro l’ostacolo naturale costituito da un tronco caduto, lasciandosi cadere il mitra sulle ginocchia. Le raffiche di proiettili erano momentaneamente cessate, e per un po’ nell’aria risuonò soltanto il rombo cupo delle detonazioni. Il giovane appoggiò la schiena al riparo improvvisato e si passò una mano sul viso: il sudore gli scendeva dalla fronte in sottili rivoli, mischiandosi alla polvere che gli imbrattava le guance. Aveva le mani solcate da graffi e i pantaloni bucati in più punti, mentre l’uniforme grigioverde era chiazzata di fango.
Sganciò la borraccia dalla cintura e trangugiò un generoso sorso d’acqua, svuotandola per metà, quindi si fece di nuovo scivolare l’arma sulla spalla, si alzò in piedi e inforcò il binocolo per avere una visione più ampia del campo. Vide Kühn accanto a una delle mitragliatrici pesanti e Hartmann che trafficava intorno all’obice da campo, forse nella speranza di scroccare un pacchetto di sigarette da Schneider; Körner si guardava intorno con l’aria di una bestia braccata e Wessel osservava la mappa insieme al capitano, le braccia incrociate dietro la schiena. Acquattati tra i ciuffi d’erba alta, soldati armati di fucile e sottufficiali che ricaricavano le mitragliatrici leggere MG 34 in attesa dell’attacco successivo.
“Obiettivo individuato, signor tenente,” annunciò Walther Eichmann, con la sua solita flemma.
“Quanti?” chiese von Kleist.
“A occhio e croce, direi due compagnie.”
“Plotone, ai propri posti!” ordinò secco il tenente, alzando la voce.
Lanciò, attraverso le lenti, un ultimo sguardo ai soldati polacchi avvolti nella caligine, poi approfittò del riparo fornito dagli alberi per strisciare di nuovo al fianco del sottotenente Kühn: di solito i comandanti di plotone e di compagnia prendevano parte alle battaglie da una posizione più riparata, ma l’orgoglio di von Kleist gli impediva di tenersi troppo a lungo lontano dalle prime linee.

L’aria, gravata dal tanfo delle deflagrazioni, era irrespirabile, e gli ordini dei comandanti di compagnia si udivano appena al di sopra del frastuono prodotto dall’artiglieria e dal crepitio delle sparatorie. La postazione del tenente Friedrich von Kleist, una misera barriera di sacchi di sabbia accatastati l’uno sull’altro, era crivellata da diversi colpi.
Il giovane si abbassò per schivare una bordata di proiettili e ricaricò per l’ennesima volta il mitra, rendendosi conto che le munizioni appese alla sua bandoliera stavano per esaurirsi. “Maledizione,” ringhiò tra sé, con voce appena udibile. Frugò nelle cassette di legno sparpagliate ai suoi piedi, nella speranza di rimediare qualche caricatore, ma fu costretto a mandare una giovane recluta a recuperarglieli.
Rimase per qualche istante a guardare il ragazzo che si allontanava trotterellando, poi sollevò la testa, schermandosi gli occhi con la mano per proteggersi dai raggi del sole che filtravano tra le foglie: l’astro diurno era già alto in cielo, ma l’orologio che portava al polso segnava a malapena le undici del mattino. Qualcosa gli suggeriva che sarebbe stata una lunga giornata.
“Ecco a lei i caricatori, signore.” La voce adolescenziale del soldato Schreiber, di nuovo di ritorno, lo riscosse dai suoi pensieri.
Von Kleist rispose con un cenno d’assenso. “Grazie, Peter, puoi lasciarle qui.”
Il ragazzo gli consegnò le cassette e rimase fermo, come in attesa di un ordine.
“Forza, va’ ad aiutare il sottotenente Kühn. Non c’è tempo da perdere!”
“Signorsì,” esclamò il più giovane, mentre un sorriso impacciato gli disegnava due fossette sulle guance; salutò militarmente e si dileguò.
Questa giornata non è ancora iniziata, altroché, pensò rassegnato l’ufficiale, ricaricando la sua arma.

“Signore, abbiamo una comunicazione urgente dal primo battaglione!” tuonò all’improvviso l’operatore radio Hofmeister.
Il capitano Bentheim, senza lasciare la sua postazione di comando, si mise in ascolto. “Mi dica, sergente.”
“Il maggiore Lützow è rimasto ferito in uno scontro a fuoco con la fanteria polacca, e richiede un urgente intervento di soccorso!”
“Un intervento di soccorso… di che entità?”
Hofmeister ripeté la domanda e rimase in attesa che gli pervenisse la risposta dall’altro capo della trasmissione. “Riferiscono che uno o due plotoni dovrebbero essere sufficienti, signor capitano,” rispose poi, abbassando le cuffie.
“Dove si trovano, precisamente?”
“Nei pressi di un villaggio a circa due chilometri da qui, signore.”
Bentheim rifletté per qualche secondo. “Resti in linea e mi lasci conferire brevemente col capitano Fromm. Dopodiché ci accorderemo sul da farsi.”
“Sissignore.”

La Kübelwagen procedeva sobbalzando sul terreno irregolare e sterrato, dove le impronte ancora fresche dei carri armati avevano lasciato profondi solchi circondati da zolle di terra. Seduto sul sedile posteriore della vettura, un braccio appoggiato al finestrino, il maggiore Hans Bühler scrutava il paesaggio verdeggiante, che pareva estendersi a perdita d’occhio in qualunque direzione egli guardasse: dolci rilievi irti di alberi rendevano frastagliata la linea dell’orizzonte, mentre le nubi incombenti nascondevano alla vista gli aerei da caccia che sorvolavano il cielo.
Dopo un po’ abbassò lo sguardo sulla cartina che teneva dispiegata di fronte a sé e confrontò il paesaggio con le linee che vi aveva tracciato in precedenza.
“Dove ci troviamo esattamente, signor maggiore?” domandò il capitano Schwieger dal sedile accanto al suo, più per un tentativo di intavolare una conversazione che per compensare una lacuna che non aveva.
Senza alzare la testa, Bühler indicò un punto col pennino della stilografica e seguì l’andamento serpeggiante dell’itinerario. Uno stormo di aerei in volo verso est passò sulle loro teste a gruppi di tre, accompagnato dal suo basso e inconfondibile ronzio. Hans riconobbe le ombre sottili e affusolate dei caccia Messerschmitt Bf 109.
“Ho ricevuto in mattinata un messaggio urgente dal colonnello Wolff,” disse poi. “Francia e Inghilterra hanno ufficialmente dichiarato guerra alla Germania.”
“Mi perdoni, signore, ma la notizia era nell’aria già da giorni: ne stavamo soltanto attendendo la conferma,” osservò Schwieger.
“E l’abbiamo ottenuta.” Hans arrotolò la cartina e la ripose nel portadocumenti che teneva assicurato alla cintura, poi tastò il portasigarette di metallo come per accertarsi che fosse ancora lì e prese a tamburellare nervosamente le dita sulla coscia: si era svegliato con uno strano presentimento, ma non riusciva ancora a capire di cosa si trattasse.
Schwieger cercò ancora una volta di intavolare con lui una conversazione, parlando del più e del meno e ponendogli domande di circostanza a cui il maggiore rispondeva con frasi brevi e tronche. “Spero che questa guerra finisca presto,” disse poi.
Hans si strinse nelle spalle, ma non replicò: se anche avesse desiderato tradurre i suoi pensieri in parole, non avrebbe potuto farlo, e in ogni caso non ne aveva mai sentito alcun bisogno.
“Quando sono partito, mia moglie mi ha lasciato queste.” Schwieger infilò una mano nel taschino dell’uniforme e ne trasse due fotografie sgualcite: una lo ritraeva con la divisa delle SA, in compagnia di una donna bionda vestita di bianco che gli teneva il braccio; l’altra era il primo piano di una bambina sui cinque anni, coi boccoli dorati e le gote paffute. “Questi siamo io e mia moglie Helga il giorno del nostro matrimonio… questa invece è mia figlia, Lotte.” Nel menzionarla, gli occhi celesti dell’uomo si accesero di entusiasmo. “Era così felice al pensiero che il suo papà avrebbe combattuto per la Patria!”
Bühler, disorientato da quell’improvviso slancio, stirò le labbra in un tenue accenno di sorriso. “Rivedrà presto sua moglie e sua figlia, ne sono sicuro.”
Schwieger diede un’ultima occhiata alle fotografie, poi le rimise nel taschino. “Non gliel’ho mai chiesto, signor maggiore… lei non ha mai pensato di accasarsi?”
A quella domanda, Bühler aggrottò le sopracciglia e si irrigidì in un moto involontario, come ogni volta che percepiva qualche domanda come un tentativo d’intrusione nella sua sfera privata. Scosse la testa e ammise: “Non credo di essere fatto per il matrimonio, capitano.”
Per nulla meravigliato da una simile reazione, il capitano annuì: Bühler eludeva sempre discorsi del genere, e aveva un carattere così schivo e riservato da procurargli, in caserma, il soprannome uomo di ferro. Guardava fisso di fronte a sé e i suoi occhi assumevano alla luce del sole una tonalità calda e ambrata. Dall’aspetto sembrava ancora più giovane di quanto non fosse, tanto che chi non lo conosceva lo scambiava per un capitano e si accorgeva dell’errore solo dopo aver visto le mostrine intrecciate sulle spalline della sua uniforme, ma doveva essere un uomo molto solo se non concepiva altra vita al di fuori di quella militare.
Comprese tuttavia che forse era meglio non indagare ulteriormente sulla vita privata del suo commilitone e si volse dalla parte opposta.
Hans appoggiò la guancia al pugno chiuso e tornò a guardare fuori dal finestrino; ogni volta che qualcuno gli rivolgeva simili domande, la sua risposta era sempre, invariabilmente quella. Vivere nell’elusione non era peggio che vivere nella menzogna, ma quella non era che una mezza verità. Egli credeva fermamente che la vita militare fosse l’unica dimensione in cui l’Eros potesse sublimarsi: mentre l’unione tra uomo e donna aveva una natura tellurica, finalizzata alla procreazione e alla prosecuzione della razza, il Bund risvegliava nell’uomo il genio creativo e gli impulsi eroici. Era così che aveva deciso di abbandonare gli agi borghesi in cui era cresciuto; era così che lui e il tenente von Kleist, superati gli ostacoli iniziali, erano andati ben oltre i rapporti camerateschi.
Una colonna di fumo nero che si levava lenta in lontananza lo ridestò da quelle considerazioni. Scattò prontamente in piedi, incurante dei sobbalzi della vettura, afferrò il binocolo che teneva appeso al collo e scrutò la pianura.
“Reparto di fanteria motorizzata polacca in avvicinamento,” esordì, con lo stesso tono pacato che avrebbe potuto usare per annunciare l’arrivo del postino. “Suppongo che dovremo prepararci a combattere.”

Le strade del villaggio, un agglomerato di modeste casupole che s’inerpicava lungo il fianco di una collinetta, erano quasi completamente deserte. Non c’era traccia dei bimbetti biondi e cenciosi che il sottotenente Erich Kühn si sarebbe aspettato di trovarvi, né di vecchi contadini di ritorno dai campi col cappello di paglia in testa e la vanga sulla spalla; probabilmente, tutta la popolazione era stata evacuata prima ancora dell’arrivo delle truppe della Wehrmacht. La quiete innaturale che regnava per quelle calli dava l’impressione di star attraversando un paese fantasma, ma il fragore dello scontro armato era così forte da far tremare i vetri delle abitazioni, e per terra si scorgevano bossoli di proiettili che lasciavano presagire che qualche scontro isolato si fosse propagato fin lì.
Friedrich von Kleist guidava il gruppo, procedendo guardingo e controllando ogni anfratto, il fedele mitra che gli pendeva dalla spalla. Erich lo seguiva a qualche passo di distanza, in silenzio. Alle loro spalle si udiva lo scalpiccio dei soldati che marciavano e il rumore metallico delle ruote degli obici da 105, trascinati da Schneider e dalla sua squadra. L’unico a mormorare, paventando l’ennesima sventura, era il maresciallo Eichmann.
All’improvviso, un cane da pastore sbarrò loro la strada ringhiando e appiattendo le orecchie. Sembrava un incrocio tra un pastore tedesco e una qualche altra razza locale.
“Ehi, bello.” Un soldato si chinò e schioccò le dita per attirarlo, Krause emise un fischio. “Vieni, bel cagnolone!”
Per tutta risposta, l’animale abbaiò scuotendo vigorosamente la coda.
“Mi sa che non capisce il tedesco,” borbottò il soldato Bauer.
“I cani sono territoriali”, replicò asciutto il maresciallo Eichmann, con l’aria di proferire una verità rivelata. “Fino a prova contraria, questo è il suo territorio.”
Erich Kühn si fece avanti, raccolse da terra un legnetto e lo lanciò. Come rispondendo a un istinto consolidato da un lungo addestramento, il cane scattò di corsa, lo afferrò tra le fauci e glielo riportò docilmente. “Bravo, Otto.” Il ragazzo sorrise e si abbassò per elargirgli una grattatina tra le orecchie, che la bestia ricambiò con una vigorosa leccata sul viso.
“È riuscito a conquistarlo, sottotenente”, osservò Krause, con un fischio.
Friedrich von Kleist lo affiancò, guardandolo sbalordito. “Otto? Come Bismarck?”
“È il primo nome che mi è venuto in mente, signore. Gli stava bene”, disse il sottotenente, con un sorriso che accentuò le fossette sulle sue guance. Accarezzò ancora una volta la testa della bestia, che strofinò il muso contro la sua gamba. “Adesso da bravo, Otto, lasciaci passare.”
L’animale uggiolò e agitò la coda con più vigore, rivolgendo ai due ufficiali uno sguardo implorante.
“È affamato, signore,” constatò gravemente l’operatore radio Heinz Lindemann.
Kühn e von Kleist si scambiarono un’occhiata, poi il sottotenente rovistò nello zaino, tirò fuori una scatoletta di carne e gliela offrì.
Mentre il cane affondava il muso nell’inaspettata razione di cibo, i soldati riuscirono ad approfittare della sua distrazione per passare; ma quando si voltò di nuovo indietro, il ragazzo si accorse che li stava seguendo.
Avevano percorso appena un centinaio di metri quando il cane si fermò all’imboccatura di una viuzza tra due case, si sedette sulle zampe posteriori e riprese a uggiolare. Voltatosi verso di lui, il tenente von Kleist si avvicinò di un passo, la mano che sfiorava la fondina della pistola. “Che succede, Otto?”
La bestia gettò la testa all’indietro ed emise un ululato straziante, poi si accostò a una sagoma scura che giaceva per terra e la spinse col muso, tirandola e mordendola tra i guaiti. Erich Kühn si sporse in avanti e aguzzò la vista; in un angolo, ombreggiata da un albero ad alto fusto e dalla chioma frondosa, intravide la figura scomposta di un ragazzo in uniforme, sotto di lui un’ampia pozza di sangue che imbrattava l’erba e un fucile abbandonato poco distante: forse il padrone del cane.
“È un cadavere”, osservò, a bassa voce. “Un soldato polacco.”
“Poveraccio,” mormorò il sergente Hoffmann, scuotendo la testa.
Hanke si fece il segno della croce, nessun altro fiatò.
Richiamarono il cane a sé e la marcia tra le strade deserte proseguì in silenzio fin quando non si imbatterono in due soldati tedeschi che trascinavano a spalle un commilitone ferito. Li videro attraversare la stradina che avevano appena imboccato e dirigersi verso la piazza del villaggio, per poi adagiare il camerata sotto il sagrato di una chiesetta intonacata di bianco. Con la coda dell’occhio, Erich notò che proprio al centro della piazza era stata parcheggiata un’ambulanza e che già diversi feriti erano radunati intorno a essa.
“Signor tenente, potrebbero essere soldati del primo battaglione,” disse, rivolto a von Kleist.
L’altro guardò nella stessa direzione, poi rispose con un cenno d’assenso. “Allora sapranno sicuramente dove si trova Lützow.”

“Dobbiamo sfruttare l’effetto sorpresa,” disse il tenente von Kleist, scrutando l’ampia campagna da dietro un muretto a secco. Quelli che un tempo dovevano essere dei campi coltivati erano ridotti a una distesa di terra smossa ed erba bruciacchiata, dove le turbe confuse di soldati tedeschi, assediate su due fronti, si distinguevano dagli avversari in verde e marrone per il caratteristico colore Feldgrau delle uniformi. “Attaccheremo la fanteria polacca da tergo, in modo da coprire la ritirata del maggiore Lützow che al momento si trova al centro dello schieramento.”
Restituì il binocolo ad Eichmann e si volse verso i suoi sottoposti: era la prima volta che comandava un’operazione militare sul campo, nonostante le innumerevoli esercitazioni al fianco dell’allora capitano Bühler e i compiti che quest’ultimo gli affidava, e voleva accertarsi che comprendessero e rispettassero le sue indicazioni. Voleva che riponessero in lui la loro fiducia.
“Lindemann?” L’interpellato avanzò di un passo, mettendosi sull’attenti. “Si tenga nelle retrovie, pronto con la radio.”
“Signorsì, signor tenente”, rispose l’uomo, infilandosi le cuffie.
“Sergente Böhmer, faccia sistemare le mitragliatrici leggere a intervalli regolari, sfruttando la protezione del muretto.”
“Sissignore.”
Friedrich rimase per un istante a guardare i mitraglieri che approntavano le loro postazioni, poi si voltò verso la squadra di Schneider. “Caporale, attestare le bocche da fuoco in copertura all’ombra degli alberi. Tutti gli altri vengano in prima linea coi fucili, Hoffmann insieme a me. Alla mitragliatrice pesante staranno Kühn e Schreiber.”
“Sissignore!” risposero diverse voci all’unisono.
“E infine, Eichmann: si sistemi dietro una postazione di sacchi imbottiti e tenga d’occhio il centro dello schieramento, tenendomi informato di qualsiasi cambiamento significativo.”
Asciutto, il maresciallo annuì. “Sarà fatto, tenente.”
Friedrich si sentì scuotere da un leggero fremito di soddisfazione quando vide i suoi uomini disporsi senza indugio esattamente come indicato. Anche il cane, che dopo la morte del padrone si era unito a loro, si accucciò docilmente ai suoi piedi come in attesa di un ordine.
“Il suo plotone dovrebbe bastare. Conto su di lei, von Kleist”, gli aveva detto il capitano Fromm, e il tenente sperò con tutto se stesso di non deluderlo, di riuscire a portare a termine il compito che gli era stato affidato e di tornare al comando di compagnia insieme a tutti gli uomini che lo avevano accompagnato fin lì. Attese che tutti i soldati fossero ai propri posti e si sistemò dietro il muretto.
“Feuer frei!” ordinò infine, alzando la voce per sovrastare i sordi boati delle esplosioni. Il fallimento non era contemplato.

Fitte gragnole di proiettili guizzavano e crepitavano in un secco botta e risposta, il tonfo sordo dei mortai squassava la terra brulla. Ogni tanto, da quella cacofonia s’innalzava un’imprecazione, l’ordine urlato di un ufficiale o il flebile lamento di qualche ferito.
“Concentrare il tiro sulle linee più avanzate!” ordinò Friedrich von Kleist, l’eco degli spari che copriva la sua voce. “Gli obici puntino a neutralizzare le bocche da fuoco nemiche!”
Dal coro di ‘signorsì’ si levò un’unica voce discordante, quella roca e baritonale di Walther Eichmann. “Signor tenente…”
Friedrich si voltò verso di lui e lo trafisse con un’occhiata glaciale, ma il sottufficiale si limitò ad annuire sbrigativamente, apprestandosi a eseguire gli ordini; tuttavia, il dissenso che invano cercava di non lasciar trapelare era fin troppo palese.
Il tenente strinse i denti e rinsaldò la presa intorno al calcio della sua arma. Comprendeva perfettamente il senso di quell’implicita obiezione: avevano coperto le spalle al maggiore Lützow e sfoltito le retroguardie polacche come richiesto, e la priorità assoluta era raggiungere il capitano Fromm e il resto della compagnia. Ma come Eichmann non poteva permettersi di discutere apertamente i suoi ordini, neanche lui avrebbe potuto di propria spontanea iniziativa decidere di trattenersi sul teatro degli scontri, indipendentemente dalle motivazioni.
Me ne assumerò le responsabilità. Non ci vorrà ancora molto…
“Abbiamo assolto con successo il compito che ci era stato affidato, tuttavia ritengo che sia un atto di viltà ritirarci mentre dei nostri camerati sono in evidente difficoltà”, chiarificò poi, in tono intransigente. “Torneremo indietro quando la situazione si sarà stabilizzata.”
Senza attendere la replica dei suoi sottoposti, voltò loro caparbiamente le spalle e si avviò verso la propria postazione di comando.
Gli parve di udire il vecchio gufo borbottare qualcosa, ma lasciò che quelle parole si perdessero come un sussurro in quel clamore. In linea teorica, il maresciallo aveva ragione, ma egli era fermamente convinto che obbedire ciecamente agli ordini del capitano e abbandonare il primo battaglione in una situazione così delicata fosse molto peggio che tardare al rapporto. Gli uomini del suo plotone non potevano far altro che attenersi alle sue disposizioni.
Animato da questi pensieri, si sistemò l’elmetto sulla testa e si sporse oltre il muro: sembrava che la linea di fanteria che aveva ingaggiato lo scontro con loro si stesse diradando, ma erano ancora molti i caschi e le canne di mitragliatrice che si vedevano spuntare al di là della trincea naturale costituita dalla proda del campo.
Lo facciamo per una giusta causa, si disse.

L’aria fu lacerata da un sibilo assordante. Si udì uno scoppio, e una pioggia di sassi e schizzi di fango si abbatté sui serventi del 105, che furono costretti a buttarsi a terra per evitare di venire colpiti da un proiettile d’artiglieria.
“Dannazione,” ringhiò il caporal maggiore Schneider. Si voltò, e notò che alle sue spalle si era aperta una voragine di ragguardevoli dimensioni, al centro della quale giaceva l’ordigno ancora intatto. Il soldato Horn era finito in ginocchio ed era scosso da violenti colpi di tosse, mentre Schwarz si stava ripulendo i capelli neri dalla sporcizia che vi si era depositata.
“Tutto a posto, laggiù?”
Schneider lanciò un’occhiata in tralice al tenente von Kleist, che si era avvicinato di qualche passo per sincerarsi che nessuno si fosse fatto male, e gli rispose con un secco cenno d’assenso.
“Bene. Tornate ai vostri posti!” ordinò il giovane ufficiale, conciso.
Testardo come un mulo, pensò il graduato, aggrottando le sopracciglia, ma era ai suoi ordini da così tanto tempo che ormai non se ne stupiva più. Guardò la sua squadra che si ridisponeva per armare l’obice e si sollevò sulle punte dei piedi per analizzarne la canna di metallo, passando le dita sulla scalfittura. “Io lo dico che l’uomo di ferro s’incazza…” brontolò, parlando fra sé.
Schwarz si lasciò scappare una risata secca, retorica, il pesante proiettile sottobraccio. “Lei dice, caporale?”
“Oh, sì, dico”, rispose Schneider. “Lo conosco da quando era tenente, quindi so com’è fatto.” Si asciugò la fronte con la manica della giubba e si accese un’altra sigaretta. “Adesso, però, bando alle ciance. Vediamo di restituire il favore al bastardo che ci ha rovinato questo gioiellino!”
Il cannone brandeggiò verso l’obiettivo più vicino, poi vi fu un boato che squarciò la coltre densa. Dallo schieramento nemico si levò una nube di fuoco e fiamme.
“Centro!” esultò Horn, indicando il relitto fumante e ormai inservibile dell’obice da campo nemico. I soldati dell’equipaggio lo abbandonarono di corsa, piccoli come formiche da quella distanza, misero mano ai fucili e andarono a rimpinguare le file della fanteria.
“Questi polacchi sono agguerriti, signori”, osservò il maresciallo Eichmann.
La sua voce fu inghiottita dall’ennesima, lacerante detonazione.
“Prima linea, attenzione!” gridò il tenente von Kleist rotolando per terra e coprendosi la testa con entrambe le mani, poco prima che un proiettile d’artiglieria impattasse contro il muretto facendone crollare una larga porzione. Erich Kühn abbandonò la mitragliatrice pesante, agguantando la collottola del soldato Schreiber per trascinarlo via, e il ragazzo finì con la faccia nell’erba mentre il sottotenente gli faceva scudo col proprio corpo. Frammenti di pietra e calcinacci schizzarono in varie direzioni, i latrati furiosi del cane-soldato si sovrapposero ai gemiti dei feriti.
Il tenente e il suo subalterno furono i primi ad alzarsi: il primo aveva perso l’elmetto e i suoi capelli biondi erano sporchi di fango e fuliggine, il secondo aveva le ginocchia dei pantaloni sfondate e i palmi delle mani sbucciati.
“Hansen!” urlò allarmato von Kleist, notando uno dei fucilieri riverso per terra, mentre il cane abbaiava e gli leccava il viso. Il sergente Böhmer era stato colpito alla gamba da una scheggia di ferro e faticava a reggersi in piedi, mentre Holzwarth si teneva il fianco con una mano per arginare l’emorragia che gli colava tra le dita, stringendo i denti per non urlare. “Lindemann! Si metta in contatto coi medici da campo, presto! Abbiamo un’emergenza!”
“Signorsì, signor tenente!” rispose solerte l’operatore radio.
Parzialmente occultato dalle colonne di fumo, il cielo del tardo pomeriggio scolorava in una fosca tonalità grigiastra, presaga di pioggia.
“Siamo nella merda,” sentenziò lapidario il caporale Schneider.

Doveva essere da poco passata la metà del pomeriggio, e l’atmosfera appariva velata da una lontana nube di fumo, opaca e sempre più densa, che si confondeva con la tonalità bigia del cielo.
Il capitano Bentheim salì in piedi su un sasso che dava su una sporgenza del crinale, regolò le lenti del binocolo e scrutò la linea dell’orizzonte. A una prima impressione, gli parve che quella massa scura vibrasse e palpitasse in un moto convulso. Aggrottò le sopracciglia e strizzò gli occhi, solo per ricevere la conferma che attendeva e temeva. “Tenente Mertens!” chiamò poi, rivolgendosi al comandante di plotone più vicino.
Il giovane si fece avanti e si mise sull’attenti. “Problemi, signor capitano?”
“Richiedo tutti i comandanti di plotone e i sottufficiali a rapporto da me entro due minuti. Ah, e dica a Hofmeister di mettersi in contatto col capitano Fromm”, rispose Bentheim, senza staccare gli occhi dalle sagome dei carri armati che si stagliavano contro la plumbea coltre di nebbia. “Vedo una folta schiera di 7TP in avvicinamento da nord, e ho buone ragioni per supporre che abbiano tutta l’intenzione di dare battaglia.”
“Signorsì”, rispose il tenente, allontanandosi a grandi falcate.
Il capitano rimase assorto a pianificare la strategia mentre i suoi sottoposti giungevano alla spicciolata, chi con aria allarmata, chi fremendo d’esaltazione marziale; poi, quando furono tutti presenti, si lasciò ricadere il binocolo sul petto e ripeté quanto annunciato poco prima a Mertens. “Ritengo che tra dieci minuti, un quarto d’ora al massimo, saranno abbastanza vicini da costringerci a contrattaccare.”
Era la prima volta che si trovavano in condizioni di affrontare una sezione corazzata, per di più senza l’adeguato supporto dell’artiglieria controcarro. “Le unità corazzate partono sempre con l’errata convinzione di essere nettamente superiori alla fanteria. Questo costituisce per noi un vantaggio non indifferente, signori”, osservò, forse più per convincere se stesso che per rassicurare i suoi interlocutori.
Lanciò un’ultima occhiata torva all’orizzonte, poi si volse verso gli ufficiali radunati intorno a lui: il più giovane tra tutti, un sottotenente dall’aspetto efebico, si stava guardando intorno con aria smarrita, come cercando conferme nei suoi parigrado più anziani. “Ziegler, la affido alla sezione comandata dal tenente Mertens”, gli disse il capitano.
Il ragazzo accolse quella notizia con un sorriso raggiante e andò subito ad affiancare il collega.
Bentheim sorrise a sua volta. “Molto bene. Koch, faccia avanzare gli obici da campo.”
“Sissignore!” scattò il tenente, schizzando verso il centro dello schieramento come un veltro aizzato.
“Mertens, faccia distribuire le granate anticarro alle prime linee di fanteria!”
“Signorsì, signor capitano.”
“Per qualsiasi altra cosa, attendete un mio segnale. Forza, non c’è tempo da perdere!”

Senza scendere dal sasso che gli garantiva una visione privilegiata, Konrad von Bentheim riprese in mano il binocolo per tenere d’occhio la corazzata polacca. Gli sembrò che l’aria fosse diventata rovente, satura dello sferragliare di decine di cingoli. Li contò: erano otto carri, un paio di plotoni.
Dovremmo farcela da soli, rifletté, riservando un’occhiata circolare all’intero schieramento.
La sua compagnia si stava già preparando per fronteggiare l’inaspettato attacco, e probabilmente stava facendo lo stesso anche quella di Klaus Fromm, attestata a poche centinaia di metri da lì. Non si sentiva particolarmente in apprensione per l’esito dello scontro, anche se un sottile nervosismo si irradiava in tutte le sue membra, provocandogli un leggero tremito alle mani. Tuttavia, aveva fiducia nei suoi collaboratori, coi quali aveva condiviso la vita di caserma e la durezza dell’addestramento anche in tempi di pace: la divisione Ostpreußen era un’unità d’élite, nota in tutto lo Heer per lo sfiancante rigore a cui tutti, ufficiali compresi, erano costantemente sottoposti. E di conseguenza, per i forti vincoli di cameratismo che s’instauravano tra i suoi membri.
Mentre indugiava in simili considerazioni, il capitano raccattò una mezza dozzina di granate e se le infilò nella cintura, per poi avvicinarsi alle prime linee. Si riparò dietro un albero per poter prendere parte più attiva alla battaglia, sorvegliando al contempo l’operato del plotone mortai pesanti attestato poco distante da lì. Frattanto, i carri si stavano avvicinando sempre di più, sollevando una nuvola di polvere che sembrava volerli ghermire.
“Fuoco!” tuonò il capitano. Subito le cupe detonazioni dei pezzi d’artiglieria risposero all’ordine, riecheggiando da un capo all’altro del bosco.
“Offro una birra al primo che ne fa fuori uno!” si sentì esclamare.
Bentheim rimase in attesa, vigile come un falco. Appena il carro più avanzato si assestò sulla spianata e brandeggiò il cannone verso uno degli obici da campo, scoprendo il fianco, egli prese la mira e scagliò la granata. Travolto in pieno dal lampo aranciato della deflagrazione, il mezzo barcollò, si impennò raspando i cingoli nel pantano e si rovesciò emettendo un ululato straziante. I tre uomini dell’equipaggio lo abbandonarono di gran carriera e corsero al riparo.
Aveva appena realizzato ciò che era appena accaduto quando lo raggiunse un portaordini, le guance rosse e i capelli sporchi di terra. “Signore! Signor capitano!” gridò trafelato. “Il capitano Fromm rende noto che la sua compagnia ha intercettato e ingaggiato uno scontro a fuoco con un reparto di mitraglieri nei pressi della foresta!”
Bentheim si alzò e annuì. “Lo immaginavo, le unità corazzate non vengono quasi mai senza adeguato supporto di fanteria. Vorrà dire che ci penseremo noi a tenerli a bada, sempre che non abbiano in serbo altre sorprese.” Fece per congedarlo, ma l’altro rimase fermo. “C’è dell’altro, soldato?”
L’uomo esitò, poi abbassò la voce. “Il plotone del tenente von Kleist non ha ancora fatto ritorno, signore.”
“Avete provato a contattarlo via radio?”
“Sì, signor capitano… il caporale Lindemann ha riferito che il plotone si trova ancora al villaggio.”
“E il maggiore Lützow?”
“Ha raggiunto l’ospedale di campo più vicino poco prima delle due del pomeriggio.”
Bentheim controllò l’orologio da polso e aggrottò le sopracciglia: erano passate più di due ore. “Sono stati trattenuti dall’esercito polacco?”
“Sì, signore… cioè, non proprio. Ordini del tenente.”
Quando il soldato se ne fu andato, Konrad si passò una mano tra i capelli corvini ed esalò un profondo sospiro. Conosceva Friedrich così bene da non stupirsi affatto di certe sue iniziative. Probabilmente, il giovane aveva deciso di trattenersi più del dovuto, e per qualche ragione il suo plotone si era trovato sopraffatto dalla superiorità numerica dei nemici. Scosse la testa.
Lui e il tenente erano sempre stati legati da una profonda amicizia, fin dai tempi dell’adolescenza. Avevano condiviso molte cose al di fuori della vita militare, confidenze che nessun altro avrebbe mai dovuto ascoltare. Dopotutto, certi legami si consolidavano quando le persone in grado di comprendere, le uniche a cui poter concedere la propria completa e assoluta fiducia, spiccavano come vene d’oro in una miniera di metalli vili. Friedrich era l’unico ad aver conosciuto tutta la verità su di lui, l’unico di cui si fidasse a tal punto da confessargli i suoi più intimi tormenti.
Sperò con tutto se stesso che non gli fosse successo nulla.

  
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