Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
15 - La Giustizia
Nei
Tarocchi, la carta della Giustizia rappresenta la conseguenza logica di
ogni
azione, poiché è ordine e armonia che scaturiscono dalla natura, alla
cui base
sta una giustizia universale. Indica integrità morale e spirituale che
determinano onestà, disciplina e libertà di spirito. È regola ferrea, è
conseguenza di errori. Può significare il giudice, il ministro, l’uomo
di
legge.
Può anche voler dire resa dei conti, verifica, prova superata, virtù.
Se
davvero esisteva un Signore
Iddio, un Gesù Cristo portatore della parola divina o uno Spirito
Santo, quello
era un buon momento per assistere ad una manifestazione terrena del
potere
della fede.
Nonostante
le imposizioni che
gravavano su di lei, per via dei suoi legami di sangue con il Santo
Padre,
Gemma credeva in Dio ed era cresciuta rivolgendogli la sua fede e le
sue
preghiere.
Sebbene
la vita l’avesse messa
a dura prova, più e più volte, si era rifugiata nella preghiera e aveva
trovato
conforto nella speranza che ci fosse un potere molto più grande di
tutta
l’umanità, una forza inspiegabile che potesse permetterle di dire Tutto accade per una ragione.
Le
lunghe e affusolate dita
delle sue mani avevano spesso stretto le perle del rosario, in molte
preghiere
silenziose e condotte nella solitudine che a volte riusciva a
ritagliarsi.
Quando
il peso del suo ruolo
diventava troppo gravoso per poter essere sopportato, Gemma si
nascondeva sotto
pesanti mantelli di velluto e di broccato e fuggiva via, lontano da
Castel
Sant’Angelo e da San Pietro, per rifugiarsi in una piccola e anonima
chiesa di
Roma, una qualsiasi dove nessuno avrebbe pensato di cercarla.
In
alcuni momenti di calma in
Vaticano, papa Sisto la esonerava temporaneamente dai suoi incarichi e
la
esiliava a Imola, a governare la città. Per la contessa Riario, però,
quelle
non erano punizioni, ma preziosi momenti di pace in cui poteva tentare
di
illudersi di avere una vita normale, di essere solo una nobildonna, una
delle
poche donne a governare una città.
Anche
in quei momenti, la fede
era per lei un rifugio sicuro, in cui poteva nascondersi per tentare di
scappare dalla realtà.
Da
qualche giorno, però, Gemma
si era ritrovata più e più volte ad alzare gli occhi al cielo e a
chiedersi
quale preghiera avrebbe dovuto invocare per essere aiutata dal suo
Signore
Iddio.
Leonardo
era letteralmente
scomparso da Firenze, senza lasciare traccia. Da un giorno all’altro,
il
geniale artista si era dileguato e, dopo aver setacciato ogni angolo
della
Repubblica fiorentina, i soldati della contessa erano giunti alla
conclusione
che da Vinci si fosse recato altrove, al di fuori del loro raggio
d’azione.
Tuttavia,
Gemma non si era
persa d’animo. Afferrata una cartina e stesa sul tavolo del suo studio,
aveva
tentato di pensare come Leonardo e aveva individuato alcuni punti in
cui
proseguire la sua ricerca; un minuto dopo, dozzine di soldati e agenti
del
Vaticano erano stati sguinzagliati secondo le direttive della contessa
Riario.
Fortunatamente,
papa Sisto era
troppo impegnato a inveire contro Lupo Mercuri e a maledire in modo
molto
colorito il Magnifico, per via della sua missione diplomatica a Urbino,
per
potersi accorgere della momentanea sparizione dell’ingegnere bellico di
Lorenzo. E soprattutto, per accorgersi del fallimento di Gemma nel
sorvegliarlo
e nel convincerlo a prostrarsi al servizio della Santa Chiesa.
Ciò
nonostante, la pazienza
della giovane donna era stata messa a dura prova già molte volte negli
ultimi
mesi, e continuava a sfumare ogni volta che un suo agente metteva piede
nel suo
studio per portarle cattive notizie.
Quel
pomeriggio, però, sembrava
promettere una svolta. Alcune guardie svizzere avevano iniziato a
parlare di un
certo artista catturato in territorio francese, e in breve tempo la
notizia era
giunta alle orecchie di Gemma e del suo fedele braccio destro,
Grunwald. Sollecitati
a parlare, alcuni soldati le avevano promesso una conferma da lì a
poche ore,
seguita subito dopo dall’arrivo di Leonardo alle porte di Castel
Sant’Angelo,
legato e prostrato ai suoi piedi.
La
contessa non voleva gioire
prima del dovuto, ma quella poteva essere la fine della sua missione e
delle
minacce di Sisto, per cui non poté fare a meno di rifugiarsi nel suo
studio e
di rivolgere una preghiera al Signore, implorandolo di porre fine a
quell’agonia. Ogni suo errore poteva facilmente diventare l’ultimo, e
vivere
con quel terrore nel cuore non poteva chiamarsi vita.
Fece
appena in tempo a riporre
il rosario nello scrigno, quando Grunwald fece il suo ingresso nello
studio.
«Contessa
Riario», la chiamò lui, con un cenno di riverenza del capo.
«Capitano
Grunwald», rispose lei, congiungendo le mani davanti a sé. «Prego,
potete
entrare».
Non
avendo previsto alcun
viaggio o uscita, quel giorno Gemma aveva congedato le sue servitrici
prima del
solito, senza permettere loro di concludere la sua acconciatura. Alcune
morbide
trecce le raccoglievano delle ciocche lontane dal viso, ma lasciavano
il resto
dei suoi capelli liberi da costrizioni e morbidi lungo la schiena.
Sul
campo di battaglia o in
missione, la giovane donna aveva bisogno di pettinature più pratiche e
composte, ma in altre situazioni poteva concedersi qualche piccola
libertà. E
dopo anni al suo servizio, anche Grunwald avrebbe preferito per lei una
vita
più serena, una vita molto diversa da quella che doveva condurre l’arma
più
potente del Vaticano.
«Il
messaggero che state aspettando dovrebbe arrivare tra pochi minuti», le
comunicò, sperando di vedere una scia di sollievo sul suo volto.
«Molto
bene», rispose Gemma. «Restate pure. Avute quelle informazioni, ci
accorderemo
sul da farsi».
Il
capitano annuì e la
raggiunse accanto al suo scrittoio, con una mano già pronta
sull’impugnatura
della spada. Che fosse solo la forza dell’abitudine o un celato
desiderio di
difenderla, non avrebbe saputo dirlo nemmeno lui.
Vista
la portata delle notizie
che dovevano giungere in Vaticano, Gemma si aspettava di sentir bussare
alla
sua porta in maniera forte e decisa, non così debole da essere a
malapena
udibile.
Per
un attimo si rivolse a
Grunwald con uno sguardo confuso e scettico, vedendo nel volto del
soldato la
stessa diffidenza.
«Prego»,
disse lei con fermezza, e d’istinto strinse le mani l’una nell’altra,
cercando
di resistere all’impulso di afferrare un qualsiasi oggetto dalla sua
scrivania
per stringerlo bruscamente tra le mani.
Dovette
attendere qualche altro
secondo prima di vedere la porta aprirsi, secondi che non fecero altro
che
innervosirla ancora di più.
«C-con-contessa
Ri-ario…», balbettò intimorito il piccolo messaggero.
Era
di bassa statura, pallido
come un fantasma e con il viso imperlato di sudore: considerata la
fresca
temperatura nella stanza, di sicuro non era una conseguenza dovuta al
clima.
Il
valletto chiuse la porta
alle sue spalle ma vi rimase così appresso da poter lasciare la sua
sagoma
impressa nel legno, e nel mentre le sue mani tremolanti corsero a
togliersi i
capelli dalla fronte.
«Sono
proprio io, in carne ed ossa», rispose Gemma, con il suo caratteristico
tono
tagliente. «La stanza è molto grande e poco affollata. Non c’è bisogno
che vi
castighiate in un angolo», aggiunse, con falsa gentilezza.
A
sottolineare il velato
ordine, lo convocò con un cenno della mano a raggiungerla davanti al
suo
scrittoio.
Sperando
di non essere notato,
il messaggero prese un lungo e profondo respiro prima di obbedire alla
richiesta della contessa. Tuttavia, lasciò ancora qualche passo di
distanza tra
lui e una donna il cui desiderio di mettere mano allo stiletto era
sempre più
visibile in volto.
«Sto
aspettando», lo informò Gemma, e fu la sua ultima frase di cortesia
prima di
passare alle minacce.
«E-ecco…
d-da V-vin-ci…», iniziò lui, con un filo di voce. «E-ecco, l-lui…», ma
fu
interrotto dalla contessa.
«…è
qui fuori e attende solo che voi lo annunciate prima di essere portato
davanti
a me in catene?», chiese lei, retoricamente. Quello stampato sul suo
viso era
il più falso dei sorrisi, ma fu ben compensato dallo sguardo truce che
Grunwald
rivolse al valletto; giusto in caso il piccoletto fosse lento di
comprendonio.
«…l-lui»,
tentò di nuovo il messaggero, ma prima di poter esitare ancora vide gli
angoli
della bocca di Gemma abbassarsi sempre di più, e il suo istinto di
sopravvivenza gli strappò le parole di bocca. «…n-non è stato trovato,
mia
Signora», mormorò flebile.
Quel
silenzio parve durare in
eterno.
Grunwald
rimase immobile al suo
posto, pronto ad eseguire all’istante qualsiasi ordine; il valletto
invece non
osò alzare lo sguardo dai suoi piedi, neanche per un secondo.
Il
mondo poteva anche essersi
fermato, per quello che potevano saperne i presenti in quella stanza.
Nemmeno
la natura, appena fuori dalla finestra, parve azzardarsi a fare rumore.
«Come,
prego?», domandò Gemma infine, la voce calma e pacata.
Non
sentendo tracce di ira, l’ultimo
arrivato parve ritrovare un po’ del suo coraggio e rialzò lo sguardo
verso la
contessa. La vide serena, i lineamenti distesi, e quello che poteva
tranquillamente essere un accenno di sorriso.
«Ecco…
la soffiata su da Vinci in territorio francese… si è rivelata falsa»,
rispose
lui, concludendo la frase con un leggero inchino di scuse. «…non lo
abbiamo
trovato».
Seguirono
altri istanti di
silenzio.
Se
prima quell’accenno di
sorriso era stato di rassicurazione, ora iniziava a diventare vagamente
inquietante, come un presagio di sventure. Il piccoletto cercò di
trovare una
via di fuga spostando lo sguardo sul capitano, ma vide solo
un’espressione
molto minacciosa che lo convinse a scegliere di guardare di nuovo il
pavimento.
Era
già pronto a pregare e a
supplicare per avere salva la vita, quando accadde l’inaspettato.
Gemma
rise.
Scoppiò
a ridere come se si
trovasse nel mezzo di un’amichevole conversazione con altre dame di
corte,
tutte troppo disinibite da qualche bicchiere di vino in più per poter
rammentare
le regole dell’etichetta.
«Come
avete detto?», domandò la giovane romana, ridendo. «Non lo avete
trovato?»
Cercando
di vincere la paura
suscitatagli da quell’improvviso cambiamento d’umore, il valletto
scosse la
testa.
«P-purtroppo
no, contessa», balbettò con incertezza. «Non… non sappiamo dove si sia
recato».
«Nemmeno
una vaga idea?», domandò di nuovo Gemma, con un tono dispiaciuto che fu
presto
sostituito da un’altra risata, mentre si alzava in piedi.
«Sono…
s-siamo, contessa. Siamo…», si corresse il messaggero. «…tutti
mortificati per
questo… fallimento», e quell’ultima parola uscì dalla sua bocca come
una
sentenza di morte.
Gemma
finalmente calmò la sua
risata e si limitò ad un largo sorriso sul suo volto.
«Mortificati»,
ripeté tra sé e sé, abbassando lo sguardo. «Mortificati…», mormorò di
nuovo, e
lasciò calare il silenzio.
Il
pugno che tirò sullo
scrittoio fu così forte che scosse perfino Grunwald. Il giovane
valletto invece
non tentò neanche di soffocare un urlo di terrore.
«Mortificati?!»,
gridò Gemma, con una tale rabbia nella voce che il piccoletto
indietreggiò
subito verso la porta. «I miei soldati falliscono di nuovo così
miseramente, ed
è questo tutto quello che riuscite a dirmi?!»
«Contessa…»,
tentò di avvicinarla Grunwald, ma lei lo distanziò immediatamente con
un secco
gesto della mano.
«Giorni
e giorni di ricerche e di spedizioni, e venite a dirmi che un artista
da
quattro soldi è riuscito a lasciare l’Italia senza battere ciglio?»
Per
la rabbia, Gemma tirò un
secondo schiaffo contro lo scrittoio, ma non sentì nemmeno una punta di
dolore
superare la rabbia che le stava bruciando in corpo.
«P-poss-possiamo…»,
tentò di dire il valletto, probabilmente per proporle una nuova
spedizione, ma
il capitano lo fulminò con lo sguardo e il giovane non proferì altro.
«La
totalità delle mie risorse e del mio tempo investita in questa ricerca,
per
tornare qui con un pugno di mosche? Vi sembra forse accettabile?»,
esclamò di
nuovo la nipote del Papa, la voce così spezzata dalla collera da farle
male in
gola.
«Contessa,
possiamo tentare di nuovo», le disse Grunwald, nel tono più fermo
possibile.
«No!»,
gridò Gemma, voltandosi di scatto verso di lui. «No, io non tollererò
alcun
tentativo, non più. Io voglio risposte, voglio risultati, e li voglio
adesso!»,
sibilò, puntando il dito contro la superficie lignea ad ogni parola.
Approfittando
di quel breve
margine d’azione, il povero messaggero dimenticò completamente
l’etichetta e
fuggì via dallo studio senza pensarci due volte. La contessa lo degnò
appena di
uno sguardo infastidito, prima di tornare a pensare alla missione.
Era
stato tutto inutile. Tante
ricerche, tanti tentativi per capire quale direzione avesse preso da
Vinci,
tante energie, eppure erano di nuovo al punto di partenza. E tutto per
colpa di
quel surrogato di giullare armato di pennelli.
«Miserabile
sciagurato…», sibilò lei, rivedendo davanti a sé quel ghigno di
soddisfazione
che era la sua firma.
«Contessa
Riario», tentò di nuovo Grunwald, facendo appello ai titoli per
richiamare la
sua attenzione.
«Io
non lo accetto», mormorò Gemma, a voce così bassa che il capitano fece
fatica a
sentirla. «Io non posso accettarlo», disse di nuovo, a voce più alta.
«Non
posso, e non lo farò».
«…contessa?»,
provò lui, ancora, avvicinandosi di qualche passo.
«Devo
trovarlo», si ripeté, annuendo, come se stesse seguendo un discorso
tutto suo. «Devo
trovarlo, e costringerlo alla resa, a qualsiasi costo».
A
quel punto, Grunwald lasciò
perdere i limiti del consono e si spinse oltre un confine che molto
raramente
si concedeva di superare.
«…Gemma?»,
la chiamò, usando volutamente il suo nome.
Il
piano parve funzionare, e
per un attimo la giovane donna si sentì distratta dal suo monologo e la
sua
attenzione fu finalmente catturata.
Grunwald
la vide voltarsi verso
di lui, ma ciò che vide in lei non fu solo rabbia e determinazione. Non
vide la
forza che distingueva Gemma da tutti gli altri, non vide quel fuoco
bruciante
che la rendeva semplicemente unica agli occhi altrui.
Vide
paura.
Data
la reputazione di Sisto IV,
era una reazione comprensibile dopo aver ricevuto la notizia di un
altro
fallimento da parte dell’esercito romano e della sua guida.
Ma
Grunwald conosceva il
terrore che Gemma provava nei confronti del Santo Padre, e non era
quello il
caso.
Lei
invece temeva di aver
capito qual era la paura che le stava stringendo il cuore. Ben poche
cose
potevano spiegare quel sentimento angosciante e straziante che sentiva
stringerle il petto.
Era
paura verso tutt’altro.
Paura
di provare qualcosa. Di
nuovo.
«Devo
vincere», mormorò la contessa, con un filo di voce. «Non posso
permettermi
altrimenti».
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a tutt*!
Dopo
lo smarrimento di Leonardo,
lontano da Firenze e da Gemma, era il turno della nostra contessa di
trovarsi
faccia a faccia con la situazione, senza un certo artista dalla mente
geniale
da minacciare di persona.
L’idea
iniziale per questo
capitolo era un po’ diversa, ma poi ci ho visto una bella occasione di
approfondire la storia di Grunwald e il rapporto tra lui e l’arma
preferita di papa
Sisto, e devo dire che mi è piaciuto molto questo rapido passaggio
‘impazienza-risata
isterica-rabbia fuoriosa’ di lei per l’imprevisto dato dalla partenza
di Leonardo.
E
con i due piccioncini divisi e
lontani l’uno dall’altra, vi do appuntamento non fra due ma fra tre
settimane.
Diciamo che per rispettare la solita cadenza umm… dovrei litigare un
po’ con…
il fuso orario.
Un
bacione
Amy
W. Gildeary