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Autore: Saelde_und_Ehre    30/03/2019    7 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
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V.
Die Wilde Jagd
 

La posta arrivò mentre i soldati erano riuniti a consumare una frugale colazione. Walkenhorst attendeva notizie dalla sua fidanzata e Schwieger era immerso nella lettura dell’ultima epistola di sua moglie, mentre Bühler, dall’altra parte del tavolino da campo, sfogliava una copia del Völkischer Beobachter sorseggiando distrattamente il suo caffè ancora caldo.
La propaganda a effetto può funzionare per il popolo, pensò, dando una scorsa all’ultimo articolo dai toni altisonanti, ma senza una solida determinazione si va poco lontano.
Ripensò al sottotenente Schultz, che probabilmente si vedeva già con la croce di cavaliere al collo e il petto costellato di medaglie al valore. Dopo aver fallito l’esame per il brevetto di volo, il giovane ufficiale aveva infine optato per arruolarsi nella fanteria; era uno degli ultimi arrivati nel suo battaglione, ma già diverse volte aveva dato mostra della sua sfacciata hybris.
Anche Icaro ebbe l’arroganza di volare troppo vicino al Sole, e le sue ali di cera si sciolsero…
Non si sarebbe neanche accorto dell’uomo che lo stava chiamando, se quest’ultimo non avesse alzato la voce di un paio di ottave. Quando l’ufficiale si fu voltato, il soldato salutò militarmente e gli consegnò una busta. “Questa lettera è intestata a un certo… capitano Hans Christoph Bühler, ma il tenente Alscher mi ha detto di consegnarla a lei.”
All’inizio, Hans pensò che si trattasse di un’omonomia, ma il numero della Feldpost corrispondeva a quello del suo reggimento, e il nome del mittente era indubbiamente quello di sua sorella Elisabeth Charlotte. Scosse la testa: evidentemente, la donna non sapeva ancora nulla della sua promozione, o più probabilmente se ne era disinteressata. “Puoi lasciarla qui, Schütze”, disse in tono asciutto.
Aspettò che il soldato se ne fosse andato e aprì la missiva, senza realmente sapere che cosa aspettarsi. Non riusciva a capire perché sua sorella, che era già una donna sposata e con figli quando lui era ancora poco più che un ragazzo, né si era mai particolarmente curata di lui, avesse deciso di rompere il lungo silenzio epistolare proprio in quel frangente.

“Caro Hans,
ti scrivo all’indomani dell’entrata in guerra della Germania, e non sai da quanto tempo rimando questo proposito.
Probabilmente, quando riceverai questa lettera ti troverai già al fronte…”

Proseguiva raccontandogli che suo figlio, da poco entrato nella Hitlerjugend, le ripeteva costantemente di voler frequentare la scuola militare per seguire le orme dello zio – il capitano, lo chiamavano – anche se sembrava parlarne quasi con dispiacere. Riferiva poi che suo marito ingegnere era stato aggregato a un reggimento d’artiglieria, insieme alla seconda armata, e chiedeva se per caso si fossero incontrati sul campo.
“Ti allego due fotografie,” proseguiva, “così ti rendi conto di quanto mio figlio sia simile a te.”
Bastò una breve occhiata per rendersi conto di quanto sua sorella avesse ragione, e un’analisi più approfondita poté solo avvalorarla: la prima ritraeva un ragazzino sui quattordici anni in uniforme della Hitlerjugend, dall’aria dinoccolata e il taglio militare, con un ciuffo più lungo che gli ricadeva sulla fronte pallida. La seconda, datata 1925 e leggermente ingiallita, ritraeva Hans alla stessa età, coi capelli arruffati e un’espressione stralunata, gli irti alberi della Foresta Nera sullo sfondo. Se non fosse stato per il salto temporale che intercorreva tra le due fotografie, qualcuno avrebbe potuto tranquillamente dire che si trattava dello stesso ragazzo. Il maggiore le ripose con un sospiro e continuò la lettura, chiedendosi ancora una volta se quelle parole fossero dettate da una sincera preoccupazione per l’esito della guerra o se piuttosto sua sorella avesse scritto in nome di una qualche vuota cortesia.
La donna si firmava infine in maniera assai formale, col cognome ungherese del marito, anziché col suo solito Liselotte. Ogni lettera era vergata in Sütterlin, con precisione quasi maniacale, ma dalle sue parole trapelava tutto il distacco che si era creato tra loro dopo che Hans aveva annunciato di voler lasciare la facoltà di Giurisprudenza per arruolarsi nell’esercito.
Lo ricordava come se fosse accaduto il giorno prima: suo padre era saltato su, sentendosi quasi tradito da quella decisione. Lo aveva fissato con occhi di brace, il volto sfigurato e paonazzo che gli conferiva un’aria grifagna. “Ma non hai completato nemmeno un semestre! Io sono un invalido, non posso più lavorare… tu sei l’unico che può prendersi carico della mia attività. Vuoi forse mandarci tutti quanti sul lastrico?”
Hans aveva sostenuto il suo sguardo senza vacillare. “Non voglio marcire in uno studio polveroso, dirimendo le questioni legali di qualche borghese annoiato,” aveva replicato in tono sprezzante. “Se proprio vogliamo risollevarci dalla depressione economica, l’unica via è imbracciare il fucile e combattere contro i nemici che hanno messo in ginocchio la nostra Patria. Ci rialzeremo tutti quanti, più forti di prima. Noi compresi.”
“Ma chi ti ha messo in testa queste cose, Hansi, quegli esaltati del Partito?” aveva trasecolato sua madre.
“Non sono degli esaltati, sono il futuro della Germania!” aveva asserito il ragazzo con convinzione. “Mentre la borghesia in declino piange sulle rovine del passato, loro esortano la nostra gente al riarmo. E no, mamma, non sono stati loro a mettermelo in testa: è una decisione che ho maturato in piena libertà di coscienza.”
A distanza di quasi un decennio, non riusciva ancora a capacitarsi di come fosse riuscito a parlare ai suoi genitori in maniera tanto audace e irrispettosa. Era da allora che non aveva più rapporti stabili con la sua famiglia, a parte qualche sporadica corrispondenza epistolare con sua sorella Liselotte e il funerale dei suoi genitori, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro: sia sua madre che suo padre lo avevano biasimato per i suoi ideali rivoluzionari, e i suoi parenti avevano gridato allo scandalo, additandolo come la pecora nera della famiglia, il primo erede maschio ad aver infranto una lunga dinastia di giuristi… ma Hans, quello che pensava all’epoca lo pensava ancora, e non aveva alcuna intenzione di rinnegarlo: solo la sua foga, col passare del tempo, si era mitigata con l’addestramento, e quel suo ciuffo di capelli color nocciola era stato disciplinato dal taglio militare.
Più che rasserenarlo, quell’inaspettata epistola lo aveva gettato nell’imbarazzo più profondo, lasciandolo col dubbio: da una parte, essa avrebbe potuto costituire un’occasione per riallacciare i contatti con la sorella maggiore e con quel nipote che ricordava ancora bambino; dall’altra rischiava di far riaffiorare gli antichi rancori, mettendo ciascuno di loro dinanzi alle rimostranze dell’altro.
Rimase ancora un po’ a rigirarsi la lettera e le due fotografie tra le mani, irresoluto, fin quando non si udì vibrare nell’aria un suono acuto e lacerante. “Le sirene dell’allarme antiaereo!” urlò il capitano Schwieger.
Il maggiore si ficcò i fogli in tasca e saltò in piedi impugnando la pistola, mentre i suoi soldati lo attorniavano.
“Fuori, tutti fuori! Sergente, convochi il maggiore Bühler a rapporto!” gridava il tenente colonnello von Rauheneck, sovrastando il gemito incessante dell’allarme. “Halle, si metta in contatto col maggiore Möller, dello Jagdgeschwader 52! È un’emergenza!”
Subito l’avamposto fu invaso da un gran tafferuglio: sottufficiali che imboccavano le uscite con le armi sottobraccio, seguiti dai soldati dei loro reparti, sedie rovesciate, urla atterrite. Gli ufficiali cercarono quanto più possibile di richiamarli all’ordine, ma il panico si propagò in fretta, rendendo la fuga disordinata e caotica.
Von Rauheneck, terminato di dare le sue ultime disposizioni, diede al maggiore una pacca sulla schiena. “Adesso esca fuori, Bühler, qua dentro ci penso io”, gli ingiunse, col suo solito atteggiamento da padre incline alle rampogne. “Si occupi di quegli sbandati là fuori.”
Hans lo fissò con tanto d’occhi e provò a obiettare, ma qualcosa gli fece gelare il sangue nelle vene: alla stridula cantilena delle sirene si sovrappose un ronzio minaccioso, incombente; in lontananza si iniziarono a udire i sordi boati delle esplosioni, come tuoni che squarciavano la quiete della campagna.
“Si sbrighi, maggiore!” abbaiò ancora una volta il tenente colonnello. “Dobbiamo condurre tutti al riparo prima che gli aerei polacchi ci sgancino le loro bombe addosso!”

Le sagome scure dei bombardieri si profilavano all’orizzonte, stagliandosi in formazione contro il cielo grigio. Ogni tanto, un aereo scompariva dietro qualche nube passeggera, la fendeva con le sue ali di metallo e riaffiorava subito dopo, mentre dal suo grembo piovevano tonnellate di ordigni letali.
Attaccavano le postazioni strategiche, i mezzi in movimento e le unità terrestri; poi si dileguavano, lasciando dietro di sé un inferno di fuoco e fiamme.
Sfruttando il riparo della vegetazione, i soldati non osavano muoversi né respirare. C’era chi teneva le mani giunte in preghiera, chi aveva il volto rigato di lacrime, chi abbracciava i commilitoni e chi tremava; altri ancora il viso lo tenevano affondato nell’erba, come per negarsi la visione di quel raccapricciante spettacolo di distruzione.
Quando la sagoma di un aereo oscurò il cielo e proiettò su di loro come l’ombra di una nube temporalesca, il maggiore Bühler strinse convulsamente la mano intorno al calcio della pistola, nel vano tentativo di placare il tremito che rendeva la sua presa malferma. Non seppe dire per quanto tempo rimase immobile, come paralizzato, col fiato sospeso e il cuore che gli rimbombava nel torace.
Forse pochi secondi, forse qualche minuto, forse un’ora.
Ma così com’era iniziato, nel giro di un brevissimo istante tutto terminò, facendo rimpiombare la campagna in una quiete simile alla morte.

Squadriglie di Karaś solcavano il cielo planando tra le nubi plumbee, latori di terrore e caos. La terra e l’aria tremavano, squassate dall’impeto devastante della pioggia di bombe.
Ruggito di motori, sibilo di eliche, tonfi e detonazioni si avvicendavano in quella ridda di suoni dell’altro mondo, che davano l’impressione di voler sfidare ogni legge della fisica.
Lente e inesorabili, le colonne di fumo nero s’innalzavano e si espandevano, sospinte dal vento sferzante.
Senza staccare gli occhi da quel terribile scenario, la schiena percorsa da brividi di gelo, il tenente Friedrich von Kleist si tappò le orecchie preparandosi all’ennesimo schianto.
L’impatto delle bombe, preannunciato da una serie di fischi assordanti, s’infranse contro la colonna di rifornimenti che transitava lungo la strada a nemmeno un chilometro da lì.
Ancora una volta la terra fu scossa da un sussulto come di terremoto, e Friedrich ebbe l’impressione che il cuore gli fosse schizzato in gola, mozzandogli il respiro. Abbacinato dal lampo dell’esplosione, serrò le palpebre e si rannicchiò ancora di più contro la ripa del cratere che lo ospitava.
Trascorse un istante che il giovane non seppe quantificare, colpi di tosse e imprecazioni, mentre la cacofonia ormai lontana continuava a riverberare amplificata sui suoi sensi sconvolti.
Si puntellò sui gomiti e arrischiò la vista oltre la balza di terreno dilaniato dalle bombe, tergendosi con la manica i rivoli di sudore freddo che gli colavano sulla fronte. Alcuni veicoli erano riusciti a schivare le esplosioni con un folle slalom che era terminato con le ruote invischiate nel pantano; altri erano stati sbalzati via, rotolando tra le falde di fuoco.
“Scheiße,” imprecò a mezza bocca il sottotenente Kühn, che era stato travolto da una frana di sassi rotolata giù dal bordo della buca. “Tutto bene, sottotenente?”
“Sissignore”, rispose il giovane, coperto di terra dalla testa ai piedi. “Chiedo scusa, signore.”
Il tenente gli si avvicinò e lo aiutò a scrollarsi la giubba e i capelli, liberandoli dei sassolini che vi si erano impigliati. “Andiamo,” gli disse infine, “dobbiamo ricongiungerci al resto del plotone.”
Kühn lo fissò per un breve istante a occhi sgranati, lo ringraziò e imbracciò l’MP38, offrendosi di aprire la strada.
Von Kleist stava per fargli cenno di procedere, ma un ronzio lontano lo costrinse a voltarsi di scatto. Una folata di vento disperse ulteriormente il fumo delle esplosioni, che li avvolse come un sudario e si diradò in un soffio, rivelando ombre alate nel cielo.
Minacciosa e solenne come l’esercito della Caccia Selvaggia, un’altra serrata formazione di aerei si stava rapidamente avvicinando. Friedrich li scrutò attraverso il binocolo e riconobbe le forme affusolate dei Messerschmitt, con la Balkenkreuz dipinta sulle ali.
“Sono dei nostri!” esclamò, sollevato.

Si trascinarono fuori dalla buca con cautela, miracolosamente indenni nonostante i vestiti laceri e sporchi. Erich Kühn fu il primo a uscire allo scoperto, mentre von Kleist si guardava intorno alla ricerca degli altri soldati del plotone e gridava ad alta voce i nomi dei sottufficiali.
Il capitano Fromm li aveva mandati in avanscoperta per intercettare eventuali presenze nemiche, quando l’annuncio dell’imminente bombardamento li aveva costretti a mettersi al riparo: si erano dunque divisi in piccole squadre, sparpagliandosi tra i recessi della foresta per sfruttarne l’esigua copertura, mentre i due giovani ufficiali, rimasti indietro per coordinare le operazioni, si erano ritrovati scaraventati in quel cratere dall’onda d’urto di un’esplosione. Se il tenente provava a ripensare – sia pure a mente fredda – al rischio che avevano appena corso, il suo stomaco si contorceva in preda allo sgomento: aveva visto rigurgiti di bombe piovere dal cielo, la terra aveva tremato e si era sventrata sotto i suoi piedi mentre le braccia forti del sottotenente Kühn lo agguantavano e lo spingevano con la faccia a terra. Un pandemonio di grida, schianti e scoppi; infine, un abisso buio. Quando si era ripreso dallo stordimento, col suo camerata che lo scuoteva rudemente, si era ritrovato abbrancato da una muraglia densa di fumo infuocato che gli aveva fatto salire le lacrime agli occhi e incendiare i polmoni.
Guardò per un attimo di sottecchi il giovane Kühn, che per la seconda volta in pochi giorni aveva avuto il potere di lasciarlo senza parole: quell’imponente ragazzone parlava poco e ostentava ancor meno, ma dava mostra di affrontare le situazioni a testa bassa, con abnegazione, quasi come se da esse dipendessero i destini del mondo.
“Signori!” una voce roca e profonda spezzò la quiete apparente, e dalla macchia di alberi emerse la figura minuta di Walther Eichmann a capo di una dozzina di soldati.
“Oberfeldwebel”, lo accolse il tenente, in tono asciutto. “Gli altri dove sono?”
“Stanno arrivando, signore.”
Proprio in quell’esatto istante, videro sbucare dal bosco anche la testa rossiccia di Hoffmann col mitra sottobraccio e la faccia rubizza di Schneider, che precedeva l’equipaggio del 105.
Aspettò che fossero tutti abbastanza vicini da poterlo sentire, poi indicò con un cenno del capo la colonna logistica colpita dal bombardamento. “Andiamo a vedere se hanno bisogno di aiuto. Dopodiché, cercheremo di rintracciare il plotone che ha tentato di attaccarci stamani.”

La maggior parte dei camion erano ridotti a un ammasso di ferraglia annerita e fumante; il loro contenuto – armi, attrezzature militari e munizioni ormai inservibili – era sparso per terra alla rinfusa. Il puzzo di lamiere bruciate, mescolato a quello ancora più acre del carburante incendiato, era insopportabile. Un brulicare di persone malconce si stava raggruppando intorno ad alcune figure riverse per terra, sfigurate dalle ustioni e completamente ricoperte di sangue. Il tenente von Kleist ordinò a Lindemann di mettersi in contatto coi soccorsi, mentre Erich si avvicinò titubante all’abitacolo di un furgone rovesciato. Ciò che vide lo costrinse ad arretrare di un passo con gli occhi fuori dalle orbite: i vetri schizzati di sangue erano in mille pezzi, e i resti carbonizzati del conducente si intravedevano appena, schiacciati dalle lamiere ammaccate. Si allontanò sconcertato, barcollando, consapevole di non poter fare ormai più nulla per lui.
“Ehi, ragazzo… ragazzo… un goccio d’acqua…” biascicò una voce alle sue spalle.
Per poco, il sottotenente non trasalì: un soldato dall’età indistinta e i connotati quasi irriconoscibili giaceva contro il fianco della carcassa di un Opel Blitz e lo guardava con occhi spenti, coprendosi con un panno insanguinato ciò che gli restava della gamba destra. Kühn, intuendo la sua muta richiesta, ebbe la premura di distogliere lo sguardo e gli offrì da bere dalla sua borraccia.
“Signor tenente, qui c’è un altro ferito grave!” urlò, agitando il braccio per attirare l’attenzione di von Kleist.
“No, no…” rantolò il mutilato, con voce stentorea. “Non si faccia inutili premure per me, ragazzo… sottotenente… sono ormai un uomo morto.”
Erich si chinò di fronte a lui per controllargli la gamba; un forte odore ferrigno, a cui non era ancora abituato, gli invase le narici e gli fece torcere le viscere. “Si calmi, adesso. Possiamo ancora fare qualcosa per lei… sergente,” rilevò infine, riconoscendo i gradi sulla spalla. “Si fidi di me.”
L’uomo scosse la testa con vigore e volse lo sguardo al cielo, come ormai rassegnato all’ineluttabile. “Oh, ma lei è così giovane, ragazzo, una vita davanti…” vaneggiò. “Ha mai visto le Alpi, quando si tingono di rosa? A casa ho un figlio che le somiglia tanto, signore… vorrei tanto sapere come sta…” Un rivolo vermiglio gli colò giù dall’angolo della bocca e la testa si piegò di lato in una posizione innaturale.
“Poveraccio,” mormorò Erich, adagiandogli la mano sul petto. Solo allora notò che sulla manica logora della sua uniforme c’era una striscia nera con su ricamato il nome della Ostpreußen.
Quando alzò lo sguardo, vide il tenente von Kleist che li guardava da qualche passo di distanza con un’espressione costernata sul volto.

Si rimisero in cammino che il Sole era già alto sulle loro teste.
Le nubi scolorite avevano lasciato spazio a un pallido celeste e i draghi del cielo avevano smesso di volteggiare nelle tempeste di traccianti, ma in sottofondo rimaneva la voce del maresciallo Eichmann a rievocare battaglie di cui quasi nessuno aveva memoria.
“Ragazzi miei, ai tempi della Marna ero un caporale, ma ero già più vecchio della metà di voi…” raccontava, rendendoli partecipi di una delle più cruente sconfitte subite dall’impero tedesco durante la Grande Guerra. Il sottotenente Kühn aveva già ascoltato quel racconto – sicuramente ingigantito – almeno cinque volte, ma gli riusciva ancora difficile visualizzare l’anziano e burbero sottufficiale coinvolto nelle rocambolesche avventure che andava raccontando. “È proprio lì che mi sono guadagnato la croce di ferro di prima classe,” diceva, e indicava la decorazione che portava apposta sul taschino della divisa, “io e tutti quelli della mia truppa, che non sono vissuti abbastanza per vedere la fine della guerra e tutte le nostre speranze andate in frantumi. Uno di loro me lo sono visto morire sotto gli occhi, trapassato da parte a parte da una palla di cannone; un altro ha calpestato per sbaglio una mina ed è rimasto zoppo – poveraccio! Si chiamava Bühler come il maggiore, era un avvocato… e gli somigliava pure, chissà che fine ha fatto! – e un altro ancora è impazzito dopo aver passato dodici giorni senza mangiare, intrappolato dentro una trincea… lo ritrovarono morto e dissero che si era sparato a una tempia.”
Di fronte agli sguardi attoniti e al tempo stesso sconvolti delle reclute più giovani, il maresciallo scosse la testa con l’aria di aver appena parlato a un branco di capre selvatiche. “Che cosa credevate voi, marmittoni sfaticati?” li apostrofò. “Questa è la guerra, signori miei: è sudore, sangue e brutture, non una parata trionfale sotto la porta di Brandeburgo. Prima ve ne rendete conto e meglio è.”

Gli ultimi refoli di vento si erano placati, recando con sé una leggera frescura che sembrò confortarli dopo lo spavento causato dal bombardamento mattutino. Nel bosco regnava un silenzio quasi innaturale, interrotto soltanto dal crepitare delle foglie sotto i piedi. Qualche boato in lontananza suggeriva che da qualche parte si stesse ancora combattendo, ma il plotone era riuscito a superare il mezzogiorno, percorrendo indisturbato chilometri senza trovare tracce di nemici.
“Non vi conviene abbassare la guardia, signori miei”, li ammonì il maresciallo capo Eichmann. “I nemici potrebbero essere nascosti ovunque, nella boscaglia. Loro la conoscono meglio di noi e potrebbero approfittarsi della vostra distrazione. Come quella volta nelle Ardenne…”
“Noi ci fermiamo qui,” lo interruppe in tono secco il tenente von Kleist, salendo in piedi su un sasso e indicando la piccola cascata alle proprie spalle. “Ne approfittiamo per mangiare e riposarci prima di rimetterci in marcia. Eichmann, affido a lei il primo turno di guardia. Se dovesse avvertire movimenti sospetti, me lo faccia immediatamente presente.”
“Sarà fatto, tenente”, rispose il maresciallo, tornando ad assumere il solito contegno granitico che ostentava nelle occasioni formali.
Nel guardarlo allontanarsi con passo marziale, Erich Kühn sorrise sotto i baffi: non era per nulla semplice mettere a tacere l’uccello del malaugurio e, fino ad allora, l’unico che poteva vantare un tale primato era il maggiore Bühler.
“Bene, andiamo”, disse von Kleist, oltrepassando i cespugli con un agile balzo.
Il sottotenente lo seguì con la stessa celerità, anche se, essendo più alto di lui, fu costretto a procedere ingobbito per evitare di sbattere la testa contro i rami più sporgenti.
Si sistemarono lungo le rive del torrentello, lo sciabordio delle rapide che sembrava scandire il tempo. Da una fenditura nel terreno, un esile rigagnolo scendeva giù scorrendo tra pietre bagnate di muschio e si gettava nello specchio d’acqua ai suoi piedi, che rifletteva il verde profondo degli alberi e lasciava intravedere, sotto la superficie spumeggiante, un letto di sassi irregolari e levigati.
Qualcuno si sporse per abbeverarsi alla sorgente, Löffler si riparò dietro un cespuglio per svuotare la vescica, e il tenente von Kleist si inerpicò su uno dei sassi più alti, proprio a ridosso della cascata, in modo da tenere d’occhio tutto il plotone.
Kühn ne approfittò per ripulirsi il viso e vi indugiò, specchiando distrattamente le proprie fattezze acerbe sulla superficie cristallina: nonostante la stazza possente, un dono di natura affinato dall’attività sportiva, dimostrava di essere poco più che un ragazzo, dai grandi occhi color cielo e il naso leggermente schiacciato. I capelli, biondi come il grano maturo, erano sporchi e arruffati.
Immerse di nuovo le mani nell’acqua e la visione scomparve. Sciacquò la borraccia che aveva offerto come ultimo conforto al moribondo, la riempì di nuovo e si avvicinò al comandante del plotone, ancora seduto a gambe incrociate a sbocconcellare una focaccia. Von Kleist si fece da parte per fargli spazio, ma non disse nulla; come sempre, sembrava profondamente assorto nei propri pensieri.
“Signor tenente,” azzardò il ragazzo, “mi stavo chiedendo se ci fossero notizie del maggiore e delle due compagnie che sono insieme a lui.”
L’altro parve riscuotersi. “Non mangia, Kühn?”
“Beh, io…” Erich non si aspettava per nulla una domanda del genere, e per un istante pensò di aver capito male. “Credo che la mia razione di oggi sia andata perduta durante il bombardamento.”
“Capisco.” Il tenente spezzò la sua focaccia e gliene offrì metà. “Prenda questa: è probabile che nel pomeriggio ci sarà di nuovo bisogno di combattere.”
“La ringrazio, signore”, balbettò il più giovane.
“Dovere, camerata.”
Mangiarono per un po’ in silenzio, ascoltando il gorgoglio della cascata e le chiacchiere dei soldati.
“Mi aveva chiesto se ci sono notizie del maggiore,” disse infine il tenente, “e io le dirò che non ne so più di lei. Stanno guadagnando terreno, esattamente come noi, ma non mi è dato di sapere dove si trovino esattamente. Li incontreremo strada facendo… o sul campo di battaglia.”
“Avremmo dovuto ricongiungerci a loro ieri, o al massimo oggi… o sbaglio?”
“Non sbaglia, sottotenente.” Von Kleist gli rivolse uno sguardo eloquente. “È per questo che intendo partire al più presto.”
Senza attendere una risposta, raccolse le sue cose e si alzò. “Vado a cercare il maresciallo Eichmann. Tra un quarto d’ora, se non saremo ancora tornati, raduni gli uomini e ci raggiunga.”
Erich dovette riconoscere che, nonostante il contegno imperturbabile e distaccato, il suo superiore si stava dimostrando sempre più lontano dall’idea di algido aristocratico che si era fatto di lui quando era stato assegnato al suo plotone. Gli tornarono in mente le parole che ripeteva sempre il suo caposquadra ai tempi della Hitlerjugend: “Non conta da che strato sociale provenite o quanti antenati illustri ci sono nel vostro albero genealogico, conta solo quello che potete fare per il Reich e per il popolo tedesco.”
Anche se von Kleist, il conte, stava sempre sulle sue e non parlava mai di sé, quella prima settimana di battaglie combattute al suo fianco lo aveva lasciato col piacevole sentore di potersi fidare di lui.

L’unico pensiero di Friedrich, prima che le bombe si abbattessero sul loro schieramento, era quello di ritrovare il plotone con cui si erano scontrati in mattinata, sgomberare la strada e partire a colpo sicuro per raggiungere il comando di battaglione e il resto della divisione. Non aveva mentito al sottotenente: tutto ciò che sapeva del maggiore derivava dalle comunicazioni ufficiali che l’uomo aveva fatto pervenire via radio, anche se da giorni fremeva dalla voglia di rivederlo, di sentirlo e magari trascorrere del tempo a conversare con lui. Quando stavano a Potsdam erano abituati a vedersi tutti i giorni, alternando la vita di caserma e le serate nel suo appartamento – che per Hans era diventato come una sorta di seconda casa – ma poi l’offensiva li aveva catapultati nel fango e nella polvere, e il dovere nei confronti dell’esercito li aveva sottratti alla tranquillità di un’esistenza ordinaria. Prima della partenza, negli occhi del suo compagno aveva riconosciuto le stesse emozioni che si agitavano nel suo animo, e non si era rammaricato per la separazione imminente, ma sperava di tornare presto a condividere con lui sia la durezza della vita militare che le soddisfazioni che essa recava con sé. Era stata la condivisione degli stessi ideali ad aver unito due uomini all’apparenza così diversi: uno spiantato di famiglia borghese che con nostalgia guardava a ovest, tra le colline e le foreste di guardia sul Reno, e uno tra gli ultimi eredi di un’antica quanto gloriosa dinastia di condottieri. Anche a centinaia di chilometri dalla loro Germania, in terra straniera e nemica, l’idea di ricongiungersi a lui assumeva la valenza di un ritorno a casa.

Seduto sull’erba, la schiena appoggiata contro il tronco di un albero e la pistola al fianco, il maggiore Bühler rimestava la forchetta nella sua gavetta, senza tuttavia riuscire a prendere appetito. Quella mattina, scongiurato il rischio di trovarsi una grandinata di bombe sulla testa, si erano rimessi in cammino e si erano nuovamente trovati invischiati in una battaglia che sembrava non volgere a vantaggio di nessuno: a qualche passo da lui, due giovani sottufficiali reinserivano il nastro della MG 34, mentre i comandanti di compagnia avevano ingollato il pranzo in poche cucchiaiate ed egli poteva già vederli in azione – Walkenhorst in prima linea, che sbraitava esortazioni che suonavano quasi come ordini, e Schwieger intento a rampognare i serventi di un obice da campo.
Dal canto suo, il maggiore aveva trascorso la mattinata ad andare su e giù per il campo com’era sua abitudine, guidando ora questa ora l’altra sezione, ma con la mente che vagava per ben altri lidi. Solo allora, tuttavia, si concedeva una pausa da dedicare alle riflessioni.
I pensieri si rincorrevano e si sovrapponevano, privi di apparente ordine, mentre l’insistente crepitio dei proiettili gli riverberava nel cranio come un trapano in procinto di forargli i timpani. Distrattamente, frugò con la mano nella tasca dell’uniforme e prelevò a tentoni una sigaretta, infilandosela tra le labbra per accenderla. Si sentiva irrequieto, non poteva negarlo.
Continuava a pensare alla lettera di sua sorella, incapace di venire a capo del dilemma che lo affliggeva da quando aveva letto il nome della donna sulla busta. Che fosse davvero preoccupata per lui, pensando che ogni suo giorno al fronte avrebbe potuto essere anche l’ultimo, o magari temendo che potesse fare la stessa fine di suo padre? Anch’egli si era disinteressato a lei in tutti quegli anni, e l’unica persona con cui si era sentito di condividere la propria solitudine era Friedrich von Kleist.
“Signore, ci siamo aperti un varco nelle difese nemiche!” esclamò allegramente un sergente, distogliendolo dalle sue elucubrazioni.
Bühler accolse quella notizia quasi con sollievo: era giunto il momento di tornare operativi.

“Rimanete ben saldi nelle vostre posizioni, bisogna evitare l’accerchiamento!”
Per sovrastare il caos che regnava sovrano da un capo all’altro dello schieramento, Bühler dovette alzare la voce fino a raschiarsi le corde vocali. Da dietro il ridotto di sacchi imbottiti che condivideva con Walkenhorst, in una posizione abbastanza avanzata da permettergli di dominare il campo senza l’ausilio del binocolo, orde di pallottole vaganti gli schizzavano sopra la testa.
“Avanti, avanti!” ripeté il capitano, rivolto ai mitraglieri della sua compagnia. Aveva appeso la giubba dell’uniforme al ramo di un albero e portava le maniche della camicia rimboccate fino al gomito. Nell’atmosfera resa bollente dal tumulto della battaglia, gli avambracci erano lucidi di sudore e i muscoli guizzavano nervosi.
“Vado a vedere come se la passa la compagnia di Schwieger, poi torno qui,” lo avvertì il maggiore, abbandonando con cautela la postazione. “Dobbiamo a ogni costo evitare l’accerchiamento.”
Walkenhorst saltò al di là della barriera con un mitra imbracciato. “Sarebbe ancora meglio accerchiarli mentre impediamo a loro di farlo, signore!”
Bühler si concesse un tiepido sorriso: dopo tutti gli anni di servizio trascorsi al loro fianco, sentiva di poter contare sul supporto incondizionato dei suoi fidati collaboratori. “Naturalmente, capitano.” Sfiorò la visiera del berretto, accennando un saluto militare. “La guerra va avanti, la vittoria è solo alla fine.”
“Oppure il Valhalla!” urlò di rimando l’altro.

Senza troppe cerimonie, il maggiore spalancò la portiera della Kübelwagen e si infilò al posto del passeggero. “Mi porti dal capitano Schwieger, presto!”
“Agli ordini”, rispose l’autiere, mettendo in moto e partendo alla volta dei rilievi occupati dall’artiglieria campale. Nonostante i sobbalzi e le curve del veicolo, Bühler vide chiaramente uno degli obici da campo che veniva travolto in pieno da una cannonata. Strinse le labbra per soffocare un’imprecazione e regolò le ottiche del binocolo: dei sei serventi, che come piccole formiche si aggiravano intorno all’ammasso di ferraglia fumante, solo quattro si rialzarono barcollando. “Più veloce, caporale!”
“Sissignore!” L’autiere schiacciò l’acceleratore a tavoletta e si lanciò a folle velocità tra capannelli esterrefatti di soldati tedeschi, sollevando un ampio ventaglio di fango e ghiaia; il motore parve ruggire in segno di protesta. Per evitare di venire sbalzato in avanti mentre la vettura avanzava tortuosamente sul terreno dissestato, l’ufficiale dovette puntare i piedi e aggrapparsi con forza alla maniglia dello sportello.
Improvvisamente, un boato spaventoso fece tremare l’aria, così vicino da risucchiarli nel suo vortice. La macchina sussultò e ruzzolò fuori dal sentiero per effetto di una potente onda d’urto; il caporale perse il controllo sul volante e Bühler sbatté violentemente la testa contro la cornice del parabrezza, mentre il berretto gli rotolava tra i piedi. Ancora rintronato dal forte impatto, il graduato fece in tempo a sterzare e accelerare prima che le ruote s’incagliassero in un fosso.
“Mortai pesanti,” borbottò il maggiore, tamponando con le punte delle dita un rivolo caldo che gli scendeva sulla fronte. Strinse i denti e si volse indietro, giusto in tempo per vedere in lontananza un cannone che brandeggiava nella loro direzione. “Faccia attenzione, qualcuno sta dirigendo il tiro verso di noi!”
“Ma così si fonde il motore, signore!”
“Se non vuole finire in brandelli, faccia come le ho ordinato, presto!”
La Kübelwagen scartò bruscamente per schivare un obice che ne sfiorò appena il posteriore, slittò in avanti con uno stridio di pneumatici e schizzò a tutta velocità in campo aperto, pericolosamente esposta agli attacchi della fanteria polacca. Una gragnola di proiettili si abbatté puntualmente sui suoi fianchi, costringendo l’autiere ad appiattirsi contro il volante. “Signore…” Qualunque cosa avesse voluto dire, fu sommersa da una scarica di mitragliatrice.
“Pensi a guidare più in fretta che può, prego: a loro ci penso io!” Senza aspettarsi alcuna replica da parte del subalterno, il maggiore si affacciò oltre lo schienale, prelevò un MP38 da una cassa adagiata sul sedile posteriore e lo usò per rispondere al fuoco dei nemici. “Tenga duro ancora un po’, Schmidt, siamo quasi arrivati!”

Quando scesero dalla macchina, il rumoroso scricchiolio emesso dalle sospensioni parve quasi un sospiro di sollievo.
“Ce l’abbiamo fatta,” constatò ansimando l’ufficiale, una volta accertatosi che sia lui che il suo sottoposto erano usciti incolumi da quella folle corsa.
Il caporale, un uomo basso e tozzo sulla quarantina, sgranò gli occhi acquosi rivolgendogli uno sguardo da cervo spaventato. “È un miracolo se non siamo saltati in aria, signore.”
“Non esistono i miracoli, Schmidt.” Con lo Schmeisser ancora appeso alla spalla, Bühler raccolse il suo berretto e si guardò rapidamente intorno. “Qui siamo troppo a portata di tiro”, valutò infine. “Vada a parcheggiare questo vecchio trabiccolo là dietro quei cespugli e rimanga in attesa di un nuovo ordine. Io vado a cercare il capitano Schwieger.”
Schmidt rimase per qualche istante a guardare la sagoma dell’ufficiale che si allontanava a passo svelto, ormai indistinta tra i banchi di fumo denso, poi scosse la testa. Con un sospiro, si chinò a esaminare i fianchi della vettura: erano schizzati di mota e bucherellati in più punti dalle raffiche di mitra, mentre il fanale dalla parte del passeggero, letteralmente sradicato, era finito chissà dove.
“È un miracolo se ne siamo usciti tutti interi, è un miracolo,” borbottò tra sé e sé, mettendosi al volante.

Nell’infuriare della mischia, le urla che si sollevavano dal grembo della trincea sembravano strida di anime dannate in attesa del trapasso. Soldati tedeschi e polacchi combattevano come forsennati in un groviglio di uniformi, colpendosi con qualsiasi mezzo lecito o illecito; l’odore del sangue si mescolava a quello del sudore e della polvere da sparo. Il tenente von Kleist approfittò della confusione per strisciare dietro un ridotto di sacchi, facendo cenno ai suoi compagni di seguirlo. Ancora una volta, ad aprire il fuoco fu lui, e mentre gli scoppi lunghi e decisi dei fucili perforavano la coltre di fumo, poderose raffiche di mitragliatrice sgomberavano la strada.
“Avanti!” ordinò l’ufficiale, abbandonando per primo la postazione.
La fanteria nemica, in netto svantaggio, perdeva sempre più terreno, ma sembrava tutt’altro che determinata ad arrendersi. Una bomba a mano sorvolò lo schieramento con una lunga parabola e si abbatté per terra esplodendo in una miriade di schegge. Gli uomini di von Kleist si buttarono a terra in copertura per evitare i detriti sollevati dall’esplosione; il tenente si sentì afferrare per il bavero da una mano rude e letteralmente scagliare dentro una buca mentre alcuni bossoli di proiettili tintinnavano contro il sasso che la sovrastava. Ripresosi dallo sbigottimento, Friedrich si tirò a sedere: accanto a lui c’era il giovane Kollwitz, che i soldati più anziani avevano soprannominato Torello per la sua stazza massiccia, con un ginocchio puntato a terra e il fucile diligentemente appoggiato alla spalla in posizione di tiro. Lo fissò per qualche istante con le sopracciglia aggrottate, poi imbracciò l’MP38 e si affacciò a sua volta. Con orrore constatò che, nel punto in cui la bomba era esplosa, giacevano i corpi di due soldati del suo plotone: uno giaceva immobile in un lago di sangue, dilaniato e ormai irriconoscibile; l’altro si contorceva emettendo lamenti strazianti, uno strappo di stoffa avvolto intorno al braccio maciullato. Era solo questione di pochi minuti prima che morisse dissanguato.
“C’è Lehmann ferito a terra!” gridò il tenente, sperando che qualcuno dei medici militari lo sentisse. Scrutò ancora una volta lo schieramento polacco, dispose la sua squadra a coprire le operazioni di soccorso e alzò ulteriormente la voce: “Lehmann necessita assistenza medica! È urgente!”
Subito dopo, due soldati con la croce rossa sull’uniforme e le facce stravolte accorsero tempestivi per trascinare via il ferito.
Von Kleist strinse più forte il suo Schmeisser contro il petto e, prima di lanciarsi nuovamente all’assalto, si premurò di riservare un’occhiata d’insieme agli uomini che lo fissavano con un misto di aspettativa e costernazione.
Al suo comando, i soldati si riversarono fuori dalla trincea come un’ondata di piena; di nuovo lo scontro divampò con ferocia, frammentandosi in tanti piccoli duelli individuali.
Friedrich si abbassò per evitare una fucilata che gli sfiorò di striscio l’elmo, si buttò con le ginocchia a terra e rotolò tra l’erba alta, inseguito dai proiettili di un tenente polacco. Una granata, lanciata da uno dei suoi soldati, esplose tra le linee nemiche generando una fontana di fumo che costrinse i polacchi a disperdersi in cerca di un riparo. Udì qualcosa di molto simile a un’imprecazione, e il tenente polacco proruppe in un urlo allarmato che fece da preludio a una nuova sequela di ordini ancor più secchi.
Al riparo dietro quell’intrico di frasche, von Kleist ne approfittò per studiarlo meglio: a occhio nudo non riusciva a distinguere i suoi lineamenti, ma si avvide che quell’uomo era piuttosto giovane, forse perfino più di lui. Era più alto dei soldati che lo attorniavano, ma l’uniforme troppo larga lo faceva sembrare esile come un giunco di palude. Eppure, resisteva in quel tumulto simile a un solido bastione di roccia; l’arma che gli pendeva dal collo prendeva l’altisonante nome latino di Mors wz. 39 – morte.
“Walcz!”
Friedrich aveva ormai imparato a riconoscere quel comando e, quando il polacco si lanciò al contrattacco guidando il suo plotone con le poderose raffiche del suo mitra, fu lesto a balzare fuori dal suo nascondiglio per inseguirlo, incalzandolo come un’ambita preda. Come un sol uomo, i suoi commilitoni lo seguirono. L’altro se ne avvide, i suoi occhi verdi furono attraversati da un lampo di sfida e di nuovo gridò ai suoi soldati qualcosa che von Kleist non comprese.
Trovandosi almeno cinque canne di fucile puntate contro, il tedesco arrestò la propria corsa come se un ostacolo insormontabile fosse emerso dal nulla per sbarrargli la strada, e scivolò trafelato dietro un robusto tronco d’albero mentre le pallottole schizzavano sibilando contro il suo riparo improvvisato. Il tafferuglio riprese con rinnovato vigore; rumore di spari ed esplosioni lontane coprirono gli ordini dei capisquadra.
Von Kleist si affacciò con cautela, come un predatore in agguato, strizzando gli occhi per individuare la figura del rivale. Gli parve di intravederlo mentre fuggiva, braccato dalla squadra di Hoffmann, poi avvertì come una sferzata alla spalla, un lungo brivido gli percorse la spina dorsale e la sua vista fu invasa da un lampo bianco.
Non si accorse nemmeno del grugnito che gli era sgorgato spontaneo dalla gola non appena il morso del piombo aveva lambito la sua carne, strappando la stoffa dell’uniforme e imbrattando di sangue la camicia bianca. Si appoggiò ansimando al tronco dell’albero, i denti serrati in una smorfia di dolore e il liquido scarlatto che gli colava tra le dita in piccoli rivoli. “Dannazione,” borbottò.
“Signor tenente!” Tra i suoni, che da ovattati e remoti riprendevano via via a farsi più chiari, la voce di Erich Kühn lo riportò alla realtà. “Signore, hanno catturato Hoffmann!”
Gli parve che lo scontro, dopo un breve istante sospeso, fosse ripreso con inaudita violenza – ma forse, considerò, era solo un’impressione dovuta alla sua momentanea impasse. Il dolore parve acquietarsi, cancellato da ogni altra sensazione, e il tenente fu nuovamente risucchiato dal vortice della battaglia. Ormai così vicini da colpirsi con daghe e calci di fucile, i soldati di entrambi gli schieramenti si accanivano gli uni contro gli altri in una specie di valzer della morte.
Friedrich udì un urlo alle proprie spalle e si voltò, angosciato, solo per vedere uno dei suoi camerati accasciarsi con un’ampia macchia di sangue all’altezza del torace. Il fucile ricadde ai suoi piedi ed egli lo afferrò da sotto le ascelle per sostenerlo ed evitargli di finire con la faccia nella polvere.
Si guardò intorno alla ricerca del suo ufficiale aggregato. “Leutnant Kühn!”
Prima che il giovane potesse rispondere al suo richiamo, qualcuno lo strattonò all’indietro e lo trascinò in un violento corpo a corpo, piombandogli addosso con la ferocia di un ghepardo. Colto alla sprovvista dal baluginio di una lama, von Kleist tentò di scrollare via l’avversario, più grosso di lui, colpendolo alla cieca con l’impugnatura del mitra. Si sentì mancare l’aria quando il freddo acciaio gli sfiorò la gola, cercò la pistola a tentoni e armò il cane con un gesto febbrile, puntando la canna contro la massa che lo sovrastava. Un singolo colpo squarciò la calotta di silenzio, e il soldato che lo aveva aggredito ristette inerte sulla nuda terra, senza emettere un lamento.
Il tenente si rialzò con gli occhi strabuzzati: aveva le mani sporche di sangue, senza neanche sapere più di chi fosse, e la bocca resa amara da uno sgradevole sapore metallico.
Una figura che egli percepì indistinta oscurò la sua visuale, proferendo frasi velate d’apprensione. “Signor tenente, lei è ferito!”
Von Kleist alzò la testa, ancora leggermente frastornato, e incontrò lo sguardo del suo secondo. “Nulla di che, Kühn. Non possiamo arrenderci ora, dobbiamo recuperare il sergente Hoffmann.”

  
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