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Autore: Old Fashioned    01/04/2019    16 recensioni
Guerra del Vietnam, 1968. Dopo aver combattuto in varie battaglie, un soldato viene allontanato dalla linea del fronte e collocato in un tranquillo magazzino delle retrovie. Nonostante la situazione comoda e poco stressante, è spesso tormentato da allucinazioni, al punto che fa fatica a distinguere ciò che realmente esiste da ciò che viene prodotto dalla sua mente.
I Vietcong che vede aggirarsi intorno alla base, ad esempio, sono veri o sono allucinazioni?
Seconda classifcata al contest "Spade Incrociate" indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Secondo capitolo del mappazzone, grazie a tutti quelli che mi hanno seguito fin qui, grazie a chi mi ha messo in qualche lista e un grande grazie a chi mi ha lasciato un commento!^^




Capitolo 2

MacFarland aprì lentamente gli occhi. C’era una luce grigiastra e priva di ombre. L’aria era pesante, caliginosa, carica di umidità e di un tanfo greve di fumo e corpi smembrati.
In bocca aveva un sapore metallico che non era solo sangue: c’erano bile, ferro, polvere da sparo e il sentore di marcio della giungla, che trasudava direttamente dalla terra rossa su cui stava appoggiando la faccia.
Tese l’orecchio: c’erano i soliti versi di animali, ma c’erano anche delle voci. Frasi brevi, ordini secchi ai quali faceva seguito qualche lieve tramestio.
La lingua non era l’inglese.
A una certa distanza echeggiò una detonazione.
Il soldato si forzò a rimanere immobile. Attraverso le palpebre socchiuse, vide un Vietcong aggirarsi con una pistola in mano tra i corpi stesi a terra. Un ferito si mosse appena, il vietnamita puntò l’arma e sparò due colpi. L'americano sussultò sotto l’impatto delle pallottole e poi rimase immobile.
Altri Vietcong si stavano allontanando con casse di materiale, oppure raccoglievano le armi e le munizioni che erano rimaste sparse in giro.
MacFarland conosceva quel comportamento: una fase lenta e tre veloci. I Charlie pianificavano attentamente, ma attaccavano, combattevano e successivamente abbandonavano la zona dello scontro nel minor tempo possibile.
Continuò a osservare.
I vietnamiti si spostavano tutti verso due o tre zone e da lì non ricomparivano. Anche i materiali rubati facevano lo stesso tragitto, a loro volta scomparendo senza lasciare traccia.
Non si stavano dirigendo verso la giungla, quanto piuttosto verso l'interno della base.
Un Charlie si mosse nella sua direzione. Guardò in giro, raccolse qualcosa vicinissimo a lui, poi tirò fuori la pistola e tolse la sicura.
MacFarland cercò di fare il vuoto in mente, come se i suoi pensieri avessero in qualche modo avuto il potere di rivelare al muso giallo che non era morto.
Il Vietcong puntò la pistola, sparò due colpi facendo sussultare un corpo a pochi passi da lui, poi rinfoderò l’arma e si allontanò con aria soddisfatta.
Il soldato lo seguì con lo sguardo fintantoché esso rimase nel suo campo visivo, poi si limitò ad ascoltare: ci furono qualche altro ordine, tramestii, rumori di legno spaccato e successivo cozzare di metallo. Altre figure passarono cariche di roba e scomparvero sempre negli stessi punti.
MacFarland ripensò a Dak To. Dove le avevano prese i Charlie tutte le bombe che avevano scaricato addosso alle postazioni americane? Dai cinesi e dai russi, certo, ma anche da razzie come quella che avevano appena portato a termine.
Si udì un lamento, una voce implorò qualcosa, seguirono due spari. Arrivò una ragazzetta che sembrava non più che quindicenne, con l’espressione cattiva e un M-16 in mano. Lo scrutò con l’aria di chi sta cercando di indovinare sotto quale delle tre tazzine si trova la moneta, poi alzò l’arma e la puntò nella sua direzione.
Alle sue spalle, qualcuno disse qualcosa. Lei si girò e rispose, la replica fu un ordine secco.
La ragazzina sbuffò e per dispetto fece partire una raffica, che dilaniò ulteriormente un corpo già straziato che giaceva vicinissimo a MacFarland. Al gesto fecero seguito delle risate e qualcosa che aveva il suono di un motto scherzoso.

Passò un tempo imprecisato. Il sole nel frattempo si stava alzando e su tutta la zona cominciava a gravare la consueta calura insopportabile. L’aria era immobile e conservava il tanfo di fumo e sangue, qua e là crepitava ancora qualche focolaio di incendio. Corpi e rottami erano disseminati ovunque.
MacFarland deglutì con fatica. L’arsura lo tormentava, il sole gli bruciava la pelle. Ricordava il colpo ricevuto, ma intorpidito dalla lunga immobilità non riusciva a capire quanto fossero gravi le sue ferite.
Ormai il silenzio regnava ovunque, i suoni della giungla stavano pian piano riprendendo tutto il loro primordiale vigore. Un uccellaccio dalle zampe lunghe atterrò sul piazzale e cominciò a girare becchettando qua e là. Quando rialzava la testa, aveva invariabilmente qualcosa di rosso nel becco.
Il soldato tese adagio i muscoli e con qualche smorfia di dolore cercò di muoversi. Sentiva male dappertutto, ma da nessun punto del suo corpo si irradiava il tipico dolore bruciante che faceva seguito a una pallottola.
Il che voleva dire tutto e niente, naturalmente. Aveva visto gente talmente anestetizzata dall’adrenalina e dallo stress da non accorgersi nemmeno che aveva perso qualche arto.
Si alzò in piedi, l’uccellaccio emise uno strido e volò via.
Vide una distesa di morti. Tutti i feriti erano stati finiti, tutto ciò che poteva avere qualche valore era stato portato via. In meno di tre ore, i Charlie avevano fatto piazza pulita di qualsiasi cosa.
Fece qualche passo incerto, si toccò cercando di capire se e quanto era ferito. Tossì e sentì in bocca una nuova ondata di sapore ferroso. Forse mi hanno colpito a un polmone, pensò con una strana indifferenza.
Emise un sospiro. Ricordava i discorsi dei suoi commilitoni sul ritorno a casa, sulla vita che avrebbero condotto dopo il Vietnam. Conosceva i loro progetti, le loro aspirazioni. Alcuni gli avevano anche mostrato fotografie di quello che li aspettava una volta che sarebbero finalmente stati lontano dalla guerra: fidanzate, macchine, case, amici…
Prese a camminare per la base. Nella calma di morte che regnava ovunque, i suoi passi echeggiavano sinistri.
Si imbatté nelle spoglie di Rosales. Qualcuno aveva infierito sul suo corpo in una maniera tale che persino lui, che aveva visto i massacri di Khe Sanh, dovette distogliere lo sguardo.
Si augurò che fosse già morto quando gli avevano fatto quello che stava vedendo.
Raggiunse la mensa e involontariamente deglutì al pensiero che lì dentro ci fosse qualcosa in grado di calmare l’arsura che lo stava divorando. Le razioni militari erano state perlopiù portate via, ma un po’ d’acqua era rimasta. La tracannò con tale foga che a un certo punto dovette interrompersi ansante. Inspirò due o tre volte, tossì e poi riprese a bere.
Quando si fu dissetato, tornò all’esterno. La calura si era fatta ancora più intensa, i corpi cominciavano a gonfiarsi. Nugoli di mosche ronzavano ovunque, un altro uccellaccio si alzò in volo gracchiando.
MacFarland si sedette su una cassa vuota, appoggiò i gomiti sulle cosce e il volto fra le mani. Il torace cominciava a fargli male, anche se la ferita doveva aver smesso di sanguinare. Considerò che Dio, se esisteva, doveva essere davvero un fine umorista: tutti quei ragazzi, che smaniavano per tornare a casa, erano morti. Lui invece, che era rientrato in anticipo dall’ultima licenza perché a casa si sentiva una specie di marziano, era ancora vivo.
Di nuovo fece scorrere lo sguardo sui corpi e a quel punto si accorse che alla base di una catasta di casse c'era un buco nel terreno. Fino a quel momento non l’aveva notato perché la catasta era sempre stata coperta da un telo mimetico, ma durante la battaglia esso era finito bruciato o strappato e il buco si vedeva molto bene.
Si avvicinò e si chinò per osservarlo: era largo circa due piedi e di profondità imprecisata. Realizzò che tutt’intorno c’erano contenitori vuoti, come se qualcuno avesse estratto le armi dalle casse di legno che le contenevano per portarle via più agevolmente.
Si rialzò pensoso. Li conosceva, quelli erano i tunnel dei Charlie. Sotto Saigon, a Chu Chi, ne avevano trovati di così profondi che nemmeno le bombe ordinarie dei B-52 erano riuscite a distruggerli.
Guardò di nuovo nel buco. Lì dentro erano finite armi che avrebbero ucciso altri ragazzi come quelli della base. Bravi ragazzi, che non chiedevano altro che di tornarsene a casa alla fine del loro turno in Vietnam.
Si voltò verso l’ingresso della base. Da una delle torrette pendeva un corpo, una strisciata di sangue ormai nero macchiava tutto il fianco della struttura. Entro breve sarebbe arrivato qualcuno, magari avrebbero anche chiamato i Tunnel Rat, che sarebbero scesi là sotto alla ricerca di Charlie, ma Charlie sarebbe stato già chissà dove, a ridersela degli americani, terribilmente soddisfatto al pensiero che li avrebbe uccisi con le loro stesse armi.
Di nuovo fece scorrere lo sguardo in giro, poi lo fissò sull'ingresso della galleria che si apriva ai suoi piedi. Poteva immaginare cosa ci fosse là sotto: trappole esplosive, buche piene di bambù appuntiti, scorpioni, strettoie... sapeva che i Tunnel Rat, quando scendevano nelle gallerie, si davano il cambio in testa alla formazione a ogni incrocio, perché nel pur breve tragitto quello che stava davanti aveva già rischiato abbastanza.
Ripensò a casa. Anche i Tunnel Rat speravano di tornaci, prima o poi.
A lui, invece, non importava.

§

La galleria, di terra battuta e alta poco più di tre piedi, si perdeva nel buio. Per lunghi secondi MacFarland si limitò a osservarla in silenzio, facendo scorrere sulle pareti scabre il fascio di luce della torcia. Qualsiasi cosa che si discostasse dalla normalità poteva celare una trappola: un'asperità sul pavimento, un muro troppo liscio o troppo irregolare, oggetti apparentemente dimenticati.
Tese l'orecchio e gli parve di udire, fioco e lontanissimo, un vago tramestio. Con la quantità di roba che si erano portati via, per forza di cose i Charlie dovevano procedere lentamente. Se avesse avuto la fortuna di non saltare su qualche booby trap, avrebbe anche potuto raggiungere la retroguardia del gruppo che aveva assaltato la base.
Dio li aiuti se succede,” disse a mezza voce, “perché farò esattamente come loro: non ne lascerò uno vivo.”
Poi l'avrebbero ammazzato, certo, ma fanculo.
La torcia nella sinistra e un Ka-Bar nella destra, la Colt 1911 in fondina, prese ad avanzare cauto.
Gli bastò poco per imbattersi nella prima trappola. Un piccolo corrugamento che attraversava il fondo di terra battuta lo fermò meglio di come avrebbe potuto fare un muro di mattoni. Vi avvicinò cauto la punta del pugnale e si accorse che si trattava del bordo di un pezzo di cartone, posizionato su una buca e appena coperto da uno strato di sabbia. Lo sollevò: sotto c'era una fossa larga quasi come la galleria e piena di bambù appuntiti, sporchi di feci e materiale putrescente. Se ci fosse finito dentro e non fosse morto per le ferite, sarebbe stata la cancrena assicurata.
Aggirò la fossa, spense la torcia e si accucciò. L'aria conservava una vaga traccia di sudore e olio per armi, le pareti erano percorse dall' impercettibile fremito di decine di piedi in movimento.
Lontano, davanti a lui, baluginò per un istante un debole sprazzo di luce giallastra.
MacFarland si mantenne immobile, limitandosi a stringere la presa sul pugnale. Come lui sentiva il loro odore, anche loro sentivano il suo: odore di sangue, del cibo americano che trasudava dai suoi pori e della sporcizia che aveva addosso.
Strinse gli occhi, colse di nuovo quello che doveva essere un tremolio di candela. Qualcuno, là in fondo, stava scrutando il buio esattamente come faceva lui. Probabilmente percepiva la sua presenza, ma non riusciva a localizzarlo.
Rimase immobile.
La luce di candela si spostò nel tunnel, rivelando la figura esile di un Charlie all'apparenza disarmato. Dava l'idea di essere appena un ragazzo, anche se non era mai facile attribuire un'età ai musi gialli.
Scattò in avanti, coprì in pochi balzi la distanza che lo separava da lui, lo rovesciò all'indietro approfittando della propria maggiore mole e mentre gli teneva una mano sulla bocca gli immerse il pugnale nel petto fino all'elsa. Rimase addosso a lui finché non lo sentì esalare l'ultimo respiro, quindi raccolse la candela, che nel frattempo era rotolata da una parte ma era rimasta accesa, recuperò il pugnale e proseguì fino a un bivio.
L'odore nelle gallerie era più intenso, nel buio si coglievano innumerevoli lievissimi rumori, un fruscio di abiti, l'eco di un respiro, un tramestio che era più che altro un vibrare appena accennato del pavimento.
Non lontano c'era gente.
Abbandonò a terra la candela, si spostò in una zona d'ombra. Poco dopo sentì una voce sussurrare qualcosa in tono interrogativo.
Rimase immobile.
La domanda si ripeté più pressante, alla mancata risposta fece seguito un confabulare rapido.
Passarono lunghi secondi di immobilità, quindi, silenziosi come ombre, sbucarono nel tunnel due Charlie.
MacFarland balzò in avanti, afferrò il più vicino per la sciarpa che portava al collo e mentre lo tirava verso di sé per impedirgli di scappare, aprì la gola dell'altro con un fendente.
Il primo estrasse a sua volta un pugnale, gli si aggrappò addosso con l'intenzione di colpirlo, egli si fece indietro schiacciandolo contro la parete, la lama gli baluginò vicino all'occhio, poi la candela si spense e si trovarono nelle tenebre più complete. Caddero a terra, il soldato vibrò un colpo su qualcosa di morbido, sentì una mano aggrapparglisi addosso, colpì una seconda volta e finalmente l'avversario ricadde inerte.
Si arrischiò a fare un po' di luce e vide brillare rasoterra, a pochi passi di distanza, il filo di una mina a strappo.
Lo oltrepassò con cautela, quindi spense nuovamente la torcia e rimase in ascolto, ma i corridoi erano perfettamente silenziosi.

Avanzò per un tempo imprecisato, un passo dopo l'altro, rannicchiandosi a ogni impressione di rumore, controllando ogni asperità sospetta di muri e pavimento.
Si accorse che la volta delle gallerie si stava alzando, tanto che ormai riusciva a camminare quasi eretto. Mentre prima faceva fatica a far passare le spalle, ora doveva allargare le braccia per toccare le pareti. In fondo al tunnel che stava percorrendo brillava una debole luce giallastra.
Di nuovo si appiattì e rimase in ascolto: voci, rumori. Toni tranquilli, addirittura rilassati. Gente che con ogni probabilità si aspettava tutto fuorché il suo arrivo.
Fece qualche altro passo, la luce divenne più intensa.
Sostò un attimo per abituare gli occhi, poi raggiunse la fine della galleria. A quel punto aderì alla parete mantenendosi in copertura, poi azzardò uno sguardo al di là: c'erano due Charlie di guardia in una camera circolare su cui si aprivano vari cunicoli. Una parte del materiale proveniente dalla base era ancora lì. Mentre osservava, sbucarono da una galleria dei tizi che raccolsero ciascuno un po' di roba e poi scomparvero in un'altra.
La cosa si ripeté varie volte. Nessuno parlava, tutti sembravano sapere esattamente cosa fare. Solo una delle due sentinelle disse qualcosa a un certo punto, provocando un breve scoppio di risa.
Immediatamente uscì da un altro cunicolo un Charlie che dava l'idea di essere un comandante o qualcosa del genere. Alla vista del nuovo arrivato, tutti si irrigidirono e immediatamente calò il silenzio. L'uomo, sopracciglia aggrottate, espressione dura, disse qualcosa in tono di rimprovero, indicò verso l'alto, probabilmente alludendo agli invasori imperialisti, e tutti annuirono e chinarono la testa.
Il lavoro riprese.
MacFarland rimase immobile. Il rischio di essere scoperto lo rendeva teso, ma solo perché poi non avrebbe più potuto ammazzare nessun altro. Per quanto riguardava lui, aveva abbandonato l'idea di uscire da quei tunnel nel momento stesso in cui ci era entrato.
Spostò lo sguardo verso la galleria da cui era arrivato il graduato: di sicuro far fuori un tizio del genere avrebbe creato più danni che abbattere fantaccini qualsiasi.
Aspettò che la camera circolare si svuotasse, poi abbandonò il suo nascondiglio e scrutò nella galleria da cui l'uomo si era affacciato. Era buio, ma nel silenzio che regnava ovunque si percepiva l'eco di più voci.
Vi si addentrò. Le voci si fecero più definite, gli parve che fossero quelle di quattro o cinque persone. Ne colse anche una femminile.
Si palpò velocemente le tasche dell'uniforme e ne trasse un fazzoletto da naso. Ne strappò due sottili strisce con i denti, le appallottolò alla meglio e se le premette nelle orecchie per evitare che gli spari gli facessero saltare i timpani, quindi tirò fuori dalla fondina la Colt 1911 e tolse la sicura.
Si avvicinò ancora. Sulla parete della galleria si proiettava un mobile alone di luce e il tono della conversazione, per quanto gli giungesse ovattato, non aveva elementi di allarme.
Erano belli tranquilli.
Impugnò la pistola a due mani e si lanciò in avanti.
Vide un tavolo coperto di mappe con della gente intorno. C'erano mappe anche alle pareti e una lampada a petrolio che pendeva dal soffitto basso. Delle armi erano appese in giro.
Sparò, nonostante i pezzi di stoffa nelle orecchie la detonazione lo fece rintronare. Uno dei tizi crollò all'indietro. Sparò di nuovo, due colpi in rapida successione, la donna si stava alzando, ma le pallottole la intercettarono a metà del gesto, sbattendola contro la parete. Una mappa del Vietnam del sud rimase penzoloni fradicia di sangue. Vide un tizio staccare l'AK-47 dalla spalliera della sedia, puntò la pistola nella sua direzione, sparò ancora. Beccò il quarto alla schiena mentre cercava di scappare.
Si fermò poi ansante nella stanza ormai piena di fumo. Probabilmente sarebbe stato meglio tagliare la corda, di sicuro gli spari avevano messo tutti in allarme, eppure non resisté alla tentazione di dare un'occhiata a quello che c'era sul tavolo.
Fece scivolare a terra il corpo di uno dei quattro, che vi era rimasto sopra riverso, poi si chinò a guardare: trovò una dettagliata mappa della sua base, comprensiva del contenuto dei vari magazzini, uno schema dei turni di guardia e uno dei percorsi di ronda.
Figli di puttana,” bofonchiò.
Continuò a osservare: una mappa della zona, con alcune basi cerchiate di rosso. Oltre a essere cerchiata di rosso, la sua era anche sbarrata da una croce, la qual cosa gli suggerì che l'assalto portato a termine fosse il primo di una serie.
Sollevata anche quella carta, MacFarland trovò qualcosa che gli fece emettere un fischio di meraviglia: c'era una mappa dettagliata al millimetro di tutti i tunnel della zona. Ogni galleria, ogni cavità, ogni trappola. “È una fottuta città,” non poté fare a meno di mormorare.
Tornò alla cartina con le basi, la piegò alla meglio e se la ficcò in una tasca dei pantaloni, poi prese quella dei tunnel e la ficcò nell'altra. Fatto questo agguantò una bussola di produzione americana che era lì in giro e intascò anche quella, poi diede un colpo alla lampada a petrolio, che si spaccò e sparse dappertutto il combustibile incendiato. Le carte rimaste cominciarono a bruciare.
Il soldato fissò per qualche secondo le fiamme che si levavano sempre più alte, quindi ghignò: “Adesso scoprite quali ho portato via, Charlie di merda.”
Percorse in senso opposto il breve corridoio e quasi si scontrò con un Viet che correva a sedare l'incendio. Gli piantò il Ka-Bar nella pancia, lo estrasse, lo piantò una seconda volta. Il muso giallo cadde a terra.
Lo scavalcò e sbucò nella camera rotonda. L'ambiente si stava riempiendo di fumo, qualcuno stava accorrendo con dei secchi d'acqua. Altri, armi alla mano, si guardavano intorno alla ricerca degli odiati Tunnel Rat.
Approfittando della scarsa visibilità, MacFarland sgusciò verso il tunnel che aveva percorso all'andata.
Accese la torcia per cercare il filo della booby trap. Non lo trovò, ma incalzato da un rabbioso vociare, non si soffermò sulla faccenda.
Non c'erano neppure i cadaveri dei Charlie che aveva fatto fuori: nella concitazione si disse che sicuramente li avevano già portati via.
Quando non trovò più nemmeno la bocca di lupo con i bambù appuntiti realizzò che aveva preso il tunnel sbagliato, e che solo per un incredibile colpo di fortuna non aveva ancora messo il piede su qualche trappola mortale. A quel punto si fermò e si guardò alle spalle, ma colse un baluginare fioco in lontananza: impossibile tornare indietro.
Strinse i denti. Sentiva contro le cosce lo spessore delle due mappe, ripiegate in fretta e alla meno peggio pur di poterle portare via. Ripensò alla battaglia, allo scenario che si era trovato davanti al sorgere del sole.
Rivide il corpo mutilato di Rosales.
Si voltò di nuovo verso il fondo del tunnel: qualcuno era già sulle sue tracce, la luce si stava facendo di attimo in attimo più intensa.
Riprese ad avanzare, sondando il terreno con la punta del coltello alla ricerca di possibili trappole.
Dopo un po' che procedeva, si accorse di un baluginare in lontananza di fronte a lui. Si immobilizzò: non era il chiarore giallastro di una fiamma. Era bianco, quasi azzurrato. Era naturale.
Si impose la calma: quello non era il momento di mettersi a correre per raggiungere un'ipotetica uscita.
Si rimise in movimento e infatti dopo pochi passi incontrò una copertura fatta di assi sottili appena spolverata di terra rossiccia. Ne sollevò una e la sua torcia illuminò una bocca di lupo piena di spuntoni acuminati.
Emise il fiato che aveva involontariamente trattenuto durante l'operazione, quindi aggirò l'ostacolo e rimise al suo posto l'asse.
Andò avanti. Man mano che procedeva, la luce andava facendosi più intensa. Era poco più che un debole chiarore, ma a lui, ormai da ore abituato al buio completo o all'esile pennello di luce della torcia schermata, sembrava quella di una lampada operatoria.
Il tunnel finì in una specie di slargo rotondeggiante, sulla cui volta si trovava uno sportello di legno. Dalle commessure tra le assi filtrava la luce del giorno.

MacFarland si issò rapido all'aperto, richiuse la botola da cui era uscito e cercò di mascherare ogni traccia del suo passaggio.
Quando ebbe finito, si guardò intorno tergendosi il sudore che gli imperlava il viso. Le fronde degli alberi erano così fitte che il cielo non si vedeva. Filtrata dallo spesso fogliame, la luce del sole era verde come sul fondo di uno stagno. Dappertutto vi era un lussureggiare di vegetazione, un sovrapporsi di palme, rampicanti, cespugli, erbe e tronchi, di ogni sfumatura di verde. Le cortecce erano coperte di muschio, il terreno era un tappeto di vegetali marcescenti e fango. Dalle cavità degli alberi sporgevano ciuffi di felci, da ogni ramo pendevano tralci di edera e liane.
L'aria era umida, pesante, immobile. Mille odori si mescolavano per comporre un sentore greve e putrido, che si appiccicava addosso come un abito bagnato.
Ovunque c'erano suoni di animali, e nugoli di insetti talmente densi che l’aria appariva opaca. Un serpentello color smeraldo saggiò l’aria con la lingua biforcuta, si lasciò cadere da un ramo e scomparve silenziosamente in una macchia di arbusti.
Il soldato si guardò intorno. Quanto poteva essere lontano dal punto in cui era entrato nei tunnel? La verità era che non ne aveva idea: camminare carponi nelle tenebre più complete non era esattamente il modo migliore per calcolare distanze e orientamenti.
In preda a uno strano presentimento, di colpo sollevò la testa e strinse gli occhi cercando di concentrarsi. Qualcosa in alto balzò con uno strido di ramo in ramo, un uccello si levò in volo emettendo un verso allarmato. MacFarland adocchiò un banano le cui foglie larghe arrivavano fino a terra: vi si infilò sotto, quindi raccolse qualche manciata di fango e se la spalmò addosso. Si accucciò in un mucchio di rami fradici e sfoderò il Ka-Bar.
Attese, normalizzando il ritmo del respiro e ignorando tutti i segnali di disagio che il suo corpo dolorante, esausto e assetato gli inviava. Cercò di farsi tutt’uno con l’albero sotto il quale si era nascosto, di fondersi con la sua corteccia, di annullare la propria umanità in favore di una nuova identità animale e selvatica.
Passarono lunghi secondi, poi cominciò a sentire dei passi leggeri in avvicinamento. Scrutò attraverso le foglie: due Vietcong armati di M-16 si stavano aggirando cauti.
Uno fece cenno all’altro di fermarsi, poi silenziosamente gli indicò la botola. L’altro annuì con fare consapevole.
Immobile, il respiro ridotto al minimo, il fango che gli si seccava sulla pelle, MacFarland osservava, cercando di farsi un’idea degli avversari. Sembravano due ragazzi, ma al solito era difficile dare un’età ai Charlie. Uno dei due continuava a guardarsi intorno con le sopracciglia aggrottate e le labbra strette. Si muoveva nervoso e teneva il dito sullo scatto dell’arma, pronto a far partire una raffica.
L’altro dava l’idea di essere più tranquillo, o forse solo più ansioso di tornare indietro. Scostò un ramo con la canna dell’M-16 e poi lo lasciò ricadere, producendo un fruscio che fece voltare di scatto il compagno.
MacFarland, immobile come il tronco contro cui era appoggiato, attese.
I due girarono lì intorno un altro po’, ma alla fine, delusi, si risolsero ad abbandonare la zona.
Il soldato non si mosse. Sempre con il vuoto in mente, seguì con lo sguardo una lucertola che camminava lungo un ramoscello, osservò un ragno scendere lentamente da un filo di seta e poi scomparire nella corolla di un fiore.
Scrutò di nuovo l'ambiente attraverso le fessure tra le foglie, ma tutto sembrava tranquillo. Si arrischiò a uscire.
La giungla era immobile, afosa e madida. Dava l'idea di un immenso corpo abbandonato nel sonno, nelle cui pieghe si sarebbe mosso sperabilmente non visto.
Sfilò dalla tasca dei pantaloni la mappa dei tunnel e prese a studiarla con attenzione. Conoscendo il punto in cui era sceso, tenendo conto del numero di intersezioni che aveva oltrepassato, forse sarebbe riuscito a capire in che punto della giungla era uscito.




   
 
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