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Autore: Sophie_moore    07/04/2019    0 recensioni
Questa storia partecipa al contest "Pesca nel mazzo" indetto da Ghostwriter sul forum di EFP.
[...]Kali rimase immobile ancora per qualche istante a guardare l’incresparsi delle
onde su loro stesse, poi sospirò pesantemente e tornò all’interno della sua
casetta. Era piccola, principalmente in disordine, ma era casa sua e la amava
profondamente, nonostante la odiasse.
[...]Cadde in ginocchio sulla sabbia scura, l’odore salmastro gli perforò le narici
fino a fargli male.
Stava svenendo. Stava certamente svenendo.
[...]«Basta che torni.»
Kalidwa la strinse tra le braccia e la riempì di baci, facendola scoppiare a
ridere. «Ti prometto che tornerò.»
[...]Stare con quella ragazza, quella giovane donna, lo faceva diventare matto. Era
buona, buona a un livello quasi nauseante.
Era estenuante.
Soprattutto continuare a mentire, e mentire, e mentire ancora.

Spero che questo piccolo esperimento vi piaccia!
Alla prossima,
Sophie
Genere: Avventura, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al contest "Pesca nel mazzo" indetto da Ghostwriter sul forum di EFP

Mi racconti la storia?  

 

«Sorellona, mi racconti la storia?» 

«La storia?» 

La bambina spalancò i suoi grandi occhi neri e si aprì in un sorriso luminoso. «Sì, la storia!» annuì per dare forza alla sua richiesta. 

La ragazza sorrise, si schiarì la voce e si sdraiò nuovamente accanto al corpicino minuto di sua sorella, inspirando profondamente il profumo del mare che le solleticava le narici. Non avrebbe potuto sentirsi più felice di così, con sua sorella accoccolata sulla spalla e il mare che danzava sotto di loro. 

«La Guerra incalzava ormai da qualche anno. Il numero di morti e feriti non faceva altro che aumentare, soprattutto per il povero mondo marino. Gli umani erano fieri del loro operato, seminando chaos e distruzione con le loro tremende macchine da guerra. Il popolo acquatico non riusciva a trovare le forze per reagire, tanto che il Re aveva deciso di arrendersi e consegnare il proprio titolo al Governatore umano. Sarebbe stata la fine del regno acquatico, ma il popolo sarebbe stato al sicuro, così diceva con voce lugubre.» 

La bambina annaspò, deglutendo.  

Era probabilmente la centesima volta che sentiva quella storia, ma non riusciva mai a frenare l’entusiasmo o nascondere la sorpresa. Forse era il modo in cui sua sorella parlava, o forse semplicemente amava così tanto quel racconto che ogni volta era come fosse stata la prima. 

«Il fatidico giorno arrivò, e mentre il Re avanzava in mezzo ai soldati nemici con fiera rassegnazione… ecco che si udì in lontananza un forte battito d’ali e-» 

«Lahira!»  

La bambina sobbalzò, soffocando in gola un urletto. 

Sua sorella scoppiò a ridere vedendo lo spavento. «Mi sa che è finito il nostro tempo, bambola.» le stampò un leggero bacio sulla fronte. «Ci vediamo domani?» 

Lahira si portò una mano al petto e calmò il battito, dando un’occhiataccia a Kalidwa. Si sporse dalla palafitta, vedendo una testa bluastra sbucare dal mare. «Mamma, ancora un attimo! Voglio sentire il resto della storia!» 

«No piccola, lo sai che hai un tempo limitato all’aperto.» Ana alzò un angolo della bocca in un mezzo sorriso. «Ciao Kali, come ti senti oggi?»  

«Meglio, grazie mamma.» Kalidwa si affacciò di fianco a sua sorella.  

«Ne sono lieta. Ci manchi tanto. Lahira, forza, torni domani.» tirò fuori dall’acqua le mani palmate e le batté tra loro, producendo un suono sordo.  

Lahira sbuffò, abbracciò forte Kalidwa e le diede un bacio umidiccio sulla guancia. «Domani la finiamo eh!» la minacciò, puntandole l’indice contro il petto.  

«Ma la sai a memoria!»  

«E che c’entra! Io la voglio sentire ancora, ancora e ancora! Finché me la racconti tu!» sorrise, mostrando i suoi dentini appuntiti, e si buttò in acqua con eleganza e grazia. «Ciao sorellona, buonanotte!» la salutò con la mano e si immerse. 

«Riguardati, va bene Kali?» Ana si sporse e prese la mano a Kalidwa, baciandola sul dorso. 

«Sì, mamma, tranquilla. Ci vediamo presto.»  

Ana annuì e seguì  Lahira sul fondale del mare, scomparendo nella notte. 

Kali rimase immobile ancora per qualche istante a guardare l’incresparsi delle onde su loro stesse, poi sospirò pesantemente e tornò all’interno della sua casetta. Era piccola, principalmente in disordine, ma era casa sua e la amava profondamente, nonostante la odiasse.  

Essere una meticcia aveva delle regole, non poteva vivere insieme alla sua famiglia se non per un paio di giorni al mese, non poteva essere parte integrante della società acquatica benchè non avesse caratteristiche fisiche tanto diverse da quelle canoniche.  

Poteva vivere in acqua tranquillamente, aveva il laccio per le gambe, i piedi e le mani palmate, ma il colore della sua pelle non era sul blu scuro e non aveva i lineamenti appuntiti. L’ovale era morbido, la dentatura aveva solo i canini pronunciati e leggermente arcuati, e la pelle era chiara, sul grigio perlato.  

Eredità di suo padre, non c’erano dubbi. 

Ana le aveva sempre dimostrato amore e calore, nonostante la loro separazione, e quando era nata Lahira l’aveva fatta sentire parte della famiglia. 

Solo il suo patrigno non le era legato in modo particolare, ma non era importante.  

Lahira era l’unica ragione di vita per Kalidwa 

Andò a sdraiarsi sul letto, inspirando. Era libera, nonostante tutto. Era sola, ma non lo pativa. Stava bene. 

Se escludeva il costante senso di nausea che la sua condizione le portava.  

In più, una volta ogni mese, puntuale come un orologio, il suo corpo sembrava dovesse accartocciarsi su se stesso, procurandole dolori a tutti i muscoli e ad ogni fibra. In più, doveva per forza stare all’aria aperta perché aveva bisogno d’ossigeno e quello dell’acqua non le bastava.  

Era successo, qualche anno prima, che quella condizione la prendesse durante i suoi giorni di permesso all’interno dell’acqua. Aveva pensato sarebbe morta, che sarebbe annegata, ed era assurdo da pensare per una sirena. Si era sentita così in colpa per la sua famiglia, per aver fatto assistere loro ad una scena del genere, e quello era uno dei motivi per cui non andava d’accordo col patrigno. Diceva di aver preoccupato Lahira, di averla terrorizzata e sconvolta, e non voleva più che succedesse.  

Almeno su quella cosa erano d’accordo. Non avrebbe mai più voluto farle vedere la sua debolezza.  

 

Odiava l’acqua. Non c’era cosa al mondo che detestasse di più: lo infastidiva l’odore, il suono che faceva, la percezione di essere bagnato anche a metri di distanza dalla riva, per non parlare del sale che si appiccicava addosso, ai vestiti e alla pelle indistintamente, rendendolo irritabile oltre misura. 

E il fatto che lui si stesse dirigendo a gran velocità verso l’oceano lo faceva sentire male. L’urgenza della sua missione batteva senza problemi il suo odio per il mare. 

Kole correva, correva a perdifiato finché il dolore alle cosce, ai polpacci, agli organi interni non lo costringeva a fermarsi per qualche ora. 

Aveva il netto presentimento che i polmoni gli sarebbero esplosi ancora prima di provare quella fastidiosa sensazione di averci dentro l’acqua.  

Eppure continuava ad aumentare la propria velocità, rischiando di inciampare in ogni rametto o sassolino.  

Già normalmente non era troppo aggraziato, né era troppo forte o resistente! Affannarsi così non era proprio una cosa da lui. 

Però doveva, e quindi muoveva i piedi uno davanti all’altro ad un’andatura che non gli apparteneva, facendo bruciare anche dei muscoli che non sapeva di avere.  

Erano giorni che non si dava pace e vedere l’oceano lo fece respirare, finalmente. 

Cadde in ginocchio sulla sabbia scura, l’odore salmastro gli perforò le narici fino a fargli male. 

Stava svenendo. Stava certamente svenendo. 

«Ehi!» 

Non si aspettava che ci fosse qualcuno di sveglio a quell’ora, il primo dei due soli stava iniziando a sorgere solo in quel momento. Doveva essere stato la prima cosa che quella persona vedeva, non la invidiava. 

Avrebbe voluto rispondere, ma non riusciva ad aprire la bocca, a malapena respirava. 

«Ehi, stai bene?» sentiva lo scricchiolare della sabbia intorno a sé, quindi la persona doveva essere ormai molto vicina. Aveva le forze ai minimi storici, non si sentiva più molte parti del corpo. 

Non avrebbe potuto risponderle neanche volendo, perciò si permise di socchiudere gli occhi. 

Chi lo avrebbe mai pensato che sarebbe stato salvato proprio nel posto che odiava di più. 

 

Kali schiaffeggiò quel ragazzo con forza per svegliarlo, farlo riprendere. Corse a prendere dell’acqua con le mani a conca, e gliela versò sul viso, ma niente, non dava segni di vita. 

Allora decise di insufflargli l’aria direttamente in bocca: tappò le narici e prese un profondo respiro che riversò immediatamente sulle labbra schiuse del ragazzo. 

Avrebbe preferito fargli delle domande, chiedergli chi fosse per essere arrivato al confine della terra, dove il popolo terrestre non si spingeva per una sorta di timore reverenziale, ma per farle avrebbe dovuto prima salvargli la vita.  

Perciò ripeté il procedimento per altre tre, quattro volte, finché l’estraneo non diede un forte colpo di tosse, tirando su il busto con uno strattone.  

Kalidwa cadde all’indietro sulla sabbia, portandosi una mano al petto. 

«Mi hai fatto prendere un colpo.» mormorò, sospirando pesantemente. Però sorrise. 

«Acqua…»  

Kali corse nella sua palafitta, prese una brocca e tornò sulla spiaggia. Il ragazzo se la rovesciò praticamente tutta sul mento e sul mento tanta era la foga con cui provò a bere. 

«Così ti anneghi.» 

Il ragazzo sdraiò, aprendo gli occhi e fissandoli sul cielo terso. Alzò il braccio destro e mosse le dita. 

«Stai bene?» 

Lui non rispose. 

«Come ti chiami?» 

«Mi serve l’aiuto di una sirena.» 

Kalidwa sbiancò, sbattendo forte le palpebre. Indietreggiò di qualche metro velocemente.  

«Sei una sirena? Devi aiutarmi, devi aiutarmi!» 

«Dimmi chi sei.» Kali lo guardava fisso negli occhi, senza cercare di distogliere lo sguardo. Il popolo terrestre e il popolo acquatico non erano mai andati particolarmente d’accordo, e non poteva significare niente di buono se un terrestre arrivava alle porte dell’oceano con una richiesta.  

Il ragazzo prese dei profondi respiri. «Sono Kole. E il mio popolo ha bisogno di te.» 

 

Sperava che, dicendo una cosa del genere, avrebbe convinto quella strana ragazza a seguirlo nella sua missione.  

Era convinto che fosse una sirena, lo poteva dire dalla sua carnagione, dai lineamenti molto delicati, e dal fatto che era totalmente diversa da lui, che era un umano.  

Non un umano nella sua totalità, ma era comunque appartenente alla specie terrestre.  

La sua condizione non era ottima, la sua famiglia era povera, erano pieni di debiti, ed erano emarginati da qualsiasi evento sociale, cosa che nella capitale cadevano ogni mese. Lui non poteva presentarsi.  

Colpa del suo aspetto, e di suo padre.  

Solo a pensarci gli veniva il nervoso e senza accorgersene si era messo le dita in bocca e aveva iniziato a mangiucchiarsi le pellicine attorno alle unghie. Sentì immediatamente il sapore ferroso del sangue, pungente e fastidioso, ma non poteva proprio farne a meno, non riusciva neanche a fermarsi. 

«Non posso esserti d’aiuto, mi dispiace.» disse con voce ferma la giovane, prendendo un respiro subito dopo. 

Si alzò in piedi, si scosse la sabbia dai pantaloni scuri e fece per tornarsene alla sua palafitta. 

Kole non poteva permetterglielo, non aveva tempo da perdere. «No, ti prego, mi serve! Solo una sirena può salvarci, e tu sei una sirena!» 

La ragazza tornò davanti a lui. Si abbassò alla sua altezza e lo guardò con una durezza a cui non era abituato. «Il tuo popolo ha ucciso e seviziato il mio popolo e tu ora cerchi il mio aiuto? Con che diritto! Con che faccia tosta!» ringhiò. Si mise in piedi e ripartì alla volta della sua abitazione, impettita e spedita. 

Kole sgranò gli occhi. Nonostante il dolore lancinante scavò nella sabbia per rimettersi in posizione eretta e la rincorse; le prese la mano e la tirò leggermente. «Tu non capisci!» 

«Io capisco benissimo invece! Sei tu che non capisci! Non voglio avere niente a che fare con i terrestri, dopo…» scosse forte il braccio e si divincolò, pronta a non voltarsi più indietro una volta mossa. 

«Mio padre ci ha abbandonati quando ero piccolo, ho pochi ricordi con lui, ma mi ha sempre detto che il popolo acquatico era un popolo pieno di gente di buon cuore! Un popolo che non avrebbe mai voltato le spalle ad una persona in difficoltà! La grande guerra racconta che-» iniziò a sciorinare, cercando di non incespicare nella sua lingua. Doveva fare in modo che quella ragazza lo seguisse di sua spontanea volontà, che lo riaccompagnasse alla sua città. In un certo senso lo stava anche facendo per lei, per il suo popolo, perché diavolo non lo stava ad ascoltare? Dirle la verità non era un’opzione pensabile. 

«So cosa racconta la grande guerra. La mia gente l’ha combattuta.» la ragazza indurì lo sguardo, indispettita.  

«Bene, io voglio evitare una seconda guerra.» 

«Per quale motivo dovrei crederti? Non mi hai neanche detto chi sei!» 

Kole prese un respiro. «Kole. Mi chiamo Kole. Il Re della nazione di fianco alla mia vuole iniziare una guerra a meno che non si presenti una sirena a corte. Il nostro Re ha organizzato un ballo, una maschera per una specie di riunione, tra una settimana. Ci saranno esponenti di tutte le razze conosciute: il mio Re vuole evitare la guerra, è anche nel tuo interesse.» 

«Mi stai mentendo. Sono certa che tu mi stia mentendo.» 

Kole fece un passo in avanti, trovandosi così a pochi centimetri dal suo volto. Poteva scorgerne ogni dettaglio, ma si incantò a guardarla negli occhi. Nonostante fosse leggermente più alta di lui, riusciva a vederla bene: iridi blu, ma blu come l’oceano, non un blu finto e statico. Sembravano quasi turbati dalle onde della marea. «Io non mento.» 

E stava mentendo. 

 

Kalidwa si era lasciata convincere. Non facilmente, certo, aveva dato del filo da torcere a quel Kole, aveva elencato ogni possibile motivazione secondo la quale avrebbe dovuto negare il suo coinvolgimento, eppure… eppure era lì, che stava aspettando la sua sorellina seduta sul bordo della sua palafitta, pronta a dirle qualcosa che mai avrebbe pensato di dirle. 

«Kali 

Il volto ancora paffuto e bluastro di Lahira sbucò dall’acqua, entusiasta come al solito.  

Kalidwa fece un sorriso. 

E Lahira si oscurò. 

«Che succede? È uno di quei giorni?» domandò apprensiva: mise le mani palmate sul legno e si tirò su, in modo da potersi sedere di fianco a lei. 

«No tesoro, no… è un giorno normale.» 

«Allora?» 

Kalidwa mise il braccio attorno alle spalle della sorellina. Le poggiò le labbra sulla tempia ancora umida. «Io devo andare in un posto. Lontano.» 

«Perché?» 

«Perchè è giusto che io lo faccia. Perché devo sventare una guerra.» 

La ragazzina tremò violentemente, così Kali la strinse più forte. «Sarà pericoloso?» 

«Non lo so, non dovrebbe. Sto andando in un posto in cui c’è ancora la pace, non mi succederà niente. Sarò di ritorno in due settimane, forse anche meno.»  

«Vengo con te! Fammi venire con te, come faccio per due settimane? Da sola?» 

Kalidwa sentì le lacrime che le pungevano gli occhi, ma le ricacciò indietro strizzando forte le palpebre. «Lahi, andrà tutto bene, te lo prometto. Davvero. Devi solo avere fiducia nella tua sorellona.» 

«Mi fido ciecamente di te. Lo sai. Non mi fido di quello là.» Lahira si staccò e indicò con la testa la spiaggia, dove Kole stava camminando avanti e indietro. «Non lo conosco, e non lo conosci neanche tu.» 

Kali sghignazzò. «Lahi…» 

«Perché vai? Simo in pericolo?» 

«Vado perché è quello che farebbe la mamma. E perché è quello che faresti tu, se ti fosse stato chiesto.» le diede un buffetto sulla spalla. «Vado a salvare il mondo.» 

Lahira rimase in silenzio per qualche minuto, e Kalidwa rispettò quel tempo, sospirando di tanto in tanto.  

«Oh insomma, non sei contenta?» 

«Sono preoccupata. Ma mi fido. Quindi puoi andare.» 

«Ah… “puoi andare”? Davvero?» rise, e Lahira rise con lei. Kalidwa si permise di osservarla un momento, persa nei suoi pensieri: era una bambina bellissima, e non lo diceva solo perché era sua sorella! Con quegli enormi occhi neri e la pelle blu, liscia e lucida, sarebbe diventata un’adulta meravigliosa e tutti i tritoni dei mari avrebbero voluto averla tutta per loro. Ma lei non sarebbe stata di proprietà di nessuno, sarebbe stata libera. 

Sempre che avesse evitato la guerra.  

Cosa di cui era terrorizzata. 

Conosceva benissimo la storia della Grande Guerra, e benché tutta quella parte dei draghi era assurda, una leggenda e niente di più, le razze di tutto il mondo si erano date battaglia. Mentre la razza degli umani continuava a vincere, i popoli minori, uniti in un’alleanza di fortuna, subivano perdite ingenti e continue, un’emorragia quasi infinita di guerrieri.  

Il Re delle sirene aveva vinto la sua battaglia siglando patti e sacrificando se stesso. Probabilmente avrebbe dovuto sacrificarsi anche lei, per proteggere Ana e Lahira. 

Era spaventata a morte.  

Ma doveva impedire una guerra, un’altra guerra, e la sua vita non valeva niente a confronto della loro.  

«Basta che torni.»   

Kalidwa la strinse tra le braccia e la riempì di baci, facendola scoppiare a ridere. «Ti prometto che tornerò.» non amava mentire a sua sorella, non amava mentire in generale, ma non poteva permettere che la sua integrità d’animo mandasse in malora tutto quanto. 

«Lo so, ti credo.»  

 

Kole era disperato. Non ne poteva più.  

Stare con quella ragazza, quella giovane donna, lo faceva diventare matto. Era buona, buona a un livello quasi nauseante.  

Era estenuante. 

Soprattutto continuare a mentire, e mentire, e mentire ancora.  

Non voleva farlo, non gli piaceva, era costretto a farlo, per la sua missione. 

Stava portando Kalidwa al macello. La stava vendendo al Re, a quell’uomo spregevole e senza cuore, che non faceva altro che torturare la povera gente con tasse e violenze gratuite. 

Come quell’assurdo festival che aveva deciso di dare. L’aveva indetto come se niente fosse stato, ma in realtà era chiarissimo che non fosse altro che una sanguinosa lotta alla sopravvivenza. 

Il possessore dell’esemplare migliore avrebbe ricevuto una grossa somma di denaro per aver intrattenuto il proprio sovrano. 

Vivere nella Capitale non era il sogno che tutti avevano sempre creduto, anzi. Vivere, per chi non era abbiente, era arduo oltre ogni misura. 

Per lui e sua madre, ad esempio, era atroce. Il più delle volte non sapevano come sarebbero arrivati alla fine della giornata, nonostante sua madre lavorasse da quando il primo sole sorgeva a quando l’ultimo sole tramontava.  

E suo padre era scappato, abbandonandoli spudoratamente. Odiava suo padre. E detestava quando sua madre lo difendeva, elogiandone la sua delicatezza, la sua dolcezza e purezza di cuore. 

Ecco che aveva di nuovo le mani in bocca, mordicchiandosi i lembi di pelle intorno alle unghie scure.  

«Sembra un bella scocciatura.» 

«Cosa.» sbuffò, aprendo per bene le mani e stendendo le dita, costringendosi quindi a smettere. 

«Ti stai mangiando le… dita? Sei una sorta di cannibale?» 

«Che schifo, no! È nervosismo. È solo nervosismo.» 

«Siete strani.» 

«Siamo strani?»  

«Voi umani.» 

Kole si fermò nel bel mezzo del sentiero. Erano in viaggio da ore, iniziava a fare buio, freddo, e il bosco non dava alcun segno di abitabilità. Aveva corso per due giorni, dormendo solo per due o tre ore, non si era preparato neanche un giaciglio comodo, si era semplicemente buttato contro un tronco e aveva chiuso gli occhi.  

Però non aveva la stessa fretta, ora, potevano permettersi del tempo per riposare.  

«Noi umani? Adesso vuoi dirmi che voi sirene non avete problemi con le figure genitoriali.» 

Le lanciò un’occhiata eloquente, alla quale lei roteò gli occhi. «Tutti i figli hanno problemi con i genitori.» disse, schioccando la lingua al palato. «E con i genitori adottivi.» soffiò, probabilmente pensando di non essere sentita. 

Kole sogghignò. «Patrigno o matrigna?» domandò.  

Gli sembrò di aver visto un leggero rossore sulle guance perlacee di Kalidwa. Quindi le sirene avevano il sangue rosso, interessante.  

«Patrigno.» 

«I patrigni sono i peggiori.» 

Si guardarono e si fecero un sorriso, il primo sorriso sincero da quando si erano conosciuti. Kole pensò che forse non era così pessima, quella ragazza. Dopotutto, anche se era schifosamente gentile, forse poteva essere una buona amica, una compagna di disavventure. Cosa che, per altro, era già, inconsapevolmente. Iniziò a sentire qualcosa, a livello di stomaco. 

E la mano era in bocca. Odiava quel tic. Non riusciva a controllarlo. 

«Dovremmo metterci a dormire, comunque. È tardi, abbiamo ancora tutto domani per camminare e… forse ancora il giorno dopo.» 

«La Capitale è così distante?» 

«No, se hai fretta no… noi non ne abbiamo tanta, possiamo riposarci.» sospirò. «Prendi delle foglie secche, facciamo un giaciglio. Dovrebbero esserci delle foglie larghe per coprirle… vedo se c’è qualcosa in giro, ci ritroviamo qui più tardi. Non fare niente senza di me.» 

«Sei un girovago? Ce l’hai una casa?» 

Kole inarcò un sopracciglio. «Che domanda è?» 

Kalidwa alzò le mani e fece una smorfia. «Niente, niente. Ci vediamo dopo.» 

Il ragazzo la guardò allontanarsi difficoltosamente tra l’erba alta e gli scappò una risata: sembrava così a disagio a camminare sulla terra ferma! Gli faceva tenerezza.  

Stava portando quella povera creatura al macello.  

Si tolse il dito medio dalla bocca e e sbuffò. Non era il momento per i sensi di colpa, servivano delle foglie larghe e grosse. Alzò gli occhi al cielo, cambiarono repentinamente colore e la pupilla si verticalizzò. Scovò una palma dal brillante colore rossastro, corse e spiccò un salto verso l’alto. 

Dopotutto, l’eredità di suo padre non era completamente da buttare. 

 

La terra era ostile, Kali l’aveva sempre saputo, eppure non aveva mai avuto una conferma così sonante come in quel momento, mentre schivava i rametti e gli arbusti la graffiavano. 

In acqua non c’era niente che le facesse un male simile, riusciva a muoversi molto meglio e le sue gambe non sembravano dei tronchi nodosi e difficili da manovrare.  

Avrebbe dovuto iniziare a passare più tempo in quello che era il suo mondo, perché suo padre non era un acquatico.  

Avrebbe dovuto accettarlo, prima o poi. Era stata abbandonata che era poco più che una bambina, aveva imparato a vivere da sola quando aveva più bisogno dei suoi genitori.  

Comunque, ce l’aveva fatta. Ci era riuscita bene, si sentiva una sirena decente, fondamentalmente sola, ma c’era Lahira che era la sua unica ragione di vita. Le mancava da morire anche se non la vedeva da poche ore.  

La aiutava così tanto con le relazioni interpersonali, lei era allegra e vivace, piena di amici. E le raccontava sempre di tutto quello che faceva, di come si divertiva, e Kali ricambiava raccontando storie del passato, tutte quelle che suo padre aveva lasciato alla palafitta. Sapeva leggere i libri umani, e qualche altra cosa delle altre lingue conosciute: a suo padre piaceva da morire leggere e insegnare a leggere, e Kali aveva così bisogno di attenzioni che non poteva fare altro che assecondarlo. 

Tutto quello che conosceva della gentilezza, di come si parlava con le persone, delle relazioni, l’aveva imparato lì. Era gentile, si sentiva gentile, eppure non riusciva ad avere un filtro tra quello che pensava e quello che diceva. 

Forse era stata scortese? 

Foglie secche, doveva trovare delle foglie secche. Non era più semplice dormire a terra e basta? Perché servivano le foglie secche? 

Quante ne avrebbe dovute prendere? Aveva interpretato bene la sua lingua? Era vero che parlava in un dialetto strano, con un accento particolare, però era abbastanza certa di aver capito cosa intendesse.  

Comunque, appena fosse tornata avrebbe chiesto. Forse avrebbe anche dovuto spiegare. Si sentiva leggermente ostile, ad essere onesta, eppure non poteva non sentirsi affine, data la simile situazione familiare.  

Si coprì la bocca con la mano, nascondendo un risolino. Sarebbe stato sensazionale se fossero stati fratelli da parte di padre! Assurdo, allucinante!  

Ma no, non era possibile. 

Scacciò quella remota, quasi impossibile, possibilità e tornò alla sua ricerca di foglie secche. Si tolse la parte superiore del suo abito, rimanendo con una fascia stretta di cuoio scuro, e iniziò a raccogliere le sue foglie.  

Eppure quel tarlo non le lasciava la testa. Non passava oltre. Pensava a qualcosa e subito dopo tornava alla domanda: “se fossimo fratelli”? 

Era da pazzi. 

Comunque, più ci stava sopra e peggio era, perché continuava a trovare delle similitudini fisiche. Forse gli zigomi, forse il taglio degli occhi? No? I capelli! Erano i capelli! 

No, non erano i capelli… era lo sguardo. Era quello che li accomunava. Lo sguardo. Gli occhi. Erano simili, dannatamente simili. 

Per il resto non si somigliavano granchè, fisicamente: Kole era piccolo, magro e “sproporzionato”, per i suoi standard. La pelle era chiara, bianca praticamente, riluceva, e gli occhi erano di un profondissimo verde, un verde che ricordava un prato solcato dal vento. O almeno, se lo immaginava così da come veniva descritto nei libri di suo padre. 

Raccattò tutto quello che riusciva nel suo abito e poi tornò di corsa allo spiazzo.  

«Ehi! Hai fatto presto!»  

Indurì le mascelle e strinse le labbra. Poi fece per aprire la bocca e parlare, ma la voce le morì in gola.  

«Stai bene?»  

Kole aveva un sopracciglio rosso inarcato. Si mosse in avanti, ma Kalidwa sgranò gli occhi. «Sì! Sì sto bene! Ho trovato queste foglie, bastano? Vanno bene?» rovesciò il contenuto del suo indumento a terra e lo mostrò.  

«Perfette! Possiamo prepararci allora.» Kole sorrise e iniziò a preparare i giacigli, impegnato e concentrato, così Kalidwa decise di lasciare perdere per il momento.  

Il viaggio sarebbe stato ancora lungo, aveva… tempo, sì, aveva tempo. 

 

Avevano passato il resto del percorso quasi in silenzio, Kole aveva iniziato da poco ad abituarsi al suo chiacchiericcio costante e continuo, alle domande su come funzionava quell’albero o quell’insetto, allo stupore per letteralmente qualsiasi cosa, che ora non sentirla più gli faceva strano. 

Quasi impressione.  

Aveva la sensazione che volesse chiedergli, fargli una domanda nello specifico, ma sembrava fermarsi appena prima di parlare. 

Comunque, andava bene così. Non voleva neanche affezionarsi troppo, visto dove la stava portando.  

Arrivarono alle porte della Capitale e Kole venne percorso da brividi di terrore e ansia.  

Non poteva negare di essersi fatto scrupoli: aveva pensato più volte di tornare indietro, o di raccontarle la verità, metterla in guardia su quello che sarebbe successo. Anche lei aveva una famiglia, anche lei aveva delle persone da proteggere, delle persone a cui teneva e a cui sarebbe mancata se non fosse più tornata…  

Ma sua madre. Sua madre dipendeva da lui. 

Era l’unica salvezza di sua madre, non poteva deluderla, non poteva permetterle di continuare a lavorare senza che il suo nome venisse riconosciuto, senza che potesse avere una vita normale! Proprio ora che poteva risolvere questo problema… non era il momento di farsi attanagliare dai sensi di colpa.  

Non aveva la certezza matematica che Kali avrebbe capito, quindi non era necessario che sapesse la verità. Gli dispiaceva, certamente, e se solo avesse potuto sacrificare se stesso l’avrebbe fatto senza pensarci, ma non poteva.  

Il Re era un mostro schifosamente colto e riusciva a riconoscere la purezza, cosa che lui chiaramente non possedeva. 

Si tolse la mano dalla bocca solo dopo aver sentito il sapore del suo sangue chiaro.  

«Questa è la Capitale?»  

Sorrise nel sentire di nuovo la voce di Kalidwa. «Sì. La riunione sarà domani, possiamo prepararci a dovere. Ti porto a casa mia, potrai lavarti e laveremo i vestiti… mangeremo e per domani saremo pronti.»  

Non aggiunse altro, nonostante percepisse la confusione di Kalidwa. Avrebbe dovuto portarla in giro e farle vedere la sua Capitale, ma la odiava, perciò non sarebbe stato affatto oggettivo. Le coprì, però, il viso e la testa con uno straccio, in modo che il colore della pelle e la forma del viso e ogni tratto somatico distintivo non si notasse. Non doveva lasciare che venisse presa da un cittadino: se solo l’avessero vista e riconosciuta come di un’altra razza e senza permesso, l’avrebbero potuta prendere da lui. Kole non aveva niente, non poteva possedere niente per legge, quindi non poteva esercitare nessun potere. Doveva evitare che gli fosse portata via proprio prima del festivl. 

«Ci sono delle regole. Gli stranieri devono passare all’Ufficio per registrasi 

«Stiamo andando all’Ufficio?» 

«No, solo i cittadini possono entrare.» 

«E tu non sei un cittadino?» 

Kole strinse le mascelle. «Sono figlio di una Senza Nome, non ho alcun diritto. Mia madre vive per lavorare e a malapena sopravviviamo, non possiamo permetterci di avviare le pratiche per il riconoscimento.» 

«Non capisco…»  

Kole sospirò, si fermò a lato della grossa strada e le prese la mano. «Lo so. Non è necessario che tu capisca. Questa zona è la periferia, potremo passare inosservati, ma devi fare comunque attenzione che non ti notino. Non è un bel posto.» spiegò a voce bassa. «Stai vicino a me, arriveremo a casa sani e salvi.»  

«Non pensavo fosse così pericoloso…» 

«Non lo è per tutti. Ma per te, e me, è un posto terribile. Mi dispiace di averti portata qui, non avevo scelta.» era la verità, per una volta.  

No, no, non doveva pensarci, non doveva più pensare a quello che stava facendo. Doveva pensare a sua madre. Solo a lei, a nessun altro.  

Svicolarono, si fecero spazio tra la gente che accalcava le strade di ogni dimensione, e arrivarono in poco tempo davanti ad una cancellata in ferro, scura. «Oh.» 

«Cosa?» Kole tirò fuori una chiave e la infilò nella toppa, aprendo su un enorme cortile.  

«Non pensavo che vivessi in un posto così.» 

«Non farti ingannare.» disse amaramente Kole. La fece entrare e chiuse a doppia mandata, per poi ricominciare a camminare a passo spedito.  

«Siete protetti, però. Nessuno può entrare.» 

Il ragazzo sentì un senso di nausea che quasi lo paralizzò. Si costrinse a continuare a camminare come se non fosse successo niente. «No Kali… nessuno può uscire.» esplicò, con voce atona.  

Aveva zittito la ragazza con quella frase.  

Il Re era talmente affezionato al suo popolo che aveva fatto costruire dei conglomerati di case in cui aveva stipato famiglie secondo un suo criterio specifico. Il suo conglomerato era l’ultimo nella lista, l’ultimo per diritto e il primo per doveri: i Senza Nome. 

Chiunque vivesse in quel posto aveva perso il diritto inviolabile alla vita, all’identità, al nome come punizione per un peccato di grossa portata.  

Kole, ad esempio, viveva nello stesso conglomerato di violenti criminali, lui che non avrebbe neanche saputo come uccidere un insetto, o sua madre che era forse la persona più dolce e inoffensiva del mondo.  

Non c’erano prigioni se non quelle del tribunale, che erano sempre e solo temporanee. Il Re decideva che punizione dovesse subire un accusato e la sua decisione era insindacabile, non era possibile proferire parola. I peccati più gravi venivano sanzionati con la morte in pizza grande, mentre quelli ad uno scalino leggermente meno gravi venivano castigati con la perdita dell’identità.  

Da lì nascevano i Senza Nome, persone che non potevano più definirsi, né possedere alcunché. 

Aggirarono un paio di casupole fatiscenti e si infilarono in una che sembrava essere tenuta meglio delle altre, almeno dalla facciata. La casa era stata costruita da Senza Nome, non aveva nessuna comodità. L’avevano arredata con mezzi di fortuna, il bagno l’aveva creato Kole con tubi di scarto e bacinelle dopo aver rubato alcuni pezzi nelle case più facoltose.  

Era un criminale, tanto valeva che si comportasse come tale.  

«Puoi andare lì, io ti pulisco i vestiti e… ci vediamo dopo.» spinse Kalidwa nel bagno e aspettò fuori dalla porta che lei gli consegnasse i vestiti. Prese una bacinella e si mise a lavarli di buona lena, senza fiatare. Il grande giorno stava per arrivare. Avrebbero abbandonato quella vita di stenti, avrebbero avuto un bagno vero, una cucina vera, avrebbero mangiato e avrebbero finalmente indossato dei vestiti che non sarebbero stati stracci arrotolati e annodati.  

«Kole… posso chiederti una cosa?» 

Tacque, sperando che desistesse. 

«Cos’è una Senza Nome? Cosa vuol dire?» 

Ecco, pensò, era proprio una cosa di cui non voleva parlare. Eppure, spiegò. Spiegò come funzionava la legge nella Capitale, spiegò come andavano le cose e come sarebbero sempre andate. Tanto valeva che sapesse, stava andando a morire. 

«Cos’ha commesso tua madre?» 

«Lei… non ci arrivi?» 

Kalidwa rimase in silenzio, così Kole continuò a lavare e strofinare, poi posò gli abiti puliti su una trave e li lasciò asciugare. Faceva caldo in quella stagione, ci avrebbero messo molto poco.  

«Sei tu il suo crimine, non è vero?» 

«Possiamo dire di sì. Mio padre non era registrato, lei ha avuto me e quindi… la legge è la legge.» 

Sentì Kalidwa ridacchiare dall’interno della stanza. 

«Ti fa ridere?» 

«Oh no, no… pensavo a quanto siamo simili.» 

«Simili?» “Tu sei pura”, continuò nella sua mente. Non aveva ancora la confidenza per poterlo dire a voce alta. 

«Non sai quanto, Kole 

Il giovane fece per chiederle delucidazioni, ma lei uscì dalla stanza con uno straccio attorcigliato addosso. «Vorrei riposare.» disse, e Kole la accompagnò nella stanza dove dormiva con sua madre. 

Dopo averla lasciata da sola, andò in quello che in un’abitazione normale sarebbe stato un salotto e si sedette a terra, portandosi le mani tra i capelli. Non poteva farcela. Non riusciva, non ce la faceva proprio, sembrava che dovesse morire da un momento all’altro. Lui non era una persona orribile, non si era mai definito tale, eppure stava tradendo quella ragazza che si era dimostrata così gentile e disponibile con lui, pur non sapendo assolutamente niente. Si sentiva bene con lei, si sentiva capito, si sentiva al sicuro, come se davvero fossero simili.  

La stava vendendo, però. La stava portando in una tana di belve feroci.  

Non era previsto affezionarsi, non era previsto che gli dispiacesse! Doveva essere una cosa semplice, prenderla e portarla, niente di più, e invece ora si interessava di come stava dormendo, o se avesse ancora fame dopo aver mangiato nel bosco. Aveva a cuore i suoi bisogni e questo era controproducente.  

Gli venne da piangere: perché doveva essere tutto così difficile per lui? Perché non poteva andare bene qualcosa, una cosa sola! Che andasse secondo i piani, che non lo facesse sentire come l’essere peggiore della sua specie? 

Non riusciva a passare oltre quei pensieri, si sentiva in colpa e non poteva nasconderlo almeno a se stesso.  

«Ciao ragazzo mio.» 

O a sua madre. Era arrivata nel momento peggiore in assoluto. Non si era neanche accorto che il secondo sole era tramontato. 

«Ciao mamma…» 

«Stai bene?» la donna gli si sedette di fianco, sorridendo dolcemente. Gli mise una mano sulla testa e gli accarezzò i capelli rossi. «Sei stato via dei giorni, e ora torni così affranto… sei riuscito a fare quello che dovevi fare?» 

Kole annuì.  

«Qual è il problema, allora?» 

«Se io facessi una cosa brutta. Ma brutta davvero, però la facessi per salvare qualcuno… cosa sarei?» 

«Saresti una persona, Kole. Una persona normale, con delle priorità. Devi solo chiederti se ne vale la pena, se la tua coscienza lo accetta.» fece una pausa, poi gli circondò le spalle col braccio forte. «Cos’hai fatto di cui non vai fiero?» 

«Ho mentito. Mentito ad una persona che non meritava una cosa del genere. l’ho convinta a fare una cosa con l’inganno e lei verrà sacrificata…» 

La donna prese il viso del figlio tra le mani e lo fissò intensamente negli occhi, perdendo quella dolcezza che aveva dimostrato prima. «Kole. Hai preso un’esponente?» 

Lui abbassò lo sguardo. 

«Rispondimi.» 

«Sì. Ho preso una sirena.» 

La donna spalancò gli occhi e si coprì la bocca con le mani. «Cosa… ma perché! Per quale motivo! Lo sai cosa succederà domani! Lo sai benissimo che non ne uscirà bene, forse non ne uscirà viva… e per cosa?» 

«Mamma io l’ho fatto per te! Perché riacquistassi il tuo nome, i tuoi diritti…» 

La madre lo riavvicinò, sospirando pesantemente. «Non lo rivoglio il mio nome, ragazzo mio, se deve essere pagato con la vita di un altro essere vivente. Se però ti ho fatto intendere una cosa simile, ho sbagliato. Riporta a casa questa creatura, non macchiarti di un peccato che la tua anima non potrebbe sopportare, sei ancora in tempo…» 

«Tu tornerai ad essere normale. Ho… ho tutto sotto controllo, te lo prometto.» 

«Kole, tu non…» 

«Buonasera, signora. Sono Kalidwa.»  

Madre e figlio si voltarono repentinamente verso la sirena, che fece un sorriso cordiale e si avvicinò a loro.  

«Ciao Kalidwa. Sono la madre di Kole. Spero ti abbia trattata bene durante il viaggio.» 

«Si è preso cura di me e mi ha preparata alla riunione… voglio evitare la guerra tanto quanto tuo figlio, sono pronta a tutto.» 

«Oh cara…» la donna la guardò con i suoi grandi occhi scuri e andò ad abbracciare Kalidwa. Le arrivava poco sotto la spalla, ma poco importava. «Spero che potrai perdonarlo, un giorno. È un bravo ragazzo, non farebbe mai del male a nessuno.» 

«Mamma.» 

«Scusate. Devo dormire, domani devo lavorare.» si alzò sulle punte dei piedi e diede un leggero bacio sulla guancia fredda di Kalidwa, poi salutò suo figlio e si ritirò in camera. 

«Sembra una donna molto dolce.» commentò la sirena, sedendosi a terra di fronte a Kole. 

Lui incassò la testa tra le ginocchia e chiuse gli occhi. «È la migliore in assoluto. Farei di tutto per lei.» 

«Lo capisco. Anche io per Lahira 

«Lahira 

«Mia sorella minore. Vive con mia mamma e suo padre, è sveglia, intelligente, mi manca da morire. Non vedo l’ora di tornare a casa per lei, sai? Ma la nostra missione è importante. Vedo che sei preoccupato, pensieroso, ma andrà tutto bene. Posso convincere il Re vicino a non iniziare la guerra, sono certa di potercela fare. E allora tornerò a casa, dalla mia sorellina.» 

«Quanto ha?» chiese con un filo di voce. Si stava punendo per quello che avrebbe fatto.  

«Molte meno Lune di me, purtroppo. Ma è molto saggia. Ha vissuto per dodici cicli, e ogni sera viene da me e sta con me per tutto il tempo che ha.» 

«Sembra simpatica.» 

«Lo è. È il mio cuore, devo proteggerla a tutti i costi. Ecco perché sono qui.» 

Kole si sentì mancare. Fortuna che era già sul pavimento, se fosse stato in piedi sarebbe certamente caduto. «Capisco.» aveva ragione, prima, quando aveva detto che erano molto più simili di quanto pensasse. 

Si stavano muovendo per lo stesso motivo, spinti dallo stesso desiderio. E allora perché Kole sentiva che era profondamente sbagliato? 

«Penso sia meglio dormire. Domani sarà una lunga giornata.» concluse Kalidwa 

«Torna pure in stanza… io rimango qui, ancora per un po’.» Kole si sforzò di sorridere. Tornò quasi subito alla sua posizione rannicchiata su se stesso.  

Sapeva che non avrebbe chiuso occhio, divorato dai sensi di colpa, tanto valeva lasciarle la branda e farle dormire un’ultima notte decente.  

 

Quando Kalidwa aprì gli occhi, la madre di Kole non c’era più. Aveva appena albeggiato, lo sentiva attraverso le finestre, così si stiracchiò le ossa stanche e si mise in piedi. Sperava che i suoi indumenti fossero già asciutti, il pezzo di stoffa che aveva usato il giorno precedente era ancora umido e freddo. 

Uscì dalla stanza e trovò Kole seduto al tavolo, con una ciotola di fronte e della brodaglia al suo interno. «Buongiorno.» lo salutò cordialmente. 

Kole non rispose, fece semplicemente scivolare la ciotola in avanti in prossimità della sedia vuota. 

«Vestiti e fai colazione, il Re ci sta aspettando.»  

Kalidwa obbedì. Si sedette e lo guardò di sottecchi mentre beveva il suo pasto – non sapeva neanche cosa stesse assimilando, andava bene tutto purché fosse nutriente. Sembrava ancora più turbato della sera precedente, non se la sentiva ancora di fare quella fatidica domanda.  

«Noi non siamo amici. Stiamo solo lavorando insieme.» 

«Oh…» gemette piano Kalidwa, ingollando l’ultimo sorso. Siamo fratelli, precisò mentalmente. «Va bene.» 

«Sei d’accordo?» 

«Assolutamente.» 

«Non c’è nessun sentimento tra di noi, niente. Non ci sono legami.» 

Avrebbe voluto dirgli che la realtà era ben diversa, ma desistette. Pensava che sarebbe stato meglio farlo dopo la riunione, dopo aver risolto quella faccenda che lo faceva stare così in pensiero. «Cosa facciamo ora?» 

«Andiamo alla reggia. Tu ti registrerai come una sirena e io come chi ti ha presentata, e le nostre strade si separeranno.» 

«Non rimarrai con me?» 

«No, è una riunione a porte chiuse. Il ballo si terrà alla fine della riunione e, come ti ho già spiegato, non sarà altro che una farsa. Il posto è ben sorvegliato, perciò non farti venire strane idee.» 

«Non vedo che idee dovrei farmi venire, dobbiamo solo parlare.» rispose pacatamente.  

Kole socchiuse gli occhi e annuì.  

«Andrà tutto bene Kole. Non devi preoccuparti di niente, so badare a me stessa.» ripeté per l’ennesima volta. Sembrava che quel ragazzo non avesse alcuna fiducia nelle sue capacità. Decise di lasciare perdere, comunque: c’erano molte cose che dovevano preparare, così abbandonarono il discorso ed uscirono di casa di fretta. 

L’atmosfera nella Capitale era diversa dal giorno prima, era molto più frenetica e sembrava che ci fosse dell’elettricità nell’aria. Kalidwa pativa l’elettricità, le dava dolori muscolari e mal di testa: sperava fosse solo una sensazione e niente di più.  

Si mossero con discrezione, evitando luoghi particolarmente affollati e tutte le guardie che incontravano, fino a che non arrivarono davanti ad un enorme cancello finemente lavorato. Contrariamente a come aveva immaginato, la reggia non si trovava sul limitare della città, bensì nel suo cuore, nel centro perfetto. Invece, notò la somiglianza con il castello che aveva visto più volte, quello a cui era più affezionata. Lo sfarzo e la passione per le architetture complesse dovevano accomunare tutte le razze, pensò.  

Grandi torri circondavano la struttura principale, il tutto immerso in un prato di un verde che non aveva mai visto prima.  

Una guardia li fermò all’entrata. «Presentazione e motivo.» 

«Io sono Kole e ho con me un’esponente.» 

La guardia inarco un sopracciglio scuro e lo guardò dall’alto in basso, scettico. «La punizione per aver affermato il falso in circostanze ufficiali è la tortura. Ne sei consapevole?» 

«Sì, signore.» 

Kalidwa rabbrividì dalla paura. La tortura? Per una bugia? Erano completamente pazzi. 

«Molto bene. Generalità e razza dell’esponente, generalità e razza del presentatore.» consegnò due fogli ai ragazzi, e ognuno compilò il proprio. 

Kali sentiva le gambe fremerle, come se stesse per svenire da un momento all’altro. Doveva ritrovare la sua determinazione e tornare in sé, o avrebbe combinato un disastro. Riempì il modulo e si guardò intorno: altre persone si stavano avvicinando, tutte coppie proprio come loro. Non riconosceva tutte le razze, ma doveva essere una riunione importante.  

«Sempre dritto, poi il presentatore girerà e l’esponente - » abbassò lo sguardo sul modulo e sgranò gli occhi. «la sirena entrerà dalla porta principale.» 

«Qualche problema?» domandò Kole, forse con un tono un po’ troppo aggressivo. 

«Non avevo mai visto una sirena dal vivo.» 

Lei allora sorrise e si scostò la stoffa dal volto, per farsi osservare meglio. «Buona giornata.» augurò, dolcemente. 

La guardia sembrò rimanere basita. Li fece passare e loro continuarono il loro percorso, in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Ogni passo che facevano li portava più vicino al compimento del loro destino e Kali faceva davvero fatica a trattenersi di dirgli che cosa aveva scoperto, durante quella notte. Prima doveva risolvere il problema della guerra, poi avrebbe risolto anche quell’affare.  

Arrivarono davanti al portone centrale, di un legno chiaro e spesso, e Kole si voltò a guardarla negli occhi. «Grazie, Kalidwa. Grazie davvero.» 

«Dopo la riunione… io dovrei parlarti di una cosa. Ti chiedo di aspettarmi qui, è importante.» annunciò con voce grave.  

«Farò il possibile per esserci.» 

Kalidwa si aprì in un largo sorriso e lo abbracciò con slancio, tirandolo leggermente su. «Allora… a dopo.» disse, poggiandolo di nuovo a terra.  «Vado a salvare il mondo.» prese un profondo respiro e aprì il portone. 

«Mi dispiace, Kali…» 

Si girò per chiedere di cosa fosse dispiaciuto, ma Kole era scomparso. l’aveva lasciata sola.  

Due donne la presero per le braccia e le misero degli strani bracciali ai polsi, trascinandola con forza per i corridoi. La spinsero su una rampa di scale, la portarono in quella che sembrava essere una cella in tutto e per tutto e la chiusero al suo interno. 

Non aveva avuto neanche il tempo di dire niente o spiegarsi, era stata imprigionata. Non si era ribellata, non aveva urlato, aveva solo subito il trattamento come fosse stata impietrita.  

Era una criminale? 

«Ci dev’essere stato un errore! Io sono qui per la riunione! Non sono una criminale!» urlò non appena si rese conto di essere lì ingiustamente. 

Un risolino attirò la sua attenzione e si sforzò di guardare al di là del corridoio, dove stava un’altra grata, e quindi un’altra cella. 

«Che cosa c’è da ridere.» 

«Non sono una criminale… c’è stato uno sbaglio… qui nessuno si è sbagliato. Sei un’esponente. Questo è il posto degli esponenti.»  

Kali non riusciva a capire chi stesse parlando, non riusciva neanche a vederlo. «Chi sei tu?» 

«Sono esattamente come te. Ma non ti preoccupare, fiorellino, il Re ti riceverà.» 

«Non capisco… la riunione, devo partecipare alla riunione, Kole mi ha detto che il Re vicino vuole iniziare una guerra e- perché stai ridendo?» 

Era una risata stridula, una risata malata, crudele. «Questo Kole ti ha mentito. Ti ha portata al macello. Il Re di questa nazione è crudele e sadico, odia ogni razza che non sia quella umana. Ogni dieci anni aggiunge un pezzo alla sua collezione.» 

«Che cosa?» 

«Sei un oggetto. Se gli piacerai, starai qui, se non gli piacerai, ti manderà alla gogna. È il nostro destino.» 

Kalidwa cadde a terra, in ginocchio. Era tutta una bugia. Una menzogna. 

Non stava sacrificando la propria vita per un bene comune, non stava salvando sua sorella, stava per morire per un folle. Per far parte di una collezione… come se fosse stata un libro o un gingillo.  

Si odiava per aver creduto a delle simile menzogne. Eppure in cuor suo lo sapeva che mentiva: aveva fatto finta di niente solo per credere che il suo destino fosse importante. Per amore proprio, insomma.  

Eppure ecco la conferma ufficiale del fatto che non valeva niente, che il suo patrigno aveva sempre avuto ragione a non volere che si mescolasse con la sua famiglia.  

Si odiava. Si odiava con tutta se stessa. 

Sperava solo che il Re la uccidesse, per non provare più quella vergogna. 

 

Kole camminava lentamente. Aveva detto che ci sarebbe stato, ma aveva mentito. 

Gli stava risultando fin troppo facile, doveva ammetterlo, e non li piaceva affatto. Era passata qualche ora, però si stava allontanando dalla reggia quasi controvoglia: sperava che Kali ne uscisse in fretta, dicendogli qualcosa come: “sono riuscita a fuggire e ti perdono”, ma sapeva che fosse del tutto impossibile. Forse era anche già morta. 

Sentì un rumore sordo, la terra gli tremò sotto ai piedi e si voltò spaventato verso la reggia.  

«Kali 

Senza pensarci due volte iniziò a correre a perdifiato, come aveva fatto pochi giorni prima. Scavalcò persone che urlavano e schivò guardie con le lance puntate per non far avvicinare nessuno. Le falcate erano lunghe e dolorose, i polmoni facevano male, bruciavano, ma doveva sapere che Kalidwa non fosse morta. 

Non sapeva neanche che cosa fosse successo, vedeva del fumo che usciva dalle torri delle prigioni reali e man mano che si avvicinava sentiva il terrore che lo pervadeva.  

Aveva strappato quella ragazza alla sua vita dicendole un sacco di bugie, solo per salvare se stesso e sua madre, e ora lei era molto più in pericolo di quanto non sarebbe dovuta essere. 

Si intrufolò nel castello, complice il parapiglia dovuto all’incendio, e corse su per le scale, quasi divorandosi i gradini. 

Le celle erano vuote. Le controllò tutte, dalla prima all’ultima. 

Erano tutte vuote. 

Dov’era Kali? 

Scese di nuovo e la cercò in ogni stanza, gridando il suo nome, finché non si ritrovò nella grande sala: le guardie stavano cercando di proteggere il Re, circondato da una serie di “esponenti” inferociti, armati con qualsiasi cosa avessero trovato. Scandagliò ognuno di loro, cercando la famigliare pelle perlata, ed eccola lì che brandiva un lungo bastone, sporca di sangue che non era il suo. 

Si sentì il fiato mancare.  

Che cos’aveva fatto? 

Kalidwa era una ragazza che si stupiva del perché un animale scappasse alla sua vista, o del perché i soli illuminassero fino a terra, ora stava combattendo per la sua vita, come lui avrebbe dovuto fare molti anni prima.  

«Kali!» urlò. 

La giovane si voltò a guardarlo per un solo momento, poi tornò alla sua battaglia. Le guardie attaccarono e Kole non poteva fare altro che osservare disperato. Non era un guerriero, non era un combattente, era un ladro e un imbroglione, non poteva fare niente per aiutarli. 

Poi guardò il lampadario in alto. Se solo fosse riuscito a saltare fino a lì, se solo fosse stato in grado di… di farlo cadere a terra, avrebbe salvato tutti, avrebbe salvato Kalidwa e avrebbe salvato il regno.  

Respirò profondamente per un paio di volte, recuperò la concentrazione, e tutto intorno a lui parve silenziarsi. Sentiva il rumore del suo cuore che batteva e il fiato che passava attraverso i denti.  

Saltò. Si appese al lampadario di cristalli preziosi senza essere visto e iniziò a calciare con tutta la forza che aveva sul gancio che lo teneva appeso. Calciò e calciò, in preda al panico, sperando che si trovasse soltanto il Re sotto di esso. Non voleva vittime innocenti, non voleva fare del male a nessuno! 

Il lampadario cadde e si frantumò, il Re sotto di esso con un’espressione sorpresa. 

Qualche guardia cercò di strisciare fuori, ma gli esponenti le presero a bastonate senza riguardi.   

Successivamente alzarono gli occhi al cielo, vedendo un ragazzino smilzo appeso alla catena. 

Kole si lasciò cadere solo quando vide che Kali si stava rialzando, piena di graffi, ma tutta intera. Non aveva forze per ammortizzare l’impatto, probabilmente si stava buttando tra le braccia della morte. 

Sarebbe andato bene così, comunque. Aveva deluso sua madre, aveva mentito ad un’innocente: almeno, se fosse morto, non avrebbe più fatto danni di cui si sarebbe pentito. 

Un battito d’ali lo riportò alla realtà e aprì gli occhi non appena sfiorò il terreno con i piedi. «Perché?» chiese, allibito.  

«Perché sei come noi.» disse il giovane uomo che l’aveva salvato, ripiegando le sue ali sulla schiena.  

«Il Re è morto.» sussurrò un’esponente. E poi un altro, e un altro ancora, e nella sala si alzò un vociare rumoroso. 

«La ribellione si è compiuta, amici miei.» l’uomo con le ali camminò sul lampadario, posizionandosi proprio al di sopra di esso. «Il Re è stato abbattuto. Per le leggi di questo popolo, il suo diretto successore sarà il nuovo sovrano, e benchè non sia grande abbastanza per regnare da solo, noi gli faremo da consiglieri. Siamo stati seviziati per anni da quest’uomo: meritiamo giustizia!» 

«Uccidiamolo!» una donna alzò la voce sopra tutti, e Kole tremò. «Uccidiamo tutti gli umani che ci hanno ferito! Uccidiamoli tutti!» 

«Noi non uccideremo nessuno.» disse l’uomo, mettendola immediatamente a tacere. «Creeremo un mondo in cui gli umani e le altre razze vivranno in pace e in armonia, educando il figlio del Re all’accettazione. Perché è questo che vogliamo, essere accettati e vivere senza la paura di una guerra imminente ogni volta che apriamo gli occhi. Gli umani hanno distrutto le nostre vite, noi saremo migliori.» decretò. 

Kole fece per allontanarsi, aveva tante cose da spiegare a Kalidwa, non aveva tempo da perdere, ma quell’uomo lo trattenne.  

«Giovane guerriero, come ti chiami?» 

«Io… io sono Kole e non sono un guerriero, te lo assicuro…» sbiancò, ingollando la saliva per l’ansia. 

«Desideri essere un nostro alleato, un consigliere del futuro Re?» 

«No! No, non sono degno.» guardava ovunque fuorchè negli occhi di quello strano individuo dalla carnagione verdastra e le iridi colore delle pesche mature.  

«Cosa desideri?» 

«Che mia madre riacquisti il suo nome. Non desidero altro. Voglio solo che non esistano più i Senza Nome.» 

L’uomo annuì elegantemente. «Molto bene. Sarà fatto. In onore del giovane che ha ucciso il Re, elimineremo quest’assurda usanza.» 

Sbatté le palpebre e spalancò la bocca. Aveva vinto. Aveva salvato sua madre! 

Si spostò velocemente, mentre il nuovo leader continuava a parlare di quello che avrebbero fatto e prese Kalidwa per una mano, trascinandola fuori dalla sala. 

«Ti devo parlare.» 

«Beh, adesso ti parlo io invece. Mi hai mentito, mi hai detto delle cose solo per portarmi qui e vendermi al Re! Lo sai cos’avrebbe fatto? Lo sai che cosa mi sarebbe successo?» 

«Io… sì, ma non avevo scelta, per mia madre dovevo-» 

«Io non sono pura, Kole! Non sono una sirena! Mi avrebbe uccisa immediatamente!» 

Kole cadde all’indietro, sconvolto. «Non…» 

«Non sono pura. Non sono nata da una sirena e un tritone, sono nata da una sirena e qualcos’altro. Mi hai mentito, mi hai tradita, mi hai venduta! E hai ancora il coraggio di guardarmi in faccia!» urlò. 

«Kali, non lo sapevo!» 

«Tu volevi una sirena da vendere per il nome di tua madre. Ha pianto, questa notte. Non sapevo perché, ma ora ho capito: suo figlio è un mostro.» sibilò. Lo sorpassò senza aiutarlo a rialzarsi, si tolse il sangue dal viso con una mano e lasciò cadere a terra il lungo bastone. «Torno a casa mia, da mia sorella. E non azzardarti a seguirmi.» 

Il ragazzo si alzò in piedi e le prese il polso, lei lo strattonò. «Aspetta Kali, posso spiegarti tutto.» 

«Non c’è niente da spiegare. Mi hai venduta. Hai venduto tua sorella. Oh non fare quella faccia: siamo simili, te l’ho detto. Mio padre è tuo padre, ho visto i ritratti. Sei mio fratello. E io mi ero fidata di te fin dall’inizio, pensando che fossi un disgraziato di buon cuore. Ma non ce l’hai! Non ce l’hai affatto e io ti odio.» 

«Sei mia sorella?» 

Kali allargò le braccia, sorridendo in un modo angoscioso. «Sorpresa. Ora non seguirmi. Non farti mai più rivedere.» ordinò, e se ne andò definitivamente. Kole la sentiva piangere, ma obbedì. 

Erano fratellastri. 

Come aveva fatto a non rendersene conto. Era stato così concentrato su di sé che non aveva capito, non aveva capito niente. 

 

Lahira guardò sua sorella, un’espressione chiarissima in viso. 

«No.» 

«No cosa?» 

«No, non lo farò mai entrare.» 

La ragazzina roteò gli occhi. «Perché no?» 

«Mi ha mentito. E mentito. E mentito ancora. Non ha fatto altro che tradirmi da quando è svenuto sulla spiaggia e io l’ho salvato. Io! Santo cielo, io l’ho salvato e lui mi ha tradita!» 

«Gli hai chiesto perché l’ha fatto?»  

Kali aprì la bocca e rimase così.  

«Non l’hai fatto, vero?» 

«Io non… non mi interessa!» 

«Seguimi, okay?» Lahira le prese le mani e le strinse tra le proprie. «Se tu fossi costretta a fare qualcosa che non vuoi, ma se da questa cosa dipendesse una cosa importante. Tipo… tipo io. Se da questa cosa dipendessi io, non saresti disposta a fare qualsiasi cosa?» 

Kalidwa sbatté le palpebre. «Io…» 

«Tu non ci penseresti due volte a fare qualsiasi cosa per me. E l’hai fatto, sei partita per qualcosa di cui non sapevi niente perché era giusto e perché sono certa che dipendesse anche la mia esistenza.» 

«Perché sei così saggia?» 

«Ho imparato dalla migliore.» Lahira sorrise angelicamente e le strinse l’occhio. «La mamma.» 

Kali rise e la spinse piano, facendola scoppiare in una fragorosa risata di conseguenza.  

«Sei la persona più coraggiosa che abbia mai conosciuto, e sei la più buona in assoluto, e sacrificheresti qualsiasi cosa per me e per fare la cosa giusta… lui potrebbe aver dovuto fare delle cose brutte, per te, ma che avrebbero potuto salvare qualcuno di molto importante per lui. Dovresti vedere le cose dalla sua prospettiva.» 

Kali sospirò e si voltò a guardare sulla spiaggia. Aveva lasciato Kole per sei giorni lì, da solo. Aveva anche diluviato. E lui era rimasto lì, immobile. Non si era avvicinato, né aveva tentato di parlarle, non si era mosso. Stava evidentemente aspettando che fosse lei a muoversi, perché lei aveva detto di non voler essere seguita. Se solo pensava a tutta la storia si sentiva male, ma parlando con sua sorella per la terza? Forse quarta volta, stava iniziando a capire come mai si fosse comportato in quel modo.  

Non tutti reagivano allo stesso modo alle difficoltà, molti reagivano con la paura, facendo errori e ferendo gli altri. Non voleva dire che fossero persone malvagie, però. 

«Andrò a parlargli. Non prometto che verrà a vivere sulla palafitta, ma gli parlerò.» parlò piano, con la voce bassa e dura. Non voleva che usa sorella si affezionasse a Kole come si era affezionata lei, per poi essere tradita. 

Scese le scalinate, camminò sulla sabbia fredda a piedi nudi, illuminata solo dal bagliore delle lune. Man mano che si avvicinava, percepiva sempre di più la voglia di tornare indietro e lasciarlo a marcire ancora un po’, ma andava avanti, passo dopo passo. 

Si ritrovò presto davanti a lui e gli porse la mano. 

«Sei un idiota.» 

Kole tacque. 

«E un cretino.» 

«Hai ragione. Non ho scusanti.»  

«Lo so. E non ti scuso. Mia sorella è una persona intelligentissima, mi ha fatto vedere le cose in un modo diverso. Sono ancora arrabbiata… però devo chiederti una cosa. Perché?» 

«Mia madre… mia madre sarebbe stata salva. Il suo nome sarebbe stato riaccettato e sarebbe tornata ad essere una cittadina normale.» 

Kali roteò gli occhi al cielo, si sedette pesantemente di fianco a lui. «Mia sorella è tutta la mia vita. Se qualcuno la minacciasse, farei di tutto per salvarla. Lo capisco, davvero.» 

«Non volevo mentire. Né tradirti.» 

«Hai dovuto. Ma non azzardarti mai più a comportarti così. La prossima volta mi spieghi, mi parli e troviamo una soluzione insieme.» 

Kole la guardò con gli occhi sgranati. Kali lo sapeva, anche se stava fissando il mare. «La prossima volta?» 

«Sei figlio di mio padre. Chissà quanti ce ne sono, come noi in giro per il mondo… che si sentono soli e disperati. Abbiamo avuto la fortuna di incontrarci e conoscerci.» 

«Vorrei stare qui. Con te e Lahira. Mia mamma non ha più bisogno di me, può vivere una vita libera dal fardello del bastardo…» 

Kalidwa si voltò verso di lui e sorrise. «Ti piacerà mia sorella. Ma se ti azzardi a trattarla come hai fatto con me ti sgozzo senza riguardi.» disse, candidamente. Si mise in piedi, si scosse le vesti e gli porse la mano. «Benvenuto nella tua nuova vita, Kole.» il ragazzo la afferrò e si fece aiutare a rimettersi in piedi. «Fratello.» 

Forse sarebbe stato difficile, e complesso, gestire due fratelli, ma sapeva che era la cosa giusta.  

«Andiamo, ti presento Lahi, è impaziente di conoscerti. È il momento della storia.» 

«La storia?» 

Kalidwa annuì mentre tornava alla sua palafitta, che ora avrebbe dovuto imparare a condividere. «Sì. Le racconto le storie che mi leggeva papà… ma oggi credo che cambierò.» 

«Sai già cosa raccontare?» 

«La storia di una ragazza che parte per salvare il mondo dalla guerra, con un ragazzo svenuto davanti casa sua.»  

Kole alzò un angolo della bocca. «Sembra interessante.» 

«Sicuramente ha un finale… inaspettato.»  

«Grazie, Kali…» sussurrò lui, quasi sicuramente a voce troppo bassa per essere sentito da orecchio umano.  

Ma Kali non era umana.  

«Hai detto qualcosa?» chiese,girandosi un poco. 

Kole distolse lo sguardo e scosse la testa. 

Sarebbe stata una vita intrigante. Gli avrebbe fatto passare ancora dei giorni un po’ infernali, lo avrebbe perdonato e sarebbero stati una famiglia.  

Sì, una famiglia nata in circostanze particolari, ma una famiglia a tutti gli effetti. 

  
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