Dal capitolo precedente:
"Lei gli prese il viso tra le
mani e gli accarezzò i capelli, dolcemente.
«Ben, fammi un
sorriso. È mezzanotte. È Natale.».
Ben distolse lo sguardo,
senza rispondere.
Tornò a
guardare il plico di fogli che aveva sulle ginocchia e finalmente
sollevò il cartoncino nero, scoprendo un foglio bianco sul
quale troneggiava,
al centro, una scritta in corsivo.
Il titolo.
Leggendolo, Ben sorrise.
“Sopravviviamo.”."
Per Lily
VENTI GIORNI DOPO – GIORNO 60.
Andrea
oltrepassò la soglia
dell’ospedale sulle proprie gambe e respirò
l’aria fredda di Gennaio a pieni
polmoni.
Era finita, finalmente.
Poi però i pensieri tornarono a scorrere nella sua mente e
il suo volto si
rabbuiò, di nuovo.
Non era vero, non era finita. Non sarebbe mai
finita, mai più.
Guardò poco distante da lei sua madre che controllava Aida,
seduta
sull’altalena nel giardinetto che sorgeva di fronte al grande
edificio: la
stavano aspettando.
Armandosi nuovamente di sorriso, raggiunse la sua bambina e la
abbracciò forte.
«Okay,
direi che siamo a posto.»
disse Ben tra sé e sé, controllando
l’interno di un cassetto del comodino in
quella stanza di ospedale.
Guardò il letto vuoto e le pareti bianche che lo
circondavano e come sempre
provò l’impulso irrefrenabile di scappare, di
allontanarsi da quel posto per
non rimetterci piede mai più.
Questa volta, però, sarebbe stato effettivamente
così.
Era finita, non avrebbe più trascorso intere ore in quelle
stanze asettiche,
Semir e Andrea andavano a casa e lui ne era enormemente sollevato.
Uscendo nel corridoio, vide Semir sulla sua sedia a rotelle che parlava
con
Christopher Schneider e, vedendolo, il sollievo lo abbandonò
del tutto.
Come sempre.
Li raggiunse con un sorriso stampato in volto, rivolgendo al medico un
veloce cenno
di saluto.
«Ben, ciao.» lo apostrofò Chris, con un
sorriso «Ho già spiegato tutto
all’ispettore Gerkhan, direi che dovete solo andare e tornare
a casa al più
presto.».
«Può anche non chiamarmi più
“ispettore Gerkhan”, dottore.»
puntualizzò Semir,
con un sorriso amaro.
Il medico rimase in silenzio, visibilmente a disagio. Errori del genere
con i
pazienti non poteva permetterseli, non più.
Aprì la bocca per scusarsi, ma Ben lo precedette, facendo
finta che quella
frase non fosse stata mai pronunciata.
«Non ti preoccupare, Chris, andiamo dritti dritti a casa.
Andrea è già giù con
sua mamma e Aida.».
Schneider annuì, guardando il ragazzo ed evitando invece lo
sguardo del suo
paziente.
«Bene... ecco, lei...» balbettò,
rivolgendosi nuovamente a Semir «Lei... lei e
sua moglie dovrete assolutamente continuare a prendere i farmaci che vi
ho
prescritto e... e le visite, venite alle visite di controllo, va
bene?».
Il turco annuì «Certo, va bene. Grazie di
tutto.» fece, porgendogli la mano.
Il medico la strinse con vigore, guardandolo finalmente negli occhi.
«Ho fatto solo il mio lavoro. Buona fortuna.».
Semir accennò a un sorriso, poi distolse lo sguardo e
cominciò a spingere la
propria sedia verso l’ascensore, senza aspettare Ben, che
invece rimase fermo
ancora per qualche istante accanto al chirurgo.
Ben
guardò l’amico avviarsi lungo
il corridoio silenzioso e gli occhi gli divennero lucidi.
«Ehi, Ben, guardami.» fece Schneider, prendendogli
le spalle e costringendolo a
guardarlo negli occhi «Ben, non fare così,
okay?».
Il giovane ispettore scosse leggermente il capo, si passò
una mano sugli occhi.
«Guardalo, Chris. La sua vita è distrutta.
È su una sedia a rotelle. Io... io
sto male a vederlo così.».
«Lo so, Ben, lo so. Perché gli vuoi bene. Ma lui
ha bisogno che tu sia forte,
lo sai.».
Ben annuì, con un sospiro.
«Io non so come ringraziarti. Non sei stato solo il suo
medico, tu hai aiutato
tantissimo anche me, davvero.».
Schneider sorrise, guardando il ragazzo con un affetto quasi paterno
«Lo ripeto
anche a te, ho fatto solo il mio lavoro. Se avessi bisogno di qualcosa,
di
qualunque cosa, chiamami. Va bene?».
«Okay, grazie.».
«Ora raggiungi il tuo amico e uscite da questo dannato
ospedale.».
Ben rise, rivolgendo un ultimo cenno di saluto al medico e avviandosi
verso
l’ascensore, ma l’uomo lo richiamò
ancora una volta.
«Ben, aspetta, dimenticavo...» disse, estraendo
dalla tasca un biglietto da
visita e porgendoglielo «È di uno psicoterapeuta.
Ora è anziano, ma è bravo,
molto, lui mi ha... mi ha aiutato molto dopo quello che è
successo, dieci anni
fa. E credo che Semir e Andrea avranno bisogno di aiuto.».
Ben prese il biglietto e lo mise in tasca, senza leggere il nome che vi
era
scritto sopra.
«Vedi, Chris? Tu fai molto più del tuo lavoro.
Grazie.» mormorò, allontanandosi
e raggiungendo Semir davanti alle porte dell’ascensore.
Sarebbe rimasto grato a quell’uomo per sempre.
Ben
fece scattare la serratura e
aprì la porta di casa Gerkhan senza lasciare nemmeno per un
attimo che il
sorriso che si era stampato sul volto uscendo dall’ospedale
potesse sparire dal
proprio viso.
Tenne la porta aperta mentre Andrea varcava la soglia di casa, seguita
da Aida
che teneva stretta la mano della nonna.
Semir, invece, rimase indietro.
Ben corrugò appena la fronte non vedendolo entrare, ma poi
lo notò fermo a
pochi passi dalla soglia, sulla propria sedia a rotelle, girato verso
il
giardino antistante la villetta.
«Ehi socio... non entri?» gli domandò,
appoggiandogli una mano sulla spalla e
facendolo quasi sobbalzare.
«Arrivo.» mormorò il turco, con un
sospiro.
Quindi girò la sedia e
varcò la soglia,
senza degnarlo di uno sguardo.
«Finalmente,
mi mancava la mia
casa.» esclamò Aida, sprofondando sul divano e
annusando l’aria come se non
tornasse in quel luogo da anni «A te non mancava,
mamma?».
«Ma certo che mi mancava, tesoro.» rispose Andrea,
scompigliandole i capelli e
poi lasciandole un tenero bacio sulla fronte «Ben, vuoi un
caffè?».
Ben annuì, accettando volentieri.
Mentre Andrea faceva gli onori di casa, quasi come se
dall’ultima volta che
aveva preparato un caffè a Ben non fosse accaduto nulla di
terribile, Helen Schäfer
si dileguò, salutando la figlia con un bacio sulla guancia e
scusandosi,
dicendo che sarebbe andata a casa e che per qualsiasi problema sarebbe
tornata
immediatamente.
Ben guardò con tenerezza l’anziana signora,
pensando a quanto anche lei avesse
dovuto sopportare. La accompagnò alla porta, salutandola con
affetto e
aspettando che sparisse in fondo alla via prima di tornare in casa.
Quando richiuse la porta, Andrea era in cucina con Aida ad aspettare
che il
caffè fosse pronto, mentre Semir era rimasto immobile
nell’ingresso, assorto
nei propri pensieri.
La voce squillante della bambina arrivava dall’altra stanza e
al ragazzo,
nonostante tutto, metteva allegria.
Si avvicinò all’amico, con un sorriso.
«Socio...».
«Quando la pianterai di chiamarmi così,
Ben?» lo interruppe Semir, bruscamente.
Il più giovane rimase di pietra, in silenzio.
«Non esiste più nessun socio, non lo
capisci?» continuò l’altro, alzando la
voce.
«Semir, dai, non dire così...».
«Non dire così, certo, che cosa dovrei
dire?».
Ben non rispose.
Pensò ansiosamente a che cosa avrebbe potuto dire per
tranquillizzare l’amico,
per aiutarlo, ma la verità era che non sapeva come fare. E,
peggio, lui non
voleva essere aiutato.
«Non sarò mai più il tuo socio,
Ben.» continuò Semir, con più calma,
abbassando
la voce «È tutto finito, non posso più
fare niente. Vorresti sentirmi dire che
sono felice di essere tornato a casa? Non lo sono... io non sono
felice.».
«Lo so, socio. Ma io continuerò sempre a chiamarti
così, perché per me socio
non significa solo compagno di
pattuglia.» fece Ben, sedendosi sul divano a pochi passi
dall’amico «Il fatto
che tu sia su una sedia a rotelle non significa che tu non possa
più fare
niente... devi reagire.».
«Non voglio reagire.» sillabò il turco,
ora sottovoce.
«Ma devi farlo, Semir! Fallo per Andrea, per Aida... fallo
per Lily...».
«Lascia perdere Lily.».
«Non lascio perdere Lily.» insistette il
più giovane, guardando l’altro negli
occhi «Non lascio perdere Lily, perché so che lei,
una volta cresciuta, avrebbe
desiderato che tu andassi avanti. Che tu continuassi a
vivere!».
«Lily non crescerà mai perché
è morta ed è morta per colpa mia.»
sbottò Semir,
alzando nuovamente la voce «E non dirmi di non sentirmi in
colpa, Ben, perché è
così, è stata colpa mia. E il fatto che io sia
una sedia a rotelle è... io
sarei dovuto morire.».
«Hai mai pensato che c’è un motivo se
non sei morto, Semir? Lo hai mai
pensato?» gridò a sua volta Ben, protendendosi in
avanti.
«Perché evidentemente la mia condanna è
quella di sopravvivere e lui lo
aveva capito fin dall’inizio. Lui
ha sempre avuto ragione.» replicò il
turco, senza distogliere lo sguardo.
«Lui? Forza, pronuncialo il suo nome, Semir. Pronuncia quel
nome, dannazione! È
morto, è finita ormai, lui non c’è e
non ci sarà mai più.».
«Quel vigliacco diceva di essere condannato a sopravvivere
tanto quanto me, ma
poi si è suicidato. Dimmi perché lui
si è potuto arrogare questo diritto. Dimmi perché
lui è morto e io invece
devo essere ancora qui!».
«Perché lui non aveva altre ragioni per
vivere.» esclamò Ben, accorgendosi solo
in quel momento di quanto i loro toni si fossero accesi. Sicuramente,
dall’altra stanza, Andrea aveva potuto udire tutta la
conversazione.
«Lui non aveva altre ragioni per vivere.»
ribadì l’ispettore, abbassando la
voce «Tu le hai, Semir. Devi vivere per Lily.».
Semir aprì la bocca per ribattere, ma vide Andrea comparire
sulla soglia della
stanza e lasciò perdere.
La donna rimase ferma a fissarlo un momento, leggendo negli occhi del
marito
una disperazione che era anche la sua disperazione.
Poi abbozzò un sorriso e si rivolse a Ben «Il
caffè è pronto, venite in
cucina?».
Il giovane ispettore annuì, alzandosi dal divano.
Fece per raggiungere la sedia di Semir per spingerla fino alla stanza
accanto,
ma l’amico si era già mosso da solo.
Sospirò, lanciando ad Andrea un’occhiata
preoccupata, ma lei diresse lo sguardo
direttamente a terra.
N.d.A.
Eccoci qui, la famiglia Gerkhan finalmente a casa e noi a due capitoli
dalla
fine...
Grazie sempre, a presto!
Sophie