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Autore: Saelde_und_Ehre    08/04/2019    7 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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VI.
Dort, wo die Sterne stehn am Waldesrand,
es blüht die neue Zeit
 

Terminata l’ispezione, il maggiore Bühler tornò al proprio posto nelle avanguardie occupate dalla fanteria. Anche se il viaggio di ritorno non fu rocambolesco come quello dell’andata, quando finalmente smontò dalla Kübelwagen, l’ufficiale aveva il respiro corto e i capelli irti sulla nuca, mentre il suo berretto era volato chissà dove nel fango. Il caporale Schmidt, invece, continuava a balbettare frasi sconnesse in preda al terrore, asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica della divisa. “Grazie a Dio, signore… grazie a Dio siamo riusciti ad arrivare sani e salvi,” articolò infine, gli occhi verdi dilatati come quelli di un cerbiatto.
“No, è grazie a quello”, replicò il maggiore, indicando il mitra che aveva nuovamente appoggiato sul sedile posteriore. Si scostò dal fianco crivellato della vettura e trasse la mappa dal portadocumenti che portava alla cintura, per poi spiegarla sul cofano e riportare i progressi dell’avanzata. pensò di chiamare a rapporto i comandanti di plotone, ma dopo aver dato un’altra occhiata complessiva al campo, decise che sarebbe stato lui ad andare da loro.

Era difficile capire quanti fossero i nemici, celati da una spessa nebbia grigiastra, ma i continui tonfi dei mortai pesanti e le detonazioni dei cannoni lasciavano presagire che, molto probabilmente, i pezzi d’artiglieria in supporto alla fanteria erano aumentati. Bühler avanzava cautamente tra sacchi bucherellati, residui di filo spinato e relitti di equipaggiamenti abbandonati nel fango. Molti soldati feriti bagnavano la terra col loro sangue, mentre i medici di campo correvano avanti e indietro per trascinarli via; qualcuno, esanime, sembrava morto. Erano penetrati così a fondo nello schieramento nemico che, tra i soldati che giacevano malconci contro alcuni ridotti, vi era un considerevole numero di prigionieri polacchi, opportunamente disarmati e sorvegliati. Qualcuno di loro gli lanciava strane occhiate, altri chiedevano a gran voce un goccio d’acqua, ma i più lo ignoravano, rassegnati alla loro sorte.
Si accorse di essere vicino alle prime linee quando vide, a qualche decina di metri da lui, l’imperversare di una mischia furiosa: i polacchi si difendevano con le unghie e coi denti, determinati a resistere fino all’ultimo uomo, mentre i tedeschi avanzavano imperterriti, più che mai sicuri della vittoria. Nonostante la vistosa fasciatura intorno al braccio nerboruto, Walkenhorst continuava a guidare la sua compagnia all’assalto.
“Signor maggiore!” Schütze agitò la mano per farsi notare in quella fiumana di uomini urlanti. “Il signor capitano rende noto che…”
Non terminò la frase, perché una granata piovuta da chissà dove volò talmente bassa da costringere entrambi a gettarsi a terra. Bühler si rannicchiò contro una barriera di sacchi, con entrambe le braccia a proteggere il capo, mentre l’ordigno s’infrangeva con violenza contro un albero. Si udì lo scricchiolio sinistro del legno divelto e la sommità del fusto abbattuto si schiantò al suolo; lingue di fiamma lo inseguirono e lo ghermirono ruggendo.
Il viso affondato nel fango, il maggiore sibilò tra i denti un’imprecazione. Forse troppo tardi, una fitta pungente al fianco gli ricordò la scheggia che lo aveva colpito qualche giorno prima e, subito dopo, anche gli avvertimenti del medico che lui aveva puntualmente dimenticato.
Si rialzò barcollante, tossendo per via del fumo che gli s’insinuava nei polmoni e per le vampate di fuoco che producevano tutt’intorno un calore infernale. “Schütze?” chiamò con voce gracchiante, mentre si guardava intorno alla ricerca del fidato portaordini. “Schütze!”
Nessuno rispose; in sottofondo solo grida ferali, colpi di tosse e l’onnipresente crepitare delle mitragliatrici.
Bühler soffocò un’altra imprecazione. Adagiato contro un sasso, poco più avanti, il soldato giaceva ferito e rantolava affannosamente, con l’uniforme zuppa di sangue. L’ufficiale scavalcò il tronco carbonizzato con un balzo e sollevò l’uomo a peso morto per sottrarlo dal fulcro dei combattimenti. “Medici, c’è un emergenza!” tuonò.
“Signore, è pericoloso stare qui!” urlò un caporale che reggeva il nastro della MG 34.
“Voi pensate soltanto a eseguire gli ordini e non preoccupatevi per me!”
“Signor maggiore!” La voce trafelata di un portaordini, stavolta proveniente dalle retrovie, lo costrinse nuovamente a voltarsi. “Buone notizie dal colonnello Wolff,” ansimò il soldato mettendosi sull’attenti. Aveva ciuffi di capelli color stoppa incollati alla testa e il volto sporco di terra. “Il suo reparto si trova a tre chilometri da qui, insieme al generale von Salza: hanno conquistato un punto altamente strategico, e ci attendono alla base al termine di questa giornata!”
“Riferisca che li raggiungeremo una volta finito qui”, concluse il maggiore, prima di proseguire verso la prima linea.

Con una fasciatura sommaria legata alla spalla per arginare l’emorragia, il tenente von Kleist risaliva il sentiero scosceso in testa al suo plotone, tra pruni insidiosi e pietre sporgenti che ostruivano il cammino. Si guardò intorno con circospezione, senza perdere di vista gli anfratti in cui avrebbero potuto celarsi dei nemici: le chiome frondose degli alberi costituivano una cappa impenetrabile, che lasciava a malapena trapelare qualche raggio solare, mentre l’umidità gli alitava sul collo come il respiro di una creatura mitologica. Sulla sua fronte pallida il sudore si mescolava al sangue, il cuore gli martellava tra le costole con tale forza da fargli quasi male, le sue giunture erano logorate dalla lunga marcia. Inspirò profondamente e si diede un ulteriore slancio, giungendo a una biforcazione tra due sentieri invasi dalle frasche: il primo, ripido e impervio, risaliva verso altezze sconosciute; il secondo conduceva nel cuore pulsante e più buio della foresta.
Si voltò verso il sottotenente Kühn, aggrottando le sopracciglia.
E adesso dove andiamo? sembrò chiedergli il più giovane con lo sguardo.
Ignaro quanto lui, il tenente fece per prendere il binocolo, ma proprio in quel momento si udì un fruscio proveniente dal sentiero sopraelevato. Una pioggia di proiettili li investì, costringendo i soldati del plotone ad abbassarsi per evitare di venire colpiti. Un paio stramazzarono a terra, un terzo ebbe un sussulto e crollò a faccia in giù, immobile nella polvere.
Subito dopo, una voce rude latrò un ordine, e una dozzina di soldati polacchi emersero dal folto della selva puntando i fucili contro di loro.
Von Kleist strinse i denti, rigido come una statua. Aveva riconosciuto all’istante quella voce: era quella del tenente con cui si era scontrato poco prima. Lui e i suoi camerati dovevano agire in fretta, se volevano liberare il sergente Hoffmann e tornare dal comandante di compagnia entro l’orario convenuto.
Scambiò un’occhiata d’intesa col sottotenente Kühn e il ragazzo comprese all’istante.
“Pronti… copertura!” ordinò poi, in tono fermo.
I tedeschi si dispersero in varie direzioni; von Kleist strisciò dietro un cespuglio e tempestò i nemici in avvicinamento con una raffica di mitra. Due o tre ricaddero all’indietro, gli altri corsero al riparo sfruttando la protezione di alberi e sterpaglie intricate.
“Fuoco!”
Subito le detonazioni secche e lunghe dei fucili si sovrapposero al crepitare continuo degli MP38.
All’ordine del tenente tedesco seguì un analogo ordine in polacco, e la danza letale del piombo riprese con rinnovato vigore.
“Kühn, le affido il comando del plotone!”
“Sissignore!”
Friedrich non ebbe bisogno di voltarsi a guardare i suoi uomini in cerca di conferma: sentiva che stavano combattendo come un branco di leoni, tutti quanti accomunati dallo stesso scopo, e quella volta fu lui, a colpo sicuro, a imboccare il sentiero che s’inerpicava in salita e a lanciarsi all’inseguimento del suo rivale.
Rami contorti si protendevano come artigli pronti a stritolarlo, radici nodose sembravano spuntare dal nulla per fargli lo sgambetto, ma il giovane procedeva imperterrito, seguendo lo scalpiccio degli stivali del tenente polacco che segnalavano la sua posizione prima ancora che egli potesse vederlo.
“Fermati!” gridò, estraendo la pistola.
L’altro rispose qualcosa che suonava come un insulto, il tramestio dei passi si fece ancora più concitato. Friedrich si abbassò per schivare un ramo troppo basso, ne spezzò un altro che gli ostruiva il passaggio e scavalcò agilmente un tronco caduto, per poi avvistare oltre un drappo di foglie l’uniforme verde oliva dell’avversario. Solo allora, il tenente notò che le brache del giovane erano strappate e intrise di sangue, una ferita alla coscia aveva ormai inzuppato un’ampia porzione di tessuto. Si guardò brevemente intorno: si trovavano in una piccola radura, costeggiata su un lato da un rigagnolo che catturava i riflessi del sole e delimitata sull’altro da una balza di nuda terra, alla quale erano ancorate le robuste radici degli alberi che incombevano su di loro.
Sentendosi braccato, l’ufficiale polacco sparò a vuoto una raffica di mitra come ammonimento, nella vana speranza di forzarlo ad arretrare, ma subito dopo inciampò in una radice per evitare una pallottola che gli rimbalzò sulla calotta dell’elmetto.
Von Kleist approfittò della sua distrazione per balzargli addosso e agguantarlo per il bavero, scaraventandolo a terra e puntandogli la canna della pistola in mezzo agli occhi. Il Mors wz. 39 rotolò per terra, l’aquila polacca fu ghermita dall’aquila teutonica. Inchiodati dallo sguardo glaciale del nemico, gli occhi verdi del tenente si dilatarono per il terrore e le sue membra vennero attraversate da un tremito. Tuttavia, il suo contegno non diede alcun segno di cedimento.
Friedrich accarezzò il grilletto con fare intimidatorio, pur sapendo che non si sarebbe mai abbassato ad uccidere un nemico ferito e inerme. “Stai fermo o sparo,” gli ingiunse ruvidamente.
Il polacco annuì e mostrò i palmi delle mani in segno di resa.
Von Kleist lo obbligò a rialzarsi con uno strattone, gli immobilizzò le mani dietro la schiena e gli premette la pistola contro la nuca scoperta. “Vieni con me”, ordinò.
Non potendo far altro che obbedire, il tenente polacco si lasciò trascinare docilmente su per il sentiero, rabbrividendo al contatto del freddo acciaio sulla pelle.
“Muoviti,” intimò von Kleist al prigioniero.
Pur non dando mostra di conoscere il tedesco, l’altro parve recepire e affrettò il passo.
Solo allora, libero dall’urgenza pressante di ghermire la preda, il giovane fece caso a quanta strada avesse percorso in quella selva infida per inseguirlo. Sembrava che quel percorso serpentino non finisse più, anche se man mano che si avvicinavano al luogo da cui erano partiti, la vegetazione si faceva più rada e il cammino più lineare. Stille di luce facevano risplendere le foglie come smeraldi, e gli scoiattoli si arrampicavano sui tronchi venati di muschio. Un’immagine evanescente, forse una suggestione della sua mente, gli restituì l’impressione di aver già visto quello scenario, da qualche parte nei boschi del Brandeburgo. E per la prima volta dopo giorni, nonostante le ferree convinzioni e la devozione alla causa che lo avevano condotto in terra nemica, Friedrich si trovò a desiderare di essere altrove.
Così assorto, fu ridestato dal fischio di un ordigno piovuto da chissà dove.
Il polacco gridò un raus pronunciato col suo bizzarro accento; il tedesco lo spinse in avanti con sollecitudine, sempre sotto la minaccia delle armi, ma nessuno dei due ebbe il tempo né la prontezza di riflessi per precedere lo schianto: l’obice fece frusciare le foglie al suo passaggio e poi arrestò la propria parabola andando a sbattere contro la parete del declivio. Un lampo giallastro accompagnò l’esplosione, e l’incendio divampò come l’immondo ruggito di un mostro ancestrale, pronto a divorare e inghiottire qualsiasi cosa incontrasse lungo il suo cammino. Senza volgersi indietro, i due tenenti si lanciarono a rotta di collo giù per il sentiero, mentre le fiamme dilagavano aggredendo gli alberi, si gonfiavano e mugghiavano in una minacciosa danza di lingue rosseggianti. Nell’aria torrida e ormai rarefatta, che si stringeva sempre più intorno a loro come una morsa letale, il fumo s’addensava, riempiva gli occhi di lacrime e rendeva difficoltoso pompare ossigeno per correre.
Cercando di rintracciare il rivale, che ormai lo aveva distanziato di molte falcate, il tenente von Kleist si premette con forza la manica dell’uniforme contro naso e bocca e si impose di affrettare l’andatura. Non ebbe fatto che pochi passi quando una zaffata di fumo gli fece perdere l’orientamento e la punta del suo stivale sbatté contro qualcosa di duro, spedendogli una fitta di dolore che dalla gamba gli risalì fino al cervello. La terra gli mancò sotto i piedi e, dopo una breve caduta, il suo corpo atterrò di malagrazia su qualcosa di duro e compatto. Per un istante, la sua vista fu velata da una cortina di tenebre indistinte.
Si tirò su dolorante, accorgendosi di essere finito lungo disteso su un letto di foglie secche. Alzò la testa e comprese di essere ruzzolato oltre il bordo del sentiero, che lo sovrastava di un paio di metri. Tutt’intorno a lui, i caratteristici odori del sottobosco e delle foglie decomposte tornarono a riprendere il sopravvento sull’insalubre sentore del legno bruciato, mentre il fumo si disperdeva in pigre folate.
Ogni tanto, al di là del muro arboreo riecheggiava qualche sparo isolato, che il suo orecchio allenato riconobbe perlopiù come appartenente ai fucili Mauser 98k in dotazione ai soldati della Wehrmacht. Ancora più distante, come tuoni lontani, scoppi d’artiglieria indicavano che non molto distante fosse in corso un altro scontro. Del polacco, che sicuramente aveva approfittato del caos per dileguarsi, non vi era più nessuna traccia.
Ringhiando per la frustrazione, il tenente recuperò gli oggetti che si erano sparpagliati durante la caduta e si apprestò a raggiungere i suoi commilitoni.
La ferita alla spalla aveva smesso di bruciare, ma in compenso, tra la caduta e la colluttazione, doveva essersi procurato altri graffi e contusioni che il suo stato alterato gli impediva di rilevare. Non poté però fare a meno di notare che, sebbene il cuore del bosco pulsasse di vita, in quella zona liminale si udivano soltanto lo stormire delle fronde scosse dal vento e il crepitio dei rametti sotto i piedi, come se anche gli animali, spaventati dalla furia della battaglia, si fossero andati a nascondere altrove.
Camminò per un tratto che gli parve infinito, seguendo i rumori delle armi da fuoco. Il tumulto si andò via via affievolendo fino a spegnersi del tutto, poi la voce del sottotenente Kühn s’impose sul silenzio richiamando all’ordine gli uomini del plotone.
Von Kleist drizzò appena le spalle, soddisfatto dell’operato del suo secondo, e riprese a camminare con rinnovata lena.
“Herr Oberleutnant…” mormorò una voce flebile, in tedesco.
“Sergente!” esclamò il giovane ufficiale, trasalendo. Di fronte a lui giacevano riversi due cadaveri che portavano l’uniforme dell’esercito polacco, ma non riuscì a scorgere alcun segno della presenza dell’uomo che lo aveva chiamato. Si appostò in copertura tra gli arbusti più alti, pronto a intervenire in caso di minaccia. “Hoffmann! Mi dica dove si trova!”
In quel momento, gli parve di notare una mano che spuntava da quella che sembrava una specie di tana di volpe. “Sono qui, signor tenente… non c’è nessun altro.” La voce del sergente appariva debole, smorzata, priva del suo solito vigore. Era come se ogni parola gli costasse un’immane fatica. “Quei due li ho uccisi io… ma per poco loro non uccidevano me.”
Senza abbassare la guardia, von Kleist si avvicinò al camerata e si chinò sull’orlo della buca: Hoffmann giaceva tremante, rannicchiato su un fianco con l’MP38 stretto contro il petto. Gli occhi turchesi erano spenti e gonfi di lacrime, che scavavano profondi solchi sulle guance insanguinate.
“Niente paura, sergente”, sussurrò il giovane, nel vano tentativo di offrirgli un po’ di conforto. “Venga con me, la battaglia è finita.” Gli tese la mano e Hoffmann la afferrò con una presa malferma.
Fece per tirarlo su, ma il sottufficiale ricadde in ginocchio e si piegò in avanti con un gemito strozzato, portando entrambe le braccia a coprire il fianco. “Mi scusi, signore… io non…”
Quelle parole lo fecero sobbalzare come una coltellata dritta nello stomaco. Solo allora, il tenente si accorse che un lato della giubba dell’uomo era completamente intriso di sangue fresco, dove s’intravedeva ancora il foro lasciato da un proiettile che doveva averlo colpito tra le costole. “Che cosa è successo, Hoffmann?”
“Ho tentato di fuggire, ma loro mi hanno inseguito…” sfiatò il sottufficiale provando a tirarsi su, i lineamenti del viso contratti in un’espressione sofferente. “E mi hanno sparato.”
“Non possiamo restare qui, sergente. Ce la fa a camminare per un breve tratto?”
“Signore, io… posso provarci, ma…” Non ebbe ancora finito la frase che le forze gli vennero meno e il tenente dovette offrirgli il braccio affinché non cadesse. Hoffmann soffocò un gemito, mentre il sangue riprendeva a scorrere macchiando l’erba.
Friedrich si morse il labbro inferiore, irresoluto. Si erano spinti fin lì per liberarlo, quando sarebbero potuti semplicemente tornare sui loro passi godendosi la vittoria, e non poteva permettersi di abbandonarlo alla sorte proprio in quel momento. Valutò che la ferita del sergente non era così profonda da metterlo in pericolo di vita: se un dottore fosse intervenuto tempestivamente per rimuovere la pallottola, gli sarebbe bastata qualche settimana di ricovero per rimettersi e tornare a combattere. Ma se indugiava… quanto tempo sarebbe passato prima che finisse dissanguato? “Si appoggi a me, presto, ci penserò io a sorreggerla,” ripeté, con maggiore perentorietà. Si abbassò per permettergli di aggrapparsi alla sua spalla, poi gli passò un braccio intorno al fianco ancora sano e lo aiutò a tenersi in equilibrio come meglio poteva: Hoffmann più alto di lui, gli gravava addosso con tutto il peso, ma il suo respiro affannato sul collo e la sua debole stretta intorno alla spalla furono per lui come una muta esortazione a raggiungere i commilitoni il più in fretta possibile, nonostante la fatica che rendeva il suo incedere fiacco e strascicato.
“Andiamo, Hoffmann”, disse incamminandosi, “un ultimo sforzo e poi ci riposeremo entrambi.”
Nelle condizioni di semincoscienza in cui versava, la presa salda del giovane ufficiale diede al sergente la forza per trascinarsi stancamente, un passo dopo l’altro, fin quando non rimase il suo unico appiglio nell’oscurità più totale.

L’aria era immota, caliginosa, le colonne di fumo bigio e rutilante occultavano la linea dell’orizzonte. Travolta in pieno, la fanteria nemica aveva iniziato ad arretrare come un moto di risacca, mentre la compagnia del capitano Fromm si muoveva per bloccarle la strada da tergo. Il capitano Bentheim, raggiunto il plotone mortai pesanti, fece un ultimo giro d’ispezione intorno alle bocche da fuoco: alcune erano ben protette dietro vere e proprie barricate di sacchi di sabbia, altre erano collocate in buche scavate nel terreno, e lasciavano intravedere solo l’estremità della canna che sporgeva oltre il bordo. In presenza delle artiglierie, surriscaldate dalle lunghe ore di attività, il calore era così intollerabile che molti serventi vi si aggiravano intorno a torso nudo, mentre il caposquadra si era tolto la giubba e la teneva ripiegata sul braccio, pur senza riuscire a impedirsi di sudare.
Quando si fu accertato che tutto procedesse come da ordini andò a chiamare il tenente Tiedemann, un giovanotto ben piantato ma non molto alto, col viso tondo e gli occhi che brillavano d’entusiasmo.
Il ragazzo era in camicia, visibilmente accaldato e coperto di fuliggine da capo a piedi, e portava le maniche rimboccate fin sopra al gomito. Dopo di lui, arrivarono anche un sergente, un paio di caporali e una mezza dozzina di soldati, che rimasero ad ascoltare le disposizioni del capitano con sguardi ricolmi di aspettativa. “A noi spetta l’arduo compito di tagliare la ritirata ai nemici, in attesa che la compagnia del capitano Fromm sopraggiunga sul posto per accerchiarli,” disse, fissandoli in faccia a uno a uno. “Ci restano poche munizioni, e ciascuna di esse dovrà centrare il suo bersaglio.”
“Non sprecheremo neanche un proiettile, signore!”
Bentheim sorrise come se si aspettasse esattamente quella risposta, s’intrattenne brevemente con loro e tornò a osservare il cielo, che appariva come una distesa informe di nembi scuri e pennellate di luce fosforescente. “Conto su di voi, ragazzi”, concluse infine, poggiando una mano sulla spalla del tenente.
“Non la deluderemo, signore,” assicurò Tiedemann.

Senza curarsi degli sguardi stupefatti dell’autiere, il capitano montò sulla Kübelwagen al posto di guida, mise in moto e si diresse a gran velocità verso il settore occupato dalla fanteria, impegnata in un cruento scontro in prossimità di alcune propaggini boscose. Parcheggiò la macchina in copertura nelle retrovie e s’immise nel flusso dei combattimenti.
Dispensava ordini, rampogne e incoraggiamenti, difendeva se stesso e i suoi soldati con qualsiasi arma gli capitasse a tiro, e nel mentre chiedeva informazioni sui comandanti di plotone agli uomini in cui si imbatteva lungo il cammino: sembrava che nessuno li avesse visti, concentrati com’erano a forzare l’avanzata tra le linee nemiche. In quel groviglio confuso, tra la nebbia, le urla e il tambureggiare delle sparatorie, era già difficile riconoscere gli amici dai nemici, figurarsi riuscire a distinguere i connotati di questo o quell’ufficiale. Mentre si guardava intorno alla ricerca dei subalterni, un soldato erculeo si fece largo tra le schiere brandendo una vanga da trincea. “Signor capitano, il tenente Koch riferisce di aver avvistato il plotone del tenente von Kleist!”
Il giovane non fece in tempo a rispondere: un istante dopo, un obice impattò tra le file di fanteria e sollevò un immane rigurgito di fumo e terra, simile a un geyser, generando una scia di panico che s’impadronì di tutti coloro che si trovavano a pochi metri da lì. Come se il suo corpo avesse assunto il peso e la consistenza di una piuma, Konrad si sentì sollevare da una forza sovrumana e fu scaraventato come un fantoccio contro il ridotto più vicino. Rimase per un attimo senza fiato, poi si coprì la bocca con una mano e tossì rumorosamente. “Wrede, riferisca a Hofmeister di mettersi in contatto col tenente von Kleist!” Si piegò di nuovo in avanti, scosso da un altro accesso di tosse, poi si massaggiò la schiena dolorante. “Unendo le forze, li respingeremo più in fretta!”
Il soldato, ex portuale di Amburgo, prese gli ordini e corse via a testa bassa, come un toro alla carica. Bentheim si alzò facendo leva sui gomiti e si guardò intorno col piglio di un veltro.
Avvolte dalla caligine rovente, brulicanti sagome scure si stagliarono in controluce, le canne di fucile bene in vista. All’ordine secco di un caposquadra, la maggior parte di essi si dispersero in varie direzioni. Solo un paio di soldati, avvertendone la presenza, scavalcarono il solco di una trincea e si fiondarono vociando sull’ufficiale tedesco. D’istinto, Bentheim estrasse la pistola con un gesto fulmineo e fece fuoco contro il più avanzato dei due. L’uomo stramazzò all’indietro lasciando ricadere la sua arma, ma l’altro gli piombò addosso e lo costrinse a scartare evitando una fucilata che lo colpì di striscio al fianco. Stringendo i denti, il capitano premette il grilletto ancora una volta e sparò all’ombra in avvicinamento, senza neanche prendere la mira. Quando alzò la testa, il soldato non c’era più.
Il sollievo che ne conseguì fu subito stroncato da una nuova consapevolezza, che percepì ancor prima di averne evidenza visiva: un alone caldo e vermiglio imporporava la sua uniforme, rendendolo un bersaglio facile ed estremamente vulnerabile. Raccolse da terra il fucile di uno dei due polacchi e si rialzò. “Qualcuno… qualcuno mandi a chiamare il tenente Koch!” gridò.
Subito dopo, il giovane ufficiale giunse prontamente a fargli rapporto della battaglia, con ancora l’MP38 sottobraccio: era pallido e malconcio, con una fasciatura candida che s’intravedeva da sotto l’elmetto d’acciaio ma, quando vide il suo capitano in quello stato, i suoi occhi castani si velarono d’apprensione. “Signore, lei è…”
“Solo un graffio,” lo interruppe Bentheim, perentorio, “se vogliamo vincere questa battaglia è necessario il contributo di tutti. Adesso torni al suo posto.”

L’intervento tempestivo del plotone di von Kleist e della compagnia di Fromm aveva indotto i nemici a gettare la spugna, abbandonando il teatro degli scontri in una ritirata disordinata.
Il capitano Bentheim rimase a osservarli fin quando non furono fuori portata, poi si lasciò cadere stremato su un ridotto e si sfilò l’elmetto lasciando che rotolasse nell’erba. Si passò una mano tra i capelli madidi di sudore e cercò di riprendere fiato: aveva tentato di tamponare l’emorragia lasciando che uno dei medici da campo vi applicasse una sommaria fasciatura, ma il sangue continuava a sgorgare dandogli l’impressione che il suo corpo fosse diventato un gelido blocco di materia inerte.
Bevve un lungo sorso dalla borraccia, e con l’acqua che gli restava si sciacquò il viso per ripulirsi dalla sporcizia. Quando notò che un caporale con la croce rossa sul braccio lo stava fissando da lontano, come in attesa di un ordine, gli fece cenno di avvicinarsi.
“Signore…” iniziò il graduato.
Bentheim alzò una mano per prevenirlo. “Vada a cercare l’assistente medico e gli dica che ho bisogno di una nuova medicazione. Mi dica, i feriti più gravi sono stati già trasportati all’ospedale da campo?” Fece per alzarsi, ma l’avventatezza di quel gesto gli provocò un leggero capogiro.
Il caporale gli offrì un braccio, che il giovane rifiutò, e osservò la larga strisciata di sangue che macchiava la giubba della sua uniforme. “Signor capitano, vuole che faccia venire la Kübelwagen? Non credo che sia il caso di affaticarsi ulteriormente, viste le sue condizioni.”
“La mia salute non vale più quella dell’ultimo fantaccino, Heine,” fu la laconica replica. “Si occupi prima dei feriti gravi e di coloro che non sono in grado di reggersi in piedi.”

Bentheim si accasciò su una sedia premendosi forte il braccio contro la fasciatura improvvisata. Gli infermieri gli passavano davanti, quasi correndo da una corsia all’altra, mentre quella specie di anticamera andava riempiendosi di soldati più o meno feriti, che come lui attendevano il proprio turno per ricevere le cure necessarie. Tra di essi riconobbe alcuni della sua compagnia, che si offrirono cortesemente di dargli la precedenza. Egli declinò ogni offerta, quasi con fastidio: il grado di capitano e il titolo di principe von Bentheim und Steinfurt non erano che inutili orpelli in situazioni come quella.
Si ripeté mentalmente che, nonostante il dolore che gli stava provocando in quel momento, non era una ferita così grave da compromettere significativamente l’andamento della battaglia: avevano vinto, tutto il resto veniva dopo. A quel pensiero, si sentì attraversare da una sottile ombra di nostalgia: avrebbe tanto desiderato condividere con Reinhardt quei momenti, come tante volte si erano trovati a fantasticare prima di partire per la guerra, ma non poteva far altro che attendere sue notizie. Si chiese quando lo avrebbe rivisto.

Spirava una leggera brezza, che recò un po’ di refrigerio dopo l’acquietarsi del tumulto della battaglia.
Il colonnello Karl Theodor Wolff si accese un sigaro e rimase a osservare in silenzio la schiera che marciava coi fucili sottobraccio, cantando una canzone che lui ricordava ancora a memoria dai tempi della Grande Guerra.

“Alte Kameraden auf dem Marsch durchs Land
Schließen Freundschaft felsenfest und treu
Ob in Not oder in Gefahr
Stets zusammen halten sie aufs neu…”
1

Accompagnati da quelle note allegre, i soldati oltrepassarono la porta dell’antico centro storico e s’incamminarono su per la strada in acciottolato, tra strette viuzze serpeggianti e alti palazzi dalla facciata dipinta, fino al castello. Subito dopo vennero le salmerie, e infine i mezzi pesanti, a cui l’anziano ufficiale diede ordine di parcheggiare sul piazzale antistante il municipio. Anche quando i rumori dei motori si furono ormai allontanati e nei pressi dell’entrata non furono rimasti che una dozzina di ufficiali superiori, Wolff rimase a fumare sotto il massiccio arco a sesto acuto, facendo indugiare lo sguardo qua e là con aria svagata: le mura in parte diroccate, erose dal tempo e dalle intemperie, erano in mattoni rossi, sulla cui viva tonalità spiccava il verde delle erbacce che crescevano tra gli interstizi. Sembrava che la guerra non avesse ancora raggiunto quelle contrade, ma i suoi sensi affinati da decenni di pratica bellica sapevano scorgere ombre e carpire sussurri che ai più inesperti sfuggivano: nonostante l’inferiorità tecnica costituisse per le sue truppe un vantaggio non indifferente, il colonnello sapeva che i polacchi non erano un popolo che si lasciava mettere i piedi in testa tanto facilmente.
Gettò il sigaro ormai finito, individuò il generale von Salza, in posizione defilata rispetto agli altri ufficiali – perlopiù colonnelli appartenenti ad altre divisioni dello Heer – e lo raggiunse. Quando lo sentì arrivare, von Salza abbassò il binocolo col quale stava scrutando la campagna devastata dagli scontri e si voltò verso di lui. Dalla bustina bordata d’oro spuntavano i capelli di un biondo sbiadito, cortissimi e pettinati all’indietro, conferivano ampiezza alla sua fronte. “Colonnello Wolff,” disse semplicemente.
Si scambiarono i saluti militari di rito, poi il generale riprese la parola. “A quanto ammonta il conto del macellaio, oggi?”
“Oggi è stato particolarmente salato, signor generale”, rispose Wolff. “Il mio reggimento avanza di vittoria in vittoria, ma molti ufficiali validi sono rimasti feriti sul campo e nei vari reparti si iniziano a registrare le prime perdite significative.”
Un’espressione corrucciata corrugò le folte sopracciglia del generale, e i suoi occhi di un blu profondo parvero velarsi di una tonalità più scura. “Tutti noi siamo tenuti a versare il nostro tributo, se necessario”, asserì poi, dopo un breve silenzio assorto.
“Sarà un onore per me, signore.”
“Anche il maggiore von Eltz ha pagato il suo, seppur prematuramente.”
“Nel mio reggimento, era tra coloro che si sono adoperati con più costanza per elaborare la strategia che stiamo tuttora seguendo,” convenne il colonnello.
Von Salza scosse gravemente la testa, mantenendo tuttavia la sua ieratica compostezza. “Era un ufficiale competente, uno dei migliori in circolazione. Avrebbe presto ricevuto la nomina a tenente colonnello.” Fece una pausa, durante la quale parve indugiare su qualcuna delle sue considerazioni. “Mi dica, Wolff… quel capitano che all’ultimo minuto ha preso il posto di von Eltz, si è rivelato all’altezza delle aspettative?”
“Bühler non ha ancora raggiunto l’anzianità necessaria per passare di grado, tant’è che lui stesso, inizialmente, aveva delle riserve nei confronti di questa nostra scelta. È ancora acerbo, non lo si può negare, ma noto che impara in fretta: dall’inizio della guerra ha registrato praticamente solo vittorie, e sembra possedere ottime capacità strategiche.”
“Questo è un bene, colonnello”, commentò pacatamente von Salza. “La Wehrmacht, e soprattutto la nostra Divisione, ha bisogno di ufficiali giovani e volenterosi, pronti a dare il meglio di sé per il Reich e per il popolo tedesco: sono loro il futuro della nostra Nazione.”

Hans Bühler faticava ancora a credere che in una giornata potessero succedere così tante cose: aveva ricevuto una lettera da sua sorella che non sentiva da più di un anno, era sfuggito a un bombardamento e, insieme al caporale Schmidt, all’esplosione di quella stessa Kübelwagen che lo stava trasportando verso il luogo in cui il colonnello Wolff lo attendeva per ascoltare il suo rapporto. La macchina procedeva a singhiozzi, producendo un rumore continuo e snervante. Il maggiore sentiva le voci sommesse di Schwieger e Walkenhorst che chiacchieravano, seduti sui sedili posteriori, mentre lui – tra la ferita che aveva ripreso a bruciare, la stanchezza e il mal di testa – non desiderava altro che farsi una doccia, buttarsi a peso morto su una branda e dormire fino all’alba. Realizzò che non chiudeva occhio da giorni, e che da giorni andava avanti a caffè, cibo smozzicato e sigarette.
Si chiese dove fosse Friedrich, se ne avesse combinata qualcun’altra delle sue, e non poté impedire alle sue labbra di piegarsi in un leggero e spontaneo sorriso: il cavaliere prussiano si era subito distinto per i suoi metodi poco convenzionali, che avevano già avuto modo di suscitare l’ammirazione e lo sdegno del tenente colonnello von Rauheneck. Friedrich era in grado di portare a termine il proprio dovere a costo della sua stessa vita e un momento dopo di sovvertire ogni regola in nome dell’intrinseca legge morale che albergava dentro di lui. Hans, che era l’unica persona a cui il giovane avesse concesso l’onore di conoscerlo e di amarlo anche a un livello più intimo, non si sarebbe aspettato niente di diverso da lui e, per la prima volta nel corso di quella giornata, si concesse di indulgere un po’ più a lungo in pensieri che non avessero nulla a che vedere con la campagna militare.
Le ruote della macchina urtarono contro un dosso dando l’impressione di un terremoto, e un’imprecazione particolarmente colorita lo distolse dalle sue fantasticherie.
Halt die Fresse, Walkenhorst!” ruggì Schwieger.
Bühler si limitò a sorridere sotto i baffi.
“Devono essersi rotte le sospensioni, signori”, spiegò Schmidt ai tre ufficiali, cogliendo l’occasione per esporre loro un approfondito ragguaglio sui principi meccanici che regolavano il funzionamento dell’autovettura. Anche la sua voce ebbe un tremito quando un’altra asperità del terreno provocò alla macchina un sonoro scossone.
“Lo vedo… o meglio, lo sento”, commento il maggiore, con velato sarcasmo.
Il caporale preferì ignorare le arguzie del suo comandante. “Ero un perito meccanico, quando stavo ancora a Duisburg…”
Quando giunsero in vista della loro meta, a Bühler sembrò passata un’eternità, anche se il tragitto era durato poco più di dieci minuti. Come in un quadro, il villaggio spiccava per il rosso dei suoi mattoni, così tipici dell’architettura polacca, su una distesa di alberi verde cupo. Alte guglie e pinnacoli vertiginosi si ergevano quasi a voler bucare le candide nubi passeggere che attraversavano il cielo del tardo pomeriggio, mentre la mole di un castello in rovina gravava sullo sfondo, con le sue merlature sbeccate e i suoi bastioni circolari: stranamente, sembrava che i bombardamenti degli Stuka non lo avessero minimamente raggiunto, anche se le campagne circostanti erano devastate dagli attacchi della fanteria.
La Kübelwagen oltrepassò un varco nelle mura, sormontato da un barbacane e sorvegliato ai lati da due alberi ornamentali, poi s’immise in una stradina d’acciottolato che procedeva in leggera pendenza, all’ombra di palazzi dai tetti spioventi. Ovunque vi era un viavai di soldati tedeschi che si aggiravano disinvolti, ridendo rumorosamente o dirigendosi a gruppetti in qualche taverna; la loro favella risuonava per le strade alleviando la nostalgia di casa.
Schmidt parcheggiò accanto ad altri mezzi militari sotto la torre dell’orologio dell’antico municipio e i quattro uomini scesero, trovando ad attenderli il colonnello Wolff e un altro ufficiale dall’aspetto austero che, per la banda rossa sui pantaloni grigio fumo, le decorazioni apposte sul petto e le mostrine in rosso e oro che gli ornavano il colletto, Hans riconobbe come il generale di divisione Erwin Ulrich von Salza.
Subito dopo, i soldati e gli ufficiali inferiori delle due compagnie si dispersero, smistati nei vari edifici requisiti dall’esercito tedesco.

Non appena il suo comandante di reggimento lo convocò a rapporto congedando gli altri tre, il maggiore Bühler scattò sull’attenti. Era più alto sia del robusto colonnello che del generale, ma la corporatura segaligna e le guance lisce tradivano la sua giovane età, a cui mancavano ancora un paio d’anni per raggiungere i trenta. Un ciuffo di capelli castani gli ricadeva disordinato sulla fronte, nascondendo in parte una leggera ferita da taglio, l’uniforme era sporca e strappata all’altezza dei gomiti. Mentre riferiva gli avvenimenti della giornata e delle giornate precedenti, von Salza lo osservava di sottecchi, con un misto di stupore e attenzione, lasciandosi andare di tanto in tanto a qualche vago cenno d’approvazione.
“Sono lieto di apprendere ciò,” concluse infine il colonnello Wolff, senza mostrarsi particolarmente impressionato. Prese congedo dal generale, poi poggiò una mano sulla spalla del maggiore e lo condusse in disparte, con un cipiglio affabile ma anche irremovibile. “Prima di licenziarla, tuttavia, vorrei discutere con lei di alcune questioni che ho rilevato in questi ultimi giorni.”
Le iridi chiare e indagatrici dell’uomo, di un azzurro quasi trasparente, provocarono a Bühler un leggero fremito di disagio. Tuttavia, riservò uno sguardo distratto alle lancette dorate dell’orologio e annuì, preparandosi ad ascoltare ciò che il suo superiore aveva da dirgli.

Con lo stomaco pieno e la testa libera da più pressanti pensieri, Friedrich von Kleist uscì dall’infermeria e si avvicinò alla palizzata che delimitava il campo. Dall’alto di una torretta di guardia, un paio di sentinelle chiacchieravano condividendo una sigaretta; i lampioni proiettavano le loro lunghe ombre sul cortile di terra battuta. Dopo la lunga battaglia campale, si era levato un salubre venticello che recava con sé aromi silvestri e promesse di vittoria.
Nonostante il successo finale, quella giornata era stata particolarmente dura: un paio di soldati del suo plotone erano rimasti uccisi nel primo scontro a fuoco, altrettanti erano gravemente feriti e, sebbene il sergente Hoffmann fosse ormai fuori pericolo, gli ufficiali medici avevano risposto con un categorico diniego alla richiesta del tenente di andare a fargli visita. Quasi nessuno ne era uscito completamente illeso: né lui, né il capitano Bentheim, a cui gli infermieri avevano prescritto un giorno di riposo.
Ripercorrendo a ritroso gli avvenimenti della giornata, gli venne spontaneo chiedersi, non senza una vaga nota di dispiacere, che fine avesse fatto il tenente polacco. Una parte di lui sperò che fosse riuscito a salvarsi: quel giovane aveva dato mostra di essere un dignitoso avversario, che meritava di essere trattato con rispetto e, possibilmente, sconfitto sul campo.
Fece vagare lo sguardo attraverso la piana sottostante, una nera distesa pullulante di luci: stavolta sapeva per certo che uno di quei villaggi era quello conquistato dal loro reggimento, lo stesso in cui, il giorno successivo, si sarebbero uniti al resto della Divisione.
Laggiù, dove le stelle incontravano il limitare del bosco, fioriva la promessa di tempi migliori.
Una folata di vento gli scompigliò i capelli dorati e agitò energicamente le fronde degli alberi. Egli sorrise tra sé, rinfrancato: la guerra proseguiva senza concedere un attimo di tregua, ma almeno, l’indomani lui e Hans si sarebbero rivisti.


  1. Vecchi camerati in marcia attraverso il paese / Stringono amicizie solide e sincere / Nel momento del bisogno o nel pericolo / Sempre insieme, mantengono questi legami↩︎

  
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