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Autore: kurojulia_    10/04/2019    1 recensioni
Yuki ringhiò, stringendo i denti in una morsa dolorosa. Dannazione. L'unica cosa che potevano fare – l'unica che avesse un po' di senso, per lo meno – era quella di levare le tende. Eppure, la sola idea di lasciarli continuare a vivere, impuniti, la faceva impazzire come il più spregevole dei demoni. Se fosse dipeso da lei, sarebbe rimasta nella neve fin quando essa non le avesse raggiunto le ginocchia, e avrebbe continuato ad ucciderli. Fino all'ultimo.
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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22.




Quando la freccia mi attraversò il petto, un dolore accecante mi pervase dalla testa ai piedi, strappandomi il respiro come il peggiore dei ladri. Le forze mi scivolarono via con una velocità brutale, un coagulo di sangue si arrampicò fino alla mia gola – tossii, riversandolo inavertitamente sul mento.

 

Le mie gambe cedettero presto. Quelle gambe su cui avevo sempre fatto affidamente, quelle forze di cui mi ero spesso fidato, adesso mi stavano abbandonando. Indietreggiai, fino a ché non incontrai una poltrona, e privo di energie mi lasciai cadere su di essa.

Questa non è una freccia normale, pensai, deve essere intrisa di oro...

 

Sfiorai la sua cuspide con i polpastrelli e con gli occhi cerchiati di rosso cercai di capire cos'era appena successo, ispezionando l'arma bianca e la ferita che si era aperta nel mio torace – quando, la sua voce, tremante e ghiacciata, balbettò qualcosa.
Sollevai lo sguardo, incrociai i suoi bellissimi occhi, la sua espressione stropicciata dallo sconcerto.

Credo che non si fosse ancora resa conto che stavo per morire.

Il mio battito cardiaco accelerò velocemente, rimbombandomi nel letto. Serrai la mandibola.

 

Stavo per morire. Non mi sentivo più le gambe.

 

Di fronte a me, una platea stava osservando la mia fine. Sui loro volti vidi terrore, angoscia, sbigottimento, tristezza. Su quello di mia figlia rabbia.

Lei corse verso di me, urlandomi qualcosa di ovattato. Mia moglie mi prese le mani, inginocchiandosi contro la poltrona, le guance rigate dalle lacrime.
Persino lei... persino mia figlia stava...

 

«PAPA'!».

Sorrisi, felice. Mi aveva chiamato papà, alla fine.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Il loro rapporto non era mai stato facile, in nessun modo, in nessuna situazione; molti pensavano fosse un fatto strano proprio perché quei due erano talmente simili, esteticamente e caratterialmente, da sembrare più gemelli che padre e figlia. Eppure, non era mai stato facile. C'era indifferenza, c'era sarcasmo, c'era fastidio – e tanto dolore per entrambi.
Non erano immuni l'uno per l'altra. Si percepivano, si sentivano – ma non erano mai stati in grado di parlarsi, forse proprio a causa di quella grande somiglianza.

 

Ed ora, faccia a faccia, davanti ad una poltrona scarlatta – era così tardi per iniziare. Dolorosamente tardi. Lui non c'era più. Davanti ai loro occhi, davanti ai loro occhi colmi di terrore, era sparito. Al suo posto, c'era solo un cumolo di polvere color ebano.

Yuki, in ginocchio di fronte a quella dannata poltrona vuota, premeva la fronte contro il bracciolo gelido, le dita serrate intorno al velluto. Alle sue spalle, gli umani impietriti, incapaci di parlare. Tetsuya tentò un passo barcollante, ma quello andò a vuoto, e il vampiro dovette sorreggersi al camino – le palpebre sbarrate.

 

Lei non capiva. Non capiva cosa era appena successo. Non capiva perché una freccia aveva trapassato il cuore di suo padre, uccidendolo entro pochi secondi. Chi era stato, perché l'avevano fatto? Non capiva perché lui era morto così in fretta – perché avesse sorriso in quel modo, proprio in quel momento.
Le dita artigliarono il tessuto più forte, fino a ché le nocche non diventarono bianche. La freccia giaceva sulla seduta della poltrona. La sua cuspide brillava di un dorato intenso, proprio come... il sole. Proprio come il dannato sole.

Quello è... oro...

Un freccia, la cui punta era rivestita – imbevuta, plasmata – di oro... un'arma così fatale da essere spaventosa.

 

Yuki si lasciò scivolare ancora di più sul pavimento, aggrappandosi a quella poltrona che conservava solo un lieve ricordo del suo profumo.

 

Mi dispiace”, quelle parole colavano dalla pallida bocca di Yuki ed erano forti e travolgenti, rimbombavano nella testa tanto da far male. Avrebbe voluto urlare, che la smettessero di farle così male perché non riusciva più a gestirle.
«Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace... mi... ». Le dispiaceva, ma non era stata un po' lenta? Non era un po' tardi? Inutile? «Papà».

Lui aveva sempre desiderato in modo talmente palese d'essere chiamato così – “papà”. Un suono così dolce, delicato. Eppure, nonostante il desiderio fosse forte e sincero, i suoi “ehy" – irritati, scocciati e arroganti – se li era fatti andare bene; i suoi sporadici sorrisi di complicità, quando cercava di non odiarlo troppo: gli era sempre bastato e avanzato tutto. Ne era sempre stato felice. Perché lei era la sua adorata prima figlia.

 

«Yuki, tesoro... ».

Kazumi era rotta nelle lacrime, singhiozzava incapace di parlare – Yuki si voltò, guardò la madre, vide le sue guance rigate dalle lacrime. Vide la bocca tremare tanto da non riuscire a dire una singola parola in più. Sembrava improvvisamente minuscola – soffriva da morire e lei non sapeva cosa fare. Non sapeva cosa fare.
«Andrà tutto... », tutto come? Come sarebbero andate le cose, da lì in avanti? «Andrà tutto bene, te lo prometto». Era la più grande bugia che avesse mai detto, sentiva la lingua ritorcersi contro di lei. Ma guardando Kazumi – la strinse a sé, l'avvolse in un abbraccio stretto, con le braccia che tremavano.
Kazumi non aveva nessuno, nessuno che le avesse mai dimostrato quell'amore, a parte suo marito. Oseroth Akawa l'aveva fatto, segretamente, le aveva dato un tale affetto da farle sentire la vita nelle vene.

 

Yuki la teneva ancora stretta, tentava di abbracciarla mentre la testa pulsava e la vista si sbiadiva – ma la tenne a sé, forte, affondando il viso sulla spalla della madre.

«Mi prenderò cura di voi. Mamma, andrà tutto bene... e mi dispiace, mi dispiace».
Non poteva ancora piangere. Non ancora.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Il rimbombo dei suoi passi era funereo.

Si era lasciata alle spalle la Stanza delle Mappe, quasi sdradicando la porta, e con un salto aveva scavalcato il parapetto della passerella, atterrando a cinque metri dal portone.
Nella mano sinistra, reggeva distratta l'arma che gli aveva strappato suo padre. Dietro di sé, sentiva i richiami di Tetsuya, ma erano lontani e sfocati, come se stesse parlando da dentro una bolla.

 

Di fronte alla porta d'ingresso, Yuki si fermò, i piedi ben divaricati. Strinse la presa sul corpo della freccia e sollevò il pugno, guardandolo con il gelo negli occhi.

Qualcuno, là fuori, aveva scoccato quel dardo. Qualcuno si era appena inimicato le persone sbagliate.

«Adesso è troppo tardi», bisbigliò, tra i denti.

 

Allacciò le dita attorno al corpo del dardo, serrando la stretta – continuò a stringere, a chiuderla, fino a che la freccia non si ruppe in due parti uguali sul palmo della sua mano. Yuki fissò le due parti rimanenti, con freddezza artica, e scagliò i pezzi sul pavimento come immondizia.

«Yuki», esclamò il vampiro, apparendo alle sue spalle all'ultimo istante. «Che intenzioni hai? Là fuori... ».

 

Là fuori stava accadendo qualcosa.

 

Yuki pose la mano sul pomello della porta d'ingresso e trasse un profondo respiro. Aveva bisogno di riempire il caricatore se voleva sparare. Ruotò il pomello verso destra e la porta cominciò ad aprirsi, tra cigolii e scricchiolii – la voce di Tetsuya venne coperta in parte dai rumori.
Adesso, il suo cervello aveva ripreso a carburare, tutti i ricordi, le immagini, e poteva pensare lucidamente – poteva riprendere da dove aveva lasciato.
I suoi occhi furono lo sparo. Il loro rosso inghiottì lo scenario al di fuori della porta.

 

 

Una distesa, sebbene accennata, di puro bianco, un velo leggero che scendeva dal cielo oscuro.
Il genere di oscurità che celava le mostruosità, le bestialità. In quella stessa oscurità, fiochi puntini rossi comparivano all'orizzonte, un orizzonte fin troppo vicino – ma non erano pochi, quei puntini rossi. Il duo era sommerso.

 

Fuori dalla casa, si chiusero la porta alle spalle, determinati a non far passare nessuno.

«Yuki».

«Lo so».

Lo sapeva, lo sentiva. Era una sensazione disgustosa, erano come vermi, come parassiti. Sentiva la loro fame, la voracità stessa li stava consumando, scalpitavano all'idea di affondare i denti e le unghie nelle carni di chiunque. Vampiri e demoni circondavano la residenza Akawa.
Non vedevano l'ora di pregustare la loro vittoria – con ogni probabilità, erano stati pagati per ucciderlo, per vivere la loro stupida vita in agiatezza.

A discapito di suo padre.

 

«So che è difficile, ma», la voce di Tetsuya era ancora lontana. «devi mantenere la calma. So che puoi farcela, devi farcela». Dispersa, oppressa dal lento calare della neve – nel bianco il suo rosso brillava come una fiamma.

«Oh, sì, certo. Li ammazzerò tutti... con grande calma». Ormai non era solo un mero desiderio o una stupida vendetta: dal suo sguardo che bruciava, era diventata la sua ragione di vita.
Mentre i suoi lineamenti si accartocciavano sotto l'ira del demone, i canini da vampiro sporgevano dalla bocca come diamanti e le pupille si facevano sottili e affilate. Avanzò, affondando i piedi nella neve.

«Non fare la stupida, così finiremo male! Dobbiamo rientrare subito. YU!».

 

Ma lei non faceva la stupida.

Perché Tetsuya non poteva capirlo? Voleva solo usare quei suoi maledetti poteri fino a perdere la sanità mentale. Fino a sporcarsi le unghie di sangue. Fino a sentirsi... immonda.

«Dannazione», sbottò il vampiro. «Ti vuoi fare ammazzare? Hai deciso questo?!».

«Non io, loro–».

«Verrai uccisa! E verranno coinvolti tutti! Vuoi questo?! Yuki!». I fiochi di neve si posavano sui loro capi, dolcemente. Che ironia, in quel momento c'era tutto, eccetto la dolcezza. Tetsuya chiuse i pugni, trafiggendosi i palmi con le unghie. «Ai deve perdere anche sua sorella, dopo suo padre?».
Yuki si fermò, come un robot tristemente spento.
Oh, giusto, Ai. La sua piccola sorellina – lentamente, si volse a guardare l'enorme casa abbracciata dal buio della notte, le luci al piano superiore spente, il terrore che filtrava dalle pareti. Poi, pian piano, lo sguardo le ricadde su Tetsuya; era in piedi davanti all'ingresso, fermo come uno stoccafisso ma determinato a fermare la pazzia della sua amica. Allora Yuki scrollò le spalle e iniziò a pensare.

Se la residenza era circondata, allora dovevano escogitare un piano per andare via – vivi, se possibile.

 

 

«Hai ragione. Andiamo». Ma restò ferma, ancora, a guardare il cielo costellato da stelle: sperava ancora che una voragine risucchiasse ogni cosa. Una voragine della pace e, alla fin fine, tutto si sarebbe rivelato come un grande, ignobile incubo.
Avrebbe aperto gli occhi, si sarebbe preparata per la scuola e, mentre percorreva le scale, quell'uomo l'avrebbe aspettata davanti alla porta.

Forse, nonostante tutto, le avrebbe sorriso – forse, le avrebbe detto “ti voglio bene, stupida figlia”. Forse il suo respiro gli avrebbe riempito ancora la cassa toracica.

 

Ma, per il momento, Oseroth era morto.

Suo padre era ancora morto.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Cosa facciamo?».

Nei momenti difficili come quelli, Yuki ringraziava il cielo di essere circondata da persone così forti e intelligenti, dal momento che in quelle occasioni non poteva proprio perdere tempo a rassicurarli. Davanti a lei – mentre nel palmo della mano destra teneva ben stretta la katana Anima – c'erano tutti, meno Tetsuya che sorvegliava l'entrata e le finestre. Il suo fidato braccio destro.
«La situazione fa piuttosto schifo», esordì l'albina, guardando i volti di ognuno, uno alla volta. «Fuori da qui, a nord, ovest, est e sud ci sono fila di vampiri e demoni – con chiare intenzioni ostili. Penso che loro siano colpevoli di... », si fermò, inarcando le sopracciglia. «Non possiamo pensare molto. Sappiamo per certo che, tutto intorno alla casa, siamo circondati da quei cosi... dunque non possiamo uscire dall'entrata. Ci vuole un'uscita più nascosta».

«All'incirca, un centinaio, tra vampiri e demoni», disse Sebastian, dalle scale.

 

Yuki, gli occhi ancora impregnati dal rosso, annuì.

«Sono abbastanza sicuro che voi abbiate qualche uscita d'emergenza», disse Takeshi – la mezzosangue non si era data il tempo di rifugiarsi nella sua gentilezza. Fra le braccia del ragazzo, c'era Ai, stretta fermamente, che teneva gli occhi chiusi. Era sveglia e lucida ma si rifiutava di aprirli.

 

Ai aveva sentito la vita del padre spegnersi, improvvisamente.

Era nella sua camera quando l'aveva avvertito. Il flusso di energia vitale era semplicemente scomparso e lei... aveva capito che qualcosa era successo.

 

«Infatti. Il piano migliore che mi è venuto in mente», continuò Yuki. «è di disfarci di almeno una piccola quantità degli imbecilli, se non vogliamo rischiare di averli alle calcagne. Ragion per cui, avrò bisogno dell'aiuto di... », si guardò intorno, osservando gli amici; naturalmente doveva escludere a priori Takeshi e Sayumi, mentre Ai e Kazumi non erano assolutamente nelle condizioni di aiutarla. «... Tetsuya e Sebastian».

I due annuirono, affiancandola di fronte alla porta d'ingresso. Fuori dalla casa, i suoni dei passi e il rumore che producevano spostandosi era sempre più forte. Era chiaro che non avessero una vera e propria disciplina.
«Noi cosa dobbiamo fare?», chiese Sayumi.

«Voi dovete andare a rinchiudervi da qualche parte... nella mia stanza. Quella è abbastanza spaziosa e non avrete problemi a spostarvi se foste... attaccati».

«Bella prospettiva, eh... vabbene, faremo come dici».

 

Yuki accennò un debole sorriso – era quasi certa che non stessero puntano agli esseri umani. E sentiva di aver inalato la tensione stessa. «Allora ci rivediamo qui tra mezz'ora, chiaro? Nel caso non dovessimo tornare, dovete andare via da soli – e dovrete fare molta più attenzione. Mamma, tu-», lei aveva bisogno della forza di sua madre e forse, in un'altra situazione, l'avrebbe addirittura costretta ad aiutarla. Ma adesso, guardando le iridi vitree – era un manichino smontato, sorretto da dei fili invisibili. Se Sayumi non l'avesse sorretta sarebbe caduta a terra come un corpo senza vita.

Sentendosi chiamare, Kazumi sollevò la fronte e guardò Yuki, con gli occhi cerchiati di rosso. «Io aspetterò in camera da letto». Sfuggì dal sostegno di Sayumi con delicatezza e si volse verso le scale.

«Kazumi, aspe-».

«Non fa niente, lascia che vada».

 

 

Yuki restò a sorvegliare la sua figura. Sembrava accartocciarsi ad ogni passo, come se ogni suo osso si polverizzasse per lo sforzo. Yuki pensò che la sua anima si trovava già dentro l'elsa di Anima – guardò la katana, l'elsa stretta nella sua mano. L'anima di sua madre e sua sorella sarebbero finite lì? E persino la sua? Chissà quando sarebbe accaduto.
Forse quella stessa notte?

«Takeshi, prendi Anima e usala, se necessario», si avvicinò al moro, mettendogli in mano la spada; fu un gesto talmente improvviso che Takeshi riuscì solo ad afferrarla, il più saldamente possibile. La mano stava saggiando il peso dell'arma bianca, con qualche difficoltà, mentre con entrambe le bracciava reggeva Ai.
Se gli aveva lasciato Anima, le possibilità di successo dovevano essere davvero basse.
«Fai attenzione», sussurrò, guardandola negli occhi. «E torna da me. Capito?».

 

Tornare da lui era una delle sue priorità. E lei era sicura che ce l'avrebbe fatta, per se stessa, per lui, e per la salvezza di tutti quanti. Fece un leggero cenno col capo, sorridendo.

«Cristallino».

 

 

 


 

***

 

 

 

 

«Alla fine hai lasciato Anima a Takeshi. Ma sei sicura? Sarà anche pericoloso, ma ho l'impressione che così lo sarà ancora di più... ».

 

Yuki stava guardando davanti a sé. Aveva smesso di nevicare.
Comprendeva i dubbi dell'amico: era giusto lasciare una katana di quel calibro, con quei poteri insidi, ad un essere umano che non ne aveva mai maneggiato nulla del genere? E non era solo questione di potenza. Erano passati secoli dalla sua nascita e il suo valore superava era smisurato – un oggetto maledetto, di quella portata...



«Sì, sono sicura. Mi fido di lui».

Tetsuya sorrise. «Già, anch'io. Proteggerà le ragazze». Ma il sorriso sulle labbra del ragazzo vacillò molto in fretta, sostituito da un tremore. «Yuki... Oseroth è... ».

Tetsuya lasciò la sua frase sospesa nell'aria, fredda, congelata dalla nevicata. Non riusciva a continuare. Chiuse le labbra in una linea netta, voltandosi a guardare di fronte a sé – così come la mezzosangue.

 

 

C'era silenzio. Il tipo di silenzio che faceva da prologo ad uno spettacolo.
Persino la neve, il vento, avevano smesso di cantare la loro malinconica sinfonia, in attesa.
Yuki, Tetsuya e Sebastian stavano aspettando. Quest'ultimo esordì, mentre passava il palmo della mano sulla canna del fucile a pompa, nell'atto di lucidarlo. «Ha qualche preferenza in merito alla pulizia, signorina? Tenendo conto dell'arma in mio possesso, naturalmente». Con un gesto secco – che non mancava di eleganza, – l'uomo tolse la sicura e sollevò la bocca del fucile davanti a sé.

Yuki sorrise. «Il più dolorosamente possibile. Grazie dell'interessamento. Ed ora, miei cari assistenti... ». Il rosso esplose nei suoi occhi, un folata di vento graffiò la sua pelle. «Possiamo ammazzarli tutti! AVANTI! Vi stavamo aspettando, idioti!».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Takeshi non aveva fatto in tempo a battere le ciglia che di Yuki e gli altri due si erano volatilizzati. Erano stati straordinariamente veloci e la cosa, se possibile, lo preoccupava ancora di più. Sperava solo che non facessero stupidaggini a causa della fretta.
Rinsaldando la presa su Ai, si voltò verso le scale alle loro spalle. Yuki aveva suggerito la sua camera per nascondersi e, ricordandoselo, cercò velocemente di fare mente locale della planimetria della casa. In un'altra occasione, ci sarebbe riuscito ad occhi chiusi.
«Yumi, tienimi un po' questo affare», disse poi, passando Anima all'amica, reggendola dall'elsa – lei aggrottò la fronte, afferrandola con entrambe le mani. «Pesantuccia, cavolo. D'altro canto, al suo interno ci sono giusto un paio di anime... ».

«Ora sì che mi sento più rilassato».

Sayumi abbozzò un sorriso, per poi indicare le scale con un cenno del capo. «Andiamo».
Per fortuna, entrambi avevano una corporatura e una resistenza fisica che li agevolava largamente, erano in grado di correre molto velocemente senza risentirne, il ché capitava a fagiolo dato che Takeshi portava imbraccio una bambina di undici anni.
Corsero su per le scale del salone e svoltarono a destra, superando le prime due stanze per poi introdursi nella terza: quella dell'albina. Sayumi spalancò la porta e lasciò entrare Takeshi, chiudendosela alle spalle il più piano possibile – non si sapeva mai, poteva esserci qualcuno lì fuori ad aspettarli.
Poi si spostarono verso il lato sinistro del letto, a passo felpato, e i due si erano scambiati i compiti; lui si mise accanto alla finestra, nella mano Anima, e scostò la stoffa pesante della tenda con una mano, con la costante paura che gli scivolasse dalle dita – stavano sudando.

 

Ai era dovuta necessariamente scendere dalle braccia di Takeshi, sarebbe stato un impedimento ai suoi movimenti, e Sayumi si era occupata di farla sistemare sul letto di Yuki, le gambe raccolte al petto e gli occhi semi aperti.

 

«Vedi qualcosa, da lì?», Sayumi si piegò sulle ginocchia, sedendosi su un tallone e riparandosi sotto la finestra. Takeshi era di fronte a lei, con la schiena contro il lato dell'armadio e lo sguardo fisso fuori. Era concentrato.

«No... è buio pesto là fuori. Sembra di stare dentro una boccetta di inchiostro».

Sayumi sorrise. «Sei molto poetico».

Takeshi le diede un'occhiata di sbieco, un rimprovero gentile, per farle sapere che non se la sentiva di scherzare poi così tanto.

 

La situazione aveva fatto molto in fretta a degenerare. Proprio come due notti fa, quando era andato a salvare la sua fidanzata dalle grinfie dello zio. Era uguale. Di nuovo, non sapeva se avrebbe rivisto tutti quanti – se avrebbe rivisto la sua Yuki. Che stranissimo dèja vu, pensò, stringendo il pugno libero.

Le due Akawa, però, avevano la certezza che non avrebbero più rivisto il padre.

Non riusciva ancora a credere che fosse stato assassinato, di fronte a loro... non riusciva a capacitarsene. Aveva davvero visto quell'uomo, apparentemente imperscrutabile, diventare polvere e cenere? Quando solo due giorni prima lottava come un leone?

 

Con questo pensiero in testa, Takeshi staccò la schiena dall'armadio e si fece vicino ad Ai, sedendosi sul bordo del letto. Non si soffermò molto a riflettere, a farsi venire il dubbio che la ragazzina volesse rimanere chiusa nella sua bolla; con delicatezza, le posò la mano sulle sue, poste sulle ginocchia – quelle di lui erano giganti, al confronto, e coprivano quella della ragazzina facilmente.
Ai non fece una piega, come se non l'avesse neanche sentito.
Rimase immobile, lo sguardo vitreo e la bocca chiusa. Era ancora più simile ad una bambola di porcellana – ma respirava, esisteva, ed era una realtà che non poteva cambiare. Non poteva finire così, non poteva trasformarsi in un oggetto senza anima. Non così facilmente.

 

«Ehy, Ai. Posso farti una domanda?». La bambina non rispose. Sarebbe stato, probabilmente, un monologo. «Hai paura? Hai paura di perderla?».

Al suono di quella domanda, qualcosa nelle sue iridi ambra sembrò smuoversi. Era stato un movimento impercettibile, talmente piccolo da essere quasi invisibile, ma c'era stato.
«A dire il vero», riprese Takeshi, stringendo lievemente le dita della bambina. «ho paura anch'io. Una paura folle. Mi tremano le gambe come gelatina. So che mi prenderesti in giro, in un'altra circostanza... e sai come faccio ad esserne sicuro? Perché vi somigliate. Vi somigliate come due gocce d'acqua e proprio per questo... so che voi potete riuscirci: potete sopravvivere a tutto questo».
Allora Ai girò lo sguardo e i suoi occhi erano già rossi – si fecero lucidi, e molto in fretta si riempirono di lacrimoni roventi. La bocca e le spalle tremavano e la chiudevano in spasmi spauriti. «Io... io ho... non posso... ».

 

 

Ma in quell'attimo di distrazione, il vetro della finestra alle loro spalle andò in frantumi.

Il frastornante suono del vetro che si spaccava e infrangeva in mille pezzetti si infiltrò come un verme divoratore. Sayumi gridò per lo spavento, buttandosi con la schiena contro l'angolo vicino alla finestra, mentre Ai indietreggiava scalciando.

 

«TAKESHI!», fu l'urlo terrorizzato di Sayumi.

Il moro era scattato in piedi e si era girato – ma troppo tardi, troppo tardi per il suo nemico.


All'improvviso, Takeshi si trovava faccia a faccia con un demone, supino sul baldacchino, Ai proprio lì affianco; il demone aveva spalancato la bocca, nell'atto di morderlo, con i denti aguzzi grondanti di saliva e di fame – gli occhi neri che si stavano già servendo con le carni dell'umano. Takeshi aveva fatto appena in tempo a sollevare la spada per usarla come scudo e il demone aveva afferrato la lama della katana con entrambe le mani, l'unico muro tra i due.

Takeshi era con la schiena sul letto, una mano sull'elsa e l'altra pericolosamente vicina alla punta di Anima.
Sentiva il fiato caldo e furibondo di quell'essere sul viso, il proprio sudore impregnargli la fronte e le mani. Come aveva temuto sin dall'inizio, le mani erano troppo sudate per avere una presa ferrea.
Avvertiva già l'elsa scivolargli, la lama cominciare a penetrare nella pelle – quel demone ci stava mettendo forza, stava combattendo per poterselo mangiare. Voleva saziare il suo appetito; eppure, nonostante avesse fame, si stava ancora trattenendo, forse per la semplice soddisfazione di vederlo lottare per sopravvivere.

Takeshi tirò un respiro strozzato – e tutto un tratto, il demone non stava più premendo con veemenza.

 

Lentamente e meccanicamente, il demone lasciò la lama, si mise dritto, e fece un cauto passo indietro, come se qualcuno gli stesse puntano una pistola alla nuca.
Takeshi strabuzzò gli occhi, col fiatone, Sayumi si sollevò in piedi, strisciando la schiena contro l'angolo. Poi, battendo i denti per la paura, ruotò lo sguardo – e trovò Ai in piedi sul letto, nel suo vestito nero dai mille merletti. Gli occhi dorati avevano perso la loro lucentezza per cederla ad un rosso scarlatto e protendeva la mano verso il demone, davanti a lei, con le dita ben separate fra loro.

 

«Ai... ma tu... », bisbigliò Sayumi.

 

Ai espirò. «Vedete di non abituarvi... a farvi salvare da me», sussurrò, lentamente, nel tentativo di non perdere la concentrazione; Takeshi si alzò dal letto con uno scatto, avvicinandosi subito all'amica per trascinarla via dall'angolino e sbucare verso il centro della stanza – senza staccare gli occhi dalla piccola mezzosangue. Non la perdetterò mai di vista, nemmeno quando dalla sua bocca uscì un ordine e quell'uomo – quell'essere spaventoso decise di buttarsi giù dalla finestra distrutta, per un valzer con la morte.

 

 

   
 
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