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Autore: Saelde_und_Ehre    21/04/2019    7 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
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VII.
Nur wer die Sehnsucht kennt, weiß, was ich leide.
(parte seconda)
 

Sembrava che i documenti, anziché diminuire mano a mano che il sottotenente von Kleist li catalogava e li riponeva nei fascicoli, stessero aumentando sempre di più: da almeno un’ora andava avanti e indietro per la stanza dell’archivio, tra file di scaffali tutti uguali e lampade poste a intervalli regolari, annotando ogni progresso sull’apposito registro.
Scoccò un’occhiata torva alla pila di scartoffie accatastata sul tavolo ed esalò un sospiro: anche quella volta, il colonnello Wolff aveva deciso di punirlo per non aver rispettato le sue indicazioni. Stava per sollevare l’ennesimo plico quando, alzando la testa, scorse in controluce una figura alta e longilinea, ritta davanti all’uscio.
“Sottotenente von Kleist”, disse il nuovo arrivato, prima ancora che egli potesse identificarlo.
Friedrich fece per mettersi sull’attenti, ma l’altro glielo impedì con un cenno.
“Signor capitano.”
Bühler rimase fermo sulla soglia a guardarlo, senza proferire motto. Trattenendosi dal lanciargli una frecciata, il giovane gli volse le spalle e riprese imperterrito a lavorare, nella speranza che se ne andasse. L’aria sembrò farsi torrida come all’interno di una fucina, e il pensiero che il capitano lo vedesse a sgobbare come un volgare garzone – che godesse della sua umiliazione – lo portò a ingollare un fiotto di bile amara.
“L’altro giorno… devo dire di essere rimasto molto sorpreso.”
Quelle parole, proferite di punto in bianco, lo fecero sobbalzare: comprese che Bühler alludeva all’esercitazione – non era un complimento esplicito, ma in esso non v’era ombra di ostilità o severità. Non era venuto lì per conto del colonnello, per controllarlo o redarguirlo: l’aveva fatto di sua spontanea volontà, anche se il motivo di tutto ciò gli rimaneva oscuro. Quel pensiero lo intrigò, sciogliendo il nodo di vergogna che gli attanagliava le viscere e la gola e incalzando il ritmo dei suoi battiti.
Esitò, soppesando con cura le parole, quindi ammise: “Sono onorato della fiducia che mi ha concesso, signore.”
Ripensando a come Bühler si era comportato quel giorno, la sua risolutezza e i suoi modi schietti gli avevano confermato l’idea che si era fatto di lui: era un comandante che non imponeva la propria autorità, ma piuttosto sapeva farsi rispettare senza usare metodi coercitivi. Un comandante che avrebbe seguito senza esitazione.
“Ha dato prova di avere un’ottima tempra”, continuò il capitano, in tono insolitamente morbido.
“La ringrazio, signore.”
L’altro rimase per qualche istante in un silenzio assorto, con una mano poggiata allo stipite della porta, poi volse il capo indietro, come un muto accenno ad andarsene. “Forse è meglio che la lasci lavorare in pace e torni alle mie occupazioni. Ci vediamo dopo, sottotenente.”
“Capitano?”
Bühler si arrestò sulla soglia, lasciando appena trapelare un’aspettativa che strideva col suo atteggiamento solitamente rigido.
Friedrich esitò; l’orgoglio gli impediva di scoprirsi troppo. Sentiva però addosso i suoi occhi, pozzi scuri e lucenti che parevano volergli scavare dentro, animati dalla sua stessa curiosità. “Spesso ho l’impressione che da un giorno all’altro verremo chiamati alle armi.”
“Siamo stati addestrati per questo, von Kleist.”
Friedrich lo sapeva, lo sentiva nell’aria, che nel giro di pochi anni la Germania si sarebbe schierata sul campo contro i propri nemici. Suo fratello Manfred si era volontariamente arruolato nella Legione Condor e aveva scelto di andare a combattere la guerra civile in Spagna, un intervento significativo che aveva infranto i trattati internazionali; la politica di riarmo era in pieno fermento.
Ripensò ancora una volta alla fortissima sintonia che aveva unito lui e il capitano sul campo di battaglia, come se fossero nati per combattere insieme, a quello strano senso di sospensione che li aveva alienati dal resto del mondo nel momento in cui gli aveva consegnato la bandiera. “Quando accadrà,” – spero di essere insieme a lei, avrebbe voluto dire, ma si trattenne – “mi auguro di trovarmi ancora in questa compagnia.”

Hans imboccò il corridoio deserto, incapace di togliersi dalla testa le ultime parole del sottotenente. La luce tiepida del sole filtrava dalle file di alte finestre, ampie e regolari, esaltando il candore dei marmi e le tonalità pastello degli intonachi colorati. Pensò di andare al circolo ufficiali solo per allontanare certi pensieri, ma non era assolutamente dell’umore per sorbirsi le chiacchiere frivole e le facezie dei suoi colleghi. Irresoluto, si affacciò a una delle finestre, appoggiando i gomiti al davanzale di marmo venato: in cortile, diversi piani più sotto, vide una torma di reclute in tenuta da allenamento che si recavano in palestra scortate da un sottufficiale, mentre una fila ordinata di camionette coperte stava varcando il cancello.
Non capiva che cosa gli fosse preso, con von Kleist. Andare di sua spontanea volontà a disturbarlo… per cosa? Per dirgli che aveva apprezzato la sua condotta durante l’esercitazione? Per ricevere l’ennesima conferma – come se ce ne fosse stato bisogno – che anche il sottotenente ricambiava il suo interesse? A forza di continuare a soffiare sulla brace, prima o poi un incendio sarebbe divampato, consumandoli entrambi.
Certe cose erano malviste, proibite, condannate senza appello. Certe cose comportavano il disonore, un processo infamante e l’allontanamento dalle forze armate.
Anche solo concedergli quel poco di confidenza in più li avvicinava inesorabilmente al punto di non ritorno… e a quel punto, che cosa sarebbe successo se si fosse scoperto troppo? Che cosa avrebbe fatto il cavaliere prussiano, avrebbe fronteggiato la potenza distruttrice del fuoco – con tutti i rischi che essa comportava – o lo avrebbe denunciato come nei suoi peggiori incubi, schernendolo e additandolo come omosessuale degenerato?
Scosse la testa e si sporse ulteriormente, immobile a fissare il baratro. A turbarlo era anche qualcos’altro, qualcosa che lui non voleva che si ripetesse. Si ritrovava, a quasi venticinque anni, senza sapere cosa volesse dire godersi la gioventù, anelando da lontano a quella felicità proibita che i versi di Schiller celavano dietro metafore e amicizie equivoche, ma gli anni di prolungata solitudine lo avevano reso capace di resistere anche alle pulsioni più sfrenate. Come tante altre volte, doveva solo riuscire a controllarsi e fare in modo che von Kleist non si avvedesse di nulla.
Forte di quella risoluzione, s’incamminò verso il poligono di tiro: gli sembrava la soluzione migliore per sfogare la tensione accumulata negli ultimi giorni.
Così preso dalle sue elucubrazioni, si accorse dello scalpiccio di passi che riverberava nel silenzio solo quando avvertì una voce alle proprie spalle. “Signor capitano!”
D’istinto, Bühler trasalì, scattando sulla difensiva come se si fosse trovato alle spalle un nemico pronto ad accoltellarlo. “Sottotenente?”
Von Kleist lo salutò sfiorando la visiera rigida del berretto, che gli calzava leggermente sulle ventitré e gli conferiva un’aria sbarazzina. Al capitano parve di scorgere l’ombra di un sorriso su quelle labbra pallide, effimero e fugace, mentre rimaneva fermo con l’aria di star aspettando qualcosa.
“Ha già finito quello che stava facendo, von Kleist?” gli domandò, in tono imparziale.
“Sì, signor capitano. Sono già stato dal colonnello, che mi ha dato licenza di prendermi una pausa. Credo che andrò al poligono ad esercitarmi.”
A quelle parole, Hans strinse i denti e aggrottò la fronte: una voce interiore lo ammonì che forse avrebbe fatto meglio a mentire, ritrattare e tornare sui suoi propositi iniziali. Ma non doveva mostrarsi debole e cedere così facilmente ai bassi istinti, doveva dominarsi. “Anch’io stavo andando al poligono, sottotenente,” disse infine, precedendolo lungo il corridoio.

Bühler camminava con falcate rapide e nervose, e von Kleist gli teneva dietro di qualche passo senza staccare gli occhi dalla sua nuca castana.
Il capitano era sfuggente, elusivo, come se cercasse di tenerlo volutamente a distanza, ma sotto la sua apparente freddezza c’era qualcosa che lo attraeva e lo conturbava, mettendolo al tempo stesso in guardia contro un pericolo non identificato. Non poteva rimanere indifferente di fronte al suo sguardo limpido e privo di ombre, che ben rifletteva la serietà del suo temperamento; ma, se anche Bühler gli avesse concesso la propria amicizia in buona fede, non sapeva quanto tempo avrebbe retto prima che quella Sehnsucht che covava per lui in silenzio si trasformasse in un sentimento più forte.
Mentre rifletteva, si rese conto che il capitano stava gradualmente rallentando il passo e, una volta usciti fuori nel sole autunnale, a percorrere i vialetti lastricati e contornati da aiuole ben curate, si ritrovarono a camminare fianco a fianco. Friedrich scrutò di sottecchi il suo accompagnatore, e per un istante gli balenò per la mente il folle ghiribizzo di proporre un cambio di programma e sfidarlo a tirare di scherma. Tuttavia lo accantonò, quasi temendo l’effetto che il brivido del duello avrebbe potuto avere sulla tensione elettrica che già serpeggiava tra i loro animi.

La costruzione che ospitava poligono e armeria era in linea con la marziale eleganza dell’intero complesso, cui l’aquila del Reich che troneggiava sul frontone conferiva un aspetto ancora più austero.
I due giovani trovarono altri commilitoni alle rispettive postazioni di tiro, chi col fucile e chi con la pistola; c’era solo una postazione libera, che indusse von Kleist a concedere la precedenza al suo superiore.
Hans avanzò di un passo, impugnò saldamente la pistola con la destra e tese il braccio. Cercò di fare il vuoto nella mente, di placare il tormento che gli opprimeva il petto. Con un sospiro drizzò le spalle, prese la mira e sparò: centro perfetto.
Sollevato, cedette il posto al sottotenente e gli rivolse un sorriso sghembo, come per esortarlo a replicare il suo risultato.
Von Kleist, con un gesto fluido ma al tempo stesso solenne, fece un passo indietro, sollevò il braccio armato, puntò la pistola contro il tabellone e fece fuoco. Centro.
Quella volta fu lui ad alzare la testa fino a incontrare lo sguardo del capitano, piegando appena gli angoli della bocca.
Piglio fiero, come quello di un’aquila…
Hans cercava – senza eclatanti risultati – di mantenere un cortese ma professionale distacco, mentre von Kleist si comportava con apparente naturalezza. La sfida più grande non era centrare il bersaglio e far valere le sue doti di tiratore: era resistere allo sguardo di quegli occhi, all’apparenza freddi, che in quel momento sembravano ardere come non mai.
Pian piano, tuttavia, anche a lui sembrò che la tensione si fosse diradata; il braccio, prima rigido, si era rilassato, i suoi pensieri erano tutti concentrati sull’obiettivo.
L’atmosfera si distese rapidamente e presto l’esercitazione divenne una sorta di sfida cavalleresca, che finì per sciogliere la cortina di ghiaccio entro cui Hans si era trincerato. Uscì dal poligono con una sensazione di serenità che gli pervadeva l’animo, conversando amichevolmente con von Kleist. Perfino il sole, che intesseva d’oro i capelli del sottotenente, sembrava più fulgido.
Realizzò che c’era molta affinità tra loro, non perché i loro caratteri fossero veramente simili, bensì perché c’era un’ottima sintonia che andava al di là delle evidenti differenze.

Nel giro di tre settimane, Friedrich non solo era passato di grado, diventando tenente, ma il suo rapporto col capitano Bühler era completamente cambiato: sfruttavano i pochi momenti liberi per andare al poligono, in sala scherma o al maneggio ad allenarsi insieme, poi si trattenevano a conversare fino a quando uno dei due non veniva richiamato ad altri compiti.
Le formalità e i convenevoli erano stati presto accantonati in favore di argomenti più pregnanti, come la filosofia, la storia e il futuro della Germania.
Quello che tanto si era premurato di evitare, stava di nuovo succedendo? Col capitano aveva già varcato una soglia, concedendogli una familiarità che prima di allora non aveva mai concesso a un altro ufficiale, e il tutto era accaduto in perfetta naturalezza, senza sbavature, come se facesse parte del copione di un’opera teatrale già scritta da una mano invisibile.
Lo osservò di sfuggita: era appoggiato morbidamente alla staccionata, lo sguardo assorto. La luce del sole conferiva alle sue iridi una tonalità ambrata, che ricordava il colore delle foglie autunnali e ardeva nell’ovale del volto diafano.
Sapeva che era sbagliato desiderare certi legami con un altro ufficiale, che la gerarchia militare imponeva un certo contegno, eppure…
“Stavo ripensando al discorso che ci ha fatto oggi il maggiore von Eltz…” disse, cercando di dissipare la strana tensione che aleggiava nell’aria.
Dopo un breve silenzio, Bühler annuì. “Ci penso spesso anch’io, e credo che abbia ragione. Lo diceva anche mio padre, di ritorno dal fronte occidentale: la guerra ti segna a fondo, e non tutti hanno la tempra per sopportare il peso delle conseguenze che essa porta con sé.”
“Lei ha mai pensato…” Non terminò la frase; era una domanda troppo personale, ma il capitano sembrò intuire subito dove volesse andare a parare.
“Non ne ho idea, von Kleist”, rispose. “Se la mano non trema durante l’esercitazione al poligono, non è detto che mantenga la stessa fermezza quando davanti a lei… c’è un uomo in carne e ossa.” Lasciò cadere una breve pausa e, in quel momento, il comandante dal polso ferreo tornò a essere un giovane ufficiale alle prese con gli stessi dilemmi di chiunque non avesse mai vissuto in prima persona un vero e proprio conflitto. Perché un conto era l’addestramento, un altro era la guerra, quella vera. “Posso dirle quello che mi disse un mio superiore, quando ero ancora un allievo: una volta ricevuto il battesimo del fuoco ci si fa l’abitudine, oppure ci si spara un colpo in testa.”
Friedrich soppesò a lungo le sue parole. “Signor capitano, lei ha mai… rimesso in discussione la sua scelta di arruolarsi nell’esercito?”
“Mai, nemmeno una volta.”
“Nemmeno io.”
Quella volta fu Bühler a volgersi verso di lui, con cortese interesse. “Cosa l’ha spinta ad arruolarsi, tenente?”
“Credo… in ultima analisi, la vocazione personale”, rispose il giovane, d’istinto. “Vivo in un ambiente militare fin da quando ero piccolo: i miei antenati hanno sempre combattuto per la Germania, fin dai tempi di Federico il Grande, ma è per mia volontà che ho scelto questa carriera: credo che la Patria venga prima di ogni ideologia.”
“Nobile proposito.” Hans piegò le labbra in un impercettibile accenno di sorriso, poi voltò le spalle agli edifici di servizio e si perse a contemplare il boschetto dietro la caserma. “La mia famiglia non ha mai approvato la mia scelta,” ammise poi, con una nota di rammarico.
“Lei non è di qui, vero?” Quella di Friedrich non era tanto una domanda, quanto un’implicita richiesta di confermare le supposizioni che aveva elaborato prima ancora di conoscerlo: lo capiva dal suo cognome e dall’accento svevo che, pur non essendo marcato, dava alle sue parole un’intonazione inconfondibile.
“No, tenente, anche se ci vivo da un paio d’anni. Sono del Baden, di un piccolo paesino ai margini della Foresta Nera… ma è da tanto tempo che non ci torno.”
“E… le manca la sua terra, signore?”
“Ogni tanto”, disse Bühler, senza smettere di guardare dritto innanzi a sé. “Qui a Potsdam è tutto diverso, più frenetico… perfino la gente è diversa. Se mai le capiterà di andare da quelle parti, forse capirà quello che intendo.”
“Lo capisco, credo. Nemmeno io sono di qui… sono cresciuto tra i boschi e campagne del Brandeburgo. La vita ha tutto un altro sapore, a contatto con la natura.”
“E la sua famiglia?”
“Il ricordo dei miei genitori è rimasto legato a un’epoca ormai finita… probabilmente, se fossero ancora vivi, non approverebbero lo stato di cose attuale.” Von Kleist esitò qualche istante prima di proseguire: per una ragione ch’egli non seppe giustificare razionalmente, l’idea di alludere alle sue origini aristocratiche lo mise a disagio. “Io, però, non mi sarei tirato indietro: penso che la vera nobiltà stia nello spirito e negli intenti e, se fossi vissuto in un altro secolo, mi sarei unito all’Ordine Teutonico.”
“Noi della Ostpreußen siamo un po’ come i Cavalieri Teutonici del Terzo Reich, se ci pensa”, osservò il capitano. “Cambiano i tempi, ma non lo spirito… anch’io, se fossi nato nel Medioevo, mi sarei sicuramente unito all’Ordine.”
“Allora forse, chissà, magari in una vita precedente ci saremmo potuti incontrare da qualche parte in Livonia, o in Terrasanta!” esclamò Friedrich, rendendosi conto – forse troppo tardi – che Bühler lo stava fissando con uno strano luccichio negli occhi, simile a quello del bronzo sul punto di liquefarsi. Da lì a immaginarselo con scudo e usbergo, la veste bianca con la croce nera sul petto e una spada che gli pendeva dal fianco, fu un tutt’uno. Le parole gli fluirono dalle labbra senza che egli potesse controllarle: “Swer an rehte güete wendet sîn gemüete, dem volget sælde und êre…” 1
“Chi è, Wolfram von Eschenbach?”
“Conosce il Parzival, capitano? È il poema che ha ispirato la mia opera preferita di Wagner… comunque no, questo è l’Iwein di Hartmann von Aue, un poeta delle sue terre.”
“Non credevo che fosse un appassionato di letteratura cavalleresca, tenente,” mormorò il capitano; i loro volti erano così vicini che i loro respiri si confondevano nell’aria.
“Nemmeno io, signore,” disse von Kleist.
“Hans.”
“Come?”
“Quando siamo da soli, può chiamarmi Hans.”
“E lei può chiamarmi Friedrich.”
“Friedrich,” ripeté Hans, guardandolo con aria trasognata.
I meccanismi di difesa affinati in anni di solitudine gli imponevano di staccarsi da lui, di ripristinare la distanza di sicurezza, ma i suoi muscoli non accennarono a muoversi. Appoggiate allo steccato, le mani si sfiorarono e le dita s’intrecciarono fugacemente.

Che vi fosse pioggia, vento o neve, a Friedrich piaceva camminare per le strade di Potsdam quando calava la sera, dopo il servizio, per poi arrivare a casa e godersi il meritato riposo: anche se viveva da solo e non aveva nessuno ad aspettarlo – a parte la vecchia domestica che gli faceva sempre trovare pronta la cena e, talvolta, qualche lettera dei suoi fratelli – lui non disdegnava affatto la solitudine raccolta di quel piccolo attico.
Quella sera, però, si attardò al riparo di un portico in preda a una sorda inquietudine, mentre la pioggia scrosciava senza sosta, inondando le strade, e le luci dei lampioni nel buio sembravano macchie di tempera a olio. Aveva visto passare il capitano Bühler col berretto sugli occhi e il bavero alzato per proteggersi dalle sferzate: la tentazione di fare un pezzo di strada con lui era stata forte, ma alla fine lo aveva salutato ed era rimasto a guardarlo mentre la sua sagoma scura scompariva dietro una curva.
Indugiò ancora, fino a quando il fascio di luce prodotto dai fari di una Mercedes non si proiettò sulla strada nera, facendo rilucere le gocce d’acqua come tanti piccoli cristalli che cadevano dal cielo.
“Friedrich!” lo chiamò una voce.
Riconoscendolo all’istante, von Kleist uscì allo scoperto. “Konrad.”
“Vieni, ti do un passaggio.”
Senza indugio, il tenente raggiunse di corsa la portiera della berlina e si rifugiò all’interno dell’abitacolo. “Stasera c’è il diluvio”, borbottò, togliendosi il berretto zuppo d’acqua.
Le gocce percuotevano i finestrini rendendo la visuale ostica, ma Bentheim guidava con perizia, senza lasciarsi turbare dalle ruote che slittavano in curva o dai fiotti d’acqua che ruscellavano sul parabrezza. “Che fai stasera?” gli chiese, dando di gas.
Friedrich sprofondò nel sedile, incassando la testa tra le spalle. “Niente, credo. Solite cose.”
“Potresti venire da me”, propose l’altro. “Sentiamo anche gli altri, magari imbastiamo una bevuta e una partita a qualcosa. Nessun problema se si fa tardi, no? Tanto domani è giorno di riposo!”
Egli annuì, notando che il contegno dell’amico era più sereno del normale: le sue iridi grigie sembravano quasi scaglie d’argento in quella luce livida. “Grazie, Konrad, accetto volentieri”, disse. “Una bevuta è proprio quello che mi ci vuole.”
Il capitano gli lanciò una rapida occhiata senza perdere di vista la strada, poi abbassò la voce. “Successo qualcosa?”
Friedrich si limitò a fare spallucce. “Questa settimana è stata molto piena, mi sto allenando tutti i giorni per la gara di equitazione. Tu, invece, buone notizie?”
“Se sono fortunato, il colonnello mi concederà qualche giorno di licenza proprio quando Reinhardt verrà a Potsdam, così andremo a trascorrerli nella mia tenuta di caccia.” Bentheim accennò un altro sorriso, ma subito dopo si fece serio. “Sei sicuro che siano soltanto gli allenamenti… o c’è qualcos’altro?”
Prima di rispondere, il tenente rimase a lungo in silenzio, a guardare fuori dal finestrino punteggiato di goccioline dorate il paesaggio che scorreva senza ch’egli potesse vederlo realmente: in quell’ultima settimana, insieme alla promozione a tenente, aveva maturato anche la certezza dei suoi sentimenti per Hans – il che, se fosse trapelato, sarebbe equivalso a strapparsi con noncuranza i gradi dalle spalle, condannando il capitano alla medesima sorte. “Vieni tu a casa mia, così ti racconto”, propose infine. “Ho un paio di bottiglie di vino del Reno e una scacchiera. Penso che possa bastare, no?”
Non era sicuro del fatto che parlarne lo avrebbe aiutato, ma almeno avrebbe potuto passare una serata piacevole in compagnia dell’unico amico in grado di comprenderlo.

Il tepore del sole mitigava l’aria frizzante di novembre, il cielo era una tela immota di azzurro purissimo. “Giornata perfetta per andare a cavallo”, osservò Friedrich, mentre varcavano il cancello del maneggio.
Bühler annuì in silenzio: osservava distrattamente le betulle grigie e scheletrite che incombevano sullo sfondo, conferendo al paesaggio un’impressione di delicata bellezza. Nonostante fosse un pomeriggio terso, i recinti per l’equitazione erano quasi tutti vuoti, tranne uno dei più lontani, dove un paio di principianti provavano le figure base del dressage.
Quando i due ufficiali raggiunsero la capanna di legno che ospitava le scuderie, le loro narici furono invase dal caratteristico odore di stalla e di fieno fresco. Alcuni cavalli li osservavano con aria oziosa dalle finestrelle dei rispettivi box, uno di essi stronfiò, mentre altri, placidamente intenti a masticare la biada, non alzarono nemmeno la testa.
Von Kleist si diresse a colpo sicuro verso un frisone dalla fluente criniera corvina e gli occhi di giaietto, che appena lo vide scalpitò e si lasciò condurre fuori per essere sellato.
Hans, titubante, lo guardò mentre il tenente gli applicava i finimenti: quel cavallo, pur concedendo al suo padrone una fiducia quasi assoluta, si lasciava a malapena avvicinare da chiunque altro. Provò a muovere un passo verso di lui, ma il purosangue dilatò le froge e appiattì le orecchie in un’aperta manifestazione di ostilità. “Non si è ancora abituato alla mia presenza?” domandò, inarcando un sopracciglio.
Friedrich scrollò la testa con una lieve risata. “Si lascia domare solo da me.” Tenendo le redini con una mano, mise un piede nella staffa e balzò in sella con la grazia di un cavallerizzo. “Dai, vai a prendere il tuo cavallo e facciamo a chi termina per primo dieci giri!”

Von Kleist spronò il suo morello al galoppo, saltò un paio di ostacoli e deviò dalla pista, spingendolo a scavalcare lo steccato che delimitava il recinto.
“Friedrich!” urlò l’altro, alle sue spalle, “Friedrich, dove diavolo stai andando?”
“Vediamo se riesci a raggiungermi!” lo sfidò il più giovane, in preda a una strana euforia: praticava equitazione con più disinvoltura del capitano, ma aveva trovato in lui un valido avversario. Si spinse in campo aperto, quasi a briglia sciolta, col vento che gli sferzava il viso e gli faceva danzare i capelli intorno alle tempie. Cavalcare era una delle poche cose che lo facessero sentire veramente libero, un’estasi e un’ebbrezza, mentre il terreno filava sotto gli zoccoli del cavallo dandogli l’impressione di poter fendere l’aria.
Per tenere la stessa velocità, Hans si piegò sull’arcione e spronò con più forza i fianchi del suo baio: il suo metro e novanta lo rendeva un fantino inadatto al galoppo e sgraziato nel dressage ma, durante le cavalcate col tenente von Kleist, la sua riluttanza veniva animata da una sincera scintilla di competizione. L’animale si diede uno slancio e con un salto vigoroso affiancò l’avversario, che fissò entrambi con un’espressione di autentico stupore dipinta in viso. Le sue guance erano arrossate dalla foga della corsa, un ciuffo dorato gli ricadeva disordinato sulla fronte. A quella vista, Bühler sorrise sotto i baffi, allentò le redini e il suo destriero lo assecondò, facendo scattare la muscolatura poderosa.
Dopo qualche falcata si volse di nuovo verso Friedrich, che gli teneva dietro a fatica, e scoppiò a ridere di una risata spontanea; perfino lui si stupì del suo stesso entusiasmo. “Facciamo a chi arriva prima a quella quercia!” gridò, indicandola, ormai sicuro della propria vittoria.
Era la prima volta che von Kleist vedeva il capitano così compiaciuto, ma arrendersi così, a poche decine di metri dal traguardo, sarebbe stata una sconfitta per il suo orgoglio. Sentiva che le ginocchia del suo destriero iniziavano a cedere: si era allenato duramente per la gara di completo che aveva corso la domenica appena passata, e da allora non gli aveva concesso un attimo di riposo.
Come se avesse percepito il suo cambiamento d’umore, il cavallo accelerò l’andatura fino a superare di nuovo il rivale: non aveva neanche più bisogno di ordini espliciti, tanta era la sintonia che lo legava al suo cavaliere. Friedrich, avvertito il suo passo stranamente impacciato, puntò le ginocchia contro i suoi fianchi, i piedi ben saldi nelle staffe e la testa alta, preparandosi a saltare il fosso. “Forza, Sleipnir”, lo esortò, con una leggera pacca sul collo. “Manca ancora poco…”
Un’operazione semplice, che aveva ripetuto innumerevoli volte, senza fallo, negli allenamenti e nelle gare…
“Friedrich!” urlò Hans, allarmato.
Fu solo questione di pochi attimi: Sleipnir, ormai stremato, eseguì male il salto e si ricevette ancora peggio; a nulla valsero gli sforzi del giovane di tenersi in arcioni. Cadde rovinosamente per terra, a faccia in giù, come un principiante alle prime armi. Forse si era anche fatto male, ma era questione di poco conto dinanzi al cruccio di aver commesso un errore così elementare.
“Maledizione”, ringhiò, afferrando un ciuffo d’erba secca e strappandolo con rabbia. Alzò gli occhi sul cavallo: si stava abbeverando con l’acqua del canale, il manto nero lucido di sudore.
Sta bene, pensò, almeno questo…
Una mano gli sfiorò i capelli, provocandogli un leggero brivido. “Friedrich, tutto bene?”
Udire quella voce fu come un balsamo, che nell’acuire il senso di profondo imbarazzo gli infuse nuova baldanza. Si tirò a sedere e si ripulì le mani sporche di terra coi pantaloni dell’uniforme. “Sì, Hans,” tagliò corto. “Quando il mio cavallo è troppo stanco si ribella disarcionandomi.”
Ancora chino su di lui, il capitano sorrise bonario e, senza attendere conferma, lo aiutò a rassettarsi l’uniforme sgualcita. “Tu saresti disposto a farti scoppiare il cuore pur di non concedere la vittoria a qualcun altro, non è così?” Le sue iridi, calde e profonde, si rispecchiarono in quelle fredde e limpide di Friedrich. “Treu bis in den Tod.” 2
“Più o meno sì,” rispose il tenente in un soffio. “Diciamo che anch’io ho il mio onore da difendere.”
“Però sei stramazzato al suolo come una pera cotta”, rise l’altro.
Friedrich avrebbe voluto replicare, ma non poté far altro che deglutire a vuoto, la gola improvvisamente secca. La mano di Hans, che gli stava accarezzando i capelli sudati, si spostò dietro la sua nuca e rinsaldò la presa; il suo respiro accelerato gli s’infranse contro le labbra.
Come assecondando il folle istinto che gli ruggiva dentro, Friedrich lo afferrò per la giubba e si protese verso di lui. Le distanze che li separavano scomparvero come nebbia evanescente e le bocche si unirono in un bacio intenso, anelante, carico di una brama ormai intollerabile. Rotolarono sull’erba avvinghiati, le labbra umide di baci, i corpi che palpitavano quasi dolorosamente, le mani che incespicavano tra le ciocche di capelli e nelle pieghe della stoffa.
Era il fuoco che divampava, lottando con tutte le proprie forze per liberarsi dalle catene imposte della ragione.
Se Friedrich aveva accettato di fronteggiarne la potenza distruttrice, Hans ne fu semplicemente sopraffatto, come un naufrago in balìa delle onde ruggenti. Lo strinse tra le braccia e gli affondò le dita tra i corti capelli biondi, scostandosi appena soltanto per riprendere fiato.
“Andiamo…” ansimò l’altro, fissandolo con occhi liquidi di desiderio.
Hans sentiva, sapeva, che quella semplice parola era la chiave per un piacere dimenticato e in parte ancora da esplorare. “Dove, Friedrich?” udì se stesso mormorare, come sospeso in uno strano sogno in cui i sottintesi di quella richiesta stavano già prendendo forma.
Ma quell’idillio fu turbato da un fruscio, da qualche parte nel bosco, che mise in allerta tutti i suoi sensi. Ancora languidamente disteso sull’erba, Friedrich lo vide sobbalzare e svincolarsi dal suo abbraccio, scattando in piedi con l’agilità di un felino.
“Hans?”
Accaldato, ansante, scarmigliato, il capitano gli diede le spalle e si guardò intorno con aria furtiva, in cerca di qualche presenza sospetta. Un aereo passò sulle loro teste, solcando il cielo del tardo pomeriggio che andava tingendosi di un’intensa tonalità cobalto; intorno a loro, solo alberi e campi. “È tardi”, disse tra i denti. “Dobbiamo riportare i cavalli alla scuderia.”
Friedrich si aggiustò i capelli con un gesto sommario, si rimise il berretto. “Hans, si può sapere che ti prende?”
L’altro si irrigidì, cercando di imporsi quel distacco che ormai non era più in grado di mantenere. “Avrebbero potuto vederci.” Sputò quelle parole come un veleno che gli corrodeva la punta della lingua, dilaniato da una lotta che lo sconvolgeva nel corpo e nell’anima. “Non possiamo… permetterci di abbassare la guardia così.” Si era ripromesso di mettere da parte i suoi sentimenti per lui, di limitarsi al solo ruolo professionale di comandante di compagnia, ma baciarlo era stato come un risveglio dopo una lunga atarassia, un gesto che aveva lasciato spaesato lui per primo.
Friedrich avrebbe voluto afferrarlo per un braccio, trattenerlo, fare in modo che lo guardasse in faccia, ma non poté far altro che rimanere fermo a fissare la sua schiena, su cui era rimasto ancora qualche filo d’erba impigliato. “Sembrava che non te ne importasse poi molto delle conseguenze, fino a poco fa,” gli rammentò, con voce carica di risentimento.
“Io sono il tuo capitano, non posso indurti ad anteporre i sentimenti al dovere.” Hans scosse la testa: sapeva che, se solo si fosse voltato, non sarebbe più stato capace di mantenere il suo consueto distacco. Si ripeté mentalmente che avrebbe dovuto proteggerlo, ma da cosa? “Hai idea di quello che succederebbe se in caserma si venisse a sapere una cosa del genere? Come minimo, ci perderesti i gradi e la reputazione.”
“So benissimo quali sono i rischi a cui andiamo incontro, Hans”, replicò con fermezza il tenente, parlando al plurale laddove l’altro aveva usato il singolare, come se la cosa non lo riguardasse.
“Tu credi di saperlo, ma in realtà non lo sai,” ribatté duramente il capitano. “Altrimenti mi avresti respinto prima che succedesse l’irreparabile.”

Friedrich sorbì le parole di Hans come se fossero dolorose stilettate. Fino a poco prima si era sentito pronto a lasciarsi tutto alle spalle, ma non aveva alcuna intenzione di prostrarsi ai suoi piedi per convincerlo a cambiare idea: si sarebbe limitato a incassare stoicamente il colpo, accontentandosi del cortese cameratismo che aveva preceduto il loro avvicinamento. Non avrebbe tollerato un’ulteriore umiliazione, nemmeno da parte di colui di cui era innamorato.
“Compagnia di fanteria contro mezzi corazzati, supporto d’artiglieria anticarro,” disse in tono impersonale, alludendo alla dimostrazione che avrebbero dovuto fare insieme l’indomani. “Aperta campagna, con possibilità di pioggia.”
Lo guardò per l’ultima volta, sperando invano che si voltasse verso di lui, poi deglutì e prese congedo, nel tentativo di celare il groppo alla gola dietro il consueto tono marziale. “Arrivederci, signor capitano.”

Il tenente von Kleist guardava i segnalini sparpagliati sulla plancia senza neanche vederli, solo per evitare di incontrare lo sguardo del capitano. Gli altri comandanti di plotone, in piedi intorno al tavolo come i cavalieri di re Artù, erano sagome indistinte che incombevano sullo sfondo.
Bühler fece un passo avanti, offrendo la sua figura slanciata alla luce che filtrava dalle alte finestre; l’espressione sul suo volto adombrato era indecifrabile. “La linea del fronte è qui, poco oltre il fiume”, esordì in tono incolore, mentre le sue dita si muovevano agili indicando i paesaggi riprodotti sul piano in scala. “Fromm, Wessel e Körner si attesteranno a nord, in aperta campagna, come fanteria di supporto ai mezzi corazzati. Io prenderò il comando dell’altra fazione, insieme a von Kleist, approfittando del riparo della foresta. È chiaro?”
“Chiaro, signor capitano.”
Nell’udire il tono spento del tenente, Hans nascose una mano dietro la schiena e strinse il pugno fino a farsi quasi scrocchiare le nocche: mantenere una facciata imperturbabile dopo ciò che era successo il giorno prima stava risultando perfino più difficile del previsto. Inspirò, strinse gli occhi osservando la plancia, mentre Wessel, Fromm e Körner si riunivano dall’altra parte del tavolo e iniziavano a confabulare a bassa voce per decidere come disporre la loro formazione. “Von Kleist,” riprese infine, “a lei affido un plotone di fucilieri, le due mitragliatrici pesanti e un obice da campo. Li faccia schierare in posizione avanzata, ma sempre sfruttando la copertura degli alberi e degli avvallamenti del terreno. Non dobbiamo esporci troppo.”
Il tenente annuì, balbettando un ‘sissignore’ a mezza bocca.
Mentre entrambi disponevano i rispettivi pezzi sulla plancia, Hans non poté fare a meno di soffermarsi a guardarlo di sottecchi: con la sua consueta espressione assorta, Friedrich stava sistemando la fanteria senza il bisogno di chiedergli consigli o conferme, prendendo decisioni autonome per il proprio plotone. Lo immaginava esattamente così: impavido, cavalleresco, a guidare i suoi soldati sul campo di battaglia… insieme a lui…
Rivide l’immagine dell’eroe classico, del cavaliere che gli aveva porto lo stendardo, e un sottile rimpianto s’impadronì di lui: che cosa sarebbe successo se non lo avesse allontanato? Strinse le labbra, scacciando quel pensiero, e s’impose di inchiodare lo sguardo sulla plancia.
“Io disporrò le artiglierie qui, sul sentiero. Saranno gli obici ad aprire il fuoco, non appena i nemici saranno abbastanza vicini.”
“Sissignore.”
Le due squadre opposte rimasero per un po’ a scrutarsi, come per sondare le rispettive intenzioni. Fu proprio von Kleist, alla fine, a fare la prima mossa.
“Aspetti, tenente.” Con uno slancio fin troppo azzardato, Hans gli poggiò una mano sulla spalla e lo tirò verso di sé. Friedrich arretrò con un sussulto, ed egli lasciò la presa come se avesse toccato un oggetto incandescente. “Non così avanti, rischiamo di scoprirci troppo. Mi faccia spostare prima i mortai: saranno loro a contenere l’avanzata dei carri, insieme ai PAK.”
“Non così avanti, ricevuto.”
Bühler fece per spostare un pezzo, ma di nuovo le loro mani si sfiorarono involontariamente, e quel tocco fu come una scarica elettrica che gli s’irradiò in tutto il corpo.
Trascorse tutto il resto dell’esercitazione con la sensazione di trovarsi in equilibrio sull’immaginaria corda che sovrastava il baratro: una sessione di Kriegsspiel 3 non era forse più dura della simulazione di una battaglia campale, ma di sicuro richiedeva gli stessi nervi saldi e un maggiore autocontrollo.
Aveva cercato tante volte di mettere a tacere i suoi tumulti interiori, ma come poteva rimanere indifferente di fronte all’idea che a soffrirne insieme a lui fosse proprio colui che amava?

“Si può sapere com’è possibile che due ufficiali come voi abbiano commesso un errore così grossolano?” tuonò il maggiore von Eltz in piedi dietro la scrivania di mogano scuro, dardeggiando sguardi di brace dall’uno all’altro volto. Con stizza, sventolò in aria il foglio su cui Bühler aveva riportato i progressi della simulazione. “E dire che nessuno di voi due è un novellino alle prime armi!”
Dopo un breve ma sepolcrale silenzio, il capitano fece un passo avanti, rigido come una statua di ghiaccio. “È stata una mia svista, signor maggiore, che nei limiti del possibile ho tentato di correggere.”
“Svista?” Von Eltz calcò sulla parola con voce carica di biasimo. “Forse lei non se ne rende conto, Bühler, che una simile svista – come la chiama lei –, sul campo sarebbe potuta risultare fatale per lei e per il suo reparto. Sul campo non è concesso commettere sviste!” Scosse la testa con un’aria di amaro disappunto. “Ho sempre nutrito grande fiducia nelle sue capacità, ma se dovessi basarmi su una cosa del genere, le consiglierei caldamente di smettere i panni da ufficiale e di tornare a studiare i rudimenti della strategia.”
Il giovane incassò il colpo senza batter ciglio, anche se Friedrich poté percepire il profondo disagio che guastava quel contegno imperturbabile: sapeva che niente di ciò che aveva detto era vero, e l’idea di vederlo addossarsi tutta la colpa di un errore commesso da entrambi gli fu insopportabile. “Signor maggiore,” s’intromise. “Si tratta di un ordine mal recepito. Sono io che… ho calcolato male le distanze, portando la fanteria in posizione troppo avanzata.”
“Non dica sciocchezze, von Kleist!” lo redarguì il capitano. “Sono stato io a ordinarle espressamente di farlo.”
Von Eltz si limitò ad assistere all’alterco da sotto le sopracciglia aggrottate, poi sollevò una mano per indurli a tacere. “Non m’importa chi è stato: le guerre non sono una partita a dadi. È una grande delusione vedere due ufficiali come voi, che in svariate altre occasioni hanno dimostrato efficienza e coesione, incappare in errori da principianti.” Si mise a sedere alla scrivania e inforcò gli occhiali, abbassando di nuovo lo sguardo sulle sue carte. “Adesso andate. Mi auguro che una cosa del genere non si ripeta mai più.”

I due giovani ufficiali si separarono in silenzio, senza degnarsi di un solo saluto che non fosse quello regolamentare. Abituati a collaborare in perfetta sintonia, come un condottiero e il suo prode cavaliere, il gelo che era piombato tra loro aveva finito per influenzare anche l’esito della simulazione.
Invece di procedere dritto verso la sua meta, von Kleist vagò a lungo da solo per le strade più deserte, il berretto calato sulla testa, senza curarsi del nevischio che volteggiava nella quiete ovattata del vespro. Non riusciva a smettere di pensare al capitano, e a quei baci che, seppur assaporati fugacemente, lo avevano distolto dalla prosaica realtà per indurlo alla contemplazione di nuovi orizzonti. Non volgare attrazione fisica, ma un’unione di anime a livello più profondo, che tendeva verso vette inviolate: l’Eros secondo Platone.
La neve iniziò a fioccare sempre più fitta, ammantando il paesaggio di un candore etereo. Friedrich si strinse nel lungo pastrano e affrettò il passo, diretto verso la stazione.
Dieci minuti di treno che gli parvero interminabili, una sola fermata appena fuori città, e nella piazza del villaggio trovò già una lussuosa berlina nera ad aspettarlo.
Friedrich salì in silenzio, la visiera del berretto ad adombrare i suoi occhi lucidi.
Come ogni venerdì sera, abbandonava la città per tornare alla dimora avita, una villa barocca immersa nel verde delle campagne. La vastità del parco, con le sue querce secolari, ospitava le sue cavalcate, le immense e vuote sale gli offrivano momenti di piacevole solitudine.
Mentre muoveva i primi passi attraverso gli ampi corridoi affrescati con scene mitologiche, la sua mente fu attraversata dal pensiero che, se le cose fossero andate diversamente, un giorno anche Hans avrebbe potuto percorrerli, per passare un fine settimana insieme, lontano da presenze indiscrete. Più volte si era chiesto che cosa avrebbe provato il giovane del Baden nel mettervi piede – se l’opulenza di quelle sale lo avrebbe messo in soggezione, o se magari ne sarebbe rimasto affascinato. Ma perché considerare un futuro che non ci sarebbe mai stato?
Ancora immerso in quei pensieri, si sedette al pianoforte e, senza neanche rendersene conto, le sue dita iniziarono a suonare le prime note di una sonata malinconica che aveva composto qualche tempo prima. Per tutta la durata dell’esecuzione si lasciò trasportare dal ritmo incalzante della musica che, pur non costituendo una cura definitiva alla sua malinconia, lo aiutò a fare il vuoto nella mente.
“Signor conte?”
Friedrich scostò appena le mani dalla tastiera, scorgendo sulla soglia del salone la figura di un anziano domestico in livrea. “Sì, Johann?”
“Signore, c’è il principe von Bentheim und Steinfurt al telefono.”
Von Kleist raggiunse il telefono, si appoggiò con le spalle alla parete e sollevò la cornetta. “Konrad!”
“Friedrich, ti va di uscire stasera?” chiese la voce dell’amico, dall’altro capo. “Potremmo andare a cena fuori e poi fermarci a bere una birra da qualche parte. Ci troviamo alle sette a Luisenplatz, ci stai?”
Friedrich aggrottò le sopracciglia. “Ma tu non sei insieme a Reinhardt?”
“Sì, ma a lui certo non dispiacerà se vieni insieme a noi. Anzi, è stato proprio lui a propormelo…”
Von Kleist rimase per un attimo in silenzio, irresoluto, attorcigliando le dita intorno al filo mentre l’altro attendeva una risposta. Gli parve scortese rifiutare un simile invito, ma l’idea di trovarsi a fare il terzo incomodo, sommata al malumore accumulato negli ultimi giorni, gli rendevano sgradito anche ciò che normalmente attendeva con trepidazione fin da metà settimana. Sperò che Konrad lo avrebbe capito senza portargli rancore: aveva bisogno di rimanere un po’ da solo, per riflettere sulla sua situazione.
Non aveva intenzione di mettersi in ginocchio ai piedi di Hans, rischiando di uscirne ancora più ferito, ma riteneva non avesse ormai più senso continuare a guardarsi al di là di una barriera di filo spinato. Doveva affrontarlo, in qualche modo, consapevole che ormai avevano varcato una soglia oltre la quale non si poteva più tornare indietro.

Hans Bühler e Günther Schwieger camminavano fianco a fianco per i corridoi semivuoti della caserma, diretti verso l’uscita. Fuori era già buio, e la neve che imbiancava i giardini riluceva di una leggera tonalità perlacea nell’alone dei lampioni. Schwieger stava dicendo qualcosa riguardo alle vacanze natalizie, che avrebbe voluto sfruttare per raggiungere la sua famiglia ad Amburgo, ma le sue parole giungevano all’orecchio di Hans come un tiepido e indistinto ronzio al quale il giovane si limitava a rispondere con qualche vago grugnito d’assenso. “Quanto entusiasmo!” osservò l’altro, divertito. “Tu non fai nulla per Natale?”
“Non credo”, fu la risposta, proferita con un’alzata di spalle. “Forse mi tratterrò in caserma, per festeggiare insieme agli altri camerati, forse me ne starò da solo a casa.”
Schwieger scoppiò a ridere, battendogli una pacca amichevole sulla spalla. “Secondo me dovresti provare ad andare più in giro, conoscere gente… trovarti una ragazza.”
Hans strinse i denti, ma non replicò, correggendo mentalmente la frase dell’amico con ‘un ragazzo’.
Friedrich. Si era lasciato frenare dai suoi scrupoli, allontanandolo quasi senza volerlo… eppure, il consolidarsi del sentimento aveva preceduto l’atto fisico, e un istinto ineffabile gli suggeriva che con lui, e solo con lui, avrebbe potuto raggiungere l’estasi mistica del Bund. Anche se era ben consapevole delle conseguenze che una scelta del genere si sarebbe portata dietro, l’aver esitato così tanto gli sembrò quasi un atto sacrilego.
Senza neanche farci caso, Günther lo spinse fuori dall’edificio. “Dai, stavo scherzando. Andiamo a bere qualcosa dal vecchio Holger dopo cena, ti va? Dovrebbe esserci anche Bentheim con un suo amico.”
“Walkenhorst non c’è?”
“No, ha detto che va al cinema con la sua bella. Gliel’aveva promesso, sai com’è…”
“E chi sarebbe questo amico di Bentheim?”
“Non lo so, ha detto che non è di qui. È suo ospite in questi giorni.”
Ho altri programmi, avrebbe voluto rispondere Hans, ma subito dopo rammentò che l’unica alternativa era trascorrere la serata a rimuginare seduto sulla sua poltrona, con una tazza di tè in una mano e un libro in un’altra. Seppur riluttante, si lasciò convincere: se non altro, un’uscita in compagnia lo avrebbe tenuto lontano da certi pensieri.

Varcarono la soglia di una birreria all’antica, con divanetti di pelle rosso fuoco e tavolini in stile art déco, dove un vecchio grammofono trasmetteva musica Schlager del decennio precedente.
Donne coi capelli vaporosi, freschi di parrucchiere, ballavano tra i tavoli languidamente abbracciate a uomini con le giacche inamidate, mentre militari di vari reparti, in uniforme da libera uscita, chiacchieravano, facevano gare di bevute o cercavano di approcciare le fanciulle.
I quattro ufficiali ordinarono quattro birre e si sistemarono a uno dei pochi tavolini liberi.
“Cinque posti, perfetto”, osservò Schwieger, accontentandosi di una sedia che dava le spalle alla porta. “Chi era quell’ufficiale che poi non è venuto, Bentheim?”
“Il tenente von Kleist.”
Nell’udire quel nome, Hans trasalì e rimase a fissare il vuoto con occhi sbarrati.
“Ma non è quello con cui stavi andando al maneggio l’altro giorno, Hans?” gli chiese Schwieger.
Per un attimo, gli parve che il collega stesse ammiccando e che le sue labbra si fossero piegate in un sorriso sornione, ma si ripeté che doveva essere soltanto un’allucinazione. “Sì, è proprio lui. È un ufficiale della mia compagnia.” Si voltò verso Bentheim, che nel frattempo si era tolto il cappotto e lo aveva appeso al muro. “Come… come mai non è venuto?”
“Si trovava fuori città, come ogni fine settimana,” rispose l’altro.

Mentre Schwieger parlava della sua militanza politica, Bentheim lo ascoltava con cortese interesse, rivolgendo di tanto in tanto qualche occhiata all’amico – un tenente delle Waffen-SS che si era presentato come Reinhardt Greifenberg – che partecipava alla conversazione con uguale entusiasmo. Solo Hans, i cui propositi erano miseramente naufragati, faticava a lasciarsi coinvolgere dalla spensieratezza dei suoi compagni e, seduto su uno dei divanetti in un angolo defilato, fissava il fondo del suo boccale ormai vuoto mentre una canzone d’amore nostalgica faceva da sottofondo alle chiacchiere.
Fuori città… come ogni fine settimana…
“È la prima volta che viene qui a Potsdam, Reinhardt?” chiese Schwieger.
“No, anzi: si potrebbe dire che ci sono cresciuto, anche se la mia famiglia è di Berlino”, rispose in tono affabile l’interpellato, che era riuscito ad acquisire confidenza in fretta. “Sono in licenza, quindi ne ho approfittato per venire a trovare Konrad. Ci conosciamo dai tempi della scuola, e ogni volta che posso faccio un salto da queste parti per passare qualche giorno insieme a lui.” I suoi occhi celesti, che spiccavano sul volto dai lineamenti di rigore nordico, si volsero di nuovo per incontrare quelli dell’amico, che si limitò a sorridere appena.
Hans si avvide che i due giovani erano così vicini che i loro gomiti quasi si toccavano: sembrava che a legarli ci fosse qualcosa, qualcosa che lui aveva stolidamente rifuggito. Quell’impressione, seppur appena accennata e forse invisibile agli occhi di chi non potesse intuirne i sottintesi, gli provocò una prepotente fitta di nostalgia.
Finì di bere e si alzò, in maniera fin troppo precipitosa, con la scusa di dover prendere una boccata d’aria.
Uscì nella fredda sera invernale, rischiarata dalle luci tremolanti dei lampioni che si riflettevano sui marciapiedi imbiancati di neve. L’eco tiepida della musica raggiungeva la strada, insieme a vaghe ondate del calore che si respirava all’interno del locale. Hans si appoggiò al muro e si accese una sigaretta, stringendosi nel cappotto.
Vide una ragazza ubriaca che rideva trascinandosi dietro il fidanzato e due ragazzi biondi con la camicia bruna che s’incamminavano a piedi verso i quartieri popolari, cantando l’inno della Hitlerjugend. Una berlina nera parcheggiò sul lato opposto della strada, spense il motore e per un po’ rimase ferma, come se chi la guidava fosse indeciso se scendere o meno. Quando finalmente la portiera si aprì, nel cono di luce di un lampione comparve la figura di un ufficiale avvolto nel pastrano.
Ancora una volta, il pensiero del giovane ritornò a Friedrich, e gli sembrò di rivederlo, coi capelli scompigliati dalla corsa e le guance leggermente arrossate, di sentire le sue mani che gli ghermivano l’uniforme e il suo sapore sulle labbra.
Esalò un profondo sospiro: da una parte c’erano il suo ruolo, la gerarchia militare, ma anche un tormento corrosivo che gli rendeva difficile concentrarsi sui propri doveri.
Dall’altra il Bund che, se da una parte arricchiva il sodalizio tra due soldati portandoli alla contemplazione dell’Eros, dall’altra obbligava a una vita di menzogne e sotterfugi.
Che cosa avrebbe dovuto fare, per conciliare le due cose?
Finì la sigaretta, consumata più per inerzia che per sfizio, e fece per rientrare. In quel momento si accorse che l’ufficiale aveva attraversato la strada e si era fermato, irresoluto, a pochi passi da lui. Sotto la visiera del berretto brillavano due occhi limpidi come cristalli, del colore del ghiaccio purissimo, che quando incontrarono i suoi parvero prendere fuoco.
“Hans…?”
Si fissarono per un istante interminabile, sbalorditi: nessuno dei due si sarebbe aspettato di ritrovare l’altro proprio lì, proprio quella sera.
Il capitano sentì che un sorriso spontaneo gli stava riaffiorando alle labbra e, quando vide che l’altro ricambiava, il suo cuore ebbe un sobbalzo. “Ci rivediamo, Friedrich.”


  1. la frase, in Mittelhochdeutsch (alto tedesco medio), significa: “Chi volge il suo animo alle cose buone e giuste, sarà ricompensato con fortuna e onore.”↩︎

  2. Fedele fino alla morte (motto militare tedesco).↩︎

  3. significa “gioco di guerra”. È una simulazione strategica da condurre su una plancia di gioco, esattamente come succede qui.↩︎

  
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