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Autore: Mary P_Stark    03/05/2019    2 recensioni
Cosa succederebbe se gli dèi dell'Olimpo e gli eroi greci camminassero tra noi? Quali potrebbero essere le conseguenze, per noi e per loro? Atena, dea della Guerra, delle Arti e dell'Intelletto, incuriosita dal mondo moderno, ha deciso di vivere tra noi per conoscere le nuove genti che popolano la Terra e che, un tempo, lei governava assieme al Padre Zeus e gli Olimpici. In questa raccolta, verranno raccontate le avventure di Atena, degli dèi olimpici e degli eroi del mito greco, con i loro pregi, i loro difetti e le loro piccole stravaganze. (Naturalmente, i miti sono rivisitati e corretti)
Genere: Commedia, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Efesto – 3 –
 
 
 
 
L’arrivo di Atena ed Érebos fu annunciato da una strana bruma azzurrognola, che i pompieri guardarono con sospetto misto a preoccupazione.

Nessuno dei vigili del fuoco allertati da Felipe aveva accettato le sue parole riguardo al cambiamento di piani per affrontare il fuoco, perciò l’arrivo delle due divinità fu accolta dagli sguardi sorpresi dell’intera compagnia.

Artemide aveva assistito al battibecco tra Felipe e il capo dei pompieri senza poter fare nulla – troppo innervosita dall’incendio per potersi concentrare sui suoi poteri – ma, quando vide quella nebbia, sorrise sollevata.

Nessuno poteva giocare con le menti delle persone come Érebos. Lui sarebbe riuscito a smuovere quegli irriducibili vigili del fuoco, salvando l’intera situazione e quegli uomini coraggiosi quanto testardi.

Non appena vide comparire la coppia, perciò, Arty corse ad abbracciare Atena, stringendosi alla sorellastra con una tale forza da far gemere la dea della guerra. Mentre Érebos si ragguagliava con Felipe per conoscere in breve la situazione – sempre sotto gli occhi sgomenti dei pompieri –, Artemide mormorò: “Non sapevo davvero cosa fare… ero bloccata, e…”

Azzittendola con un sorriso, Atena replicò: “So che queste cose ti scioccano a morte, tesoro, ma sono felice che tu non abbia voluto abbandonare Felipe. Hai dimostrato coraggio, davvero.”

“Alekos è al sicuro con lo zio, comunque” ci tenne a sottolineare Artemide. “Non è mai rimasto da solo!”

Scoppiando a ridere suo malgrado, Atena assentì tranquilla. “Lo so, non temere. Ho già parlato con Efesto, e ci ha detto come sono andate le cose. Hai fatto tutto benissimo.”

Rasserenata dalle parole della sorella, Artemide osservò con occhi più sereni l’opera della divinità Ctonia, intento a parlare con i vigili del fuoco riguardo a ciò che avrebbero dovuto fare.

Ammiccando infine a Felipe, chiosò: “Lui sì che ci sa fare, con le parole.”

“Decisamente” esalò lui, scrutando l’intera scena con espressione basita e occhi sgranati.

Già pronta a commentare la bravura della divinità Ctonia con una battutaccia, Artemide strillò di paura quando un paio di piante crollarono verso di loro sotto il peso delle fiamme che le stavano divorando.

Immediatamente, e incuranti di avere un pubblico, Artemide e Atena sfoggiarono le loro armi e, mentre le frecce dorate della dea silvana distruggevano la prima pianta, la seconda venne divelta dalla potente spada della dea della guerra.

Il tutto sotto gli occhi basiti dei vigili del fuoco che, pur sotto l’effetto dei poteri di Érebos, colsero fin nei minimi dettagli ciò che avvenne dinanzi a loro.

Felipe, non meno scioccato dei pompieri accanto a lui, gracchiò sgomento: “Miseria… ladra.”

Fu però Érebos a sottolineare l’evidente, e a scuotere il capo con espressione esasperata quanto divertita. “Siete le solite esagerate. Ora dovrò anche candeggiare le loro memorie.”

Ad Artemide non fregò un accidente e, stringendosi a Felipe, borbottò: “Non me ne importa un fico secco. Non lascerò che Atropo si diverta con un altro Rodriguez. Niente di personale, Érebos, ma vorrei stare nei primi danni e impedire a tua figlia di far danni.”

Atena non poté che sorriderle calorosamente e, rivolta alla divinità Ctonia, chiosò: “Papà si incazzerà di brutto, ma fa niente.”

“Dubito si arrabbierà con me” sorrise sornione la divinità, lasciando scivolare le sue dita sui volti dei pompieri con gesti simili a carezze.

“Oh, e perché?” si interessarono subito le due dee.

“Perché sono più vecchio di lui” sottolineò Érebos prima di schioccare le dita e ordinare ai pompieri di allontanarsi per raggiungere il nuovo punto di raccolta.

Atena sogghignò per diretta conseguenza e, lanciando un’occhiata maliziosa al suo compagno, celiò: “Oserei dire che la faccenda avrà risvolti davvero interessanti, se mai papà dovesse metterci il becco.”

“Preferisco non sapere… vi lascio alle vostre beghe divine” borbottò a quel punto Felipe, salendo a sua volta sul camion dei vigili del fuoco. “… comunque, grazie in anticipo. Se il piano di Efesto funziona, avrà salvato tutta la zona di Alamo.”

“Credi a noi, Felipe…” asserirono in coro Atena e Artemide. “… Efesto non sbaglia mai, quando c’è di mezzo il fuoco.”

Lui annuì, sorrise ad Atena ed Érebos e infine, rivolto uno sguardo malizioso ad Artemide, mormorò: “Tu e io abbiamo un conto in sospeso, dea della caccia. Non sparire.”

“Non ci penso proprio” annuì lei, guardandolo allontanarsi assieme ai vigili del fuoco.

Non appena non furono più alla portata della loro vista, Artemide si volse a mezzo verso la sorella, titubante, e domandò: “Credi che dovrei seguirlo? Sai, dopotutto…”

Atena scosse il capo, le sfiorò il viso con una carezza e replicò: “Se mai vorrai cominciare qualcosa con lui, ricorda sempre che è un mortale e, prima o dopo, Atropo avrà la forbice in mano per Felipe. Non è una cosa su cui tu possa porre un veto, perciò pondera ciò che senti e sappi che il Fato è una livella che non fa sconti a nessuno, ma che non condanna per sadismo o perversione. E’ nella natura delle cose, e basta.”

Artemide annuì lentamente e, nel lanciare uno sguardo alle fiamme che ancora divampavano dietro di loro, domandò: “E’ così che sei venuta a patti con la morte di Miguel?”

“Esatto. E se non mi credi, parla con Atropo. Sarà illuminante, in tal senso” le spiegò Atena.

Artemide allora balzò all’indietro, indicò il bosco e borbottò: “Facciamo che parleremo di filosofia lontano da qui. Ormai ho i nervi a pezzi, e potrei dare di matto per molto meno che la caduta di un albero.”

Atena ed Érebos si dichiararono d’accordo e, assieme, tornarono laddove ancora si trovavano Efesto e il piccolo Alekos.

Nel riprendere forma accanto a loro, Atena sorrise al suo bambino – ancora stretto alla mano di Efesto – e, nel vedere lo zio, spalancò gli occhi ed esalò sorpresa: “Zio! Però… ti sei tirato a lucido!”

Arrossendo fino alla radice dei capelli sale e pepe, lui borbottò una risposta incomprensibile prima di domandare ansioso: “E’ andato tutto bene, lassù? Stanno facendo ciò che ho detto al mortale?”

Érebos assentì, dandogli una pacca sulla spalla per rassicurarlo.

“Ho spiegato loro per filo e per segno come devono comportarsi e…” si interruppe per un attimo, indicando sopra le loro teste il canadair che stava dirigendosi verso il fondo della valle. “… da quel che sembra, stanno mettendo in pratica alla perfezione i tuoi consigli. Direi che tutto sta procedendo bene.”

“Mi riterrò soddisfatto quando lo vedrò spento” sbuffò Efesto prima di accigliarsi al pari degli altri quando vide comparire, a qualche metro da loro, una nuvoletta scintillante che preannunciava l’arrivo di una divinità. “Che succede, ora?”

“E chi lo sa?” si lagnò Artemide, passandosi nervosamente le mani tra i capelli pieni di fuliggine.

Abbigliato con la sua divisa d’ordinanza, Hermes apparve dinanzi a loro con tanto di eleganti calzari dorati ai piedi e dotati di ali, una candida tunica bianco latte e bracciali d’oro ai polsi, recanti le effige di Zeus.

Tutto sorridente e baldanzoso, svolazzò accanto a loro con la sacca per le lettere sistemata a tracolla e, una alla volta, candide missive vergate con grafia elegante vennero consegnate a Efesto, Atena e Artemide.

Quando, però, Hermes si ritrovò dinanzi a Érebos, il messaggero degli dèi ebbe un’insicurezza, colmata però subito dalla divinità Ctonia che, allungata una mano, sorrise serafica e disse: “Accontentalo pure, Hermes. Lo so che ambasciator non porta pena.”

“Non si sa mai… nei secoli, hanno tagliato un sacco di teste, ai messaggeri” ghignò furbo Hermes prima di guardare le sorelle e chiosare: “Vi siete messe nei guai, mi sa.”

“Lo temi così tanto che la tua mascella sta per scardinarsi a forza di trattenere il sarcasmo” sibilò Artemide, soffiandogli contro.

“Sei la solita scontrosa” sbuffò Hermes, atterrando poi accanto ad Alekos per un rapido abbraccio e per consegnare una lettera anche a lui, stavolta colorata e piena di adesivi. “Questa, almeno, è simpatica.”

“Grazie, zio Hermes” sorrise Alekos, aprendola e vedendo comparire i diorami di tutti gli dèi dell’Olimpo, con tanto di sorrisoni e occhi a stella.

“Dioniso” borbottarono all’unisono Atena e Artemide.

Con un balzello, Hermes tornò a sollevarsi in volo e, inchinandosi scherzosamente al gruppo di divinità, dichiarò: “Naturalmente, Zeus vi vuole vedere subito.”

Ciò detto, svanì come era giunto, lasciando alle sue spalle solo il ricordo di una risata divertita e il profumo dell’ambrosia di cui, solitamente, odorava Hermes.

“Neanche ci facesse dentro il bagno” brontolò Artemide, scuotendosi una mano dinanzi al volto.

Atena ghignò, non potendo che darle ragione e, nell’aprire la sua busta, scrutò accigliata il richiamo formale di Padre Zeus e i toni da Santa Inquisizione con cui la invitava a presentarsi sull’Olimpo.

Sbuffando, richiuse la lettera, la passò al figlio – che la lesse immediatamente, scoppiando in una risatina divertita – e borbottò: “E io che speravo che diventare nonno lo avrebbe addolcito. Era al suo peggio, quando l’ha scritta.”

“Magari era furioso con la moglie. Sai che, quando litigano, diventa ispirato e diventa velenoso come un aspide” scrollò le spalle Artemide, lanciando uno sguardo al fuoco che divampava in lontananza. “E se io rimanessi e voi mi anticipaste? Così, giusto per stare sul sicuro.”

“Andiamo, prima che gli parta un divino embolo. Potrebbe diventare ancor più creativo di così e inviarci le Erinni, come accompagnatrici” mugugnò Atena, afferrando la mano di Alekos per poi domandare: “Pronto a fare un giretto sull’Olimpo?”

“Non vedo l’ora” annuì eccitato il ragazzino.

I quattro dèi si guardarono vicendevolmente e, quasi all’unisono, replicarono: “Potessimo dire la stessa cosa…”
 
***

Il viale centrale che costeggiava i templi eretti da tempo immemore sull’Olimpo, era abbellito da piante d’alto fusto, fontane zampillanti e statue di ogni ordine e grandezza.

Profumi di nettare e ambrosia si espandevano nell’aria come un qualcosa di fisico e Alekos, nel guardarsi intorno con espressione sognante, mormorò: “E’ tutto bellissimo.”

Atena e Artemide, entrambe abbigliate come si conveniva a due dee del loro calibro, avanzavano con passo battagliero accanto al bambino. Loro malgrado, però, furono costrette a loro volta ad ammettere che quel luogo, per quanto classico e un po’ demodé, fosse splendido anche agli occhi di una divinità.

Le marmoree costruzioni che si ergevano verso il cielo terso erano di splendida fattura, e la purezza dell’aria che si respirava in quei luoghi non aveva eguali in nessun luogo, sulla Terra.

Le ampie scalinate che conducevano ai singoli templi erano lisce come perle, ed erano altrettanto cangianti sotto il sole del meriggio.

I colonnati, diritti e perfetti, ne erano il degno termine e, oltre loro, la frescura e l’ombra dei templi sembrava promettere pace e serenità.

Tutto, in quel luogo, sembrava studiato per regalare a un occhio sprovveduto una sensazione di sicurezza e di candore, ma nessuno degli dèi pronti a far visita a Zeus si lasciò ingannare.

Che Alekos pensasse pure che l’Olimpo fosse un luogo esemplare e privo di difetti: tutti loro, chi in un modo, chi nell’altro, sapeva bene che non era così.

Quando infine raggiunsero il punto più alto dell’Olimpo e il palazzo più imponente di tutti, Atena celiò sarcastica: “Benvenuti agli Hunger Games. Possa la fortuna essere sempre dalla vostra parte.”

Artemide scoppiò in una grassa risata mentre Efesto, grattandosi dubbioso la nuca, domandava: “Non era quella saga piena di gente che moriva in un’arena?”

“Esatto, zio. Credo che la mamma volesse fare dell’ironia, visto che sembrate dover fronteggiare qualcosa di simile” ridacchiò Alekos.

“Beh, sfruttiamo la citazione fino in fondo, allora” chiosò Efesto, schioccando un dito e facendo rifulgere gli abiti dei quattro dèi di fiamme scarlatte… e totalmente finte.

“Oooh, fantastiche, zio!” esclamò Artemide, battendo felice le mani. “Le voglio su tutte le mie tuniche!”

“Anche se ti spaventano gli incendi?” domandò dubbioso Efesto.

“E chi se ne frega… queste sono finte, e sono troppo cool” trillò eccitata Artemide, saltellando e guardandosi con espressione estasiata.

“Mancherebbe il cocchio, ma ci accontenteremo” chiosò a quel punto Érebos, socchiudendo per un momento gli occhi prima di distendere le mani sulla sua tunica.

Da bianca che era divenne nera come la notte e, sul tessuto traslucido e che rifletteva le fiamme di Efesto, comparvero tutte le stelle dell’universo in un gorgoglio primordiale che fece sospirare di pura meraviglia i presenti.

I lunghi e neri capelli del dio Ctonio si andarono a confondere con i toni scuri della tunica, così da rendere il loro leggero fluttuare ancor più misterioso e affascinante.

Avanzando per primo, Érebos sorrise loro furbescamente e disse: “Giusto per fare un po’ di scena, sapete… dovrò pur vantare la mia discendenza, ogni tanto.”

“Sarà grandioso. A paparino verrà un travaso di bile” ridacchiò maligna Artemide mentre prendeva sottobraccio zio Efesto, e Atena faceva lo stesso con suo figlio.

Non appena il gruppo sparuto ebbe oltrepassato la linea immaginaria offerta dalle alte colonne corinzie del tempio – che rifletterono le fiamme scarlatte di Efesto –, mille torce si accesero accanto ai muri, indirizzando loro la via.

Non che ve ne fosse bisogno poiché ognuno di loro, salvo Alekos, conosceva bene la strada per raggiungere la sala del trono. Zeus, però, aveva forse voluto rispondere alla scelta plateale di Efesto di sfoggiare un look estroso, e questo era il risultato.

Quando infine raggiunsero l’interno del tempio e l’ampia sala del trono, vi trovarono già presenti il possente Zeus, oltre alla seriosa Era.

Ai due lati della sala, al pari di tanti membri di una giuria, gli dèi tutti attendevano che il Padre dell’Olimpo parlasse e Atena, nel piegarsi all’orecchio di Artemide, mormorò: “Lo dicevo che eravamo agli Hunger Games.”

“Afrodite non mi manderà mai un paracadute” brontolò Arty, accigliandosi.

“Guardate troppa TV” le redarguì bonariamente Efesto, guardandosi solo fuggevolmente attorno, per niente turbato dagli eventuali commenti delle divinità.

Ormai aveva imparato a fregarsene. Teti aveva avuto ragione da vendere, a mandarlo tra i mortali. Solo loro potevano conoscere una vita vissuta nell’imperfezione, ma che così imperfetta poi non era affatto.

I difetti potevano diventare pregi, e le limitazioni opportunità. Mai più, nella sua esistenza, si sarebbe nascosto dietro ciò che gli era accaduto.

Né avrebbe più permesso a nessuno di farlo sentire inferiore per il suo aspetto fisico, o le sue mancanze.

Lui era giusto così com’era, anche se non era bello come Afrodite, o aitante come Ares.

Raggiunto che ebbero la scalinata che conduceva al trono, il gruppo si fermò e Zeus, senza neppure prendersi il tempo di salutarli, sbatté i pugni sui braccioli del trono marmoreo e tuonò: “MA COSA VI SALTA IN MENTE, DICO IO?!”

“Niente, ‘ciao, come va, figliole?’, papino? Dopotutto, sono diversi mesi che manco da casa, e Atty anche di più” sottolineò sprezzante Artemide.

Era borbottò qualcosa riguardo all’educazione di certe dee e, per tutta risposta, Artemide sibilò: “E’ meglio se stai zitta, visto che tu sei l’ultima a poter parlare di educazione!”

“Cosa vorresti dire?!” sbottò Era, levandosi irosa dal suo scranno e fissando l’odiata dea silvestre con gelidi occhi azzurri.

“Cosa voglio dire?! Ce l’hai davanti al naso, COSA!” sbraitò allora la giovane dea, indicando Efesto e sfidandola a ribattere.

Azzittendosi di colpo, Era fissò livida la divinità della caccia che, per tutta risposta, ghignò al suo indirizzo e poggiò soddisfatta le mani sui fianchi.

Zeus si affrettò a riportare l’attenzione sul motivo principale per cui aveva convocato le quattro divinità e, tossicchiando, disse con minore enfasi: “Ehm, tornando a noi, vorrei ricordarvi che, stando ai trattati firmati da tutti, non vi era concesso usare i vostri poteri di fronte a dei mortali in maniera così diretta come avete fatto.”

“Solo perché abbiamo abbattuto un paio di piante? O fatto un paio di abracadabra?” sottolineò Atena, guardandosi noncurante le unghie, neanche vi stesse cercando i misteri dell’universo.

Zeus sbuffò di fronte a quell’aperto disinteresse nei confronti della sua reprimenda e, oscurandosi in viso, ringhiò: “Ti ho insegnato a guardare in faccia la gente, quando ci si parla. Che razza di esempio dai, a tuo figlio?!”

Alekos sorrise al nonno, non sapendo se ridere di fronte all’aperta sfida della madre e della zia, o se limitarsi a nascondersi dietro la schiena di Érebos per rendersi invisibile. Non voleva essere usato come pezzo degli scacchi di quella particolare partita, ma non voleva neppure offendere nessuno.

“Padre, se ritenessi il tuo scoppio d’ira utile a insegnare qualcosa a mio figlio, ben volentieri mi prenderei la tua reprimenda…” disse allora Atena, sollevando due occhi di gelido smeraldo sul padre, che impallidì leggermente. “… ma, visto e considerato che la tua lettera trasudava rabbia repressa e basta, non ritengo che Alekos possa imparare alcunché, da questa pagliacciata.”

“PAGLIACCIATA?!” sbraitò allora Zeus, divenendo paonazzo in viso per l’ira.

Ares ridacchiò spudoratamente, strizzando l’occhio ad Atena, che lo ringraziò con un bacetto lanciato nell’aria con fare molto civettuolo.

“Adesso BASTA! FUORI TUTTI!” tornò a urlare Zeus, sempre più furioso.

Ben volentieri, gli altri dèi defilarono fuori dal palazzo del Padre e, quando Apollo passò accanto alla gemella, mormorò: “Attenti ai fulmini. Ne ha un paio dietro il trono, nella sua faretra.”

“Grazie per la soffiata, fratello” ammiccò Artemide, guardandolo poi correre via alla chetichella.

Rimasti finalmente soli, Zeus li fissò al colmo dell’esasperazione e borbottò: “Come si fa a farsi rispettare, se non mi prendete sul serio?!”

“Farsi rispettare non implica necessariamente urlare come un pazzo, voler comminare condanne senza giusta causa e lanciare strali a caso contro persone a caso” sottolineò Atena, indicando con un dito la faretra delle folgori che era appesa al trono.

Arrossendo leggermente, Zeus grugnì: “Non le avrei usate, in ogni caso.”

“Vorrei ben vedere… ma quel che abbiamo compiuto è stato fatto per salvare delle vite umane, ed Érebos aveva tutto pienamente sotto controllo” gli fece quindi notare Atena, lanciando poi un sorriso al suo compagno.

“Quanto a te…” sbuffò a quel punto Zeus, fissando torvo la divinità Ctonia. “… non ti sembra di aver esagerato, nell’uso dei tuoi poteri?”

“Con tutto il rispetto, Zeus, non prendo ordini da te, e posso fare più o meno ciò che voglio” si limitò a dire il dio, scrollando le spalle. “Se i miei poteri possono salvare la vita a qualcuno, ben venga. E se possono rendere felice la mia amata, meglio ancora. Ricorda, io non sono figlio tuo e non sono tenuto a seguire le tue leggi.”

Deglutendo a fatica, e ricordando forse con fastidio la vera – e più profonda – natura del dio Ctonio, Zeus si limitò a borbottare: “Beh, vedi di non fare troppi favori alla mia figliola, se ti riesce.”

“Mi premurerò di non fare mai del male a nessuno” gli concesse Érebos con una certa ironia.

Tossicchiando imbarazzato, Zeus tornò con lo sguardo sulle sue figlie, che non sembravano minimamente preoccupate dal suo rimbrotto.

Come poteva ammettere, con loro, che la sua ‘dolce’ metà si era sentita infastidita dal fatto che suo figlio Efesto avesse fatto comunella con le due dee, riuscendo persino a divertirsi, e lo aveva obbligato a richiamarle all’ordine?

Zeus sapeva perfettamente da solo che quelle erano solo le tirate di una bambina viziata. Efesto aveva tutto il diritto di vivere come meglio credeva, visto soprattutto il trattamento subito alla sua nascita, e durante il primo periodo della sua vita.

Il problema era che, finché non fosse riuscito a liberarsi dal maledetto trono su cui si era assiso quella mattina, in attesa di un incontro intimo con una ninfa, non avrebbe più potuto fare un accidente di niente.

Quella vigliacca di Era aveva fatto sostituire i troni a sua insaputa – probabilmente per vendicarsi di una sua recente scappatella – e aveva fatto sistemare lo scranno costruito da Efesto al posto del suo.1 Segno inequivocabile che, primo, una delle sue ancelle aveva tradito la sua fiducia, secondo, Era aveva conservato quell’infernale marchingegno per poterlo usare contro di lui.

Era già stato dannatamente difficile convincere Efesto a liberare Era da quella trappola, a suo tempo, e grazie a un lauto quanto infruttuoso pagamento. Figurarsi se ora, che si ritrovava contro tutti quanti, il dio del fuoco si sarebbe abbassato a liberarlo, e solo per grazia divina.

Era non avrebbe mai detto una parola buona per difenderlo, visto che era stato colto in fallo. Artemide e Atena erano giustamente furiose per quella convocazione poco convincente. Érebos non aveva nessun interesse ad aiutarlo, specialmente dopo aver fatto arrabbiare la sua dolce metà e, per finire, Efesto non aveva nessun debito d’onore, con lui.

Era in un bel guaio.

“Sai cosa mi stavo chiedendo, papino?” intervenne a quel punto Artemide, sedendosi sul primo gradino del palco per poi guardarlo dal basso all’alto con aria di sfida. “Come mai continui a startene seduto lì come una statua, quando invece sei solito camminare avanti e indietro, quando sei irritato?”

Impallidendo leggermente, Zeus si limitò a dire: “Non è detto che io sia irritato. Magari, sono solo deluso da voi e dalla leggerezza con cui affrontate le cose.”

Artemide assottigliò lo sguardo, ghignò beffarda e, lanciando uno sguardo a una seriosa Era, aggiunse: “Mah… sarà anche vero, eppure qualcosa non mi torna. Perché non scendi e non ne parliamo a quattr’occhi?”

Sollevando un sopracciglio con evidente interesse, Atena guardò a sua volta il padre, si aprì in un sorriso di scherno e chiosò: “Sì, papà. Scendi. Dopotutto, siamo in famiglia, e non c’è bisogno di tutta questa messa inscena.”

“Sto bene qui” sottolineò lui sprezzante.

Artemide, allora, balzò in piedi, annullò le distanze che li separavano per raggiungerlo sul palco e, afferratolo a una mano, lo strattonò dicendo: “Oh, ma dai! Non vuoi neanche darci un abbraccio pacificatore?”

Come ipotizzato dalla dea, il corpo massiccio di Zeus rimase ancorato allo scranno marmoreo e, per diretta conseguenza, Artemide scoppiò in una grassa risata e celiò: “Che hai combinato per finire sul trono di Efesto?”

Sentitosi preso in causa, il dio del fuoco guardò sua madre, ora palesemente a disagio e, rivolto alla dea silvestre, domandò: “Sei sicuro che sia quello?”

“O qualcuno ne ha costruito un altro uguale, o una persona a caso…” chiosò Artemide, fissando ironica una furiosa Era. “… ha pensato bene di fare uno scherzetto al Padre degli dèi.”

“Non puoi venire nella MIA CASA a prenderti gioco di me, con quella faccia che mi ricorda ogni giorno LE SUE COLPE…” sbottò Era, levandosi in piedi come una furia fino a piazzarsi di fronte a una imperturbabile Artemide. “… per poi farmi passare per una sciocca vanesia! Si meritava una simile punizione! Come voi vi meritate di essere punite per aver fatto quello che volevate di fronte a dei miseri umani!”

Sbadigliando sonoramente di fronte a quella filippica, Artemide replicò caustica: “Primo, non è CASA TUA, ma di mio padre. Il tuo tempio è un altro, se ben ricordo, e lì non ho mai messo piede per mero rispetto, anche se tu sembri non ricordarlo MAI. Secondo, scaricare sui figli le colpe dei padri è qualcosa di miserevole e rivoltante e, come dea del focolare domestico, speravo che almeno tu te lo ricordassi ma, a quanto pare, non te ne frega niente. Terzo, abbiamo salvato delle vite umane, agendo come abbiamo fatto, e non me ne pento ma, se ti riferisci all’uso dei poteri di Érebos durante il Cinco de Maio e in occasione dell’incendio, come ha giustamente detto lui, può fare quel che vuole, perché voi non avete potere su una divinità Ctonia.”

Ciò detto, piazzò le mani sui fianchi, fissò rabbiosa Era e scoccò la bordata finale.

“Se poi vogliamo spaccare il capello in quattro, tu più di tutte dovresti tacere, sull’uso incongruo del potere, visto ciò che hai fatto quando nacque lo zio. Pensi che usare la tua forza su un infante sia stato giusto, o coerente con quanto vai predicando?”

Efesto ascoltò le parole di Artemide con la sorpresa nel cuore. Era forse la prima volta in assoluto che un’invettiva del genere veniva rivolta a sua madre, e con toni così duri.

Lui stesso non era mai riuscito a parlarle in quel modo, e il fatto che fosse sua nipote a ergersi a suo paladino, fu qualcosa che lo scaldò dentro più delle fiamme che lui sapeva così magistralmente governare.

Era tremava come una foglia, ma non per la paura quanto, piuttosto, per la furia a stento trattenuta. Sapeva di non poter ribattere alle parole della dea, ma il desiderio di farlo era così forte da farle brillare di stizza gli occhi azzurro cielo.

Allontanandosi di un passo dalla dea del focolare, Artemide tornò a squadrare il padre, ora seria e vagamente disgustata, e aggiunse: “Non faccio neppure fatica a capire cos’abbia spinto Era a farti questo scherzo di pessimo gusto, e non la biasimo affatto. Io e Apollo siamo nati per un tuo capriccio, perché mia madre era bella e tu la volevi. Così, hai fatto imbestialire tua moglie e ci hai fatto vivere con il suo odio come compagni. Ben fatto, paparino.”

Zeus ebbe la decenza di non dire nulla e Artemide, cogliendo la palla al balzo, guardò dabbasso e concluse dicendo: “Volevi insegnare qualcosa a tuo nipote? Beh, Alekos può imparare questo; che la lealtà e la fedeltà sono importanti, ma vanno conquistate con il sudore della fronte. Vuoi il rispetto dei tuoi sudditi? Comincia tu a rispettare noi.”

Ciò detto, discese dal palco con passo tranquillo, si accostò a Efesto e, strizzandogli l’occhio, domandò: “Quanto tempo rimarrà lì?”

Efesto schioccò le dita e, subito, gli arti di Zeus furono liberi.

Vagamente sorpresi, i presenti guardarono Efesto in cerca di spiegazioni e la divinità, con una scrollata di spalle, dichiarò: “Non voglio guastarmi la giornata pensando a quanto far durare la sua penitenza. La sta già scontando da una vita. Non ho bisogno di infierire.”

Artemide gli sorrise compiaciuta e, presolo sottobraccio, disse: “Andiamo al mio tempio. Vi offrirò un po’ di nettare e ambrosia.”

“Molto volentieri” assentirono i membri del gruppetto, avviandosi verso l’uscita mentre le urla di Era ingiuriavano Zeus in merito alla sua debolezza e alla sua zucca vuota.

Una volta fuori dal tempio, Efesto prese una gran boccata d’aria, sorrise ad Artemide e gli altri e infine disse sollevato: “Non mi sono mai sentito meglio in vita mia. Lo giuro.”

 
 
1: Efesto costruì un trono per Era, ma con una trappola. Quando lei vi si sedette, rimase bloccata sullo scranno e a nulla valsero le richieste degli dèi. Dioniso, così, lo fece ubriacare per strapparne il consenso a liberarla, ma solo dopo che gli fu promessa in sposa Afrodite. Il resto, è storia.
 

 
N.d.A.: che dire? Zeus non ne fa una giusta?
  
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