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Autore: Saelde_und_Ehre    05/05/2019    7 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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VIII.
Wir wollen keine Pause, wir wollen noch am Ziel
 
 

Mentre attendevano le direttive del tenente generale von Salza, gli ufficiali superiori riuniti fuori dalla stanza adibita a sala delle riunioni sembravano pervasi da un’aspettativa quasi elettrica.
Rimanendo in disparte, il maggiore Bühler fece una breve rassegna dei presenti: oltre a lui, c’erano il colonnello Wolff che discorreva con un paio di colleghi, von Rauheneck, e un’altra dozzina di comandanti di battaglione, tra i quali il giovane riconobbe il maggiore Lützow.
Alcuni di loro, che gli stavano lanciando strane occhiate, si voltarono da un’altra parte facendo finta di nulla. Nessuno aveva il coraggio di dirgli certe cose in faccia, ovviamente, ma Hans si era accorto da tempo che i suoi parigrado lo squadravano dall’alto in basso, considerandolo poco più che un pivello, un ragazzotto intrappolato in un’eterna adolescenza. Come aveva avuto modo di apprendere la sera precedente attraverso alcune voci di caserma, qualcuno si riferiva a lui col nomignolo di Bursche – il giovanotto – che dal basso dei suoi ventisette anni doveva soltanto stare zitto e incassare.
In quel momento, un attendente si affacciò alla porta della stanza e fece cenno agli ufficiali di entrare, sottraendo tempo a quelle considerazioni.
“Riposo, signori,” li blandì il comandante di divisione, quando furono tutti sull’attenti.
Bühler, le braccia piegate dietro la schiena e il disappunto celato dal solito contegno impassibile, fu l’ultimo a raggiungere il tavolo, sul quale von Salza aveva dispiegato una mappa del fronte.
“Vengano avanti, signori,” ordinò il generale, conciso.
La sua figura era sempre stata ammantata di un’aura quasi leggendaria, nota solo attraverso le fotografie e i resoconti di chi lo aveva visto dal vivo durante qualche parata. Privo di paramenti cerimoniali, in pieno assetto da battaglia, von Salza era un uomo di statura relativamente minuta, col Pour le Mérite in blu e oro al collo, acuti occhi azzurri e un’espressione autorevole, che incuteva rispetto e ammirazione al tempo stesso. Con una lunga stecca indicò la linea del fronte e il luogo in cui era ubicato il villaggio: i reparti dell’Infanterie-Division Ostpreußen erano contrassegnati col simbolo di una croce di ferro nera in campo bianco, e risultavano molto più avanzati rispetto al resto dell’esercito.
“Come concordato coi comandanti di reggimento, ci stabiliremo qui per un paio di giorni, in attesa di ricongiungerci al resto dell’armata e avanzare in forze verso la capitale.” A quelle parole, alzò la testa per guardare in faccia i suoi subalterni e ricevette un cenno d’assenso da parte dei colonnelli che lo attorniavano. “Nel frattempo, sarà compito dei vari reparti assicurarsi il controllo dell’intera zona.”
Bühler sentiva che si avvicinavano sempre più al giorno cruciale: Varsavia era a poche decine di chilometri da lì, al di là della Vistola, come un metaforico Rubicone che attendeva soltanto di essere varcato.
“Le sezioni che ancora mancano all’appello ci raggiungeranno nel corso di questa giornata e verranno subito reintegrate nelle unità di appartenenza.”
Per lui, l’ultima notizia significava anche poter rivedere il tenente von Kleist e averlo al proprio fianco, sia sul campo di battaglia che nelle libere uscite. Quel pensiero lo rinfrancò.
Mentre usciva sul piazzale per incontrare i suoi soldati, ne approfittò per riflettere sul discorso che gli aveva fatto il colonnello la sera prima: quando gli veniva conferita la facoltà di condurre operazioni militari e di decidere in autonomia, il tenente sapeva dare il meglio di sé, ma la sua testardaggine rasentava spesso i limiti consentiti dal regolamento.
Un ottimo comandante di plotone, ma un pessimo ufficiale subordinato, lo aveva definito.
Il maggiore aveva nominato Friedrich suo aiutante di campo per svariate ragioni, sia militari che personali, ma la richiesta del suo superiore lo metteva in una posizione conflittuale: in virtù del suo ruolo, era proprio a lui che spettava l’onere di richiamarlo all’obbedienza, ponendo un freno all’attitudine che maggiormente apprezzava di lui.
Per Friedrich, le ragioni materiali della guerra passavano in secondo piano, in nome di ideali ch’egli si premurava di seguire come se da essi dipendessero i destini del mondo: era uno dei pochi a ricercare valori cavallereschi e universali anche laddove un altro soldato avrebbe visto solo una costrizione.
Per Hans, invece, il senso del dovere era sempre stato così forte da finire per soffocare, inibire e ridimensionare perfino le sue naturali inclinazioni, e solo dopo aver conosciuto Friedrich aveva deciso di accantonare i propri scrupoli, diventando per lui un amico, un amante, e infine il compagno più fedele.
Si erano spinti fin troppo oltre, compromettendo in maniera irreversibile i rapporti di gerarchia, e da tempo, la sfida più ardua per lui stava nel considerarlo un subalterno come tutti gli altri.

Il Sole era ancora nascosto dietro le colline quando il tenente von Kleist uscì dalla sua tenda.
L’atmosfera bluastra rendeva difficile distinguere i contorni delle cose, e il silenzio era pressoché totale, spezzato solo dai sussurri delle sentinelle che stavano per smontare il turno e dal lontano tramestio delle prime attività dell’accampamento.
Non incontrò praticamente nessuno mentre si avviava verso l’infermeria, e il capitano medico appostato all’entrata lo lasciò passare salutandolo con un cenno del capo, memore dell’accordo della sera precedente. Non gli ci volle molto per trovare il lettino su cui giaceva il sergente Hoffmann: il sottufficiale era già sveglio e fissava il soffitto con sguardo vacuo, un ciuffo di capelli rossi che gli ricadeva disordinato sulla fronte. Tutt’intorno a lui, i feriti si rigiravano tra le lenzuola o gemevano nel sonno, mentre gli infermieri accorrevano tempestivi per sopperire ai loro bisogni. Friedrich si avvicinò in punta di piedi, quasi per timore di disturbarlo: era andato lì solo per accertarsi di persona delle sue condizioni, ma l’altro, quando si accorse della sua presenza, si soffermò su di lui e gli rivolse un’occhiata come per invitarlo. “Signor tenente.”
L’ufficiale prese una sedia e si sedette al suo capezzale. “Ha combattuto bene ieri, sergente.”
“Ho fatto solo il mio dovere, signore.” Hoffmann tentò di sollevarsi leggermente, come per darsi un’aria più composta, ma il movimento gli provocò un gemito di dolore. Ricadde sul materasso in preda agli ansiti, il viso imperlato di sudore freddo.
Von Kleist gli sistemò il guanciale dietro la testa e gli asciugò la fronte con un fazzoletto. “Non tenti movimenti bruschi, rischierebbe soltanto di peggiorare la situazione.”
“Dovrei essere io a ringraziare lei… per avermi salvato la vita,” mormorò il sottufficiale, a denti stretti, quando la costola incrinata gli concesse una tregua dall’affanno.
“Dovere, sergente”, fu la replica del giovane, accompagnata da un’alzata di spalle. Come di riflesso, la sua mano andò a sfiorare il punto in cui la fasciatura applicatagli dal capitano medico creava un leggero spessore sotto la stoffa dell’uniforme. “Avrei potuto esserci io, al suo posto.”
Hoffmann annuì, tenendo gli occhi socchiusi; le labbra contratte s’incresparono in un accenno di sorriso. Friedrich rimase in silenzio, pensando che fosse sul punto di addormentarsi, ma il sergente si lasciò sfuggire un sospiro strozzato che subito gli provocò un accesso di tosse. “E così, verrò rimandato in Germania in licenza… dopo nemmeno una settimana di guerra,” gracchiò. Von Kleist si affrettò a porgergli il bicchiere, sollevandogli con delicatezza la testa per aiutarlo a bere.
Una volta ripresosi, l’altro proseguì, cercando di occultare il proprio rammarico dietro una delle consuete facezie che solevano scambiarsi tra camerati: “Piuttosto che abbandonare lei e la mia squadra in un momento così delicato, signore… avrei preferito farmi la Transiberiana avanti e indietro in mutande.”
L’ufficiale rise. “Ci manca solo che si metta a cantare l’Internazionale…”
“Se lei me lo ordinasse con una pistola alla tempia, signore… forse, ma non glielo garantisco,” replicò l’altro, con la stessa ironia.
“Al limite le chiederei di cantarmi Heil dir im Siegerkranz, possibilmente quando il maggiore non sente.” Quell’ultimo pensiero provocò a Friedrich una leggera risata: Hans non aveva mai smesso di rimbeccarlo scherzosamente per le sue origini aristocratiche, quando certi retaggi riaffioravano. “Suvvia, pensi che, mentre lei sarà a godersi la salubre aria della foresta di Teutoburgo e le cure della sua fidanzata, io dovrò sorbirmi l’uccellaccio del malaugurio… direi che le è andata bene, Hoffmann!”
“Ah, il vecchio Eichmann…” ridacchiò il sergente, per quel poco che le costole rotte gli permettevano.
“E Schneider!”
“Oh, di questo non posso lamentarmi, signor tenente.” La voce del sottufficiale era flebile e ogni parola era intervallata da respiri affannati, ma quello scambio di battute sembrava avergli fatto riacquistare una lieve pennellata di colorito. “E pensare che ci saranno anche loro al mio matrimonio. Dio ce ne scampi!”
Von Kleist scosse la testa con indulgenza: Hoffmann, che molti consideravano un amico anche al di fuori del servizio, aveva invitato l’intero plotone alla cerimonia. “Vedrà che li farò stare calmi”, promise. “Adesso però devo andare. Mi saluti la Germania, quando la rivedrà.”

Non aveva ancora messo piede fuori dal tendone, quando scorse un’imponente figura di spalle, intenta a conversare con due ufficiali medici. Dal portamento eretto, l’uniforme linda e la cura che come sempre riservava alla sua persona, riconobbe subito il capitano Bentheim: chi non lo sapesse, avrebbe fatto fatica a credere che il giorno precedente era rimasto ferito.
Non aspettandosi di trovarlo lì, Friedrich rimase ad aspettarlo fino a quando l’altro non ebbe terminato la discussione, poi si avviarono insieme verso la mensa.
“Pensavo che ti avessero dato un giorno di riposo”, ammise von Kleist.
“È così,” rispose l’altro, “ma non sono così grave da essere costretto a letto o in un ufficio.”
Friedrich, pur vedendo che il capitano si mostrava sicuro di ciò che diceva, non si sentì di condividere il suo stesso entusiasmo.
“Logicamente non ignorerò gli avvertimenti del medico”, proseguì Konrad, come per rassicurarlo. “Ma non ho intenzione di privare la compagnia del mio comando, soprattutto adesso che siamo alle porte di Varsavia.”
Si sedettero a un tavolino in un angolo, con un paio di giornali e i vassoi della colazione, senza perdere di vista l’entrata. Mentre Friedrich rigirava il cucchiaino nella tazza e scorreva i titoli di un quotidiano del Partito, Bentheim sorseggiava il proprio caffè con aria assorta. “Dopotutto”, disse poi, “credo che mi sarei trattenuto qui al fronte anche se mi si fosse presentata l’occasione di andare qualche giorno in licenza.”
Il tenente annuì. “Oh, anch’io.”
“Le Waffen-SS sono praticamente alle porte di Varsavia… Reinhardt lo diceva sempre che con l’impiego dei carri armati l’arte della guerra sarebbe cambiata in maniera radicale, e adesso ne stiamo avendo la conferma: in pochi giorni abbiamo fatto progressi che richiederebbero settimane…”
Von Kleist terminò il caffè e posò la tazza. “Certe volte… non posso fare a meno di chiedermi come sarà il mondo, tra qualche anno,” ammise, fissandone il fondo vuoto. Provava uno strano senso di inquietudine quando pensava al futuro, come se una vaga bruma gli impedisse di vedere oltre.
“Questo dipenderà soltanto da noi, dalle nostre azioni e dalle scelte che faremo.” Bentheim alzò le spalle, allontanò da sé il giornale che stava sfogliando e rimase a osservare i soldati che entravano. Con un impercettibile cenno del capo, indicò un ragazzo biondo e ben piantato che aveva appena varcato la soglia. “Quello laggiù sarebbe l’ufficiale aggregato al tuo plotone?”
“Sì, è il sottotenente Kühn”, rispose Friedrich. “Un bravo ragazzo, molto entusiasta… a volte anche troppo, oserei dire. Mi ricorda un po’ mio fratello Siegfried.”
“Allora ho capito il genere. Come sta la piccola peste?”
“Ha assillato me e Manfred per giorni quando ha saputo che partivamo per il fronte. Alla scuola di volo è il primo del suo corso…”
“Una creatura del cielo, solare e spigliata: io te l’ho sempre detto,” osservò l’altro. “Farà sicuramente strada.”
Il tenente rimase per qualche istante in silenzio, indugiando nel ricordo del fratello sedicenne: così con la testa per aria, piena degli stessi sogni e ideali che avevano sempre animato anche lui, nonostante i piedi ben ancorati per terra. “Sì, lo credo anch’io.”

Il sottotenente Kühn si era stupito di trovare, insieme alla colazione, anche la posta. All’inizio aveva pensato che si trattasse della risposta di sua madre, sempre pronta a profondersi in raccomandazioni superflue ed esprimere preoccupazione per il suo unico figlio, e invece si era ritrovato tra le mani una lettera di Uschi, la minuta ragazza dai riccioli castani e gli occhi grandi che aveva lasciato a Berlino. Gli aveva scritto parole strabordanti di tenerezza, che più volte lo avevano portato a scuotere la testa e arrossire per l’imbarazzo.
“È la tua ragazza?” gli chiese il sottotenente Hartmann, un sorriso malizioso a incurvargli le labbra.
Colto alla sprovvista, Kühn sobbalzò. “Beh… sì, più o meno.”
“Come ‘più o meno’?” L’altro fece una risatina. “O lo è o non lo è.”
Il ragazzo abbassò di nuovo gli occhi sulla lettera, esitò per qualche istante, poi la ripiegò e rispose: “Beh, allora… direi di sì.”
In realtà, neanche lui ne era così sicuro: le aveva promesso di mandarle un saluto dal fronte, ma gli eventi degli ultimi giorni lo avevano scombussolato a tal punto che, non appena la giornata campale gli concedeva qualche ora per riposare, si coricava sulla branda e crollava addormentato. Non erano fidanzati, non ufficialmente, anche se lei era già convinta di volerlo presentare ai suoi genitori. L’aveva conosciuta tramite amici comuni, dopo la promozione a sottotenente, in una placida sera d’estate. Avevano parlato per tutto il tempo e avevano deciso di frequentarsi, uscendo talvolta a passeggio per il Tiergarten o a Friedrichshain. Erich era lusingato da quell’interesse ma, pur essendo sempre stato un tipo incline ad affrontare con entusiasmo ogni nuova sfida, non riusciva a capire perché in quel frangente lo lasciasse smarrito e disorientato.
Si ripromise che prima di dormire le avrebbe scritto qualche riga, per farle sapere che stava bene e raccontarle degli ultimi movimentati giorni di battaglia.
L’altro gli tirò una gomitata complice, distogliendolo da quei pensieri. “Auguri, allora! Fai bene a divertirti, perché la gioventù è una sola. Ci sono uomini che a vent’anni sono già vecchi…”
“Io non…” iniziò il giovane, avvampando. Tuttavia si morse la lingua, e la sua attenzione fu catturata dal tenente von Kleist, che passava camminando fianco a fianco con un giovane capitano. Aveva già visto quell’ufficiale in giro: aveva il portamento statuario, occhi taglienti come lame d’acciaio, i capelli corvini. Gli sembrò che indugiasse brevemente nella loro direzione, poi passò oltre come se non li avesse neanche visti.
“Quello è il capitano Bentheim”, disse Hartmann, come leggendogli nel pensiero. “Pensa: qualche giorno fa ha distrutto un carro armato con una granata, e ieri ha combattuto da solo contro due nemici! Anche se è rimasto ferito nello scontro, ha abbandonato il campo solo alla fine della battaglia.”
Erich, incuriosito, rimase a osservarlo fino a quando non fu scomparso oltre l’entrata.
“Dicono che sia nobile… un von!” proseguì l’altro.
“È per questo che sta sempre insieme a von Kleist?”
“Esatto… aristocrazia prussiana, anche se si fa chiamare solo Bentheim.”
Erich sgranò gli occhi. “E tu come fai a saperlo?”
“Dovresti ascoltare più spesso Radio Gavetta, Kühn. Si dicono anche cose interessanti, ogni tanto.” Hartmann scrollò le spalle e gli rivolse uno sguardo di bonaria condiscendenza. “Comunque, tutti conoscono quel capitano prevalentemente per le sue gesta belliche, ma nessuno sa da dove venga, né quale sia il suo nome di battesimo o quanti anni abbia. Tu lo guardi e pensi che ne abbia venticinque, poi magari scopri che in realtà è il dottor Faust e ha fatto un patto con Mefistofele per rimanere giovane in eterno…”
“Ma tu senti…”
“Prima che mi trasferissero nella compagnia di Bühler, era lui il mio comandante.”
“Ah, sì? Eravate… camerati?”
“Sì, ma non farti strane illusioni: il principe Bentheim non dà confidenza a nessuno. Adesso andiamo, vedo già il vecchio gufo in avvicinamento.”
Il ragazzo acconsentì quasi riluttante, scorgendo in lontananza la figura del maresciallo Eichmann intento ad apostrofare con durezza l’ennesimo gruppo di soldati. Cercò di accantonare la propria curiosità sul conto del capitano e ripose la lettera di Uschi nel taschino dell’uniforme, ripromettendosi ancora una volta che entro quella sera le avrebbe scritto.

La luce del sole, che in quella tarda mattinata splendeva in un cielo privo di nubi, aveva il potere di rendere i colori più sfavillanti e di mostrare la bellezza in tutto il suo fulgore, ma per sua stessa natura, votata alla chiarezza e alla verità, era anche incapace di nascondere all’occhio le brutture.
Bühler alzò lo sguardo: schierati in formazione, riconoscibili per le ali affilate e spigolose, gli Stuka fendevano un cielo limpido come zaffiro, che contrastava in maniera quasi dolorosa col paesaggio straziato da ampie ferite. Laddove grigi villaggi di rovine emergevano come cicatrici sulla nuda terra, l’ampio corso della Vistola riluceva di scaglie argentate, incurante della devastazione. Le strida agghiaccianti dei bombardieri lacerarono l’aria accompagnando una rapida picchiata, che innalzò un muro di fuoco e fiamme lungo la linea di un orizzonte neanche troppo lontano.
A quella vista, il maggiore avvertì una fitta allo stomaco, ma sentì di non potervisi sottrarre. Non c’era nessuna poesia in un simile scenario: era un dovere sporco e neanche troppo esaltante, una fase transizionale, il caos necessario per ripristinare l’ordine.
Ordinò a Schmidt di fermare la Kübelwagen in prossimità di una macchia d’alberi e si voltò verso la colonna di automezzi schierati alle sue spalle; dopodiché, sollevò il binocolo e scrutò la campagna dilaniata dai bombardamenti: sembrava che, a parte le trombe di Gerico, gli scoppi delle bombe e i ruggiti degli aerei, ovunque regnasse una quiete innaturale. Vide uno Stuka precipitare in vite col motore in fiamme, abbattuto dalla contraerea, prima che una formazione di caccia polacchi giungesse da est a darle manforte.
“I comandanti di compagnia a rapporto da me entro tre minuti: ho avvistato un contingente di fanteria”, disse con una certa perentorietà, dopo aver nuovamente diretto le lenti verso la campagna.
Gli avevano sempre insegnato che un ufficiale doveva essere rapido nel prendere decisioni e altrettanto fermo nell’imporle ma, nonostante la relativa sicurezza che era riuscito ad acquisire in quelle giornate campali, in lui si era ormai radicata la convinzione che quella prima settimana di guerra non fosse altro che un lungo preludio. Con un gesto ormai consolidato dall’abitudine, dispiegò la mappa sul cofano e iniziò a elaborare la strategia offensiva, cercando di attenersi il più possibile alle direttive del generale.

Il primo a presentarsi a rapporto fu Bentheim. Dalle comunicazioni ricevute la sera precedente, aveva appreso che il capitano era rimasto ferito durante uno scontro ravvicinato contro due soldati nemici ma, se anche il suo fisico ne avesse risentito, il suo contegno non lo dava a vedere. Non poterono scambiarsi più che i consueti saluti militari e qualche convenevole, ma Bühler sperò di potersi ritagliare qualche minuto per parlarci, dopo la battaglia.
Walkenhorst e Schwieger giunsero subito dopo. Forte della familiarità acquisita coi tre ufficiali in anni di cameratismo, il maggiore trasse la stilografica dal taschino e fece loro cenno di avvicinarsi alla mappa. “Ci sono due compagnie di fanteria in avvicinamento da nord-est,” spiegò, indicando un punto che aveva contrassegnato con una X e una freccia, “e si stanno muovendo nella nostra direzione. Abbiamo una decina di minuti prima che si accorgano di noi, più altri quindici prima che ci vengano addosso.”
Gli altri tre annuirono senza batter ciglio.
“Tenteremo un assalto laterale, sfruttando il vantaggio tattico e il riparo offertoci dagli alberi. Walkenhorst, lei andrà in prima linea. A lei si unirà il capitano Fromm, quando giungerà sul posto. Faccia scavare una trincea, distribuendo una mitragliatrice pesante per squadra.”
“Signorsì”, rispose l’altro, procedendo per trasmettere gli ordini ai suoi sottoposti.
“Schwieger, la sua compagnia in posizione intermedia. Faccia in modo che i 105 coprano un’area abbastanza vasta, in modo da arrivare più in fretta al centro dello schieramento nemico. Bentheim?”
L’interpellato fece un passo avanti, e Bühler lo osservò per qualche istante prima di esporgli i propri dubbi. “Avrei bisogno di lei non distante dalla prima linea, per dirigere le azioni insieme a me.”
Il capitano, che forse si aspettava proprio quella precisa richiesta, acconsentì con vigore. “Sissignore.”
“Schiererà la sua compagnia subito dopo i reparti di Walkenhorst e Fromm, in modo da coprire loro le spalle.”
“Certo, signor maggiore.”
“Capitano Bentheim, resti qui,” gli disse, dopo aver congedato Schwieger e Walkenhorst, per poi abbassare la voce e passare a un registro più confidenziale. “Non abbiamo molto tempo per perderci in chiacchiere, Konrad, ma ho bisogno che i nostri ufficiali siano capaci di condurre le manovre col massimo dell’efficienza. Conto su di te.” Si era rivolto a lui come a un amico più che come a un subalterno, ma il tono era comunque fermo. Si conoscevano da diversi anni, complice il rapporto con Friedrich, e col tempo avevano scoperto di condividere non solo gli stessi metodi e lo stile di combattimento, ma anche una segreta affinità che non si poteva esprimere in termini espliciti.
L’altro assottigliò lo sguardo, comprendendo subito dove volesse andare a parare. “Puoi contare su di me”, fu la laconica replica.
“Era proprio quello che volevo sentirti dire.”
Hans ripiegò la mappa e rimase per un po’ a osservare i vari reparti che si schieravano come da ordini, quando la voce del maresciallo lo costrinse a voltarsi. “Signor maggiore! La informo che anche la compagnia del capitano Fromm è appena arrivata a destinazione.”
“Gli dica di presentarsi a rapporto da me per ricevere le disposizioni.”
“Subito, signore.”

La battaglia si era conclusa abbastanza in fretta, senza significative perdite o feriti, e il morale delle truppe si manteneva alto. Prima di proseguire con l’avanzata, sempre seguendo la linea del fronte e le direttive ricevute in mattinata, il maggiore Bühler aveva dato ordine di fermarsi per il pranzo, e i soldati bivaccavano seduti per terra o sui ridotti, mentre lui e il capitano Bentheim, chini di fronte alla mappa, concordavano la strategia da portare avanti nel pomeriggio.
Stormi di bombardieri continuavano a scaricare tonnellate di devastazione sui sobborghi della capitale, mentre gli scoppi dell’artiglieria riecheggiavano in lontananza come temporali a ciel sereno. Quando ebbe congedato il capitano, Hans si passò una mano tra i capelli, ravviandoli all’indietro e stringendo la nuca con un gesto nervoso. Ancora una volta, gli tornarono in mente le parole del maggiore von Eltz: in guerra, tutti si sporcano le mani.
Ripensando a quel discorso e alla conseguente discussione avuta con von Kleist anni prima, anche lui si rese conto che la sua mano aveva tremato, la prima volta che si era trovato a dover uccidere un uomo per non finire a sua volta ucciso.
Con un sospiro tornò a guardare la mappa e aggiornò i progressi dell’offensiva sulla base dei più recenti rapporti dei ricognitori, poi poté finalmente alzarsi e concedersi una pausa. Non era neanche riuscito a vedere Friedrich se non da lontano, mentre guidava l’assalto alla testa del suo plotone. Aveva sentito dire che il giovane aveva riportato una lieve ferita al braccio, che gli aveva impedito di prendere personalmente le armi com’era solito fare.
Si guardò intorno nella speranza di scorgerlo da qualche parte tra i capannelli di soldati, insieme a qualche ufficiale o seduto da qualche parte a mangiare, ma dovette cercarlo a lungo prima di riuscire a trovarlo: era in piedi vicino a un furgone della logistica, intento a discutere col sottotenente Kühn e un paio di subalterni, tra i quali riconobbe il maresciallo Eichmann e il caporal maggiore Schneider.
Appena si accorse della sua presenza, il tenente diede l’attenti e gli si avvicinò di qualche passo, mentre gli altri si irrigidivano per salutarlo.
“Signor maggiore.” Nonostante il tono all’apparenza imparziale, la voce ebbe una leggera vibrazione e gli occhi chiarissimi lo fissarono ardenti.
Hans ricambiò lo sguardo, sfiorando la visiera del berretto. “Ci rivediamo, von Kleist.”

Convocato a rapporto, il tenente von Kleist scattò sull’attenti e salutò militarmente. “Signor maggiore.”
Il battere dei talloni riecheggiò nel silenzio dell’ufficio spoglio.
Ancora seduto alla scrivania, Bühler gli ordinò il riposo con un gesto quasi infastidito: anche se il regolamento lo imponeva, non aveva mai sopportato certi convenevoli quando si trovavano da soli, neanche in caso di convocazioni ufficiali. Alzò la testa e gli rivolse un tiepido sorriso. “Friedrich, bentornato.”
Von Kleist sorrise di rimando, mosse un passo verso di lui e si tolse il berretto. “Il fronte non perdona. Come stai, Hans? Non ci vediamo da giorni…”
“Bene, sono soltanto un po’… sopraffatto dalla burocrazia”, rispose il maggiore con una leggera smorfia, indicando le pile di documenti da compilare. “E tu? Mi è giunta notizia che ti sei beccato un proiettile di striscio…”
“Non è niente di grave.” Friedrich abbassò gli occhi sull’imponente macchina da scrivere e sui fascicoli sparpagliati sul tavolo, come se si aspettasse di sentirsi chiedere una mano per occuparsene, poi li rialzò fino a incatenarli a quelli del compagno. “Come si suol dire, la guerra va avanti…”
“… ma la vittoria giunge solo alla fine.” Con una scrollata di spalle, Hans indicò una sedia di fronte a sé. “Siediti pure.”
Solo allora, Friedrich si mise a osservare l’ambiente: l’ufficio che era stato assegnato al maggiore era una stanzetta angusta con le pareti di un verde pallido scrostato, un quadro con uno scorcio di Varsavia e una libreria ingombra di cartelle e libri di strategia militare; dal soffitto pendeva un lampadario che irradiava una luce giallastra e opaca. L’unica finestra a lato della scrivania, che dava sul piazzale gremito di mezzi, era schermata da due tende di fine stoffa bianca e lasciava filtrare gli ultimi raggi di sole del pomeriggio inoltrato.
“Ho parlato col colonnello,” lo richiamò all’attenzione la voce di Hans. “Hai preso un’iniziativa personale non richiesta, trascurando gli ordini del tuo capitano e i miei. Lo sai che cosa vuol dire, questo?”
“Che me ne sarei assunto la responsabilità… come sempre”, rispose il tenente, in tono neutro.
“Risposta sbagliata, von Kleist.” Lo sguardo del maggiore s’indurì, e la sua voce si fece tagliente come la lama di una spada. “Significa che avresti potuto rischiare la corte marziale.”
Nonostante il tremito che gli aveva percorso le membra, Friedrich si sforzò di mantenersi impassibile.
L’altro, invece, si alzò in piedi scostando da sé la sedia con un gesto brusco e andò ad affacciarsi alla finestra, volgendosi verso il cielo che si tingeva di pennellate sanguigne. Emise un sospiro. “Ho già dovuto punire un sottotenente per insubordinazione, e sai bene che la posizione che ricopro mi impone totale imparzialità.” Abbassò la voce, per poi voltarsi e ricercare di nuovo il contatto visivo con lui. “Finché siamo in servizio, io non sono nient’altro che il tuo comandante di battaglione. Non posso passarci sopra solo perché sei tu, capisci?”
Senza batter ciglio, il tenente ricambiò il suo sguardo con la consueta fierezza.
Si erano trovati più volte ad affrontare simili colloqui: entrambi sapevano quanto fosse difficile scindere i loro sentimenti personali dai doveri militari che entrambi avevano l’uno nei confronti dell’altro. Tuttavia, spesso, i confini tra le due sfere sfumavano fino quasi a scomparire, ed erano proprio le uniformi che indossavano a ricordare loro di essere soltanto due giovani uomini fatti di carne e sangue. In quel momento, nonostante il tono severo, a parlare non era l’uomo di ferro, né il maggiore Bühler, bensì solo Hans. “Per questa volta, le circostanze ti hanno dato ragione, ma voglio che tu lo tenga a mente per il futuro. Come comandante di plotone, non sei responsabile soltanto delle tue azioni, ma anche delle loro possibili conseguenze… così come io sono responsabile dell’operato dei miei sottoposti, compreso te.”
L’eloquenza del silenzio che seguì poté più di mille parole: certe cose non potevano essere espresse ad alta voce, ma von Kleist ne afferrò all’istante il significato nascosto. Avrebbero fatto di tutto per proteggersi l’un l’altro – moralmente e fisicamente – ma, per tener fede a quel proposito, dovevano cercare di volgere a loro vantaggio i limiti imposti dal regolamento e dalla gerarchia militare.
“È per questo che mi hai nominato tuo aiutante di campo?” sussurrò. “Per occupartene personalmente?”
“Anche.”
A quell’ammissione, il tenente sollevò un sopracciglio, ma non fece ulteriori domande, e tra loro calò un silenzio carico di sottintesi. Infine, Hans oltrepassò la scrivania con un movimento fluido e annullò le distanze, concrete e invisibili, che li separavano. “Domani combatteremo insieme, Friedrich.”
Friedrich alzò il viso verso di lui. “Già… finalmente.”
Hans accennò un sorriso e, con una carezza impercettibile, gli sfiorò i capelli e la guancia liscia; egli cercò la sua mano e le loro dita s’intrecciarono fugacemente.
Con la guerra dietro l’angolo, non c’era spazio per effusioni o altisonanti dichiarazioni d’amore, né loro ne avevano bisogno per esprimere ciò che li legava: bastavano la vicinanza, la consapevolezza che l’indomani avrebbero combattuto di nuovo insieme, a far sentire le loro anime, affini e al tempo stesso complementari, come due parti di un’unica entità.
Si separarono lentamente, indugiando ancora un po’ nei reciproci sguardi: di più non era concesso.
Il maggiore si passò una mano tra i capelli per conferire loro una parvenza d’ordine, poi guardò l’orologio appeso al muro. “Ma adesso l’orario di servizio è terminato. Che ne dici di sfruttare la libera uscita per andare a cena da qualche parte, io e te da soli?”
“Dico che è un’ottima idea”, rispose Friedrich. “Abbiamo tante cose da dirci!”

I due ufficiali entrarono in un’anonima trattoria dei sobborghi, dall’aspetto dimesso, dove i pochi civili che avevano avuto il coraggio di mettere piede fuori casa – immediatamente riconoscibili come operai di fabbrica di ritorno dal lavoro – cenavano a capo chino, cercando di passare inosservati tra le orde di tedeschi in uniforme. Solo l’uomo sulla cinquantina che serviva al bancone si concedeva di fissarli con malcelato astio, forse convinto di non farsi notare. Quando però si accorse di avere di fronte due ufficiali, gli unici in mezzo a decine di soldati di truppa e graduati, si sforzò di risultare il più garbato possibile. “I signori desiderano?”
“Un tavolo appartato e due birre, grazie,” rispose von Kleist in quel poco che masticava di polacco.
Mentre prendevano posto al tavolo indicato dall’oste, si guardarono intorno: la sala era arredata con vecchi mobili sbiaditi e tovaglie a quadretti, mentre le pareti erano tappezzate di quadri dozzinali, lampade a petrolio e scaffali ricolmi di bottiglie vuote. Una vecchia stufa dipinta di rosso brillante prendeva posto nell’angolo più remoto, conferendo all’ambiente un’aria quasi casalinga. Prima di iniziare a parlare, Bühler studiò gli avventori con circospezione: nessuno di essi apparteneva alla loro divisione o ai loro giri di possibili conoscenze ma, per quanto si sforzassero di apparire in pubblico come due semplici amici, le chiacchiere oziose dei marmittoni rimanevano una costante preoccupazione da cui guardarsi.
Per quella sera, i pensieri relativi alla campagna militare passarono in secondo piano, né furono argomento di conversazione. Molte delle cose che i due giovani avrebbero voluto dirsi passarono attraverso gli sguardi e giunsero tacitamente a destinazione, rafforzando convinzioni ormai radicate.
“L’altro giorno ho ricevuto una lettera da mia sorella…” disse Hans, gli occhi fissi in un punto indefinito di fronte a sé.
“Tua sorella?”
“Onestamente non me l’aspettavo. Non si è… sbottonata molto, ma mi ha fatto vedere queste foto.” Accompagnò quel gesto estraendole dal taschino e porgendole al compagno. “Il ragazzino della Hitlerjugend è mio nipote, l’altro sono io.”
“Siete identici, in effetti,” osservò Friedrich impressionato, osservando prima l’una e poi l’altra.
Hans poggiò il viso tra i palmi delle mani. “Anche lui vorrebbe fare la scuola militare: lo ripete fin dal giorno in cui ho annunciato di voler intraprendere questa strada, anche se all’epoca era solo un bambino…”
Fu interrotto brevemente da un cameriere che serviva due piatti ricolmi di pietanze tipiche della cucina tedesca, poi proseguì: “Ma la cosa non è mai stata presa sul serio… non fino ad adesso, almeno.”
“E tu le hai risposto?” chiese l’altro.
“In verità, non ancora.” Il maggiore rimise in tasca le foto, piluccò un po’ il cibo e appoggiò di nuovo la forchetta a un lato del piatto. “So com’è fatta mia sorella, sempre così ancorata al passato, e l’ultima cosa che voglio è far riaffiorare gli antichi dissapori.”
Scosse la testa come a voler dichiarare concluso il discorso, ma Friedrich non parve intenzionato a lasciarlo cadere. “Però vorresti.”
“Sono gli unici parenti che mi rimangono,” rispose Hans con un sospiro. “E l’ultima volta che sono tornato a casa era… lo sai, non ci conoscevamo ancora.”
Friedrich rimase a lungo in silenzio. Anche lui aveva perso i suoi genitori quando era ancora adolescente ma, pur essendo ormai abituato a vedere di rado i suoi tre fratelli, sapeva che stavano combattendo tutti quanti la stessa guerra: Jürgen era da qualche parte sul Baltico ad affondare navi nemiche, Manfred sorvolava i cieli della Polonia a bordo di un aereo da caccia, e Siegfried, l’unico rimasto in Patria, completava la propria istruzione militare in attesa di dare il suo contributo.
“Se mai decidessi di tornare da quelle parti,” riprese Hans, sollevando il boccale della birra, “mi piacerebbe che tu mi accompagnassi.”
Friedrich accettò il brindisi, come segno di buon auspicio per i tempi a venire. “Verrò volentieri con te, quando avremo vinto questa battaglia.”
“Dunque, a noi… e alla nostra vittoria!” sancirono, quasi all’unisono.
L’incertezza del domani e la paura della morte persero ogni consistenza, spazzate via dalla consapevolezza che, qualunque cosa sarebbe successa, avrebbero sfidato la sorte al fianco del compagno.

  
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