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Autore: Doomsday_    11/05/2019    0 recensioni
- Future!fic -
Dopo cinque lunghi anni di pace, la fragile quiete di Beacon Hills viene nuovamente spezzata. Un nuovo nemico minaccerà di sottrarre al Branco quel che per loro conta più della vita stessa.
Dal testo:
"Il corvo la fissava silenzioso, gli occhietti intelligenti sembravano scrutarle l'anima.
Fu allora che le piume si tramutarono in gocce di sangue. Colarono lente e calde lungo il braccio di Lydia. Eppure lei continuò a carezzare quel grumo rappreso fatto di morte con un sorriso pacifico a rasserenarle il viso.
"
Genere: Angst, Fluff, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kira Yukimura, Lydia Martin, Malia Hale, Scott McCall, Stiles Stilinski
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quattordicesimo Capitolo










 

Dalle tapparelle abbassate filtravano deboli raggi di luce. Una strana sensazione di serenità la avvolgeva quando l’inconfondibile trillo del telefono aveva spezzato il suo sonno, costringendo Lydia ad aprire gli occhi, controvoglia. Per una volta dormiva – e anche bene – nel suo letto accanto a Jordan, il quale la teneva stretta, imprigionata tra le sue braccia, solleticando, col suo respiro, l’incavo del collo.
Dall’altro lato, Allie, aveva conquistato la maggior parte del letto, sdraiata in diagonale, con la testa sul suo grembo e le mani aggrappate alla stoffa del suo pigiama.
Per prendere il telefono avrebbe dovuto scavalcarla e liberarsi dalla presa di Jordan. Entrambe cose che non aveva alcuna voglia di fare.
Alzò di poco la testa per scoprire chi fosse il disturbatore che l’aveva strappata ai suoi sogni e sul blocco schermo del telefono lesse il nome di Stiles. Per un attimo le sue mani tremarono. Una notte colma di tanta pace, quel lungo momento di serenità che lei e Jordan erano riusciti a conquistare, poteva essere solo che distrutto da un’altra orribile notizia.
Per questo non aprì subito il messaggio: ogni secondo di quella bolla di serenità era preziosa.
Poi allungò una mano, stando ben attenta a non svegliare suo marito e sua figlia, e lesse le brevi parole dell’amico. Si sdraiò nuovamente sul letto e sorrise.
“Scott è tornato”.

***

Stiles non poteva di certo affermare che quella mattina si sentisse in forma.
Stava seduto alla propria scrivania, quella del Vicesceriffo, e teneva il volto nascosto tra le mani chiedendosi se mai fosse stato meno produttivo prima o se avesse mai puzzato tanto.
Stentava a credere che un tanfo simile provenisse proprio dal suo corpo, ma non c’erano altre spiegazioni.
Aveva un cerchio alla testa che non lo lasciava in pace e, per il momento, interrompere quel maledetto mal di testa era la sua priorità.
Con nonchalance prese la tazza bianca con la scritta verde “Papà dell’anno” che gli aveva regalato Malia per la festa del papà e che usava come portapenne. La svuotò e ci passò la mano per pulirla alla meno peggio.
Poi tirò fuori dall’ultimo cassetto la bottiglia di scotch che gli aveva regalato suo padre il giorno in cui era diventato Vicesceriffo. Era ancora sigillata, con tanto di fiocco rosso.
La stappò, ne versò un goccio nella tazza e lo mandò giù in un sorso.
Dio quanto bruciava lo scotch di prima mattina.
Si strofinò gli occhi col dorso della mano e, quando li riaprì nel suo campo visivo era apparsa una ragazzetta bionda. L’agente Jonas.
Sorridente, solare ed estremamente fastidiosa, l’agente Jonas si apprestò a dare il buongiorno al suo superiore.
Stiles ricambiò con una smorfia e un gesto della mano.
L’agente Jonas inarcò le sopracciglia rendendosi conto delle condizioni del Vicesceriffo. Restò impalata a fissarlo con evidente imbarazzo.
«Hai qualcosa da dirmi, agente Jonas?» brontolò Stiles, infastidito.
La giovane agente saltò sul posto, arrossì e disse: «Lo Sceriffo Parrish mi ha assegnato a lei... signore», mormorò in un fil di voce, aggiungendo poi «sul caso dei tifosi dei Beacon Rollers. Quella gente fatta a pezzi, signore. Ricorda?».
«Certo che me lo ricordo» sbottò Stiles, facendo saltare un’altra volta la ragazza.
Il Vicesceriffo si massaggiava con energia le tempie, visibilmente scocciato.
«Adesso ho altro a cui pensare. Sto aspettando lo Sceriffo, dobbiamo interrogare una maledetta bambina straniera» grugnì.
«Una bambina?» gli occhi dell’agente Jonas si illuminarono di curiosità, «E dove si trova adesso?»
Stiles sbuffò e disse: «Ce ne occuperemo solo io e lo Sceriffo Parrish. Tu continua a lavorare sulla strage dei Beacon Rollers».
L’agente Jonas annuì, titubante, ma – dopo un saluto formale – si congedò.
Mentre Stiles la guardava andare via si chiese quando fosse diventato così irascibile e scontroso verso un collega. Eppure era piuttosto certo che solo la nuova agente gli rendesse l’umore tanto irritabile.
Sospirò: provare vergogna sembrava divenuta un’abitudine fissa delle sue giornate. Vergogna per come stava affrontando le cose con Malia, vergogna per come si lasciava andare al bere pur di avere momenti lontani dai problemi e vergogna anche per l’uomo che stava diventando sul lavoro.
Aveva sempre ammirato suo padre, da ragazzo. Come uomo, come Sceriffo e, soprattutto, come padre.
Lui non era riuscito a diventare neppure la metà di quello che era stato lo Sceriffo Stilinski.
Nonostante si fosse ritrovato da solo, privo dell’amore e del conforto di una moglie, era riuscito a mantenere in equilibrio quel castello di carte instabile che era divenuta la loro vita.
Al contrario, Stiles, se pensava ad una vita senza Malia vedeva solo nero, un buio che non sarebbe stato capace di dissipare neppure Jamie. Dover andare avanti per lui sarebbe stato insopportabile. Ma, d’altronde, se era abbastanza lucido da poter fare questi pensieri di certo poteva rimediare con altro scotch.

***

Jordan si stava preparando per il lavoro, Allie faceva i capricci per vestirsi e Lydia cercava insistentemente di mettersi in contatto con Malia.
«Preparati, Lyds. Stiles mi ha chiesto di arrivare il prima possibile in centrale e di portare anche te» la sollecitò Jordan, dato il disinteresse della donna a voler abbandonare le lenzuola calde del letto.
Continuava a pensare a Stiles che, per trovare Scott, aveva certamente trascorso la notte fuori casa e, di conseguenza, a Malia rimasta sola ad aspettarlo.
«Lyds?» Jordan richiamò l’attenzione della moglie un’altra volta.
«Malia non mi risponde» spiegò, la fronte corrucciata.
«Malia sta bene. Starà ancora dormendo, tutto qua».
Lydia annuì, poco convinta. Se c’era qualcosa che la preoccupava, non era mai una buona idea sottovalutare suo presentimento.
Scacciò dalla mente l’immagine di Malia stesa a terra, coperta di sangue. Proprio come nei sogni che faceva quando tutta quella storia aveva avuto inizio.
«Pensavo che avremmo potuto lascarle Allie» provò a spiegare Lydia, dissimulando la sua preoccupazione.
«Allie può venire con noi» decise Jordan, «Non c’è motivo per cui dobbiamo portarla da altri. Vedrai che si comporterà bene in Centrale».
Lydia scrollò le spalle, fingendo disinteresse, «Solo che si sarebbe divertita di più giocando insieme a Jamie. Tutto qua. Noi dobbiamo lavorare, Jordan, non potremo starle troppo dietro. Si annoierà» insistette Lydia.
Jordan prese in braccio la figlia e la sollevò in aria, facendola ridere, poi la strinse al petto e guardò la moglie.
«Noi siamo il posto più sicuro per lei».

Una nebbiolina leggera copriva le strade di Beacon Hills. Il sole giocava a nascondino con le nuvole, quella mattina, e quei lievi sprazzi di luce non riscaldavano abbastanza l’aria frizzante che si insinuava fin sotto ai vestiti.
Lydia accese i riscaldamenti e un piacevole tepore si propagò all’interno dell’abitacolo provocandole sonnolenza.
Guardò Jordan, gli occhi preoccupati ma concentrati sulla strada, poi si girò ai sedili posteriori dove Allie, sul seggiolino, abbracciata alla sua giraffa di peluche e col ciuccio in bocca, aveva preso sonno.
Le venne in mente l’ultima volta che erano partiti per andare in montagna, un fine settimana dell’inverno appena trascorso.
La neve aveva coperto tutte le strade e, man mano che salivano verso la baita, una fitta nebbia rendeva difficoltosa la visuale. Ma Lydia si era sentita in pace, col cuore gonfio e la mente libera. E al sicuro, perché accanto a lei c’era Jordan che guidava e le teneva la mano.
Solo dopo si era resa conto che quel senso di malinconica pace non era altro che felicità. Eppure anche ora si sentiva al sicuro, nonostante i problemi, e poteva ancora concedersi di essere felice, perché tutto ciò che la rendeva tale era lì con lei. Si aggrappò con forza a questo pensiero, mentre l’auto svoltava, immettendosi nel parcheggio della Centrale di Polizia.
Vide Stiles, che li attendeva davanti alle porte d’ingresso. Gettò il mozzicone di sigaretta a terra e venne loro incontro.

Stiles fece loro strada verso la stanza degli interrogatori.
Avevano lasciato Allie alle cure dell’agente Jonas che – dopo essere sbucata all’improvviso dal nulla – si era proposta, con estremo entusiasmo, di adempiere al compito di tata raccontando quanto lei amasse i bambini.
Lydia le aveva rivolto uno sguardo poco convinto ma dato che Jordan sembrava d’accordo e che, in ogni caso, sarebbero stati a portata di voce in ogni momento, non ebbe modo di opporsi e lasciò il seggiolino con dentro sua figlia alla giovane poliziotta.
D’altronde erano lì per lavorare e poi Allie ancora dormiva: l’agente Jonas non avrebbe avuto problemi.
La stanza era in penombra e Lydia intuì che qualcosa non quadrava ancor prima di mettervi piede.
Seduta oltre il tavolo posto nel mezzo, Lydia e Jordan trovarono ad attenderli una bambina, dall’aria terrorizzata e dall’aspetto a dir poco sudicio.
«Che diavolo succede, Stiles?» sbottò Jordan, spalancando gli occhi.
Anche Lydia si irrigidì, senza capire.
Stiles si mosse a disagio sul posto.
«L’ha trovata Scott quando vagava nel bosco in forma di lupo ma non si ricorda quasi nulla di quelle ore perciò...»,
«Perché è qui?» lo interruppe Jordan, irato.
Stiles lo guardò sorpreso, senza capire il motivo di tutto quello sconcerto.
«Perché non hai ancora chiamato i Servizi Sociali? Maledizione, Stiles! Hai arrestato una bambina senza motivo, senza neppure affiancarla ad un Assistente! Sei fuori di testa...» ringhiò lo Sceriffo.
«Jordan» lo riprese Lydia, con l’intenzione di fargli attenuare i toni.
«L’abbiamo trovata all’interno della casa abbandonata degli Hale» spiegò Stiles a denti stretti, «In uno scantinato che sembrava nascosto appositamente per non essere trovato».
Jordan inarcò le sopracciglia, non ritenendo rilevante tali dettagli per non seguire la procedura standard per il ritrovamento di un minore abbandonato.
«E sentite qua» riprese, rivolgendosi poi direttamente alla bambina «Parla!», esclamò gesticolando con la mano per cercare di farle comprendere quello che stava dicendo.
«Qu’est-ce?» mormorò la piccola, in un fil di voce.
«Sentito? Secondo voi cosa diavolo ci fa a Beacon Hills una bambina che parla.. non so, Spagnolo?»
«È Francese, Stiles» lo corresse subito Lydia, con sguardo scuro. «E per nostra fortuna lo parlo piuttosto bene… nonostante sia un po’ arrugginita».
«Comment tu t’appeles, petit?» provò Lydia, piegandosi sulle ginocchia per stare alla stessa altezza della piccola, «Je m’appelle Lydia»
La bambina si ritrasse quanto più possibile le consentisse la sedia, nascose il viso dietro le ginocchia.
«N’aie pas peur», provò a rassicurarla Lydia e la bambina alzò un poco la testa, per guardarla.
«Cosa le stai dicendo?» chiese Stiles, smanioso di risposte. La piccola tornò a nascondere il viso.
Lydia guardò l’amico in cagnesco.
«Fai silenzio, Stiles» lo rimproverò, «Sto cercando di instaurare con lei un legame di fiducia».
Lydia osservò la piccola raggomitolata su se stessa, tremante, e sospirò.
«Penso che avrò bisogno di più tempo e di restare da sola con lei...» disse la Banshee.
«Dobbiamo chiamare i Servizi Sociali, lo sai. Non possiamo tenere una bambina sotto custodia senza avvisare le autorità di competenza».
«Ma così non potremo interrogarla» ribadì il Vicesceriffo.
«Stiles, guardala!» sbottò Jordan, indicando la piccola prigioniera «è solo una bambina! Non sappiamo cosa le sia capitato! Potrebbe aver subito violenze e abusi, per l’amor del cielo!».
Stiles lo fronteggiò, fissando i suoi occhi dentro a quelli dello Sceriffo «Mi vuoi dire che una bambina che comprende solo la lingua francese viene ritrovata nei boschi di Beacon Hills all’interno della casa abbandonata di una famiglia di Lupi Mannari e tu non pensi che ci sia di mezzo il Darach?».
Jordan indurì la mascella, la sua espressione si fece scura e rispose: «I mostri non sono solo esseri soprannaturali, Stiles. Esistono mostri anche tra le persone comuni».

***

Scott era seduto sulla poltroncina di fianco al letto di ospedale su cui riposava suo figlio.
La schiena curva, le spalle basse, i gomiti delle braccia puntellati sulle gambe e le mani a sostenere il mento.
Teneva gli occhi fissi a terra, incapace di sopportare oltre la vista di suo figlio.
Sua madre stava arrivando. Quando l’aveva sentita per telefono, Melissa era scoppiata in un pianto ininterrotto e, tra le lacrime, gli aveva detto che sarebbe corsa in ospedale e avrebbe portato anche Caleb da lui.
Scott poteva soltanto immaginare quale peso sul cuore avesse dovuto sopportare sua madre per l’intera notte.
Al contrario cercava di allontanare i pensieri da Kira. Non aveva idea di dove si potesse trovare in quel momento né, tantomeno, conosceva il motivo che l’aveva portata ad allontanarsi da loro in un momento tanto delicato.
Kira sapeva che avevano preso Adam e non aveva retto ad una situazione tanto spaventosa? O il mostro che aveva messo le mani su Adam aveva sopraffatto anche sua moglie e il più piccino dei suoi figli?
Era arrabbiato con lei. Con Kira. Che la sua assenza dipendesse da lei oppure no poco importava: una rabbia primitiva lo divorava e l’unica a cui poteva rivolgere tale collera era sua moglie che lo aveva lasciato solo.
Dopo aver chiamato Melissa, Scott aveva cercato anche Noshiko, ma sua suocera non era stata capace di dargli risposte, così Scott cercava di allontanare ogni pensiero che lo faceva tremare.
L’istinto gli diceva che entrambi erano lontani, irraggiungibili. In pericolo o al sicuro, Kira e Matty non si trovavano più a Beacon Hills.
D’improvviso sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla sinistra.
Non gli servì voltarsi per vedere di chi si trattava, poteva riconoscerlo dall’odore: Brett Talbot.
«Mi dispiace per tuo figlio, Scott».
«È ancora vivo» gorgogliò l’Alpha, come se l’altro capobranco avesse provato ad insinuare il contrario.
Brett rimase in silenzio. Forse guardava Adam, il suo corpo inerte disteso sul letto, il volto innocente dall’espressione pacifica, come se stesso soltanto dormendo.
Scott non seppe dirlo perché Brett rimase alle sue spalle, come se volesse rimanere in disparte per rispettare gli spazi che chiedeva un padre col cuore a pezzi.
Scott attese che Brett parlasse: se si trovava lì non era di certo solo per mostrargli il suo sostegno.
L’Alpha si aspettava le solite frasi fiere di chi non è disposto ad arrendersi neppure dinanzi ad una catastrofe. Perché Brett era così: per ogni colpo incassato lui sfoderava con più ferocia le zanne e gli artigli e Scott era certo che Brett avrebbe utilizzato quel che era successo a suo figlio per incrementare la sua rabbia, ricordargli che avevano una guerra da combattere e che non c’era altro tempo da perdere con Profezie e ricerche.
Scott si aspettava di tutto, era pronto ad ascoltare la sua furia pronta ad esplodere poiché era la stessa che lui stesso cercava di soffocare. Sì, era pronto ad ogni parola, a parte la frase che uscì sofferta dalle labbra di Talbot.
«Ce ne andiamo, Scott» disse il Capobranco.
Per la prima volta da quando aveva fatto il suo ingresso nella stanza d’ospedale, Scott si voltò a guardarlo.
Brett aveva il volto tirato ed esangue e l’aspetto di chi non dorme da molte notti. Teneva le braccia incrociate strette al petto e – come aveva immaginato Scott – fissava Adam con occhi persi.
«Devo pensare al mio branco e ai Beta più giovani. Non combatterò questa guerra. Non quando nel bosco si sente l’odore della paura. Mille occhi ci fissano, sempre, e un fiato gelido ci alita sul collo. Non è più il nostro territorio… ora è il suo terreno di caccia e il mio branco non si sente più al sicuro».
Scott tornò a guardare a terra, il capo chino.
«Quindi scappate, abbandonate tutto senza neppure provare a lottare» sputò Scott.
«Ho già perso due dei miei ragazzi e so che il resto del branco è vivo solo perché il Darach non ha alcun interesse verso di loro. Per ora».
«E adesso che è il mio branco ad essere in pericolo sfrutti l’occasione per fuggire inosservati?».
Brett non rispose.
«Thomas e Meagan meritano giustizia», scandì, «E anche mio figlio» aggiunse con voce più incrinata.
«Non ci dovrebbe più essere il mio branco e il tuo, ma soltanto la nostra sicurezza» le parole uscirono tirate e stanche dalle labbra del Vero Alpha.
Brett, dal canto suo, lo guardava impassibile.
«Lascia perdere i discorsi, Scott. Niente di quello che dirai potrà farmi desistere da questa decisione. Ogni volta che ne hai avuto bisogno… che ne abbiamo avuto bisogno, ti sono stato accanto e abbiamo combattuto fianco a fianco, ma questa volta è diverso. Non posso restare».
«Tu sai qualcosa» intuì Scott, aggrottando la fronte. Si alzò in piedi e fronteggiò Brett, continuando: «Qualcosa che non vuoi dirmi. Lo hai visto, non è vero? Nei boschi…», mentre Scott parlava tutto gli si faceva più chiaro. Il motivo per cui Brett era lì, perché lo era venuto ad avvisare, del perché avesse quell’espressione terrorizzata.
«L’ultima volta che ci siamo incontrati, a Gammon Allen, avevamo deciso di unire i branchi e lottare… ma tu non ti sei mai dato pace, non è così? Volevi a tutti i costi affrontare il Darach senza sapere… Senza aspettare che fossimo riusciti a tradurre la Profezia. E alla fine il Darach si è mostrato a te».
Gli occhi di Brett si arrossarono. Scott non seppe dire se quella che mostrava fosse vergogna, rimorso o paura.
«È qualcosa di ultraterreno, Scott. I suoi poteri sono al di là della nostra capacità. Non ho mai affrontato niente del genere, prima».
«È stato il Darach a dirvi di andarvene, non è così? Allora perché sei qui?», Scott indurì la mascella, capendo che c’era qualcosa sotto di davvero importante, «Dimmelo».
«Mi ha mostrato il suo piano. Ho visto quello che è capace di fare. Avevate ragione: è guidato dal potere della Dea Morrigan».
«Dimmi quello che sai. Cosa ti ha mostrato?».
Scott lo afferrò per il colletto della maglietta. Gli occhi di Brett erano spalancati, persi in un modo ideale in cui Scott non poteva raggiungerlo. Sembravano gli occhi di un uomo esaltato.
«Il suo potere è immenso e grande è la sua forza. Porterà la luce nel mondo oscuro. Ci salverà tutti, Scott. Nessuno potrà sfuggire al Controllo della Luna. Sorridi alla Grande Regina».

***

Fuori dalla Centrale di Polizia Lydia fumava, respirando a grandi boccate il fumo per poi rigettarlo fuori in una nuvola opaca che si disperdeva nel vento proprio come accadeva ai suoi pensieri. Meditava sul da farsi, ma sentiva che qualcosa di importante le stava sfuggendo, qualcosa che – ogni qual volta era vicina al comprendere – si dissolveva davanti ai suoi occhi.
«Tu sei d’accordo con lui, non è vero?».
Lydia si aspettava che suo marito l’avrebbe seguita fuori per parlare, perciò  non si sorprese nell’udire quella domanda diretta arrivare da dietro le sue spalle.
Si voltò e gli rivolse un’occhiata obliqua, poi rispose: «Ammetti che è una situazione insolita...», in un sospiro.
Jordan le rivolse la peggiore delle espressioni lugubri e allora Lydia scattò: «Cosa vuoi che ti dica, Jordan? Potrebbe – che so – essere la figlia dispersa di turisti Francesi o chissà cosa! Esistono milioni di possibilità prima di cedere alla cieca conclusione che ci sia di mezzo lo zampino del Darach, ma sai anche tu che alla Centrale non è mai arrivata alcuna segnalazione di persona scomparsa e le casualità – per quanto tu voglia vederle o no – sono troppe per restare indifferenti e seguire un’altra volta la pista sbagliata».
Jordan strinse le labbra in una linea dura. Forse vedeva Allie in quella piccola orfana disgraziata.
«Interroghiamo chiunque abbia discendenze Francesi», insistette, «Ritiriamo fuori vecchie denunce di bambine scomparse. Potrebbe essere stata rapita da un giorno o forse da cinque anni, questo noi non lo sappiamo. Facciamo indagini, Lydia. Non ci riduciamo a torchiare una creaturina terrorizzata come lei».
Lydia gli parlò, guardandolo con tutto l’amore che provava per lui, «Tu sei un uomo meraviglioso, Jordan. Ma non abbiamo tempo per essere le persone d’onore che tu vorresti noi fossimo».
Jordan chiuse gli occhi. Sapeva che non aveva senso continuare a discutere se sia Lydia che Stiles concordavano sul da farsi.
«Hai mezz’ora».

Non fu semplice per Lydia rientrare nella stanza degli interrogatori. L’aria era pesante, quasi elettrica.
La bambina era ancora lì, rannicchiata sopra la sedia e sembrava che non avesse mosso nemmeno un muscolo neppure durante la loro assenza
Lydia prese una sedia libera e la avvicinò per sedersi accanto a lei.
Le sorrise, imprimendo quanta più dolcezza possibile nella sua espressione. Prese a parlare, con voce rassicurante, dicendole che loro la volevano aiutare, che con loro sarebbe stata al sicuro e nessuno le avrebbe mai più fatto del male.
Ma la piccola restava con i nervi tesi e allerta e ogni sforzo o parola dolce di Lydia risultava totalmente inutile.
Lydia cercava un contatto, un appiglio seppur remoto per far sì che si fidasse di lei, ma la piccola non aveva alcuna intenzione di collaborare.
E allora Lydia provò a chiederle del luogo in cui si era nascosta, se si ricordava della casa degli Hale e di come era finita in quello scantinato.
Al che la bambina alzò nuovamente la testa, gli occhi cerchiati di nero fecero crescere un magone nello stomaco di Lydia.
Le mostrò un sorriso sdentato: «J’ai aimé cet endroit».
Lydia aggrottò la fronte credendo di aver capito male o di non essere stata abbastanza chiara con la domanda, eppure la piccola confermò quanto detto: a lei piaceva quello scantinato, ci stava bene e avrebbe voluto restare lì a riposare. Era lei stessa che si era nascosta all’interno.
«Avez-vous fui quelqu’un?» chiese Lydia, dato che quel po’ che era riuscito a ricavare non aveva alcun senso.
L’unico motivo per cui una bambina potesse trovarsi bene all’interno di un’abitazione abbandonata e sentirsi anche al sicuro, era perché qualcuno di cui aveva paura la stava cercando.
Cercò di farla parlare ancora, ma il suo viso era tornato a nascondersi dietro le ginocchia sbucciate e sporche e Lydia, con un sospiro, decise che per quel giorno l’avevano tormentata abbastanza.
Non era come le altre bambine, questo era chiaro. E qualcosa di orribile le era successo.
Lydia si alzò dalla sedia ma, prima che potesse voltarsi per uscire dalla stanza degli interrogatori, la vocina nasale della piccola si fece udire ancora un’ultima volta.
«Monstres» sussurrò «au-delà des verre».
«Mostri oltre i vetri?» ripeté Lydia, poi notò dove erano rivolti gli occhi della bambina.
Guardava di sottecchi verso lo specchio a due vie oltre il quale Jordan e Stiles osservavano l’interrogatorio senza poter essere visti. Non da occhi umani, per lo meno.
Anche Lydia guardò il vetro nero, impallidendo: quella frase era la prova definitiva che stavano cercando.   

***

Il suo risveglio fu dentro una tenda composta di pelli e pellicce. Non c’era quando aveva preso sonno, tra le lacrime.
Eppure non era stata una sorpresa, per Kira. Già le era accaduto di ritrovarsi dentro quella stessa tenda senza neppure sapere come esserci finita.
Nonostante la disperazione per aver permesso alla Skinwalker di prendere suo figlio le attanagliava il petto, cercò di restare vigile e con i sensi allerta.
Anni fa, la prova che aveva dovuto affrontare per lasciare le Skinwalkers, era stato sconfiggere un Oni: i potenti demoni guerrieri giapponesi che – in passato – aveva tanto ostacolato il branco.
La temperatura stava mutando: il sole era ormai alto nel cielo e riscaldava la sabbia e tutta la desolazione che Kira aveva attorno.
Nonostante la tenda le facesse scudo dai raggi inclementi, la fronte di Kira era imperlata di sudore e il suo respiro smorzato dall’aria afosa.
Attendeva seduta a terra a gambe incrociate, la schiena dritta e i sensi allerta.
Doveva essere paziente, aspettare che la Skinwalker si mostrasse ancora a lei e sconfiggerla, riprendersi suo figlio e tornare a casa da Scott.
Lui aveva bisogno di lei e Kira si struggeva per essere al suo fianco in quel momento. Non sopportava le ore che passavano lente, perché ogni minuto nel quale Scott restava solo era un minuto in più che credeva di essere stato abbandonato da lei.
La sete oramai le attanagliava la gola ma era la rabbia che si accumulava nel petto a confondere i suoi pensieri.
Era stanca di aspettare, ma non poteva fare altro. Si sentiva impotente, prigioniera di una sorte che si divertiva con la sua vita.
Era in trappola, proprio come lo era stata tutti i giorni di quegli ultimi anni trascorsi a fare la mamma. Prigioniera del tempo che trascorreva inesorabile e il troppo amore a cui non poteva rinunciare. Non era mai riuscita a lasciarsi andare davvero, dopo tutto. La paura l’aveva sempre trattenuta dal buttarsi a capofitto in tutta quella felicità che temeva un giorno sarebbe svanita lasciandola sola e vuota come un guscio senz’anima.
Aveva sempre pensato che se ne sarebbe andata, prima o poi. Non sarebbe rimasta per assistere alla morte di suo marito e né tantomeno a quella dei suoi figli.
Non aveva idea di come né di quale forza avrebbe trovato per farlo, ma restare avrebbe significato morire. Andandosene, invece, non avrebbe dovuto dire loro addio, non sarebbero mai morti e lei avrebbe potuto vagare per il mondo come un fantasma finché la fine non sarebbe venuta a bussare anche alla sua porta.
Soltanto ora, che l’avevano strappata a Matty, si era resa conto di quanto si era privata davvero per tormentarsi di qualcosa che ancora doveva sopraggiungere. La sua vita era divenuta una stanza d’attesa dove aspettare che le sue paure più grandi fossero piombate a mettere fine a quella vita che non era riuscita a vivere.
Kira si dondolava, seduta a gambe incrociate. Restare da sola coi propri pensieri la stava facendo impazzire.
Era rimasta cosicché potesse essere in grado di affrontare il Darach e proteggere i suoi figli. Non avrebbe permesso a niente e a nessuno di toglierle il tempo che le era stato concesso con la sua famiglia.
Ma le ore che passavano lente ed inutili logoravano i nervi di Kira.
Stava soffocando, proprio come aveva detto la Skinwalker. Prese ad urlare, forse in cerca d’aria o forse per sfogare la frustrazione. Urlò pregando che la Skinwalker la sentisse, che potesse attirare la sua attenzione tanto da portarla lì con lei in quella tenda.
Urlava e piangeva, desiderando di poter fuggire, di non sentirsi – ancora una volta – incatenata.
Si placò solo dopo svariati minuti. Cedette sulle ginocchia e cercò di controllare il respiro, inalando profondamente.
Fu allora che li vide, aveva ancora gli occhi umidi così li asciugò, ma erano ancora lì, davanti a lei: due puntini luminosi avevano fatto capolino in un angolo buio della tenda.
Kira sguainò la katana e si avvicinò: la Skinwalker era lì che la osservava accovacciata a terra, con un sorriso gelido che rendeva la sua espressione terrificante.
«Dov’è Matty? Dove hai nascosto mio figlio?» gridò Kira a un passo dall’esaurimento nervoso.
«Al sicuro» sussurrò la mutaforma.
«Portalo qui. Ha bisogno di me!», continuò ad urlare Kira, colma d’ira ma seppur sollevata che potesse far esplodere la sua rabbia verso la diretta interessata.
«Non è a lui che devi pensare. Sei qui per un motivo. Dimmi qual è» la Skinwalker rimase gelida. La furia della Volpe del Tuono non la scalfiva affatto.
«Te l’ho già detto! Sono qui perché la Volpe mi ha condotto da te!».
La Skinwalker scattò in piedi e brandì la lancia e, con agilità, la scagliò addosso a Kira.
La Kitsune fu rapida a difendersi con la katana: non era un’ingenua e non si aspettava affatto un incontro pacifico con la mutaforma.
«Tu sei la Volpe!» ringhiò la Skinwalker, «Tu sei venuta da me».
La guerriera Navajo indicò a terra e Kira comprese che doveva mettersi seduta e obbedì in silenzio. La Skinwalker le girava attorno, recitando parole incomprensibili alle orecchie di Kira. Erano parole antiche della lingua dei pellerossa. Le sussurrava, ripetendole come un mantra.
Allora Kira chiuse gli occhi. Cercò di ricordare il momento esatto in cui aveva perso il controllo. Era a casa sua, Scott era uscito portando Adam e Caleb con sé. Era rimasto solo Matty insieme a lei, nel box dei giochi perché aveva altro da fare in quel momento. Si stava allenando con la katana.
Kira respirò a fondo, proprio come quando gestiva il respiro durante gli allenamenti giornalieri nella piccola palestra che Scott aveva costruito nel garage di casa loro appositamente per lei.
Eppure non ricordava nient’altro. Kira non aveva idea di cosa fosse accaduto di diverso rispetto agli altri giorni. Qualcosa era scattato in lei - di voluto oppure no, era comunque successo.
Aveva litigato con Scott, questo lo ricordava. Ma, nonostante tutte le parole che si erano urlati addosso l’avevano ferita, Kira era sicura che non era stato l’innesco decisivo a farla scattare. Piuttosto era stata una sensazione.
Aveva provato una paura viscerale che l’aveva avvolta, dapprima bloccandola sul posto, togliendole il respiro. Il terrore l’aveva immobilizzata come le spire del corpo di un serpente strette attorno al petto e alla gola, facendola sentire impotente e tremendamente debole, indifesa persino.
Ma quale pericolo poteva essere tanto imponente da far fuggire persino una Kitsune del Tuono?
No, si disse. Non era fuggita.
Kira, le lacrime agli occhi, non accettava tale debolezza.
Era successo qualcos’altro, qualcosa che non era riuscita a gestire. A sopportare.
«Devo proteggere i miei figli» balbettò senza pensarci troppo. Tornava sempre a loro. Solo i suoi figli erano capaci di far nascere dentro al suo cuore una disperazione simile.
«E per farlo devo poter controllare la Volpe».
La Skinwalker la guardava dall’alto, gli angoli della bocca abbassati in una smorfia di insuccesso. Scosse brevemente la testa poi alzò la lancia, fu un gesto veloce, tanto che Kira quasi non lo vide. Scoccò la base del bastone della lancia sulla tempia di Kira ed ella cadde a terra, nuovamente incosciente.

***

Quella giornata si prospettava essere infinita.
Lydia non sopportava più trovarsi all’interno della Centrale di Polizia, nonostante si rendesse conto in quale fragile situazione si trovassero.
Jordan e Stiles non la finivano di discutere così decise di prendersi una pausa dai due uomini, considerando che aveva trascorso fin troppo tempo lontana da sua figlia.
Cercò l’agente Jonas e la trovò dove l’avevano lasciata: seduta alla propria scrivania con Allie in braccio.
«Si è svegliata pochi minuti fa» spiegò la giovane agente, «è stata buonissima tutto il tempo».
L’agente Jonas aveva un volto dolce e solare con cui guardava Allie con quell’affetto innato che si riserva ai bambini.
Eppure Allie aveva l’espressione imbronciata e gli occhi gonfi di chi stava per scoppiare in un pianto infinito.
Non appena vide Lydia allungò le braccia per farsi prendere.
«Non si sveglia mai bene se non trova me accanto», spiegò Lydia per giustificare il muso lungo di sua figlia.
L’agente annuì «Credo abbia avuto un incubo», disse con un sorriso di circostanza.
Lydia strinse le labbra in una linea dura e ribatté: «Avrei preferito che mi chiamassi non appena si fosse svegliata».
L’agente Jonas sembrò imbarazzarsi a quel rimprovero «Mi scusi, signora Parrish».
Lydia abbozzò un sorriso forzato, pensando di essere stata troppo dura con una ragazza che aveva cercato solo di dare una mano. Eppure, se si trattava di Allie, non poteva fare altrimenti che mostrarsi protettiva ben più di quanto servisse. Era indubbio che Lydia non prendesse con la stessa leggerezza di altre madri un incubo – pur innocuo – di sua figlia, dato che esso proveniva da un malessere che la piccola stava vivendo. Per Lydia ogni piccolo segnale era una pena in più che gravava sul suo cuore provato.
Baciò Allie sulla fronte, sorridendo davanti alla sua faccia chiaramente offesa, cercando negli occhi della piccola la complicità che le univa; poi controllò il telefono: Malia non aveva risposto a nessuno dei suoi messaggi. Si morse il labbro inferiore.
«Stiles...» lo chiamò, vedendolo uscire dall’ufficio dello Sceriffo e camminare verso la sua direzione, «Sei più tornato a casa durante la notte?».
Stiles aggrottò la fronte, non capendo il motivo di quella domanda.
Teneva tra le mani fascicoli da controllare e la sua testa sembrava presa da ben altri pensieri. Si sedette alla propria postazione e gettò le cartelle tra il caos generale che regnava sulla sua scrivania.
«Ho trovato Scott e questa strana bambina e sono venuto diretto qui alla Stazione di Polizia. Scott è voluto andare in ospedale e gli ho prestato la mia macchina. Ancora non aveva visto Adam… non nella sua forma umana, almeno», vagheggiò, aprendo il primo fascicolo.
Lydia annuì, «Sì, ma… hai sentito Malia? Le hai scritto?».
L’espressione di Stiles si fece un po’ più gelida.
«Cosa vorresti dire?», sbuffò, come se Lydia lo stesse accusando e passò subito sulla difensiva, «Non stiamo passando un bel periodo. è arrabbiata con me, penso. Non risponde alle chiamate e neppure ai messaggi. Mia moglie non mi vuole parlare, Lydia. Quindi no, non sono ancora riuscito a sentirla».
Qualcosa in Lydia scattò a quelle parole, ma si trattenne dal renderne Stiles partecipe.
Gli avrebbe voluto dire che non era così, perché Malia non rispondeva neppure a lei. Ma non avrebbe dato un allarme simile e spaventato Stiles per qualcosa che poteva non trattarsi di una vera emergenza.
Così si limitò a dire che andava a prendere il caffé per tutti. Al bar, perché quella giornata aveva bisogno di un caffé come si deve.
Mise, in tutta fretta, il giacchetto ad Allie e la legò al passeggino della macchina e mise in moto, fremente di arrivare a destinazione il prima possibile.
Nonostante il brutto presentimento, cercava di non andare nel panico davanti a sua figlia.
Parcheggiò sul vialetto di casa Stilinski, prese Allie in braccio e si piantò davanti alla porta dell’abitazione, bussando e suonando il campanello più e più volte, ma la casa sembrava deserta.
Aveva una chiave di riserva. Tutti l’avevano, ma era solo per le emergenze.
Lydia si tormentò le dita, incerta. Non voleva sembrare invadente ma, d’altronde, ogni indizio di pericolo non era forse una possibile emergenza?
Poi si decise e aprì la porta: non si potevano permettere altri riguardi, non ora che ognuno di loro poteva essere in pericolo in ogni istante.
«Permesso?» disse a gran voce per farsi sentire il più possibile, «Malia, ci sei? Sto entrando!».
Non ricevendo risposta varcò l’uscio e salì le scale diretta alla camera di Stiles e Malia.
Nella stanza le tapparelle erano ancora abbassate, Malia era nel letto e dormiva. Accanto a lei Jamie si rotolava tra le coperte, il viso imbronciato. Forse aveva provato a svegliare la madre senza successo.
Un sonoro sospiro di sollievo sfuggì dalle labbra di Lydia, lasciò a terra la piccola che si dibatteva per scendere dalle braccia della madre e raggiungere Jamie.
Anche Lydia si accostò al letto, sedendosi in un angolo.
«Mal, svegliati… Mal? Tutto ok?», la chiamò, scostando con gentilezza i capelli dal viso.
Malia aprì a stento gli occhi.
«Lydia...» mormorò, «Che ci fai qui?», chiese con aria confusa.
«Ho provato a chiamarti ma non rispondevi al telefono… Ero preoccupata».
«Ho sonno...»,
Lydia strinse le labbra «Ti porto al pronto soccorso» decise la Banshee.
Malia aggrottò le sopracciglia: non era mai facile convincerla a recarsi in ospedale.
«No… non serve» disse, infatti, «Non sto male… sono solo fiacca… senza forze, tutto qua. Ho bisogno di dormire», mormorò chiudendo nuovamente gli occhi. Lydia le accarezzò i capelli, cercando di tenerla sveglia.
«Si tratta della bambina, vero? Claudia sta assorbendo i tuoi poteri», chiese.
Malia annuì, «Credo di sì», rispose con affanno, «Ho già passato giorni difficili… ma non avevo idea che sarei arrivata a sentirmi così spossata».
Malia alzò lo sguardo per incontrare quello di Lydia «Non servirebbe a nulla andare in ospedale».
Lydia sospirò «Ti preparo una tisana», disse, alzandosi.
«Stiles?» volle sapere Malia, prima che l’amica lasciasse la stanza.
Lydia sorrise: «Ha trovato Scott. Lo ha riportato indietro».
Malia annuì, l’espressione serena di chi sapeva già che le cose sarebbero andate in quel modo.
«Ora è in centrale insieme a Jordan…» disse ma preferì omettere la parte della misteriosa ragazzina francese.
«Sono sicura che appena ne avrà l’occasione correrà qui a casa» aggiunse, immaginando che Malia avesse preferito trovare Stiles al suo risveglio e non lei.

Tenere gli occhi aperti, quella mattina, era la cosa più difficile che si imponeva a dover fare.
Malia aveva ancora la testa abbandonata sul cuscino e il bozzolo di coperte dentro cui si era arrotolata non le era mai sembrato tanto comodo.
Purtroppo, avere una Banshee preoccupata che girava per casa sua, non le dava poi molte opportunità di scelta.
Doveva reagire, allontanare la stanchezza, dimostrare la forza di sollevare quegli arti che pesavano come macigni e farsi vedere quanto più reattiva possibile se non voleva che Lydia allertasse l’intero branco.
Odiava essere vista così vulnerabile, quasi non si riconosceva così stesa sul letto priva di forze. Era una sconosciuta per se stessa, una donna fragile di cui gli altri dovevano preoccuparsi e prendersi cura.
Essere così ridotta le faceva pensare molto a sua madre. Alla Lupa del Deserto.
Chiudendo gli occhi rivedeva il modo orribile in cui era morta. E ricordava tutto ciò che le aveva sempre ripetuto: di quanto fosse in realtà debole e che l’amore l’aveva resa così.
Forse la Lupa del Deserto aveva ragione e lei era sempre stata troppo cieca per rendersene conto.
Stiles, Jamie e Claudia erano i suoi più grandi punti deboli, questo era certo. E nient’altro come saper loro in pericolo la terrorizzava a tal punto da non sentirsi sufficientemente forte.
Non era certa che dipendere da loro si potesse davvero chiamare debolezza, perché sapeva che neppure per se stessa sarebbe stata capace di combattere con tutta la furia che aveva in corpo. Soltanto per loro.
Corinne questo non l’aveva mai accettato, eppure – in punto di morte – le sue ultime parole erano state per lei. Per sua figlia.
Per questo si tirò su a sedere, nonostante le fitte al basso ventre la laceravano. Un dolore più acuto e profondo del solito la consumava.
Per questo non poteva fare a meno di ripensare alla notte prima. Ogni singolo particolare lo aveva impresso sulla pelle. Sentiva ancora le sue carezze, le dita strette ad afferrarle le braccia o i fianchi e tutti i mozzichi che le aveva lasciato sul collo e sul seno.
Era stato differente, un contatto per dare sfogo a quel che cercava di reprimere.
Stiles aveva perso ogni controllo e, per un lunghissimo istante, questa considerazione l’aveva fatta tremare.
Non era mai stato così, prima. Soprattutto non da quando aspettavano Claudia e ogni suo gesto – anche la carezza più delicata – era divenuto cauto e premuroso.
Eppure, se non fosse stata incinta con tutti quei dolori causati da quella gravidanza sfortunata, l’avrebbe fatta impazzire quello Stiles privo di discernimento.
Ma Stiles non era stato guidato dalla passione. Era stato un istinto, il suo. L’impulso disperato di afferrare qualcosa che gli sta sfuggendo per sempre dalle mani e tenerla vicino a sé il più possibile. Il più intimamente possibile.
Lei lo sapeva, glielo leggeva in fondo agli occhi ogni volta che lo guardava. Non sopportava essere vista così, non da lui. E cercava in tutti i modi di fargli capire che non era cambiato nulla, che lei era forte abbastanza da gestire anche quella situazione, ma così facendo lo allontanava soltanto ancora di più.
Lydia rientrò nella stanza; con un braccio teneva Jamie e con l’altra mano teneva in bilico un piccolo vassoio con su una tazza fumante. Allie le saltellava dietro aggrappata ai pantaloni della madre, ridendo e facendo facce buffe a Jamie, il quale strillava agitando le mani divertito.
Lydia si bloccò non appena la vide seduta sul letto, intenta ad infilarsi un paio di pantaloni della tuta e una felpa di Stiles.
«Che stai facendo?» chiese Lydia, confusa.
Ogni movimento, anche il più semplice, le costava fatica e di certo a Lydia non poteva essere sfuggito.
«Non devi alzarti, Mal. Stai a riposo, per favore. Ci penso io a Jamie» cercò di rassicurarla, posando il vassoio sul comodino e avvicinandosi a lei per sostenerla.
Malia scosse la testa «Non è per Jamie», provò a spiegare, «Devo andare da Peter Hale».
Lydia la guardò come se d’un tratto fosse completamente impazzita.
Malia prese un lungo respiro «Gli ho chiesto di provvedere alle spese del funerale di Corinne e lui ha accettato. La cerimonia dovrebbe iniziare tra poco».
Malia fissò gli occhi in quelli della Banshee, «Io ci devo essere, Lyds».

***

Mamma...
La tempia destra le pulsava, nel naso aveva l’odore ferroso del sangue. Il dolore alla testa fu tale da riportarla lucida.
Aprì a stento gli occhi, cercando di focalizzare la vista che risultava ancora appannata.
«Adam?» biascicò, ancora confusa.
Kira vide delle fiamme davanti a sé e capì che si trovava accanto a un fuoco. Tutto attorno a lei era buio e per un attimo temette che era scesa la notte. Poi comprese che si trovava ancora all’interno della tenda di pelli e che l’oscurità era parte di essa.
Non c’era più il deserto né il caldo soffocante, solo il buio, il rogo che ardeva e – dietro ad esso – la Skinwalker che la guardava famelica.
«Adam?» ripeté in un suono sordo. «Mi sembrava… di aver sentito la sua voce che mi chiamava» mormorò, guardandosi attorno e sentendosi una sciocca per come la Skinwalker continuava ad osservarla.
«Dimmi perché sei qui» fu l’unica cosa che disse la mutaforma.
Kira chiuse gli occhi e sospirò.
«Sono in pericolo...» biascicò Kira, consapevole che qualcosa di grande stava per sopraggiungere sulle loro teste. Ed era inutile ormai provare ad ignorare quella sensazione di morte e di fine che provava l’intero branco. C’era un motivo per cui tutti si erano sentiti capitolare sin dall’inizio.
«Morrigan» gracchiò la Skinwalker e la sua voce assunse l’inquietante suono del verso di un corvo.
Kira rabbrividì. Abbassò la katana e la infilzò a terra.
«Perché sei qui?»
«Basta! Per favore, basta!»
«Stai scappando»
«Non sono scappata! Sono qui per essere pronta a combattere»
«Stai fuggendo dai tuoi poteri. Da quello che sai già è accaduto. Da ciò che troverai al tuo ritorno»
Le lacrime scesero a bagnare il viso di Kira.
“Mamma” questo aveva sentito e non era stata un’allucinazione. No, era stato il motivo per cui durante l’allenamento la Volpe aveva preso il sopravvento. Il motivo determinante per cui l’aveva portata lì, nel bel mezzo del deserto del Messico.
«Il Darach ha preso mio figlio. Ha preso Adam» mormorò, ma la Skinwalker non diede conferma e neppure negò la sua deduzione.
«Ed io non ho potuto fermarlo».
Kira non aveva idea di come facesse a saperlo ma era certa che era quello che fosse accaduto: la Volpe sapeva che Adam era perduto, che lei non avrebbe potuto fare la differenza, per questo l’aveva condotta là invece che da suo figlio. Era nel posto in cui si trovava che avrebbe potuto far sì che il piano del Darach potesse fallire.
«Abbiamo un nemico comune, Kitsune del Tuono» confessò la Skinwalker guardando dall’alto Kira piangere.
«Il Corvo Rosso mi ha portato via le mie compagne. Lui ci sta guardando. Devi essere completa per affrontarlo o neppure la Volpe potrà sconfiggerlo».
«Non so come fare. Non sono abbastanza forte per affrontarlo e mio figlio...» la voce le morì in gola mentre si perdeva in singhiozzi silenziosi.
«Non devi controllarla, né la Volpe deve controllare te. è questo che hai sempre sbagliato. Non si tratta di dominarsi né di dominare. La Volpe è parte di te, tu devi essere la Volpe. Entra in simbiosi con la tua forza, siate un unico essere. Non è un gioco di potere, non lo è mai stato».

***

Malia sapeva che Lydia non poteva capire. Neppure Stiles ci riusciva, per quanto ci provasse. Ma essere lì, davanti alla bara di Corinne le era d’aiuto.
Lydia era al suo fianco, in religioso silenzio, nonostante sul viso le si leggeva tutto il suo disappunto.
La donna che l’aveva messa al mondo e che l’aveva odiata sin dal primo vagito.
Ora che si trovava nella stessa situazione di Corinne, comprendeva ciò che doveva aver provato. Lo capiva, ma seguitava a non lo condividerlo. Neppure ora che sentiva ogni singola forza abbandonare il suo corpo.
C’era l’istinto primordiale di contrastare tale sensazione ma l’odio per sua figlia in tutto questo non era contemplato.
Peter Hale indossava un completo nero per l’occasione.
Erano presenti in otto, compresi il parroco che celebrava la funzione e i due addetti al sotterrare la bara una volta che la cerimonia fosse conclusa.
Malia, Peter e Lydia non si guardarono in faccia neppure una volta.
Nessuno avrebbe pianto la morte di una donna che tutti i presenti avevano più volte disprezzato. Eppure in Malia non vi era più rabbia e neppure rancore verso la Lupa del Deserto. Se pensava a lei aveva il cuore libero e l’anima leggera.
Ogni ricordo doloroso o sentimento doloroso che vivevano in lei erano morti insieme a sua madre.
La cerimonia stava volgendo al termine quando la suoneria del telefono di Lydia disturbò la quiete del cimitero.
La Banshee si allontanò di poco per rispondere e Malia tese le orecchie per poter udire la conversazione, certa che a chiamarla fosse Stiles.
«Lydia? Ma dove diavolo sei finita?!».
«Sono… sono con Malia» rispose incerta, notando – dall’espressione dell’amica – che non avrebbe gradito far sapere al marito dove si trovasse.
Seguì un lungo minuto di silenzio poi, con voce incrinata, Stiles chiese: «Lei sta bene?».
Il cuore di Malia mancò un battito.
«Sì, certo Stiles» si affrettò a rispondere Lydia, «Certo che sta bene».
Ma Malia si perse le ultime frasi tra i due amici perché al suo fianco si avvicinò Peter Hale, deciso a sfruttare quel breve momento di lontananza da parte della Banshee.
«Malia».
«Peter» ricambiò il saluto.
Dato che Peter rimase in silenzio, Malia aggiunse: «Ti ringrazio per aver mantenuto la tua parola».
Il Lupo Mannaro strinse le labbra poi, con i suoi soliti modi da damerino, la affiancò mettendosi spalla a spalla con lei.
«Ricordi la nostra conversazione nel mio loft? Quando mi hai chiesto di organizzare questa commemorazione?».
Malia rimase in silenzio
«In particolare cosa dovrei ricordare?»
«Mi hai parlato del Darach e della Dea Morrigan. Non ho potuto rispondere alla tua domanda, quando mi hai chiesto se questo mi fosse familiare, ma ora sì. Ho letto il diario di Talia».
Dalla giacca tirò fuori il piccolo volume dalla copertina nera «E penso che dovresti leggerlo anche tu».
Non disse altro, seppure il suo sguardo vagava inequivocabile sul volto pallido di Malia e notava ogni singolo particolare di stanchezza e malessere.
«Riguardati» si limitò a dire, poi si voltò e scomparve tra le lapidi del cimitero di Beacon Hills.

***

Malia lasciò che Lydia la accompagnasse a casa.
La Banshee scappò nuovamente a lavoro, promettendole che Stiles sarebbe tornato presto a casa. Ma Malia non aveva bisogno di simili parole per stare tranquilla, sapeva dove Stiles avrebbe voluto essere. E se non tanto per lei, di certo per i suoi figli.
Perciò, decisa a combattere la stanchezza, Malia prese a rassettare casa, nonostante i suoi pensieri era rivolti sempre a lui, a Stiles ancora a lavoro. Una strana tristezza le gelò il cuore, ma fu solo per un attimo.
Aveva visto le chiamate e i messaggi che lui le aveva lasciato quella mattina: alcuni dolci, altri freddi e insipidi. Non aveva risposto a nessuno di questi, né lo aveva richiamato.
Cercò di scansare questi pensieri e si affacciò nella cameretta di Jamie dove il piccolo giocava indisturbato con le macchinine.
Sul pavimento erano rimasti sparsi i fogli su cui lui ed Allie avevano disegnato.
Malia si avvicinò per raccoglierli, ma Jamie non sembrò gradire l’intrusione. Si affrettò a togliere il foglio dalle sue mani e lo strinse al petto.
«Allie!» esclamò con espressione contrariata.
Malia abbozzò un sorriso nel vedere tale reazione. Forse Jamie aveva paura che li buttasse.
«Lo so che sono di Allie, amore. Mamma li mette a posto così non si rovinano, ok?» cercò di spiegargli e Jamie sembrò convincersi e le restituì il disegno.
Malia gli scompigliò i capelli con una carezza e prese il foglio, si chinò a raccogliere anche gli altri quando si accorse che su gran parte di essi vi erano lunghi solchi di matita nera e rossa.
Si bloccò a fissarli, imbambolata. Li allargò sul pavimento, per vederli meglio.
Davanti a lei, Jamie la osservava con la faccia colpevole, la stessa che gli spuntava fuori quando faceva qualcosa che sapeva benissimo di non dover fare.
«Jamie… Questi disegni li ha fatti tutti Allie?» boccheggiò Malia.
Poi sentì il familiare suono della chiave che entrava nella toppa della porta di casa e il tonfo secco che ne conseguiva.
Ma qualcosa non quadrava perché, assieme all’odore di suo marito, c’era uno strano lezzo che la mise in allarme.
Il rumore di passi che salivano le scale la fecero alzare da terra, stringendo i fogli tra le mani tremanti.
Si voltò, i sensi all’erta, pronta a difendere Jamie, in caso di pericolo.
Stiles era lì, impalato a fissarla con le labbra socchiuse e l’espressione preoccupata.
Accanto a lui una bambina che non dimostrava più di otto anni si guardava attorno con occhi spalancati.
«Mal… ti devo parlare» soffiò, girandosi verso la piccola sconosciuta che teneva per mano.
I fogli da disegno le scivolarono dalle dita tornando a spargersi sul pavimento della cameretta.
 





   
 
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