Oggi
Weaving
tho the eyes are pale,
what
will rend will also mend.
The
sifting cloth is binding,
and
the dream she weaves will never end.
For
we're marching toward Algiers.
La
voce di Alessandra era densa,
pastosa, riempiva il locale con le sue note graffiate e un
po’ roche. Le veniva
bene, cantare Patty Smith. Stringendo distrattamente tra le mani un
bicchiere
di birra scadente, Caterina osservava la sua amica muoversi
morbidamente sul
palco.
Questa ragazza è assolutamente
camaleontica, pensò, sollevando
appena un angolo della bocca in un sorriso sarcastico. Nella vita di
tutti i
giorni, Alessandra era estremamente curata, amava le camicie ben
stirate, il
trucco poco appariscente ed era solita domare i suoi selvaggi ricci
scuri
stringendoli in uno chignon dal quale non sfuggiva una singola ciocca.
Eppure,
quando si arrampicava – anche solo metaforicamente
– su un palco e vestiva i panni
della cantante rock, subiva una trasformazione piuttosto sconcertante.
Gli abiti
neri dall’aria vissuta, che con ogni probabilità
conservava in una sezione dell’armadio
a loro appositamente dedicata, prendevano il posto di quelli
più leggeri e
variopinti che portava durante il giorno, il suo trucco si faceva
più pesante e
drammatico e i suoi capelli venivano lasciati liberi di muoversi
liberamente.
Sono abbastanza certa che si alleni di nascosto,
giudicò Caterina,
notando come Alessandra si gettava dietro le spalle la cascata di
riccioli con
un gesto armonioso della testa, facendoli atterrare elegantemente sulla
propria
schiena.
Le
luci del Dream, come sempre viola e
come sempre pulsanti, disegnavano delle
ombre strane sui quattro ragazzi ammassati sul palchetto che i gestori
del
locale avevano allestito per loro. Il volto di Alessandra sembrava
esotico, le
labbra gonfie e scure, mentre Samuele, che suonava il basso e che in
passato aveva
tentato qualche sfortunato approccio con Caterina, sembrava quasi bello.
«Bravi,
bravi» commentò la
ragazza sulle note finali di Broken Flag.
Matteo, appollaiato su uno sgabello di fianco a lei,
manifestò il proprio
entusiasmo in maniera più vigorosa, battendo
entusiasticamente le mani e
urlando il nome della propria fidanzata nel tentativo di sovrastare il
brusio
che riempiva il locale e le prime note della canzone successiva.
Discretamente,
Caterina mosse un
paio di passetti laterali verso sinistra, mettendo qualche decina di
centimetri
in più tra se stessa e l’individuo urlante che, in
ogni caso, non aveva occhi che
per Alessandra. Lanciando un’occhiata veloce verso il palco
per assicurarsi che
l’attenzione dell’amica fosse diretta altrove, la
giovane pescò il proprio
cellulare dalla borsa e fece scorrere lo sguardo sullo schermo
desolatamente
vuoto.
Michael
non le aveva scritto. Era
passata più di una settimana dal loro incontro fortuito
nella biblioteca dell’università
e, nonostante le promesse, il ragazzo non si era fatto più
vivo. Ma si sa che le promesse lasciano un
po’ il
tempo che trovano, si consolò Caterina. Anch’io
mi ero ripromessa di non mettere mai più piede in questo
postaccio, eppure,
eccomi qui.
Non
è che ci fosse rimasta male
per il fatto che Michael le avesse estorto il numero di cellulare e che
poi avesse
pensato bene di non usarlo. La questione era molto più
prosaica: lei ci aveva
creduto, quando lui le aveva detto che le avrebbe prestato la sua
dispensa di
marketing. Quell’aiuto inaspettato le aveva infuso nuove
speranze circa il superamento
dell’odiato esame, e adesso… adesso
sono
di nuovo al punto di partenza. Porca vacca. Se almeno non mi avesse
detto
niente, non mi sarei illusa inutilmente. ‘Sto cretino.
Senza
riuscire a reprimere un sospiro
afflitto, la giovane si appoggiò al bancone bianco e lucido
che occupava il
centro del locale, evitando per un soffio di abbattere con una gomitata
un
calice vuoto che qualcuno aveva abbandonato lì e che i
camerieri non avevano
ancora fatto in tempo a ritirare.
«Tutto
bene, Cate?»
Matteo
stava prendendo un po’ più
di confidenza, notò la ragazza. Si erano visti in un altro
paio di occasioni,
dalla sera in cui Alessandra l’aveva portata al Dream per la prima volta, e quello che
sulle prime le era sembrato
un ragazzo silenzioso e non troppo sveglio stava dando prova di una
vivacità
insospettabile. Parlava tanto, esattamente come Alessandra, e a volte
Caterina
si chiedeva come potessero andare d’accordo due persone che
facevano fatica a
restare in silenzio per più di cinque minuti di fila.
«Sì,
è tutto a posto» abbozzò.
«È
solo che questo posto non mi piace un gran ché.»
Matteo
sorrise. Aveva un bel
sorriso, allegro e sincero come quello di un bambino. Si abbinava
stranamente
bene con il suo marcato accento emiliano. «Questo
l’avevo capito già l’ultima
volta che siamo stati qui. Magari possiamo chiedere ad Alessandra di
trovare un’altra
location per i suoi concerti?»
Caterina
si strinse nelle spalle.
«Immagino che si possa fare, ma questo posto le garantisce
sicuramente più
visibilità rispetto alle bettole che frequentiamo di solito.
Temo che l’Ale si
sia un po’ stancata di suonare per quattro metallari che si
improvvisano
critici musicali e per marmocchi quindicenni che pensano solo a
riempirsi di
birra fino a rotolare…»
Matteo
sogghignò. «A me sono
simpatici, i metallari criticoni.»
La
giovane fece per rispondere,
ma venne distratta da una vibrazione proveniente dalla sua borsa. Colta
come da
un presentimento, Caterina afferrò di nuovo il cellulare e
constatò che,
proprio come aveva creduto, sul display compariva una notifica di
WhatsApp. Aprendo
l’applicazione, vide che il messaggio le era stato inviato da
un numero che non
conosceva. Se l’immagine del profilo non le era di alcun
aiuto per capire chi
fosse il mittente – vi era ritratto semplicemente un panorama
lacustre – il testo
la faceva ben sperare: “Possiamo
vederci lunedì
mattina?” recitava infatti il messaggio riportato
nel riquadro bianco.
“Chi sei?”
digitò rapidamente, prima di infilare il cellulare nella
tasca posteriore dei jeans. Sapeva di poter ragionevolmente sperare che
fosse
stato Michael, a scriverle, ma voleva evitare di fare figuracce. Però, diciamocelo: non è che
mi capiti proprio
tutti i giorni, di ricevere richieste di appuntamento da numeri
sconosciuti.
Un
minuto più tardi, il telefono
vibrò nuovamente. “Ah,
ti sei già
dimenticata di me? Credevo che ci tenessi, a mettere le mani sulla mia
dispensa…”
Caterina
si concesse un sorriso. “Se tu mi
avessi lasciato il tuo numero, non
avrei avuto questi dubbi.” Una volta che ebbe
inviato il messaggio, si
morse nervosamente il labbro inferiore, rileggendo ciò che
aveva appena
scritto. Sembra che stia flirtando? Si
chiese, con una certa apprensione. Non
voglio flirtare! Non voglio che pensi che lo sto facendo!
Nel
tentativo di correggere il
tiro – ovviamente Michael
aveva già
letto il messaggio, rendendo inutile ogni tentativo di farlo sparire
– la ragazza
scrisse ancora. “Comunque
lunedì va bene.
Facciamo alle nove in Piazza Vecchia, che poi ho un appuntamento con
un’amica? Quanto
ti devo, per la dispensa?”
Ecco, buttala sui soldi, si
complimentò con se stessa.
Dal
momento che la risposta di
Michael tardava ad arrivare, Caterina si sistemò nuovamente
il cellulare in tasca
e, appropriatasi di uno sgabello, tornò a osservare
l’esibizione di Alessandra e
del suo gruppo. Abbandonata Patty Smith, la ragazza era passata ai
Metallica,
cimentandosi nell’ennesima cover di Nothing
Else Matters.
Tutte cose allegre, questa sera,
pensò la giovane, trovandosi
improvvisamente a desiderare qualcosa di meno malinconico. Malgrado
facesse del
proprio meglio per concentrarsi sull’esibizione
dell’amica, la sua mano correva
a intervalli regolari alla tasca dei jeans, estraendo il cellulare quel
tanto
che bastava per lanciare un’occhiata allo schermo, nel caso
la vibrazione dei
bassi le avesse fatto perdere quella che segnalava l’arrivo
di un nuovo
messaggio.
Incrociando
le braccia davanti al
petto, Matteo si voltò per osservarla meglio.
«Stai aspettando un messaggio
importante?» le chiese, con un sorriso che era solo un
po’ malizioso.
Malgrado
la domanda del ragazzo
non fosse altro che una provocazione innocente, Caterina si
sentì comunque
arrossire e fu grata alle luci viola che mascheravano
l’improvviso colorito che
sicuramente le aveva macchiato le guance pallide. «Ma no, sto
solo aspettando
che un tizio mi faccia sapere se va bene che ci incontriamo
lunedì mattina.»
Matteo
inarcò comicamente le
sopracciglia scure. «Appuntamento galante?»
La
giovane sbuffò. «Come no. Deve
vendermi una dispensa. È l’ennesimo tentativo che
faccio per superare quel
cazzo di esame di marketing.»
Dopo
qualche minuto, il cellulare
prese a vibrare e Caterina vide che non si trattava di un messaggio.
«Scusa, mi
sta chiamando» disse balzando in piedi e guardandosi
rapidamente attorno.
Anziché risponderle via WhatsApp, Michael aveva avuto la
brillante idea di telefonarle,
senza sapere che, tra chiacchiericcio e musica alta, lei non sarebbe
stata in
grado di sentire una parola.
Portandosi
il telefono all’orecchio
e avviandosi a grandi passi verso la porta d’ingresso, la
ragazza provò comunque
a rispondere. «Pronto?» chiese, cercando di
avvicinare quanto più possibile l’oggetto
al proprio orecchio. «Pronto, mi senti?»
La
giovane udì delle parole vaghe
e assolutamente indistinguibili giungere dall’apparecchio e
sbuffò, frustrata.
«Un attimo!» urlò, cercando di
sovrastare il frastuono. «Aspetta che esco, che
non sento niente!»
Schivando
la maggior parte degli
avventori accalcati davanti all’ingresso e spintonandone
qualcuno, Caterina riuscì
a guadagnare l’uscita. «Eccomi»
esalò, quando si fu allontanata a sufficienza.
«Scusami, ero all’interno del Dream
e
non sentivo un accidente.»
Dall’altra
parte della cornetta
le giunse la risata di Michael, calda e avvolgente, e lo stomaco le si
contrasse in un brivido deliziato. Oh,
per l’amor di Dio! Si rimproverò la
giovane, obbligandosi a ignorare quelle
reazioni istintive che la facevano sentire un’adolescente in
piena crisi
ormonale.
«Scusa,
non avevo proprio pensato
che tu potessi avere degli impegni per il sabato sera»
spiegò il ragazzo, con l’eco
della risata ancora nella voce.
Caterina
sedette sullo stesso
muretto su cui si era seduta due settimane prima e aggrottò
la fronte,
chiedendosi come dovesse interpretare l’affermazione
dell’uomo. «Perché? Ti do
l’idea di una che il sabato sera se ne sta in casa a fare la
calza?» chiese, un
po’ piccata.
«No,
no» si affrettò a rispondere
lui. «È solo che… è solo che
non ci avevo pensato, ecco. Se ci avessi pensato,
non ti avrei chiamata.»
La
ragazza sorrise, placata dalla
spiegazione di Michael. «In effetti, sarebbe stato meglio se
mi avessi scritto.
Sono qui perché c’è una mia amica che
sta suonando con il suo gruppo e… be’, se
si accorge che non sono più sotto al palco ad applaudirla,
mi toglie di sicuro il
saluto per due o tre settimane.»
«Non
sia mai!» ridacchiò l’uomo.
«Allora
ti lascio subito rientrare.»
«Perché
mi hai chiamata?» lo
interrogò lei, chiedendosi perché non si fosse
limitato a confermarle l’appuntamento
via messaggio.
Michael
esitò per qualche istante
e, in quel silenzio, Caterina udì un vago rumore di
sottofondo, fruscii e forse
passi. Si chiese se l’uomo fosse solo, ma poi si disse che
non aveva il minimo
diritto di interessarsi degli affari suoi. «Non sono un
grande amante dei
messaggi» ammise, poi. «Preferisco di gran lunga
telefonare: quando ci si
parla, ci si capisce subito meglio e si risparmia anche un sacco di
tempo.»
«Mh»
annuì Caterina, senza
prendersi il disturbo di spiegare che lei era sempre un po’ a
disagio, quando
parlava al telefono. «Allora ti va bene se ci incontriamo
lunedì mattina alle
nove?» chiese, riportando la conversazione sul suo binario
iniziale.
«Va
bene» confermò Michael, prima
di aggiungere: «Senti, ma a che ora ti devi incontrare con la
tua amica?»
«Verso
le nove e mezza… non ho un
orario preciso, dobbiamo solo trovarci per studiare insieme»
rispose la giovane.
«Perché? Preferisci fare un po’
più tardi?»
Il
ragazzo esitò ancora qualche
secondo. «Più che altro, volevo chiederti se ti
andrebbe di fare colazione
insieme.»
«Ah…»
Caterina
si mordicchiò le labbra.
Non faceva mica colazione alle nove, lei: mangiava almeno
un’ora e mezza prima,
prima di uscire di casa e correre in stazione per prendere al volo il
treno che
l’avrebbe portata a Bergamo. Inoltre, non era del tutto
sicura che fosse una
buona idea dare tanta confidenza a Michael: l’ultima volta
che l’aveva incontrato,
si era dimostrato gentile, educato e disponibile, ma non riusciva a
togliersi
dalla mente il loro primo incontro, quello in cui lui era ubriaco e
l’aveva
cercata in modo insistente, spaventandola anche un po’.
Ma
aveva davvero una buona scusa
per rifiutare? Non voleva rischiare di offenderlo e, soprattutto, non
voleva
lasciarsi condizionare dalle proprie paranoie. Le aveva chiesto di fare
colazione nella piazza più affollata di Città
Alta, non di partire per un
week-end insieme.
«Va
bene» concesse, allora. «Però
facciamo una cosa veloce, perché Halima –
l’amica con cui mi devo incontrare –
non è esattamente famosa per la sua pazienza e per il suo
carattere accomodante.»
«Perché
la cosa non mi stupisce?»
chiese Michael, ridendo.
Caterina
sgranò gli occhi,
oltraggiata. «Cosa vuoi dire?» chiese, senza
riuscire a trattenere a sua volta
una risatina. «Che cosa staresti insinuando?»
«Ci
vediamo lunedì, Cate» rise
ancora Michael, prima di riagganciare senza nemmeno darle il tempo di
ribattere.
“Cate”,
pensò la ragazza. L’aveva chiamata
“Cate”, esattamente come
facevano i suoi amici e i suoi genitori. Per qualche motivo, quel
particolare
la fece sorridere. Alzandosi in piedi e dirigendosi lentamente verso
l’ingresso
del Dream, la giovane
soppesò pensosamente
il cellulare. Aveva fatto bene ad accettare l’invito
dell’uomo.
Ma sì, si disse, colpendo
l’aria con una mano come per scacciare
fisicamente i dubbi che ancora affollavano la sua mente. Alla
fine, è solo un gesto di cortesia: non mi ha nemmeno detto
se e
quanto vuole essere pagato. Magari me la presta soltanto, quella
dispensa, e in
cambio non vuole un centesimo.
Sentendosi
stranamente leggera e
di buon umore, Caterina raggiunse la porta d’ingresso e nel
farlo passo di fronte
a Hasim, il buttafuori, che le rivolse un cenno di saluto e un sorriso.
«Ciao»
fece lei, ricambiando il
suo sorriso.
Lui
la squadrò con i suoi occhi
scuri e poi spinse il proprio sguardo più in là,
oltre le spalle della ragazza
e verso la porta che lei aveva appena varcato, come se stesse cercando
qualcuno. «Te ne vai ancora in giro da sola?» le
chiese, con solo una punta di
rimprovero nella voce.
Lei
aggrottò la fronte, stupita
da quel commento, e poi si avvicinò un po’ di
più all’uomo, spostandosi con lui
verso un punto in cui la folla era meno fitta e dove avrebbero potuto
parlare
senza dover necessariamente urlare. «Come?» chiese,
invitandolo ad elaborare
quanto aveva appena detto.
Lui
inclinò il capo verso destra,
come se volesse inquadrarla meglio, e quel movimento attirò
l’attenzione della
ragazza sul suo collo possente. Il colletto della camicia nera della
divisa,
appena di qualche tonalità più scura della pelle
dell’uomo, era in parte
sollevato, e la giovane dovette reprimere l’impulso di
allungare una mano e
sistemarglielo.
Dopo
qualche istante, Hasim
sorrise ancora, ma a Caterina parve un sorriso un po’ meno
sincero del primo. «L’ultima
volta che sei andata a fare un giro
nel parcheggio da sola, hai rischiato di metterti nei guai per colpa di
quell’idiota
che aveva bevuto troppo. Non è un posto sicuro, quello: non
ci sono luci e ci
gira gente strana.»
Sentendosi
come una bambina ripresa
dal padre – o dal fratello maggiore – Caterina
chinò il capo, un po’ a disagio.
Accorgendosi del turbamento della giovane, l’uomo le
sfiorò una spalla con una
mano. «So che sei abituata al tuo paesino piccolo, dove tutti
sono amici di
tutti» la stuzzicò. «Però
devi capire che il mondo vero
funziona un po’ diversamente.»
«Il
mio paese ha quasi quindicimila
abitanti ed è sicuramente più grande di quello da
dove vieni tu» ribatté lei
con un mezzo sorriso, reclinando il capo all’indietro per
incontrare gli occhi
dell’uomo.
Hasim
si mostrò sorpreso.
«Intendi Dalmine?»
La
ragazza scoppiò a ridere. «Sì,
proprio quello.» Per qualche strano motivo, l’uomo
sembrava sempre restio a
parlare delle proprie origini e della strada che l’aveva
portato in Italia, in
un paesotto sospeso tra la Brianza e la provincia bergamasca, e
Caterina
sentiva di non essere abbastanza in confidenza con lui per provare a
insistere
un po’ di più. Del resto, la vicenda la
incuriosiva, ma non era certo in cima ai
suoi pensieri.
Lentamente,
l’ombra del sorriso
si spense sul volto dell’uomo e lui tornò a
guardarla più seriamente. Sentendo che
era tempo di lasciarlo libero di tornare a dedicarsi al lavoro per cui
era pagato,
la giovane si strinse nelle spalle. «No, comunque non hai
motivo di
preoccuparti: questa volta non sono andata a farmi una passeggiata nel
parcheggio. Ero semplicemente al telefono con…» Con l’idiota di cui sopra,
concluse mentalmente, prima di decidere
che, forse, non era il caso di rivelare a Hasim che si era mantenuta in
contatto con il tizio del parcheggio. «… con un
tipo che mi deve vendere un
libro per l’università. Sono dovuta uscire
perché, con il casino che c’è qui
dentro, non riuscivo a sentire nemmeno una parola.»
Hasim
la guardò con gli occhi
leggermente socchiusi. «Hm-hm» fece, senza
distogliere lo sguardo.
Inconsciamente,
Caterina arretrò
di un passo. Cosa voleva dire “hm-hm”?
Se non fosse stato impossibile, avrebbe giurato che l’uomo
avesse annusato la
mezza bugia che gli aveva appena rifilato. Sentendosi tutto
d’un tratto
desiderosa di concludere in fretta quella conversazione, la ragazza
allungò
platealmente il collo verso il palchetto sul quale Alessandra stava
ancora cantando.
«Va beh, adesso vado, che non vorrei che l’Ale si
accorgesse che sono uscita e
ci rimanesse male.»
L’uomo
parve sul punto di dire
qualcosa, ma poi fece un cenno d’assenso con il capo.
«Va bene», concesse, «vai
pure. Ci vediamo in giro.»
Caterina
sorrise e gli rivolse un
vago cenno di saluto con una mano. Si era allontanata solo di qualche
passo, quando
la voce del buttafuori la raggiunse di nuovo. «… e
stai attenta.»
La
ragazza sgranò gli occhi e,
rallentando il passo, si voltò per guardarlo al di sopra
della propria spalla
sinistra. Hasim, però, si era già disinteressato
a lei ed era occupato a
parlare con un paio di ragazzi apparentemente appena entrati.
Cosa voleva dire con quel “stai
attenta”? Si chiese spaesata. Se il
contesto fosse stato diverso, avrebbe potuto interpretare quelle parole
come un
avvertimento, una minaccia. Ma conosco
Hasim, è una brava persona, ragionò,
cercando di allontanare quel pensiero
assurdo. Ma lo conosceva davvero? Cosa sapeva di lui? Prima che venisse
in suo
soccorso due settimane prima, non sapeva praticamente nulla a proposito
di quell’uomo,
che era per lei solo uno dei tanti amici di Alessandra con il quale
aveva
scambiato solo qualche parola casuale.
E se non era una minaccia, allora era una
raccomandazione. Ma che tipo
di raccomandazione? Un qualcosa con il quale l’uomo le
chiedeva di non fare sciocchezze
in generale, oppure Hasim la stava
mettendo in guardia contro qualcuno? Contro
Michael, per esempio? Le suggerì il suo inconscio.
Oh, che idiozia! Perché mai
avrebbe dovuto sospettare che lei e il
ragazzo si fossero ancora incontrati e avessero in programma di
incontrarsi di
nuovo in futuro? Perché gli sarebbe dovuto interessare, in
ogni caso? Di malavoglia,
Caterina dovette riconoscere che, se si stava facendo tante paranoie su
una
frase che Hasim aveva verosimilmente buttato lì senza
neppure pensarci, era
perché, con ogni probabilità, era lei la prima a
non essere del tutto convinta
dell’affidabilità di Michael e delle sue buone
intenzioni.
Immersa
in quei pensieri, la
ragazza tornò nel punto in cui aveva lasciato Matteo, ma,
riappropriandosi
della birra ormai calda, ignorò lo sguardo interrogativo che
il ragazzo le
stava rivolgendo. Portandosi il bicchiere alla bocca, la giovane
cercò di
concentrarsi sulla voce di Alessandra, ma tutto quello che riusciva a
sentire
erano le parole di Hasim, che si ripetevano nella sua mente come in
un’eco
infinita.