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Autore: AleeraRedwoods    21/05/2019    3 recensioni
Dal testo:
“Tu sei nata per una ragione e il tuo cammino non può cambiare.
Ma un destino scritto è anche una maledizione.
Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo,
riunirai i Popoli Liberi e scenderai in battaglia.
Una prova ti attende e dovrai affrontarla per vincere il Male.
Perché la Stella dei Valar si è svegliata.
La Stella dei Valar porterà la pace.
A caro prezzo.”
(Revisionata e corretta)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Aragorn, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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-Prigioniera-

 

    Una voce dolce, eterea e fredda come l’argento le martellava in testa. Brandelli di una storia.
    “Tu sei nata per una ragione…”
    Immagini di una vita passata o futura le passarono davanti agli occhi: c’era morte, c’era amore e c’era speranza. 

    “Tu sei nata per una ragione. Una maledizione… Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo. Dannata per l’eternità…”
Le immagini scorrevano veloci e non riusciva più a distinguerne le forme.
    “Scenderai in battaglia. Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo. Sei maledetta… Riunirai i Popoli Liberi e scenderai in battaglia. La Stella dei Valar si è svegliata. La tua maledizione…”
Le faceva male, voleva fuggire da quella voce pungente ma non poteva: non c’era materia attorno a lei, solo vuoto.
    “Riunirai i Popoli Liberi. La Stella dei Valar porterà la pace e porterà il dolore. Dannata per l’eternità, porterai dolore… Tu sei nata per una ragione. Svegliati. Maledetta… Svegliati. SVEGLIATI!


    –No!- Si tirò a sedere velocemente, portando istintivamente le mani sugli occhi. Aveva il fiato corto e premette forte i palmi sul viso, scossa da un potente mal di testa.
    Sentiva un grande chiasso tutto intorno, come se fino a quel momento avesse dormito in mezzo ad una folla rumorosa.
    Si fece forza e sbirciò timidamente tra le dita: contro ogni aspettativa, si trovava in un pacifico bosco.
    Ed era completamente sola.
    Tolse le mani dal viso e il rimbombare di voci si affievolì nella sua mente, fino a divenire un fastidioso brusio.
    Poi scomparve del tutto.
    Al posto di quelle voci, ella udiva solo il cantare degli uccelli e il sibilare del vento. Allo stesso modo, non riuscì a ricordare una singola immagine delle tante che avevano turbato la sua mente pochi istanti prima.
    Inspiegabilmente scomparse.
    Solo il battere insistente delle sue tempie la distraeva, come un ritmico bussare dall’interno, in cerca della sua attenzione.
    Inspirò ed espirò per molte volte, prima di accorgersi con sgomento che quell’esercizio le risultava del tutto nuovo.
    In effetti, le sue mani, le sue braccia, il suo intero corpo le risultava nuovo. Persino il pensiero la sconvolse.
    Si accorse solo in quel momento di essere un’entità vivente, come gli alberi dalle foglie rosse attorno a lei.
    Sentì la terra solleticarle la pelle nuda, il vento tra i capelli e il sole scaldarla e lasciò che quella consapevolezza si impadronisse completamente di lei.
    Allo stesso modo, riuscì a capire che qualcosa non andava, nel paesaggio che la circondava. Si trovava al centro di un cratere molto profondo, largo più di venti piedi. Era assolutamente innaturale, brullo, coperto da cenere e detriti, mentre tutto attorno, sul suolo intatto, cresceva una rigogliosa erba verde.
    Sotto di lei erano sparse delle strane gemme bianche, luminose come stelle. Altre caddero al suolo, rotolando dal suo corpo e dai suoi capelli, quando provò ad alzarsi in piedi.
    Ne era letteralmente cosparsa.
    Le spazzò via con gesti secchi, scuotendo il capo.
    Sollevandosi da terra, i capelli le piovvero attorno come un groviglio scuro e scomposto, unico riparo per il suo corpo nudo, e lei finì per cadere goffamente in ginocchio, instabile. Sibilò tra i denti nel tentativo di rimettersi in piedi una seconda volta, senza successo. Doveva abituarsi a coordinare tutte quelle estremità e più si concentrava su una di esse, più un’altra cedeva sotto il suo peso: drizzava una gamba mentre l’altra si piegava, faceva leva su un braccio ma l’altro la ostacolava.
    Poco dopo, si arrese sul suolo secco e ruvido, lanciando un sospiro infastidito.
    Nel compiere quel movimento, sentì qualcosa rimbalzarle sullo sterno e abbassò lo sguardo, curiosa: una lunga catenina reggeva un ciondolo, a lei sconosciuto tanto quanto il corpo che lo indossava. Afferrò il ciondolo e lo saggiò tra le mani, trovandolo tiepido e infinitamente resistente. I suoi occhi indugiarono a lungo sulla singolare pietra che il ciondolo conteneva, come rapita: era tondeggiante, luminosa e tinta di infinite sfumature violette, come un’ametista.
    Si stupì, anche se in ritardo, poiché tutto il suo corpo impacciato si era mosso armoniosamente per studiare quell’oggetto. Anche quando si era destata, ricordò, le sue mani erano corse al viso, come se fossero abituate a farlo.
    Poteva farcela, era solo questione di tempo.
    Ancora una volta, il lieve martellare della sua testa la costrinse a prestargli attenzione. C’era qualcosa che voleva essere ascoltato, nella sua mente: un’eco indefinita.
    La sensazione di dover ricordare. Di dover ritrovare.
    “Deve essere da quella parte, laggiù dietro gli alberi”, pensò lei, sfregandosi la fronte con cipiglio infastidito.
    Si riscosse in fretta, accantonando momentaneamente la questione: qualcosa era appena apparso nel raggio della sua visuale.
    O meglio, qualcuno.
    Un gruppo di figure sottili si muoveva veloce e silenzioso come un’ombra, tra gli alberi secolari. Vennero alla luce, avvicinandosi cautamente al cratere dove lei si trovava. Le puntavano addosso delle armi, che lei riconobbe come archi e frecce. 
    Elfi.
    Quella parola le attraversò la mente come uno scroscio improvviso e la associò distintamente a quegli individui dai lineamenti eleganti e affilati, con le orecchie appuntite.
    Istintivamente, le sue mani estranee si mossero verso il suo viso, fino a toccare le orecchie, constatando che erano anch’esse a punta. Sgranò gli occhi, a quella scoperta.
    Lei stessa era un elfo?
    Erano un po’ più piccole al tatto, rispetto a quelle ben evidenti dei suoi ospiti, ma pur sempre appuntite.
    Il dolore provato al suo risveglio le punzecchiò di nuovo la testa quando, dall’ombra del bosco, apparve un’ultima figura.
    Era un elfo alto, slanciato ma imponente. Indossava un lungo mantello, rosso come le fronde degli alberi sopra di loro, e portava sul capo una corona di rami e foglie.
    Era molto regale, notò lei.
    Regale, come un re?
    Lo guardò avvicinarsi lentamente al bordo del cratere e sgranare gli occhi. Guardava quelle pietre bianche e luminose attorno a lei con sgomento. Le sembrò come se un sentimento profondo sbiadisse il colore della sua pelle chiara, qualcosa d’insondabile ma estremamente violento.
    Solo dopo qualche attimo, l’elfo si accorse che nel cratere c’era anche lei.
    La sua espressione mutò, facendosi improvvisamente indecifrabile. La fissò per un tempo che le parve lunghissimo ma, tutto sommato, lei non aveva idea di cosa sarebbe successo dopo. Quindi attese pazientemente, ricambiando lo sguardo.
    Gli occhi dell’elfo regale erano chiari e brillanti, come quelle gemme che aveva guardato con tanto stupore.
    Poi lui avanzò nel cratere, mentre attorno si muovevano cauti gli altri elfi, con gli archi ancora tesi.
    L’elfo si arrestò proprio di fronte a lei e si abbassò con movimenti misurati, per arrivare alla sua altezza. Allungò una mano, adornata da svariati anelli brillanti e lei, suo malgrado, si ritrasse automaticamente. A quel gesto diffidente, l’elfo si accigliò appena, poi mosse ancora la mano pallida, che finì a terra solo per sollevare una di quelle gemme luminose. La portò vicino al viso per esaminarla meglio.
    Solo dopo quelle che parvero ore, egli si decise ad alzare gli occhi chiari su di lei: -Man eneth lîn? (Qual è il tuo nome?)-
    La sua voce la colpì, forse perché era la prima che sentiva, oltre a quelle confuse nella sua testa. Era profonda, senza una qualsiasi intonazione che definisse il suo stato d’animo.
    Si concentrò su di lui e pensò a lungo a quella domanda.
    L’elfo regale doveva essersene accorto, perché attese la sua risposta senza parlare e senza muoversi, limitandosi a studiare il suo viso con attenzione.
    Lei non aveva idea di quale fosse il suo stesso nome, o forse non ne aveva mai avuto uno. Mosse più volte le labbra e riordinò le parole per farle uscire proprio come suonavano nella sua testa, ignorando il dolore che ancora le mordeva le tempie.
    Il primo tentativo fu pietoso e non riuscì ad emettere altro che qualche mormorio sconnesso.
    Cercò altre parole, più semplici, osservando il volto dell’elfo regale.
    Vederlo da così vicino le permetteva di notare molti particolari: i lunghi capelli argentei si muovevano leggeri anche al più flebile alito di vento, gli zigomi alti proiettavano ombre affilate sul pallore candido della sua pelle e i suoi occhi rilucevano di infinite tonalità, intensi e freddi come un mattino d’inverno.
    Per un attimo, articolare le parole si fece più difficile e dovette concentrarsi meglio, nonostante l’elfo non le mettesse alcuna fretta: -Le bain.- Riuscì a dire, infine.
    Era davvero l’unica frase sensata che riuscisse a pronunciare in quel momento, e ne aveva provate tante.
    L’elfo regale dischiuse le labbra in un’espressione attonita, senza smettere di fissarla con ostinazione. Con quelle due semplici parole, lo aveva appena definito “bellissimo”.
    Forse non era proprio quello che le aveva chiesto ma, per lo meno, lo aveva pronunciato correttamente, pensò lei.
    –Non mi hai detto il tuo nome.- Insistette l’elfo. –Chi sei?-
    Lei provò a riflettere su quei nuovi suoni che lui aveva pronunciato e, questa volta, compose più facilmente la frase:
–Non ho un nome.- Sospirò, scossa dallo sforzo.
–Tutti hanno un nome. Come ti chiamavano nel luogo da cui provieni?- L’elfo regale era irremovibile, la sua voce perentoria e lei non voleva certo fallire. -Nessuno… nessuno mi chiamava.- Si concentrò: -Io non lo so. Non riesco a ricordare niente.- Concluse.
    Il che era certamente vero.
    Aveva solo confusione nella sua mente, oltre che dolore, e delle voci che aveva sentito al suo risveglio non riconosceva nessuna frase, troppo sovrapposte l’una sull’altra.
    L’elfo abbassò per un attimo lo sguardo sul petto di lei, scorgendo il particolare gioiello, poi tornò a guardarla negli occhi:
–Ti dirò il mio, dunque. Sono Thranduil, Re del Reame Boscoso.
    Lei ripeté: -Thranduil. Re Thranduil.- E l’elfo continuò, imperturbabile: -Ti trovi nel mio regno e ora sei mia prigioniera.-
    La bocca di lei ebbe un fremito contrariato: -Prigioniera.-
    Aveva una parvenza di cosa potesse significare.
    Convenne però che non importava molto in quel momento: non avrebbe saputo cos’altro fare se non affidarsi a quelle persone. -Be iest lin, Aran Thranduil. (Come desideri, Re Thranduil)- Disse, stringendo le labbra in un’espressione tesa.
    L’elfo si slacciò il lungo mantello dalle spalle e le coprì il corpo per intero, con un gesto secco. Lei si accorse di aver avuto freddo solo in quel momento, quando il calore del mantello la invase, portando con sé una sensazione di benessere del tutto nuova.
    Era una stoffa morbida, vellutata sulla pelle e profumata come l’erba verde attorno a lei. Vi affondò il viso e sorrise, per la prima volta da quando aveva coscienza di sé. Si stupì di quella strana reazione che le modificava così visibilmente i lineamenti.
    Smise all’istante di piegare in quello strano modo il viso e si portò velocemente la mano alle labbra, guardando il Re elfico con gli occhi spalancati, come a cercare risposte.
    Lui, invece, s’irrigidì istintivamente nel vederla compiere quel gesto. Provò l’impulso di allontanarsi immediatamente da lei, come se la sua sola vista lo turbasse.
    Non seppe spiegarsi il perché.
    C’era qualcosa di strano, in quella persona.
    Qualcosa d’innaturale e, allo stesso tempo, spaventoso.
    Si alzò in piedi e le diede le spalle, rivolgendosi agli elfi che lo seguivano: -Prendete tutte le gemme. Che vengano custodite nella tesoreria.- Poi le parlò di nuovo, da sopra la spalla, con lo stesso tono freddo e imperioso: -Khila amin. (Seguimi)-
    Lei si apprestò ad alzarsi ma cadde rovinosamente a terra dopo un solo passo. Si era dimenticata che con quella storia del camminare era un po’ in difficoltà.
    Lui si voltò, guardandola dall’alto e lei si morse un labbro, puntellandosi sui gomiti per rimettersi dritta.
    –Non sei ferita. Perché non riesci a camminare?-
    La giovane si mise carponi, tentando disperatamente di alzarsi: -Non sono… capace.- L’elfo non commentò, con il volto serio, poi fece segno a uno degli arcieri che, prontamente, aiutò la giovane donna a rimettersi in piedi.
    Re Thranduil volse in direzione della fitta vegetazione rossa e un magnifico cervo apparve davanti a loro, bardato al pari di un destriero. L’animale avanzò, regale quanto il suo padrone, e lei vi fu issata sopra senza ulteriori convenevoli.
    Affondò le mani in quella pelliccia folta, per paura di cadere, e sentì Thranduil salire agilmente dietro di lei. Si accorse in breve di quanto avesse bisogno di stabilità e si puntellò contro il petto del Re, cercando di assecondare il movimento dell’animale con tutta la concentrazione possibile. A quella pressione però, Thranduil si scostò bruscamente, toccandola solo quanto bastava per tenerla dritta. La giovane, contro ogni logica, non aveva un minimo di equilibrio e pendeva da ogni parte come un sacco mezzo vuoto. Come poteva essere possibile che una creatura evidentemente adulta non sapesse governare il proprio stesso corpo?
    Alla fine, l’elfo fu costretto a tenerla ferma con un braccio, mentre con l’altro guidava la sua nobile cavalcatura.
    Si addentrarono tra gli alberi silenziosamente, diretti verso la dimora nascosta degli Elfi di Bosco Atro.



 
   
 
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