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Autore: Mary P_Stark    22/05/2019    2 recensioni
Una serie di OS dedicate ai personaggi della Trilogia della Luna. Qui raccoglierò le avventure, i segreti e le speranze di Brianna, Duncan, Alec e tutti gli altri personaggi facenti parte dell'universo di licantropi di cui vi ho narrato in "Figli della Luna", "Vendetta al chiaro di Luna", "All'ombra dell'eclissi" e "Avventura al chiaro di Luna" - AVVERTENZA: prima di leggere queste OS, è preferibile aver letto prima tutta la trilogia + lo Spin Off di Cecily
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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N.d.A: prima di cominciare questa storia su Freki di Londra, il famoso Keath che tante lupe ha "sciupato" durante la sua carriera, vorrei chiarire che si tratta di una storia a Bollino Rosso, visto il personaggio di cui andrò a parlare. Giusto per essere sicuri che siate pronte alle scene che seguiranno. (niente di scabroso, ma sicuramente più "spinto" del solito)
Buona lettura.
 





Beauty and the Beast
(Keath – Freki di Londra)
 
 
Londra – Novembre 2018
 
La musica, quella sera, era davvero insopportabile.

Non che la band intenta a suonare sul palco per allietare i ragazzi stipati come sardine nel locale, non ci sapesse fare. Era proprio il genere a risultargli indigesto.

Neppure sapeva di preciso cosa fosse. Grunge? Punk Rock? Alternative Grunge?

Keath Harford, Freki di Londra e, in quel momento, buttafuori per la Basing House, era annoiato a morte e con le orecchie demolite da una musica che non apprezzava. Neppure i tappi per le orecchie servivano a molto, visto che le vibrazioni poteva sentirle più che bene, e non gli trasmettevano niente di buono.

Come se non bastasse, quella sera sembravano tutti compiti damerini, nel ballare, e nessuno aveva bevuto a sufficienza per diventare abbastanza idiota da finire, per diretta conseguenza, tra le sue grinfie.

Sbuffando per la milionesima volta quando un paio di ragazzine glitterate – e chiaramente in fregola – gli passarono accanto sventolando le loro ciglia finte, Keath scrutò il suo orologio da polso e borbottò: «Cristo… solo le tre del mattino? Non finiremo mai, di questo passo.»

Di nero vestito, coi capelli castani stretti in una coda di cavallo e lo sguardo d’acciaio puntato sulla folla danzante e promiscua, Keath appariva freddo e glaciale, ma anche dannatamente affascinante.

La sua statura vicina ai due metri attirava gli sguardi di tutti, così come le sue ampie spalle, il portamento fiero e una buona dose di muscoli a gonfiare i suoi abiti su misura.

Anche per questo, era il buttafuori preferito dalle donne, nel locale e, spesso e volentieri, era il gentil sesso a creargli maggiori problemi, non tanto gli uomini alticci e insolenti.

Il fatto di essere un licantropo era parte del problema. La sua natura di origine divina gli aveva conferito un fisico statuario e un volto assai piacente, anche se spesso solcato da smorfie disgustate o cipigli neri come pece. La sua aura ferina, poi, faceva il resto, attirando come le falene con la fiamma coloro le quali erano particolarmente sensibili a certi messaggi subliminali.

Testosterone a tonnellate, in pratica.

Ovviamente, Keath ne aveva approfittato il giusto, ma solo con le lupe, mai con le umane. Detestava mescolarsi con loro, poiché non accettava di doversi limitare.

Amava fare sesso, anche in modo piuttosto spinto, e farlo con un’umana avrebbe voluto chiaramente dire ucciderla. E lui non era bastardo fino a questo punto.

Inoltre, lui amava copulare in forma di lupo, il che escludeva a prescindere qualsiasi umana di sua conoscenza.

A ben vedere, non aveva mai sperimentato con nessuna l’altra opzione; semplicemente, il suo lupo era predominante, in faccende come queste, e a lui non spiaceva per nulla.

Un’unghia laccata di nero strisciò maliziosa sulla sua maglia, strappandolo ai suoi pensieri e riportandolo al presente… e alla proprietaria dell’unghia in questione.

Abbassando lo sguardo, Keath scrutò l’umana che, senza alcun problema, gli si era avvicinata per fare la smorfiosa e, tra sé, imprecò.

Con tutti i maschi umani disponibili presenti in quella sala – e ce n’erano fin troppi, per il suo naso sensibile – doveva proprio rompere le palle a lui?

«Come mai un bell’uomo come te è così accigliato? Non vorresti un po’ di compagnia? Tanto, stasera sono tutti tranquilli» mormorò la donna, strusciandosi volutamente contro il suo inguine per invogliarlo a una reazione. «Potrai pur prenderti cinque minuti di pausa…»

Keath, però, rimase impassibile e, scuotendo il capo, replicò con educazione: «Sono in servizio, m’am. Non posso davvero accettare il suo invito.»

Scostandosi come se l’avesse schiaffeggiata, la donna lo fissò al colmo della stizza e sibilò: «M’am? Mi hai dato… della signora?! Quanti anni pensi che io abbia?!»

Ciò detto, si defilò irritata, sventolando i suoi fianchi generosi e strizzati in una minigonna di latex nero.

Sospirando, Keath scosse il capo e borbottò tra sé: «Almeno la mia età, mia cara, e con troppo silicone sotto pelle, temo.»

Non che si sentisse vecchio, a trentasei anni. Per un licantropo dalla discendenza quasi pura come lui, non solo era ancora un giovincello, ma avrebbe potuto contare – incidenti permettendo – ancora su altri ottanta o novant’anni di vita serena e tranquilla.

O meglio, serena forse sì, tranquilla sperava davvero di no.

Non aveva decisamente il carattere per sopportare una vita tediosa e monotona.
 
***

Studiare alla Sorbonne di Parigi le era piaciuto e, nei suoi anni passati in Francia e nella caotica capitale francese, si era divertita e aveva assaporato a piene mani la joie de vivre dei loro vicini di mare.

Le sue due lauree in Storia dell’Arte e Archeologia erano ben chiuse nel cassetto della scrivania, così come le fotografie legate a quei meravigliosi anni passati all’estero.

Non poteva certo lamentarsi delle esperienze fatte, né dei risultati conseguiti o delle persone che via via aveva conosciuto, e con cui aveva intessuto rapporti più o meno profondi.

I suoi genitori l’avevano lasciata libera di scegliere della sua vita, così come dei suoi studi e, ora che aveva conseguito ciò che aveva sempre desiderato, si sentiva realizzata.

Era altresì pronta a iniziare il suo nuovo lavoro al Natural Museum lì a Londra, che si prospettava pieno di novità e di altri traguardi da raggiungere.

Si sentiva, però, anche dannatamente demotivata, e non ne comprendeva esattamente i motivi.

Era come se qualcosa, dentro di lei, mordesse il freno per ottenere altro, ma non le desse indicazioni riguardo a cosa fosse, questo altro. E lei odiava non capire le cose.

Sarah Ellison, membro umano del branco di licantropi di Londra e novella dottoressa in Storia dell’Arte e Archeologia, si sentiva dannatamente frustrata, e non capiva perché.

Aveva avuto una giovinezza lieta, una crescita ricca e piena di esperienze più o meno positive, ma che lei aveva immagazzinato dentro di sé come preziose lezioni di vita.

Forse, dipendeva dal fatto che la decisione più importante della sua esistenza – mutare in lupo, o rimanere umana – non era ancora stata presa, e neppure aveva idea di quando prenderla, né in che direzione virare?

Vedeva bene come, sia sua madre che suo padre, combattessero giornalmente con il mondo che li circondava e che li tratteneva dall’essere ciò che erano.

Suo fratello Jasper, di nove anni, era ancora troppo piccolo per comprendere la complessità di quella battaglia e trovava soltanto divertente l’idea, un giorno, di poter essere un licantropo.

Suo malgrado, Sarah vedeva invece anche i lati negativi e le privazioni a cui i mannari, giorno dopo giorno, dovevano sottostare, e questo la metteva a disagio.

Sarebbe stata in grado di accettare simili restrizioni, se mai un giorno avesse accettato di mutare?

Le libertà concesse a un umano erano immensamente superiori a quelle di cui, gioco forza, poteva contare un licantropo. Loro non potevano camminare per il mondo con la loro seconda natura in bella vista, né mostrare la loro reale forza o le loro immense potenzialità.

Questo la disturbava, poiché il solo pensiero di doversi autocensurare la metteva a disagio.

D’altro canto, il pensiero di poter essere forte e potente quanto mamma o le sue amiche licantrope, o poter contare sui sensi sviluppati di un mannaro, la eccitavano e la portavano a desiderare la mutazione.

«Ahhh, se fossi un po’ meno titubante!» si lagnò tra sé, dirigendosi a passo lesto verso il bancone del bar del Basing House per prendere un altro drink.

La musica non era delle sue preferite, ma la compagnia era invece ottima, perciò Sarah si era prestata a uscire con le sue amiche per un rendez-vous post laurea.

Era rientrata solo da un paio di mesi, da Parigi, perciò doveva rimettersi in pari con i pettegolezzi e le novità riguardanti il branco.

Pur se era sempre rimasta in contatto coi genitori e le sue amiche londinesi – ed era tornata a casa ogni qualvolta le era stato possibile – ascoltare le novità faccia a faccia era ciò che preferiva.

Inoltre, se il tutto era fatto divertendosi e passando una bella serata, era preferibile a una chiacchierata su Skype.

Sarah non fece in tempo a ultimare quel pensiero che un uomo la urtò con violenza, mandandola a sbattere contro il bancone di marmo nero del bar e rischiando così di far cadere il suo bicchiere.

Stordita da quel colpo improvviso, Sarah afferrò come meglio poté il ripiano del bancone per tenersi in piedi e, nel frattempo, affrontò con lo sguardo l’uomo brillo che l’aveva colpita.

«Ehi, dico! Stia più attento!» lo richiamò lei, levando a sufficienza la voce perché il tipo potesse udirla nonostante il volume assordante della musica.

Il tizio, in maniche di camicia e jeans stazzonati, la fissò con aria annebbiata, ghignò malignamente e replicò: «Che vuoi, puttanella? Eri tu sulla mia traiettoria.»

Sarah si infervorò immediatamente – gli insulti gratuiti la facevano infuriare come poche altre cose al mondo – e, dopo aver poggiato il suo bicchiere per non romperlo, si spinse verso l’uomo per sbottare: «Modera i toni, cafone che non sei altro!»

Alcuni avventori del bar, invece di darle una mano, si limitarono a spostarsi per non dover subire colpi di riflesso, ma lei non vi badò.

Era abituata a difendersi fin da quando aveva sedici anni e, anche se il tizio ubriaco era un po’ troppo grosso, per i suoi gusti, sapeva dove colpire per metterlo al tappeto.

L’uomo le rise in faccia, disgustandola con il suo alito pestilenziale al sapor di vodka e, con una gran manata alla spalla, la spinse via gorgogliando: «Oh, fai anche la bizzosa, adesso! Credo che ti darò una ripassatina, così capirai chi comanda!»

«Provaci, se ne hai il coraggio» gli rinfacciò Sarah, già pronta a scaricargli un calcio nei gioielli di famiglia.

L’uomo rise ancora, si tirò su le maniche per mostrare le braccia nerborute ma, prima ancora di fare un passo in direzione di Sarah, una mano dalla pelle bronzea lo afferrò alla spalla, spedendolo direttamente contro il bancone del bar.

Alla mano seguì un volto scuro e accigliato che, puntandosi naso contro naso sull’uomo alticcio, ringhiò e disse: «Leva ancora una mano su quella ragazza, e te la strappo a morsi. E ora, fuori di qui! Non vogliamo casinisti nel locale!»

Ciò detto, trascinò l’uomo smoccolante verso l’uscita, insensibile alle sue minacce così come ai suoi insulti meschini o ai suoi tentativi di malmenare il buttafuori.

Keath non impiegò più di cinque secondi a sbatterlo fuori dall’uscita secondaria del locale e, dopo aver ammiccato all’indirizzo di un suo collega, chiosò: «Lo dicevo che, prima della chiusura, avrei buttato fuori la spazzatura.»

«Di coglioni è pieno il mondo. Vinci facile» celiò il collega, battendogli il cinque.

Keath gli strizzò l’occhio, lo salutò e tornò alla sua postazione nei pressi della pista.

Lì, si assicurò che la ragazza in difficoltà fosse a posto ma, quando si vide puntare addosso due occhi color dei lapislazzuli che conosceva molto bene, il suo cervello divenne iperattivo.

Essendo Freki, conosceva vita, morte e miracoli di ogni membro del branco del suo Fenrir – era suo compito, visto che avrebbe potuto anche predarli – perciò non faticò a trovare il nome della padrona di questi fantastici occhi.

Fu comunque una sorpresa trovarsela dinanzi, visto e considerato che non gli era mai capitato di vederla in quel locale. Sorpreso, quindi, gracchiò: «Sarah? Sei Sarah, vero?»

«Keath…» mormorò la giovane, squadrando l’alto Freki come se quasi non lo riconoscesse.

Erano passati undici anni dalla prima volta in cui si erano parlati – pur se lei sapeva della sua esistenza da molto prima – e ancora rammentava il suo tocco, la sua carezza e il suo sorriso.

Il suo colloquio con Fenrir di Londra l’aveva resa nervosa ma, complice anche la presenza della sua insegnante, Gretchen Stewart, aveva parlato di ciò che aveva scoperto e che, in seguito, aveva portato a grandi cambiamenti nel branco.

Le sue informazioni avevano ferito grandemente Joshua Ridley, il loro Fenrir, ma avevano reso possibile l’eliminazione di una minaccia per il clan e di un traditore di primo livello.

Questo le aveva permesso di conoscere anche il Freki del branco, il famigerato e temuto Keath Harford che però, con lei, si era comportato in maniera cortese, anche se un po’ estrema.

«Non… non lo hai ucciso, vero?» tentennò Sarah, memore della promessa che l’uomo le aveva fatto anni addietro.

Keath strabuzzò gli occhi grigio fumo per un attimo prima di ricollegare i fatti e, a sorpresa, scoppiare a ridere.

Per Sarah fu come un fulmine a ciel sereno. Il viso cupo e pericoloso di Keath si trasfigurò, con quel sorriso e, come se nella sua testa vi fosse stato un immenso puzzle incompleto, l’ultima tessera finì al suo posto, mostrandole il risultato finale.

«Nessun cadavere, tranquilla. Tu stai bene, però?» la rassicurò lui, scrutandola con attenzione.

Riscuotendosi subito, lasciò da parte ciò che la sua mente aveva composto per lei – e che ora le stava creando non poche difficoltà ad apparire sana di mente – e assentì con vigore.

«Ero già pronta a dargli un calcio nelle… beh, là sotto, ma grazie per averci pensato tu.»

Keath si coprì il proprio inguine al solo pensiero e, ghignando beffardo, asserì: «Buon per te, se sai difenderti, ragazza. Mi fa piacere che te l’abbiano insegnato, ma fammi un favore… non parlare di simili cose con un maschio. Ci sentiamo presi tutti in causa. Cattivi e non.»

Sarah si ritrovò a ridere divertita di fronte a quella battuta e annuì, prima di dirgli: «Grazie per avermi difesa. Hai evitato che mi rovinassi gli stivali.»

Keath scrutò verso il basso, inquadrando un paio di stivali dal tacco chilometrico in pelle nera e, annuendo dubbioso, chiosò: «Neppure so come tu faccia a camminarci, ma prego.»

Ciò detto, risalì con lo sguardo e, stavolta, la guardò davvero, non si limitò a controllarne la salute fisica e, ciò che vide, lo stupì non poco.

Ricordava Sarah come una ragazzina magrolina e timida, dai lunghi e mossi capelli biondo-rossi e candidi occhi di lapislazzulo, mentre ora era una donna voluttuosa e bella, dallo sguardo sicuro di sé e la grinta di una guerriera.

Assottigliando un poco gli occhi fumosi, Keath dichiarò con tono più roco e profondo: «Una bella ragazza come te deve prestare attenzione a chi gli sta intorno. Hai qualcosa di più efficace di quegli ammazza-piedi, per difenderti?»

Sorpresa da quella domanda ma, soprattutto, dal complimento imprevisto in essa contenuto, Sarah sbatté confusa le palpebre per qualche istante prima di dire: «Beh, conosco l’autodifesa, se è questo che vuoi sapere.»

Lui si accigliò profondamente, a quella risposta e, scuotendo il capo, borbottò: «Non basta. In giro ci sono un sacco di bastardi palle-muniti che non aspetteranno che un momento utile per darti fastidio… e io preferirei evitarlo.»

Ciò detto, si volse verso il bancone del bar, schioccò le dita in direzione del barista per dirgli due parole e, dopo alcuni istanti, questo si ripresentò da Keath con una scatoletta cromata di nero e un mezzo sorriso a corollario.

Keath, però, lo gelò con una sola occhiata e, subito dopo, si volse verso Sarah per aggiungere: «Devi portare con te uno spray al peperoncino, come minimo… e poi ti procurerò anche un tirapugni e un taser.»

Strabuzzando gli occhi per la sorpresa, Sarah non poté che aprirsi in un sorriso divertito e, pur accettando la bomboletta di spray al peperoncino che lui estrasse dalla scatoletta cromata, replicò: «Credo che questo possa bastare e avanzare. Inoltre, tirapugni e taser sono illegali.»

«Non per me» ghignò mefistofelico Keath prima di chinarsi sul suo orecchio e aggiungere: «C’è brutta gente, in giro. Ricordalo.»

Quel contatto pelle contro pelle fece infiammare Sarah che, grata della presenza di così tante persone nel locale, sperò con tutta se stessa che bastassero per nascondere al licantropo la sua reazione.

Certo, lui era un uomo davvero affascinante, e il suo profumo di maschio e di sottobosco la intrigava, ma non era la prima volta che un maschio la avvicinava. Era mai possibile che fosse così sensibile alla sua presenza?

Sì, le disse una vocetta maliziosa nella mente.

Quando infine lui si scostò, i suoi occhi si erano fatti scuri e ribollenti, quasi stessero per mutare nei più chiari e verdi occhi di lupo, che Sarah sapeva essere nascosti dietro a quelli grigio fumo di uomo.

Suo padre una volta le aveva detto che, pur non essendo un Gerarca, Keath era un lupo davvero possente e, anche grazie al suo manto interamente color argento, incuteva reverenziale timore sulla maggioranza dei lupi.

Era una rarità, per un lupo che non facesse parte della Triade di Potere, avere un pelo dal colore puro come il suo. In tutta la Gran Bretagna, gli unici lupi ad averlo così, erano lui ed Estelle Beauchamp, la moglie di Fenrir di Aberdeen, che poteva vantare un meraviglioso manto dorato.

Sarah desiderò poterlo vedere in quelle vesti e, per un istante, fu tentata di chiederglielo ma l’arrivo di Maurinne al suo fianco la fece desistere.

Vagamente preoccupata, la lupa scrutò dubbiosa l’alto e possente Freki prima di domandare: «Va tutto bene, qui?»

«Non preoccuparti, Maurinne, la tua amica sta benissimo. Solo, controlla che non esca da sola. Non mi fido del tizio che ho buttato fuori poco fa, e non vorrei la aspettasse al varco» le ordinò lui prima di allungare una mano verso Sarah e, inaspettatamente, darle un buffetto sulla guancia.

Ciò fatto, se ne tornò al suo posto e Maurinne, fissando l’amica con occhi sgranati, gracchiò: «E da quando in qua, Freki è così… cordiale

Sarah non gli rispose, troppo impegnata a tenere a bada il suo corpo e il fuoco che stava divampando nel punto in cui il licantropo l’aveva toccata.

Il famoso altro di cui stava cercando di scoprire la natura, era finalmente saltato fuori. Peccato che si trattasse del licantropo più scontroso e solitario sulla faccia della Terra.
 
***

Sbadigliando sonoramente, Sarah sorrise grata a Maurinne, impegnata alla guida della sua Seat Ibiza. Alle cinque e mezza del mattino, sembrava fresca come una rosa, e non di ritorno da una festa in discoteca a base di shottini e birra.

Lei, al contrario, era stanchissima – almeno a livello fisico – mentre la sua mente continuava a galoppare frenetica, ritornando sempre al momento in cui Keath l’aveva salutata per tornare al lavoro.

Non voleva dire nulla, era ovvio. Lui era un uomo fatto e finito, con tantissime storie alle spalle e tutte, nessuna esclusa, vissute con lupe mannare dannatamente attraenti.

Non si era mai sentito che Keath avesse avuto, anche solo una volta, una preferenza per una umana e, da quel poco che aveva saputo su di lui, a ben d’onde non si era mai rivolto a nessuna di loro.

Keath era in tutto e per tutto un lupo che, solo per puro caso, aveva le sembianze di un uomo. Era quindi chiaro perché non avesse mai avuto interessi amorosi nella sfera delle umane. Un loro eventuale amplesso avrebbe significato la morte della poverina.

E adesso perché penso a lui che fa sesso?, pensò sgomenta Sarah, avvampando per diretta conseguenza.

L’idea maliziosa, però, non se ne andò e anzi, rimase ben sedimentata nella sua mente tanto che Maurinne, quando fermò l’auto dinanzi al palazzo dove abitava Sarah, fu costretta a scuoterla mentre, con un risolino, le diceva: «Fila a letto. Sembri davvero esausta. Non ti sei neanche accorta che siamo arrivate.»

Volesse il cielo che fosse per quello, se sembro rimbambita!, mugugnò nella sua mente Sarah, dandosi dell’idiota per aver indugiato in simili e lascivi pensieri.

«Ah… grazie per avermi accompagnata. A buon rendere» mormorò poi la ragazza, afferrando il suo cappotto e la borsetta per scendere dall’auto.

«Ti avrei accompagnata comunque ma, visto che c’era di mezzo Freki, ho pensato di non disobbedire» ironizzò Maurinne, ammiccando maliziosa. «Non sapevo che lo conoscessi così bene

«Per la verità, l’ultima volta che ci siamo visti – e parlati – per più di dieci minuti, è stata undici anni fa. Per il resto, credo di averlo intravisto due o tre volte al Vigrond, per gli incontri al Novilunio con Fenrir» borbottò la giovane, aprendo la portiera e sapendo di mentire. Tutte le volte che le era stato possibile partecipare alle riunioni al Novilunio, vi aveva partecipato e, ahilei, soprattutto per vedere Freki.

Il fatto che avesse tenuto ben più che segreta questa sua passione, era indice di quanto si sentisse idiota ad aver fantasticato su di lui e, a quanto pareva, la sua mente era ancora ben radicata su quella cotta adolescenziale.

«Beh, a quanto pare, lui si ricorda bene di te. Avrei voluto che quel buffetto lo avesse dato a me» sospirò dolente Maurinne, portando Sarah a sorridere divertita.

«Tra dieci anni, quando mi ricapiterà di parlargli, glielo dirò» ironizzò Sarah, uscendo e salutando Maurinne, che ripartì per raggiungere casa sua.

Sarah la osservò allontanarsi nella notte e, con passo caracollante e stanco, si diresse verso il portone d’ingresso del palazzo dove viveva da quando era tornata da Parigi.

Frugando nella borsetta per trovare le chiavi, imprecò quando queste caddero a terra con un tintinnio fastidioso e che, nel silenzio della notte, parve assordante.

«Come nel più pessimo film dell’orrore» brontolò tra sé Sarah, piegandosi per raccoglierle.

«Già, davvero come nel più pessimo dei film» disse una voce a poca distanza.

Sarah si irrigidì al solo udirla e, raddrizzandosi alla svelta, scrutò sul fondo delle scale che portavano alla strada. Inorridita, vide l’uomo che l’aveva infastidita al locale e che, chiaramente ubriaco, la stava scrutando con una lascivia oltremodo preoccupante.

Evidentemente, Keath aveva avuto tutte le ragioni del mondo per metterla in guardia; quel tizio le aveva tenute d’occhio alla loro uscita dal locale e doveva averle seguite in auto per scoprire dove abitasse.

«Te l’avevo detto che ti avrei dato una ripassatina» ghignò l’uomo, iniziando a risalire lentamente le scale.

Sarah strinse forte la mano nella sua borsetta, afferrò lo spray al peperoncino che Keath le aveva dato e, per nulla intenzionata a darsela a gambe, si preparò a menare le mani.


 



P.s.: per chi non si ricordasse di Sarah Ellison, vi rimando alla storia che ho dedicato a Joshua. Lei compare lì.
  
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