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Autore: Mary P_Stark    28/05/2019    2 recensioni
Cosa succederebbe se gli dèi dell'Olimpo e gli eroi greci camminassero tra noi? Quali potrebbero essere le conseguenze, per noi e per loro? Atena, dea della Guerra, delle Arti e dell'Intelletto, incuriosita dal mondo moderno, ha deciso di vivere tra noi per conoscere le nuove genti che popolano la Terra e che, un tempo, lei governava assieme al Padre Zeus e gli Olimpici. In questa raccolta, verranno raccontate le avventure di Atena, degli dèi olimpici e degli eroi del mito greco, con i loro pregi, i loro difetti e le loro piccole stravaganze. (Naturalmente, i miti sono rivisitati e corretti)
Genere: Commedia, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eos – 2 –
 
 
 
 
Eos scrutava il cielo all’alba dall’alto di un’altura nei pressi di Kissonerga, dove Delia Basileia, figlia di Artemide ed Endimione, abitava con il marito e il figlio decenne.

Aveva a lungo pensato a come agire, cosa fare e come farlo ma, alla fine di ogni suo ragionamento, giungeva sempre alla stessa risposta. Doveva compiere ciò che Emazione le aveva consigliato fin dall’inizio; far soffrire chi l’aveva fatta soffrire.

Aveva però dovuto attendere la rinascita del suo figlio più riottoso, per poter mettere in atto la sua vendetta, poiché Memnone si era rifiutato di aiutarla in tal senso.

Memnone, il suo figlio più dolce e amante della pace, non era stato affatto d’accordo con quel piano e si era defilato quasi immediatamente dalla madre, una volta conosciute le sue intenzioni.

Venuto però a conoscenza della presenza Emazione sulla Terra, redivivo nel corpo di un umano ma suo fratello in ogni sua parte – sia fisica che caratteriale –, era tornato da sua madre in privato, con un’alternativa che non li esponesse alle ire di Zeus.

Che Eos potesse o meno avere ragione, si doveva tener conto sempre e comunque che Artemide era figlia di Zeus, il signore dell’Olimpo, e scatenare la sua ira non era mai cosa buona.

Un frullo d’ali fece riemergere Eos da quei ricordi e, nell’osservare l’arrivo di suo figlio, sospirò.

Morto per mano di Achille, Memnone era stato graziato dalla mano di Zeus per i meriti ottenuti in vita e, grazie al tocco del dio, era stato tramutato in un magnifico uccello dalle bianche ali e il corpo flessuoso ed elegante di un airone.

Da sempre il più umano e caritatevole tra i suoi figli, Memnone si era sempre dichiarato restio a fare del male alle persone e, nel corso della guerra di Troia, si era distinto per forza e coraggio, interamente spesi per la difesa delle genti troiane.

Achille aveva avuto la meglio su di lui unicamente grazie alla protezione di Teti, ma il Fato aveva comunque preso e strappato ai vivi il Pelide, consegnandolo al mito eterno.

Da quel che Eos sapeva, Memnone lo incontrava ogni tanto, guidato a lui in ogni sua reincarnazione proprio a causa della lotta che li aveva visti avversari.

Al loro ultimo incontro, avvenuto soltanto la settimana precedente nelle selvagge lande dell’est europeo, Achille lo aveva sfidato a una gara di velocità, e Memnone aveva accettato partecipando in forma animale.

Essendo un uccello immortale grazie alla mano di Zeus, Memnone non aveva dovuto affrontare le continue morti e rinascite di Achille o Emazione – che invece avevano vagato con corpi diversi e diverse etnie nel corso dei secoli – ma aveva pagato la sua doppia forma con la solitudine.

Eos era grata agli dèi di poterlo avere ancora con sé, ma non era del tutto certa che il favore chiesto a Zeus tanti secoli addietro rendesse felice il figlio.

Nel recuperare forma umana, Memnone si accostò alla madre e mormorò: “Pensieri tristi di prima mattina, madre?”

“Pensavo a te ed Emazione. Alle vostre vite… avresti voluto il suo destino, piuttosto che questa vita immortale, ma spezzata a metà?” gli domandò la dea, scrutando il suo aitante figlio dalla pelle bronzea e i riccioli scuri.

Memnone non rispose subito, limitandosi a scrutare il mare in lontananza, baciato dai primi raggi del sole.

Il piano di sua madre per vendicarsi di Artemide era stato messo in atto dal fratello che, nelle sue vesti di mortale, aveva fatto irruzione nella casa della dea per consegnare il suo particolare dono.

Da quel che sapeva, ora Emazione era in viaggio per rientrare a Cipro e scorgere con i suoi occhi il risultato del loro piano, una volta che Artemide avesse trovato anche il suo secondo dono.

Sperava soltanto che questo bastasse a sedare la sete di vendetta della madre e, al tempo stesso, non spingesse la dea della caccia ad aprire una seconda faida con Eos. A quel punto, Memnone non avrebbe saputo come fare a salvare sua madre e suo fratello dalla saetta di Zeus.

“Ho vissuto una vita piena, madre, ricca di soddisfazioni e beltà infinite…” cominciò col dire Memnone, scacciando da sé quei torvi pensieri. “… e, anche se non ho potuto concedermi la gioia di un figlio, non rimpiango nulla. Né rimpiangerò la scelta di Zeus di rendermi immortale nella mia doppia forma.”

In quanto figlio di una divinità legata all’alba, Memnone poteva riprendere forma umana solo in quei brevi momenti, dovendo poi tornare nelle sue forme di airone per il resto della giornata.

“Il mondo dei mortali è sempre stato troppo crudele e violento, per te…” ammise Eos, carezzando delicatamente un braccio del figlo. “… forse, dopotutto, Zeus non sbagliò nel tramutarti in un airone.”

“Preferisco vivere così, madre, davvero. E questi tempi infausti non fanno che avvalorare le mie parole” mormorò Memnone, scrutandola poi sofferente. “E’ davvero necessario giocare con i sentimenti della dea della caccia?”

Eos divenne di ghiaccio, a quelle parole, e sibilò furente: “Pensi davvero che, dopo millenni di dolore, io non abbia il diritto di assestare anche a lei un colpo simile?! Ha ucciso l’uomo che amavo!”

“Comprendo più di quanto le mie parole non possano esprimere, madre, ma la vendetta porta con sé altro dolore. Inoltre, se tu chiedessi consiglio alle Pleiadi, loro…” cercò di dire Memnone, azzittito dalla madre con uno sguardo gelido e pieno di livore.

“Non ricominciare con questa storia delle Pleiadi! Non parlerò mai con loro! Sono amiche di Artemide e, per lei, direbbero tutto e il contrario di tutto, pur di difenderla! Ti ho già accontentato, venendo meno al mio piano originale per seguire il tuo. Non chiedere oltre!”

Memnone desistette dai suoi intenti e, quando il sole fu completamente sorto e la sfera luminescente si distaccò dall’ultimo tratto di orizzonte marino, sorrise alla madre e si tramutò in airone.

Con uno stridio melanconico, si alzò quindi in volto e, planando lontano, si allontanò dal sapore di fiele che le parole della madre gli avevano lasciato addosso.

A nulla erano valse le sue preghiere, nel corso dei secoli, a nulla era valso tentare di riportarla alla ragione e a una vita più serena e non vissuta nell’odio e nel rancore.

Eos aveva continuato a rimuginare e a divorare se stessa assieme alla poca felicità rimastale, e il ritorno di Emazione nella sua vita non aveva fatto che peggiorare la situazione.

Bellicoso per natura tanto quanto lui era amante della pace e dell’armonia, Emazione aveva sobillato l’odio della madre, portandolo a vette mai toccate negli ultimi due millenni.

Non contento, aveva escogitato l’assassinio dell’ultimo amante di Artemide, ma a quel punto Memnone era intervenuto atterrito, ricordando a entrambi chi fosse quell’uomo.

Non soltanto era l’ex cognato della dea Atena ma, più di tutto, un caro amico del dio Erebos, divinità Ctonia dai poteri incommensurabili e ben più potente di Eos e di tutto il pantheon olimpico.

Uccidere Felipe Rodriguez avrebbe voluto dire scatenare ire così profonde ed eterne da maledire l’intera umanità – ed Eos ed Emazione con loro – al patimento senza fine.

A quelle parole, anche il riottoso Emazione era tornato sui suoi passi e Memnone, ben conscio di non poterli fermare, aveva dovuto escogitare suo malgrado un piano alternativo.

Sperava soltanto che l’ira della dea Artemide non raggiungesse livelli tali da scomodare il sommo Zeus, o Memnone non aveva davvero idea di come sarebbero finite le cose.
 
***

Materializzandosi sulla terrazza della casa di Delia e Theodoros, suo marito, Artemide cercò con lo sguardo la sua famiglia, impaziente e tremante.

Pur sapendo di aver impiegato solo pochi secondi per arrivare lì, le sembrava di aver tardato una vita a raggiungere la sua bambina e, quando finalmente la vide oltre le vetrate di casa, sospirò.

Subito, Delia la raggiunse, aprendo la porta-finestra a scorrimento con un gesto secco della mano. Gettandosi poi tra le braccia della madre, pianse lacrime dolenti e mormorò scioccata: “Non sapevo davvero che fare, metera… ero sconvolta.”

“Lo so, tesoro, lo so” mormorò Artemide, carezzandole i lunghi capelli biondi e ricci. Proprio come quelli del padre.

Il pensiero la fece irrigidire e, nel guardarsi intorno, domandò: “Theodoros dov’è?”

“E’ con il piccolo Hektor. Ho gridato, quando ho …ho trovato papà, e lui si è messo a piangere. Sta tentando di calmarlo” le spiegò Delia, scostandosi dalla madre per scrutarla con i suoi immensi occhi cerulei.

“Dove lo hai trovato?” domandò roca Artemide.

“Nella dependance, dove viveva quando stava qui da noi” le spiegò Delia. “Vuoi…”

Pur desiderando vederlo con i suoi occhi, fu ligia alla parola data a Felipe e, scuotendo il capo, mormorò: “Devo aspettare l’arrivo di Felipe. Gli ho promesso che non avrei fatto le cose da sola.”

Delia sollevò le sopracciglia con evidente sorpresa e, accennando un sorriso, si terse il viso dalle lacrime e disse: “Finalmente potremo conoscerlo. Mi spiace soltanto che sia per un evento così infausto.”

“Capirà. E’ un uomo che sa adattarsi” ammise la madre, dandole un bacio sulla fronte. “Inoltre, sarà così felice di mettere i piedi a terra, dopo il volo con Hermes, che ti bacerà per la gioia.”

Delia si lasciò andare a un risolino fiacco, asserendo: “Oh, cielo! Pover’uomo! Non oso immaginare come arriverà qui.”

“Gli è capitato di peggio. L’ho smaterializzato, una volta” ammise Artemide, entrando in casa con la figlia.

Delia allora si bloccò sui suoi passi, la fissò con aria accigliata e disse: “Mamma. Ma che sciocchezza hai fatto?”

“Lo so, lo so. Ma ero agitata, quel giorno. Perciò, il peggio lo ha già passato, credo.”

“Gli preparerò una limonata, mentre aspettiamo. Nel frattempo, possiamo dare una mano a Theodoros con Hektor” le propose a quel punto Delia, sospirando.

Artemide assentì e, mentre la figlia si recava in cucina, lei raggiunse le stanze da letto per incontrare suo nipote e suo genero.

Mentre attendeva Felipe, il sistema migliore per non impazzire era stare con il suo adorato nipotino.
 
***

Il suo regno per un cavallo. No, non per un cavallo… per un po’ di terra. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poggiare di nuovo i piedi a terra, e neanche per tutto l’oro del mondo avrebbe mai più viaggiato con Hermes.

Se, sulle prime, il dio si era impegnato nel mantenere una velocità di crociera e un’andatura lineare, dopo solo mezz’ora di viaggio aveva cominciato ad annoiarsi, decidendo così di deliziarlo con la sua bravura di aviere.

Peccato che Felipe non solo detestasse volare, ma neppure si fosse mai lanciato come un pazzo sulle montagne russe come, invece, suo fratello Miguel aveva sempre fatto.

Nella successiva ora e mezzo, perciò, Hermes lo aveva reso edotto sui looping, i tonneau, le virate di Immelmann e altre acrobazie varie, di cui non ricordava affatto il nome, solo la sensazione sullo stomaco.

Il fatto di poter vedere terra all’orizzonte, e sempre più vicina, non poté quindi che rallegrare Felipe che, non appena Hermes decise di rallentare l’andatura per predisporre un atterraggio, borbottò: “Sia ringraziato Dio…”

“Grazie” ciangottò Hermes.

Felipe preferì astenersi dal sottolineare che quel ringraziamento non era affatto rivolto a lui; finché non avesse toccato terra, non si sarebbe lagnato, ma in seguito…

Quando i suoi piedi finalmente toccarono il soffice prato di fronte alla villetta della famiglia Panagulis, qualsiasi pensiero, vendetta, rabbia e paura vennero annullati. Semplicemente, Felipe crollò prima in ginocchio e poi si sdraiò sull’erba, inspirando a pieni polmoni l’aroma della terra e la freschezza del prato sotto di sé.

Hermes, invece, lo fissò accigliato dalla veranda dove aveva terminato il suo atterraggio, e borbottò: “Ma che esagerato!”

La porta-finestra scorse lentamente si mosse alcuni attimi dopo, facendone uscire Delia che, sorridendo appena allo zio, mormorò: “Che hai combinato con quel pover’uomo?”

“Non ha lo stomaco degli avieri, ecco tutto” si lagnò Hermes, allungando una mano per afferrare un bicchiere di limonata dal vassoio che teneva Delia.

Lei, però, lo allontanò dalla sua traiettoria di tiro e disse: “Non è per te. Vai a trovare Hektor, mentre io mi prendo cura della tua ultima vittima.”

“Siete tutti insopportabili” brontolò il dio, entrando in casa e lasciandoli soli.

Delia, allora, lasciò il vassoio sul tavolo in veranda e, dopo aver tolto le infradito, affondò con i piedi nell’erba e si avvicinò lentamente a Felipe, che sembrava davvero troppo stremato, per alzarsi.

Quando, però, l’uomo avvertì un fruscio di abiti avvicinarsi a lui, levò prima il volto e poi l’intero corpo, mettendosi seduto e osservando sorpreso la donna dinanzi a lui.

Era indubbia la sua beltà, così come i tratti perfetti del volto, ma ciò che lo colpì maggiormente furono gli occhi; di una bontà incredibile e pieni di infinito dolore.

Levatosi in piedi, Felipe si spazzolò i pantaloni e, allungando una mano, sorrise e disse: “Scusa se ti sono svenuto praticamente nel prato. Io sono Felipe Rodriguez.”

“Ho sperimentato a mia volta le dubbie capacità di volo di mio zio, perciò hai tutta la mia comprensione” replicò la donna, stringendola sua mano protesa. “Io sono Delia. Mi spiace di conoscerti in quest’occasione.”

Adombrandosi, Felipe allora cercò con lo sguardo Artemide e Delia, accompagnandolo con un gesto verso la veranda, aggiunse: “E’ in camera di mio figlio, assieme a mio marito. Sono… beh, ecco, ho dato un po’ di matto, quando ho trovato mio padre senza…”

Felipe sgranò gli occhi, addolorato al pensiero che proprio lei fosse stata costretta a scoprire Endimione in quelle condizioni e, sgomento, mormorò: “Sono davvero spiacente, Delia.”

Lei accennò un sorriso di ringraziamento e, indicandogli la limonata, disse: “Prendila. Ti rimetterà a posto lo stomaco. Ne avrai bisogno, visto che mamma ti ha aspettato per vedere papà.”

Pur lieto che Artemide avesse mantenuto la parola data, non osò immaginare quanto, al momento, fosse furiosa e inappagata perciò, ingollando in fretta l’ottima limonata, guardò determinato Delia e dichiarò: “Andiamo pure.”

La donna annuì e lo accompagnò dentro casa, dove chiamò la madre per avvisarlo dell’arrivo di Felipe.

Subito, Artemide si catapultò nel salone e lì, in barba a tutto, lo abbracciò stretto per alcuni istanti prima di prendere il suo viso tra le mani, scrutarlo con attenzione e borbottare: “Hermes, …fagli venire ancora una volta gli occhi rossi, e giuro che dirò tutto a paparino.”

“Non c’è giustizia per gli artisti, ecco cosa” si lamentò Hermes, comparendo a sua volta nel salone e tenendo in braccio Hektor, mentre alle sue spalle procedeva Theodoros, l’aria ancora piuttosto sbattuta.

Artemide lo frizzò con un’occhiata omicida ma, non volendo perdere altro tempo, dichiarò: “Tieni Hektor, Hermes, mentre noi andiamo da Endimione.”

“D’accordo” assentì la divinità, uscendo con il nipote nell’ampio giardino.

Delia, allora, prese per mano il marito, si avviò lungo il corridoio per raggiungere la dependance e Artemide, nell’affiancarsi a Felipe, domandò in un sussurro: “Stai bene?”

“Sono stato meglio ma, di sicuro, tornerò in aereo” la mise al corrente lui, dandole un colpetto con la spalla.

Sapeva bene che Artemide non voleva essere coccolata né vezzeggiata, in quel momento. Aveva soltanto bisogno della sua presenza, del suo appoggio, e quelli non glieli avrebbe fatti mancare per nulla al mondo.

Pronto a tutto, seguì quindi il piccolo drappello fino a raggiungere una graziosa dependance in tipico stile greco, con bianche pareti stuccate, scuri in legno dipinti di blu e alcuni cactus sui fianchi dell’entrata.

Fu Theodoros ad aprire la porta e, trattenendo Delia al di fuori del piccolo appartamento, mormorò: “Preferisco che non lo riveda.”

“E’ giusto” assentì Artemide, oltrepassando lo stipite, subito seguita da Felipe.

Non appena entrò, l’odore della morte colpì le sue narici come uno schiaffo e la dea, accigliandosi, osservò il corpo riverso sul letto, le lenzuola sgualcite e la lieve macchia di sangue sul cuscino.

Anche Felipe osservò la scena, aggirò il letto per meglio controllare la scena del crimine e, adombrandosi in viso, asserì: “Artemide, è impossibile che sia morto per decapitazione.”

Artemide lo fissò per alcuni istanti come se fosse stato un pazzo ma Felipe, indicando la macchia esigua sul cuscino, aggiunse caparbio: “Pensaci, Arty. Un corpo vivo produce molto più sangue di così, con le arterie principali recise di netto. Non può essere morto per questo, oppure hanno spostato il corpo qui in un secondo momento.”

Sempre più scura in volto, Artemide si accucciò accanto al corpo e sibilò irritata: “Che diavolo sta succedendo, qui?”

“Aveva dei segni distintivi, o qualche tatuaggio, per poter asserire che questo è veramente il corpo di Endimione?” le domandò a quel punto Felipe, colto da un orribile dubbio.

Artemide sgranò gli occhi, a quella domanda e, pur dopo un istante di reticenza, afferrò il braccio destro del corpo esanime e lo sollevò lentamente.

Attenta, scrutò in prossimità dell’ascella e, cominciando a ringhiare come se fosse stata uno dei suoi segugi, si rialzò piena di livore e urlò: “Chi ha mai fatto questo?!”

“Non è lui, vero?” domandò Felipe, pur immaginandosi la risposta.

Artemide riuscì soltanto ad annuire, la rabbia a renderla muta e tremante.

L’icore tornò a brillare nel suo corpo fino a farla rifulgere e Delia, nel vedere quella reazione nella madre attraverso la porta aperta, si affacciò leggermente e mormorò turbata: “Cosa succede?”

Felipe la fissò sollevato, ma non scevro di domande, e disse: “Non è tuo padre. Artemide lo ha appena scoperto, ma resta da capire chi sia, e perché sia qui.”

Delia si coprì la bocca con la mano, piena di sgomento, ed esalò: “Ma… i suoi vestiti… la sua pelle…”

“E’ un umano qualsiasi che gli somiglia, ma non è lui” sibilò a quel punto Artemide, volgendosi a mezzo per guardare Delia. “Quel che mi chiedo ora, è… cosa diavolo ho visto, sulla porta d’entrata, a questo punto?”

Felipe tornò con i ricordi a quel momento, ai pochi attimi prestati all’osservazione di quella testa mozzata, al desiderio di Artemide di non guardarla una seconda volta. Forse, se avesse insistito per controllare l'involto a sua volta, non sarebbero arrivati a quel punto.

Colto da un dubbio terribile, estrasse il cellulare dalla tasca, digitò un paio di parole e, avvicinandosi ad Artemide, domandò: “Chi vedi, qui?”

Strabuzzando gli occhi, la dea esalò: “Ma… lady Diana è morta! E’ una foto di repertorio, vero?”

“E’ una statua di cera di Madame Tussauds, Arty” gli spiegò Felipe, allontanando il cellulare. “Ho il fortissimo dubbio che la testa che abbiamo visto sia, in realtà, un artefatto ben congeniato, il tutto allo scopo di farti impazzire di dolore, di ferirti per qualche motivo.”

Artemide non riuscì a dire nulla e Delia, abbracciandola per chetarne il tremore crescente, domandò: “Chi può volere una cosa del genere?”

“Non lo so ma…” cominciò col dire Felipe prima di digitare un numero sullo smartphone e dire: “Sì, ciao Athena. Scusa se non eravamo a casa, quando siete tornati. Abbiamo avuto un’urgenza e… sì, Aster è a casa di Arty.”

“Il fatto che ci sia Aster, non depone a favore della vostra assenza. Che diavolo sta succedendo, chico?” domandò turbata la dea.

Felipe sorrise divertito, di fronte a quel nomignolo che avrebbe potuto andare bene più ad Alekos, che a lui, ma soprassedette. Una dea millenaria può chiamarti ‘bambino’ visto che, ai suoi occhi, lo sei davvero.

“Dovresti farmi un favore e, prima che tu ti spaventi, credo che ciò che vedrai sia assolutamente un falso. Davanti alla porta di casa di Arty c’è un involto. Dovresti controllare che sia davvero fasullo” le spiegò allora Felipe.

Athena borbottò contrariata: “Parli per enigmi, e la cosa non mi piace, comunque controllerò… stai buono, Aster. E dire che dovresti conoscermi.”

Felipe accennò un mezzo sorriso e attese. In sottofondo si potevano udire senza problemi i latrati di Aster e le proteste di Atena, mentre la voce calma e suadente di Érebos tentata di calmare il segugio.

Ci vollero una decina di secondi ma, quando sentì Athena imprecare, Felipe seppe che aveva trovato ciò che le aveva indicato.

“Ma chi diavolo ha pensato di fare una pagliacciata simile?! So anch’io che Artemide è partita subito per Cipro!” sbottò Athena, smoccolando subito dopo. “E’ la copia sputata di Endimione!”

“Ti spiegherò tutto dopo. Per ora grazie per la conferma” disse Felipe, chiudendo la comunicazione.
Annuendo infine ad Arty, l’uomo disse: “Come immaginavo. Era in lattice. Perfettamente confezionata, tanto che anche Athena credeva fosse Endimione.”

A quel punto, l’ira di Artemide divenne fisica e Delia, scostandosi dalla madre, esalò: “Metera, che succede?”

La dea non rispose, sapendo di essere rovente come il fuoco a causa della rabbia che divampava dentro di lei, ma Felipe non si scoraggiò e la avvicinò per calmarla.

In barba al dolore che provò nello sfiorarle il volto per una carezza, Felipe mormorò: “La mia dea preferita è superiore alle minacce, ricordi? E’ superiore a tutto. Anche a questo.”

“Stenterei a crederlo possibile” sibilò Artemide, cercando di scostarsi per non ustionare Felipe.

Lui, però, la afferrò alla nuca, trattenendolo e, sorprendendo la dea, la avvolse in un abbraccio e aggiunse: “Cheta la tua ira e pensa a come comportarti. Limitarti a rispondere all’ingiuria non porterà che ad altro dolore, lo sai. L’hai detto tu stessa: l’onore di una dea era importante. Ora sono altre le cose che ti stanno a cuore.”

Artemide avvolse Felipe a sua volta, trattenendo la sua foga e tornando normale poco alla volta e, nel poggiare la fronte contro la sua spalla, mormorò tesa: “Stai rischiando grosso, mortale, a dire che il mio onore non conta più, ora come ora.”

Felipe sorrise, massaggiandole la schiena, e replicò: “L’unico problema è che non sai perdere, Arty, e sbarelli con niente. Devi rimanere calma e ragionare.”

“Mi stai paragonando ad Ares, per caso?” mugugnò Artemide, risollevando il viso per scrutarlo torva.

“Non lo conosco così bene per poter giudicare…” ammise Felipe, avendo visto il dio spartano solo un paio di volte. “… ma direi che, se il mito è anche solo in parte fedele, quella accorta è Athena, e lui è lo schiacciasassi.”

“Abbastanza veritiera, come spiegazione, pur se anche Athena ha i suoi momenti” borbottò Artemide, mordendosi pensierosa il labbro inferiore prima di scostarsi, afferrare le mani arrossate di Felipe e aggiungere: “Scusa.”

“Sono abituato ai tuoi momenti. Fa niente” replicò lui, facendo spallucce e sorridendo a Delia, che ora appariva più tranquilla. “Pensaci bene, Arty. Chi, tra coloro che hai affrontato nei secoli, potrebbe avercela così tanto con te da ordire un piano così intricato per farti soffrire.”

Artemide tornò a scrutare il corpo esamine steso sul letto e, aggrottando la fronte, asserì per contro: “Quello che mi sto domandando io ora è un’altra cosa: perché farmi soffrire, ma non uccidere Endimione? Sembra una cosa fatta a metà.”

Detto ciò, scrutò poi intensamente Felipe e aggiunse ombrosa: “Ma soprattutto… perché colpire Endimione, quando persino i sassi sapevano che non stavamo più assieme?”

“Io non lo sapevo” sottolineò Felipe.

Artemide sbuffò e replicò: “Intendevo dire tra gli immortali.”

L’uomo levò confuso un sopracciglio, ma fu Delia a rispondere alla domanda della madre, e dire: “Avrebbero dovuto colpire te, Felipe, per far soffrire come non mai mia madre. Chi l’avesse tenuta d’occhio, lo avrebbe capito subito.”

Impallidendo leggermente, Felipe si ritrovò a tossicchiare turbato e Theodoros, poggiato allo stipite della porta, chiosò: “Voi signore siete delicatissime, nel far penzolare una simile Spada di Damocle sulla testa di un uomo.”

Arrossendo suo malgrado, Delia mormorò: “Cielo, scusa, Felipe! Andavo a tentativi, ma mi è sembrata un’ipotesi plausibile.”

Anche Arty si scusò, carezzando il viso turbato di Felipe che, però, replicò: “Per quanto la cosa non mi piaccia, Delia ha ragione.”

La dea della caccia allora asserì: “Dando per scontato questo, chi vorrebbe farmi soffrire, ma solo un po’? Perché questa gentilezza, se così la vogliamo vedere?”

“E’ una contraddizione in termini…” ammise Theodoros. “…oppure, un estremo tentativo di placare la tua ira ma, al tempo stesso, accontentare chi ti voleva vedere prostrata dal dolore.”

Artemide assentì al genero, ammettendo: “Certo, al momento sono furiosa perché, sicuramente, questo scherzo terribile non mi è affatto piaciuto e, anche se non sappiamo dove sia Endimione, possiamo dare per scontato che sia vivo, altrimenti avrebbero usato davvero la sua testa e il suo corpo, per farmi ammattire.”

Tutti assentirono e la dea, massaggiandosi il mento, aggiunse: “Stando così le cose, non mi sognerei mai di chiamare mio fratello o, peggio ancora, mio padre, per chiedere vendetta. Mi limiterei a sbrigarmela per conto mio.”

Prima ancora che i presenti potessero dire qualsiasi cosa, Hermes gridò dal giardino: “Artemide! Abbiamo visite!”

A chi diavolo si stava riferendo?

Arty e gli altri si riversarono quindi come un fiume in piena nel giardino e lì, elegante e flessuoso, Memnone nelle sue forme di airone se ne stava in piedi accanto al laghetto artificiale, in attesa.

Subito, Artemide fece comparire con uno schiocco di dita la sua magica rete da caccia ma Felipe, bloccandola a un braccio, asserì: “Non so chi sia, perché immagino non sia un semplice uccello, ma guardalo. E’ venuto di sua spontanea volontà, non ha paura ed è solo.”

Suo malgrado, Artemide assentì e, nel gettare la rete a terra – per il momento non l’avrebbe usata – disse: “Parla, Memnone, e dimmi cosa porta qui al mio cospetto un figlio di Eos.”

Nell’udire quel nome, i presenti – tolto Hermes – scrutarono sorpresi la dea della caccia che, occhi negli occhi con lo splendido volatile, attendeva impaziente una sua risposta.

Una risposta che, almeno a giudicare dallo sguardo della divinità, sarebbe o meno costata la vita al figlio immortale di Eos. Perché, che ne dicessero i miti, esisteva anche il sistema per uccidere un immortale. E Artemide sapeva a chi chiedere.





N.d.A.: ligia alla promessa di non far più soffrire nessuno come ho fatto con Athena e Miguel, ho optato per questo "scherzo" di cattivissimo gusto - anche se resta da capire di chi sia il corpo, e dove sia Endimione - che sta facendo andare fuori di testa Artemide. 
Memnone ha deciso di esporsi in prima persona per impedire che Eos e Artemide vengano allo scontro diretto, ma la sua strategia avrà successo? Oppure Arty si darà nuovamente alla caccia, e stavolta per predare Memnone?
  
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