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Autore: kurojulia_    01/06/2019    1 recensioni
Yuki ringhiò, stringendo i denti in una morsa dolorosa. Dannazione. L'unica cosa che potevano fare – l'unica che avesse un po' di senso, per lo meno – era quella di levare le tende. Eppure, la sola idea di lasciarli continuare a vivere, impuniti, la faceva impazzire come il più spregevole dei demoni. Se fosse dipeso da lei, sarebbe rimasta nella neve fin quando essa non le avesse raggiunto le ginocchia, e avrebbe continuato ad ucciderli. Fino all'ultimo.
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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26.



Ne avevano dette, di cose, quel pomeriggio. Ne avevano dette forse più del dovuto perché, quando giunsero di fronte alla porta d'ingresso di casa Katugawa, improvvisamente si ricordarono del grande enorme ostacolo che si voleva frapporre tra loro e la tanta agognata pace – anzi, a dirla tutta, dovevano fronteggiare ben due ostacoli.

Purtroppo, o per fortuna, non potevano sfuggirgli.

«Sto grondando di sudore», bisbigliò Yuki, trascinando i palmi delle mani sulla gonna, nel vano tentativo di asciugarle. «Lo so che appena dieci minuti fa ti avevo promesso che ce l'avremmo fatta e tutto il resto, ma credo di aver parlato troppo presto». L'albina fece un sorriso, forzato e sarcastico, rivolgendo i grandi occhi verso il ragazzo. Anche lui, dal canto suo, sentiva i nervi a fior di pelle.

Il momento per vuotare il sacco era arrivato. Era arrivato decisamente prima di quanto aveva pensato, a distanza di qualche misera ora. «Io non ho nessuna intenzione di tirarmi indietro». Guardava di fronte a sé, più serio di lei, forse persino più pronto – poi le sorrise. «Non ti preoccupare. Mal che vada facciamo una fuga d'amore».

Yuki ridacchiò, coprendosi la bocca con le mani. «Idiota».

«Grazie».

 

I due si guardarono per un'ultima volta, pensando alla stessa identica cosa – "fa che vada tutto bene" – e Takeshi premette il tasto del citofono. Al di là della porta, l'albina udiva i passi energici di Misaki, nitidi e chiari come se le fosse accanto.
Forse... forse, rivelare tutta la verità a Misaki e Takahiro non sarebbe stata una catastrofe come avevano predetto; magari, loro due avrebbero potuto continuare la loro vita insieme, magari lei avrebbe potuto continuare a camminare su quella Terra, senza che l'intera popolazione la cacciasse a suon di forconi.

Poi la porta si aprì e la donna – tanto amata quanto temuta – fece la sua apparizione sull'uscio, sorridente. «Bentornati! Siete tornati piuttosto presto, vi siete stancati?». Di fronte al suo sorriso, alla sua ospitalità, Yuki si sentì venir meno; solo pensare che le aveva mentito dal primo istante era abbastanza. A quanto pare, l'unica verità erano stati i loro nomi.

 

 

Takeshi ricambiò il sorriso della donna, forse leggermente meno lieto. Socchiudendo le palpebre, la mezzosangue intravedeva la mandibola contrarsi e irrigidirsi, come la corda di un violino – ben tesa. «Siamo tornati», rispose lui. «Sì, diciamo che ci siamo stancati. In parte, per lo meno».

Era colpita. Takeshi aveva un sangue freddo invidiabile. Non si scomponeva più di tanto, nonostante fosse un essere umano come tanti altri – anche se, più di una volta, aveva dimostrato di non essere per niente comune.

Doveva essere coraggiosa, almeno quanto lui.

Prese fiato. «Misaki-san».

«Sì?».

«Dobbiamo parlarle di una cosa importante».

Misaki fece una pausa. «Certo, vabbene, vi ascolterò. Prima però entrate, cambiatevi, fatevi un bagno».

Ma Yuki scosse il capo, lentamente, chiudendo gli occhi. «Credo sia meglio che non mi cambi. Almeno, non io».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Nel soggiorno, illuminato dolcemente dalla luce in cucina, regnava il più totale silenzio. Ad un certo punto, si sentirono le voci di Ai e Shin, il secondo rideva, la prima ridacchiava, gli diceva di abbassare la voce – per non disturbare, sicuramente. Poi tutto tornò a tacere.

Fuori dalla vetrata era buio. Misaki aveva lo sguardo fisso sul tavolino di fronte alle sue ginocchia, le mani chiuse su queste. Finalmente la donna fece un movimento, sollevando gli occhi verso sinistra, alla discesa inghiottita dalle tenebre.

«Mi state prendendo in giro?», fu la prima cosa che le uscì dalle sue labbra.

Takeshi ne guardò il profilo, i tratti tipicamente asiatici, gli occhi a mandorla ben aperti. «No», rispose. «Non ti stiamo prendendo in giro. È la più assoluta verità». Nonostante quell'assurda rivelazione, Misaki era imperturbabile.

Ma questo sembrava quasi peggio.

 

 

Mentre Yuki pronunciava quelle frasi - «non sono un essere umano» - pensava che vedersela con la sua rabbia e il suo disgusto sarebbe stata la peggiore punizione del mondo, ma giusta; invece, il suo silenzio e quell'apparente calma erano decisamente peggio. Quella sì che era una punizione con i fiocchi. Yuki voleva solo sentirle dire qualcosa – qualsiasi.

«Quindi è vero, eh... », Misaki, a quel punto, si voltò verso Yuki. La prima era seduta sul divano, la seconda sulla poltrona, e Takeshi era proprio affianco a lei, in piedi. Gli occhi scuri di Misaki si fecero più stretti sulla figura della mezzosangue, come se volesse analizzarla. «Ho diverse domande, allora. Prima di tutto, tu sei un vampiro e un demone. Una... mezzosangue, hai detto. Quindi, cosa ci fai qui? Qui in questa città, qui in mezzo a noi persone comune?». Per un attimo, la donna sembrò tentata di guardare suo figlio, ma non distolse lo sguardo. «Perché sei accanto a mio figlio?».

 

Misaki non avrebbe voluto suonare così minacciosa – e fredda. Tuttavia, le parole erano scivolate da sole.

 

Ma le domande persistevano. Perché mischiarsi fra quelle gracili creature, d'altronde?

 

Yuki si torse una mano con l'altra, stringendo le labbra. «Questo è– ».

«Complicato?». La donna espirò profondamente, ed annuì. «Sì, immagino lo sia. Sin dal nostro primo incontro, tu mi hai dato l'impressione di aver dovuto affrontare un'infinità di difficoltà». Da quando lei e sua sorella avevano varcato la soglia, con un passo leggero e instabile, una specie di barcollamento. L'aveva guardata in viso e aveva subito notato quella bellezza quasi astratta – con una tale bruttezza negli occhi. «Ho capito, è complicato».

 

Aspettarono.

 

«Takahiro e Shin non possono saperne niente. Shin, più avanti, potrà venirne a conoscenza se vorrete, ma tuo padre... non lo so. Sarà una vostra decisione. L'unica condizione è che ne parliate molto più avanti, con entrambi».

 

Yuki e Takeshi alzarono lo sguardo, sbalorditi, meravigliati. Si guardarono, incapaci di capire, e poi tornarono su Misaki. «Ma», balbettò l'albina. «davvero?»

Misaki si stava già alzando, avvicinandosi al tavolo da pranzo. La donna accennò un sorriso, ruotando il viso verso la coppia. «Mi sono chiesta», disse. «perché aveste deciso di parlarne. Potevate conservare il ricordo con voi fino alla fine, invece avete deciso di dire tutto. Alla fine ho capito: per voi è troppo importante». La donna sollevò la mano, posandosela sul cuore. «Grazie. Grazie per avermi resa partecipe. Per avermelo detto».

 

Yuki sentiva le lacrime premere per uscire, ma deglutì, ricacciandole indietro. «No», mormorò. «Grazie a lei».

Misaki ridacchiò, scuotendo la mano. «Direi che a questo punto puoi anche darmi del tu, no?».

«Ah, beh... allora, grazie a te, Misaki-san».Anche l'albina accennò una risata, emozionata, quando poi sentì un calore familiare sulla spalla. Takeshi, accanto a lei, le sorrise – il viso in penombra. Erano accadute così tante cose... si sentiva frastornata, sballottata, triste e felice. Non aveva mai provato così tante cose insieme. E tutto questo lo doveva a lui. Tutte quei sentimenti, belli e fastidiosi, li doveva a lui.
Con la bocca socchiusa, rimase ad ammirare il viso di Takeshi, imprimendosi nella mente i suoi tratti, i ciuffi di capelli più scompigliati, le ciglia intorno agli occhi.

 

Non avrebbe mai dimenticato quella visione.

 

 

 

Quella notte, Yuki andò a dormire sul divano parzialmente serena. Un grande, enorme problema era stato risolto. La questione non poteva dirsi conclusa completamente, ma la benedizione di Misaki risolveva il 90% del dilemma – e loro due l'avevano conquistata.

Yuki osservava il soffitto del soggiorno, fievolmente illuminato dalla luna, una luce fredda e confortevole.

Il lato migliore di me, pensò, voglio mostrarglielo. Così, Misaki potrà star sicura di non aver commesso uno sbaglio, accettando tutto questo...
Quella stessa mattina avrebbe pensato fosse un'impresa impossibile. Adesso invece, sentiva il petto formicolare, un calore espandersi e toccare tutti i suoi muscoli – poi capì che quello era rilassamento, e cadde in un sonno profondo, il primo dopo due settimane.

 

Sognando Oseroth, le sue braccia incrociate e il suo testardo sorriso.

 

 


 

***

 

 

 

 

Tetsuya si passò una mano tra i capelli, scostandoli dagli occhi.

Era una serata ventosa, eppure non troppo fredda, e il vampiro continuava a litigare con i capelli sin da quando aveva messo piede fuori dal Consiglio; le strade erano scarsamente popolate, ogni venti metri ti capitava di imbatterti in qualche adolescente insieme i suoi amici, qualche famiglia che si stava già pregustando il ristorante, e poi per i prossimi cinquanta passi il nulla più totale.

Il biondo infilò le mani nelle tasche della giacca in camoscio, arrendendosi con le ventate.

 

Sin dal suo ritorno in quella città, aveva pensato alla sua vecchia casa. Ci aveva messo qualche tempo e un bel po' di coraggio e, alla fine, ci era andato. Naturalmente, la casa era morta sotto la morsa della natura. Ricoperta dall'edera, dalle foglie, dalla polvere e probabilmente da animali, sembrava più una rovina che una casa.
Allora se n'era andato, voltando le spalle a quel posto per la seconda volta, e aveva preso alloggio al Consiglio. Non era un bel posto, ma era meglio che dormire nel bosco.

O almeno credo, comincio ad avere qualche dubbio, pensò il vampiro, svoltando l'angolo, capitando nella salita-discesa.

 

Comunque, pensava che avrebbe sofferto alla vista di quel luogo, ma non era stato così doloroso – per fortuna o... per sfortuna?

Mentre percorreva il marciapiedi della salita-discesa, passò di fronte al negozio di fiori Ichinomiya e istintivamente abbozzò un sorriso. «Chissà come se la sta cavando», bisbigliò, passando oltre, tornando a guardare la strada. «Speriamo non stia annegando la tristezza nel cibo... ».
Anche Sayumi aveva sofferto per la morte di Oseroth: tutti, a dir il vero. L'unica differenza era che ognuno di loro aveva processato la sua scomparsa a modo proprio. Tetsuya, quando finalmente aveva avuto il tempo, aveva riversato tutto nel silenzio. Seduto sul letto, con la testa fra le mani.

Ma ora stava bene. Non poteva di certo trascinarsi l'angoscia all'infinito. C'era chi aveva bisogno di lui...

 

Scrollò la testa, disfacendosi dei pensieri – accorgendosi di aver superato la casa di Takeshi di qualche passo. Roteò gli occhi e tornò indietro, infine schiacciò il tasto del citofono.

Dall'altra parte, rispose una voce femminile. «Sì?».

«Sono Tetsuya Tanigawa. Ho appuntamento con Takeshi».

«Ah, Tanigawa-san! Prego!».

 

Il microfono del citofono emise qualche ronzio e poi si zittì. Il cancello scattò, e il biondo lo spinse per entrare nel vialetto, mentre la porta d'ingresso veniva lentamente aperta.

«Benvenuto!», esordì Misaki, apparendo con un bel sorriso. «Prego, entra. Takeshi e Yuki ti stavano aspettando».

«Ah... ». Il vampiro aggrottò la fronte ed annuì, indeciso. Lui e la signora Katugawa si erano incontrati una volta, per la bellezza di cinque secondi, perché subito dopo Takeshi l'aveva trascinato via. Sembrava una donna molto socievole ed energica, ma... sembrava anche consapevole. «Bene, la ringrazio... ».

«Oh», fece Misaki, accennando una risata. Si spostò di lato, lasciando entrare il ragazzo. «Non ti devi preoccupare di fingere. Sei un... vampiro, giusto? Spero di non aver sbagliato!».

Al suono di quella frase, Tetsuya quasi inciampò sul gradino. Spalancò gli occhi, drizzando la schiena. «Mi scusi, cos'ha detto?». Doveva aver sentito male. «Potrebbe ripetere?».

 

Misaki richiuse la porta di casa e ne sistemò la catenella al suo gancio, una volta che il biondo fu all'interno. Quando si voltò, aveva un espressione parecchio divertita. «Troppo spiazzante? I tuoi amici mi hanno spiegato tutto!», disse. «O per lo meno, mi hanno detto molte cose. E in effetti, a guardarti meglio, sei fin troppo bello per essere un umano».

 

Tetsuya sbatté le palpebre, con un principio di tic nervoso all'occhio sinistro. Questo era troppo. Ma che diavolo avevano in testa? Arrivare a svelare tutto quanto all'ennesimo essere umano... poteva capire Takeshi, ma non Yuki. Era forse ammattita?
Per quanto la sua situazione fosse delicata, confidando un segreto come quello metteva in difficoltà migliaia di persone. Migliaia di compagni.

La donna, con ogni probabilità, aveva notato l'irrequietezza del biondo, sebbene lui stesse indossando una calma totale. Lo vedeva però stringere i pugni, irrigidire la mandibola e spostare lo sguardo di lato, su un punto casuale della parete, a schivare quello della giapponese.
Allora Misaki si tolse il sorriso e gli toccò il braccio con la mano, con delicatezza, inducendolo a girarsi. Tetsuya, meccanicamente, guardò la donna negli occhi.

«È molto maturo da parte tua preoccuparti, ma non hai motivo di allarmarti. Il vostro segreto è al sicuro. Non lo dirà ad anima viva».

 

Non si fidava degli umani. Ne faceva volentieri a meno. Ma doveva ammetterlo, Misaki Katugawa valeva il gioco – valeva il pericolo.

Tetsuya sospirò, annuendo lentamente. «Vabbene. Mi fiderò di lei», anche perché non aveva molte alternative. Sicuramente non avrebbe ucciso la mamma del suo amico più caro.

Misaki sorrise, spostando la mano. «Grazie».

 

 

«Tetsu!». Proprio quando il vampiro stava per chiedere di loro, Yuki, Takeshi e Ai fecero il loro ingresso dal corridoio, attraversando la porta già aperta. Yuki si apprestò a raggiungere l'amico e Misaki, ringraziando la donna per averlo accolto e scusandosi per il disturbo.
Mentre le due parlavano, il vampiro squadrò la scena alzando un sopracciglio – mah, sembra stare bene, pensò.

«Tetsu, abbiamo delle cose di cui parlare», esordì Takeshi, raggiungendo l'amico insieme alla mezzosangue più piccolo.

«Lo credo bene. Ha a che fare con la vostra perlustrazione, vero?».

Takeshi annuì. «Sì, noi... », si fermò, appena in tempo. Avevano deciso che la piccola Ai avrebbe dovuto rimanere all'oscuro di quella faccenda perché, probabilmente, la bambina era parte in causa di quell'attacco. Takeshi si spazzolò i capelli sulla nuca, non del tutto tranquillo. «Volevamo riflettere con te sulla questione. Parlarne potrebbe far emergere qualche indizio».

Poi Takeshi fissò le iridi in quelle viola di Tetsuya – il vampiro tacque per qualche istante. «Beh, allora, mentre noi parliamo, Ai potrebbe fare una telefonata a Sebastian», il vampiro sorrise, piegandosi verso la rossa. «Non fa che continuare a chiedere di te. Sia lui che Kukuri vogliono assolutamente sentire la tua voce. Perché non li accontenti?».

«Sebastian e Kukuri?», ripeté Ai, tirando un lembo del suo vestito, distrattamente. «A volte sembrano proprio dei bambini! Lo sanno che sto con la sorellona, che motivo hanno di preoccuparsi così tanto?». Ai sospirò, teatralmente, e allungò il braccio verso il biondo. «Per favore, cedimi il tuo telefono cellulare. Accontenterò quei due, non voglio essere la causa delle loro notti insonni!».

 

Sei proprio una principessina, pensò Tetsuya – ridendo, di quella piccola aristocratica tanto forte.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Mentre Ai faceva la sua telefonata, il trio si andò a rinchiudere – porta sigillata – nella camera di Takeshi; lei e Tetsuya sul bordo del letto, il bruno sulla sedia della scrivania, trascinata di fronte ai due. Takeshi ruotò la sedia al rovescio e incrociò le braccia sullo schienale, appoggiandoci il mento.
Quando furono certi di essere completamente soli, Tetsuya esordì: «Allora, com'è andata a casa? Non avete voluto dirmi niente fino ad ora, quindi sono alquanto curioso».

«Abbiamo ispezionato ogni angolo della casa», rispose la mezzosangue, tamburellandosi il ginocchio con le dita. «e non abbiamo trovato un accidenti. Una cosa è certa, si sono divertiti parecchio»

Il vampiro socchiuse le palpebre. «Era ridotta male, immagino».

Lei chiuse la bocca in una linea rigida.

«Hanno dato il peggio di loro», osservò Takeshi. «Ciò che mi chiedo è: perché? Se stavano cercando qualcosa o qualcuno, allora non avrebbe avuto senso radere al suolo le stanze. Capisco che volessero lasciare un segno, ma... », il ragazzo aggrottò la fronte. «È al limite della stupidità».

«In effetti, Take ha ragione. Se io fossi stata mandata con quell'intento, avrei cercato di farlo silenziosamente».

«Allora è così. Non volevano appropriarsi di nulla». Tetsuya accavallò le gambe ed incrociò le braccia al petto. «E questo vuol dire che non volevano nemmeno rapire Ai».

 

Yuki e Takeshi si guardarono stupiti. «Come fai a... ?», chiese la mezzosangue.

«Mi sembra chiaro; non volevate nemmeno accennare dell'ispezione a casa mentre c'era Ai, quindi, probabilmente, lei c'entrava. E a parte questo... », il vampiro abbassò le sopracciglia sugli occhi. Sul suo viso si palesò un'ombra cupa, quasi minacciosa. «Solo gli dei sanno quanto siano devastanti i suoi poteri. Gli dei e anch'io, sebbene parzialmente».

 

Giusto.

Era un fatto accaduto già parecchio tempo fa – wow, i mesi erano passati alla velocità della luce! – ma, in ogni caso, non era stato di certo dimenticato; Ai, la secondogenita Akawa, aveva usato i suoi poteri su Tetsuya, prendendo il totale controllo del giovane uomo, della sua mente, del suo corpo. Tutto ciò che i suoi occhi avevano visto era stato filtrato dalla ragazzina ed era giunto a lei, infestandola come una nube.
Yuki si passò una mano dietro la testa, increspando la fronte. «Cavolo, ogni tanto me ne dimentico», disse. «Quella bambina ha bisogno di una bella sgridata».

«Ormai è acqua passata. Se non altro, mi ha insegnato a non sottovalutare i bambini d'oggigiorno».

 

Yuki sorrise. Quindi, Ai si poteva dire al sicuro. Non si sentiva totalmente certa. D'altro canto, avrebbe capito come stavano le cose solo con ulteriori indagini, quindi per il momento doveva accontentarsi di quelle deduzioni. «Allo stesso modo, Anima non poteva essere di loro interesse», mormorò, fra sé e sé. Poi alzò il viso verso Takeshi. «Una provocazione?».

Lui scrollò le spalle, staccandosi dallo schienale. «No, dai. Non può essere solo questo».

«Arrivare ad uccidere un membro così importante della società... per una provocazione?».

«Già», sibilò l'albina. «Ma se è stato Alyon ad architettare tutto quanto, non mi sento di escluderla come una possibilità».

Takeshi si rivolse a Tetsuya, per spiegargli a cosa alludeva la ragazza. «Quando eravamo a casa, siamo giunti a questa conclusione: Alyon potrebbe essere la mente dietro la morte di Oseroth. Solo che», poi guardò in basso, tirando un sospiro. «rimane una delle tante eventualità».

«D'altro canto... Alyon ha già cercato di rapire Yuki».

 

 

Calò silenzio. Tutti e tre stavano rimuginando sulla questione, valutando tutto ciò che avevano detto; la sensazione di non poter fare niente era fin troppo pressante sulle loro spalle e considerando che Oseroth ci aveva perso la vita, diventava ancora più pesante. E poi, era inquietante essere sotto l'occhio di qualcuno senza sapere o capire di chi si trattasse.
Ad un certo punto, Takeshi sollevò il capo, spostando l'attenzione dalla moquette. «Ad ogni modo, Yuki aveva una richiesta da farti».

«Una richiesta?», ripeté lentamente il vampiro.

«Oh, è vero», esclamò la ragazza, la schiena adagiata alla parete. «Volevo chiederti di portare Ai con te, per una sistemazione temporanea».

 

Tetsuya indugiò, riflettendo qualche istante. «Allora prenoterò una stanza al bed and breakfast oltre il ponte». Di fronte all'occhiata stupita della ragazza, il vampiro sorrise. «Non sappiamo se il Consiglio c'entri in questa storia, ma non me la sento di rischiare portandola in quel luogo. Se per te vabbene, ci sistemeremo lì, almeno fin quando tu non recupererai casa tua».
Yuki arcuò leggermente le sopracciglia, trattenendo un sospiro intristito. Recuperare casa sua... poteva davvero farlo? Poteva davvero ritornare tutto come un tempo? – no, questo non sarebbe mai potuto succedere. Un padre era morto, una madre era scomparsa nel nulla, una dimora era stata violata.

Eppure... non si sarebbe arresa. «Sia. Affare fatto».

 

 

 


 

***

 

 

 

 

Ai era stata restia ad andarsene. Quando le due sorelle avevano parlato, tra di loro, la bambina aveva avuto un principio di panico. Aveva guardato l'albina con paura, ma dalla bocca non era uscita una frase; Yuki sospettava che sarebbe successa una cosa del genere, ma la situazione doveva pur smuoversi. Lei doveva indagare e uscire, quindi non poteva starle vicina e proteggerla personalmente, e di sicuro non l'avrebbe portata con sé.
L'aveva abbracciata. L'aveva abbracciata, le aveva accarezzato i capelli, e avevano parlato – e alla fine, Ai aveva capito.

Yuki aveva visto lei e Tetsuya uscirà dalla porta d'ingresso, insieme, lui le stringeva la piccola mano con la propria, da bravo fratello maggiore. Era stato difficile non agitarsi, ma... ce l'aveva comunque fatta.

 

 


Un paio di ore dopo avevano cenato, e lei e Takeshi si erano diretti in camera per provare a riposare un po'. Il ragazzo aveva preso velocemente sonno, la schiena rivolta al muro, le braccia intorno alla schiena della mezzosangue, a stringerla a sé; Yuki, invece, non aveva mai avuto intenzione di dormire. Per questo, a mezzanotte era ancora sveglia e lucida, lo sguardo ambrato indirizzato verso il collo di Takeshi. Il suo petto si alzava fievolmente, poi si riabbassava.

Ad occhio e croce, pensò Yuki, la fronte contro le sue clavicole, sono tutti nel mondo dei sogni. Se uso la finestra non rischio di svegliare nessuno... eccetto Takeshi.

Fece una smorfia. A dir il vero, aveva già deciso di svegliarlo, prima di uscire e dirigersi al Consiglio. Se aveva imparato una lezione nel corso di quei nove mesi – da quando lo aveva conosciuto – era che non amava essere messo all'oscuro degli eventi; era una delle poche cose in grado di farlo davvero arrabbiare e innervosire, quindi voleva evitarlo, se possibile. E inoltre, voleva potersi affidare a lui e ai suoi amici.

 

Sollevò un braccio e circondò il suo avambraccio con le dita, scostandolo pian piano. Con la stessa premura, sgusciò dalle coperte calde e dal suo tepore, e si avvicinò alla scrivania per prendere i vestiti. Lanciò un'occhiata verso il letto. «Stai dormendo, vero?», bisbigliò, talmente piano da sembrare un respiro. Non poteva andarsene in giro per la casa, quindi avrebbe dovuto cambiarsi lì.
L'idea l'agitava un po', ma non c'erano alternative.

Indossò allora la gonna, le calze e il maglione, e si avvicinò al lato della scrivania per prendere le scarpe.
Dopo di ché, si diresse al letto e si piegò verso il fondo. Anima era ancora lì. Yuki infilò il braccio e afferrò la katana, per poi rimettersi in piedi. Ora che era pronta, poteva avvisare il ragazzo.

 

«Take?», disse, a voce bassa. «Take, io sto uscendo».

Il ragazzo, come volevasi dimostrare, rispose con lamenti sconclusionati. «Nh... », biascicò, strizzando leggermente le palpebre. Con enorme fatica, riuscì ad aprire un poco gli occhi, le folte ciglia incastrate fra loro. «Cos'è che fai... ?».

«Sto uscendo, ho detto», ripeté Yuki, a voce più alta.

A quel punto, Takeshi sembrò risvegliarsi. Sbattendo ancora le palpebre, aprì completamente gli occhi, puntandoli sul viso bianco della ragazza. «Dove vai?».

«Vado al Consiglio. Voglio parlare con il Presidente di quello che è successo. Magari sa qualcosa».

«Ma... da sola?».

«Sì, ma», picchiettò una mano sul fodero della katana. «porto Anima con me, nel caso dovesse servirmi. Ma non penso ci saranno problemi».

«Già... sì, forse hai ragione». Il ragazzo increspò le sopracciglia, celate in parte dagli arruffati capelli scuri. «Stai attenta. E per favore, non litigare con nessuno, okay?».

 

Yuki sorrise, un po' sfrontata, e si inclinò in avanti per lasciare un bacio sulle labbra di Takeshi. A quel punto si rimise dritta e composta, e avanzò verso la finestra solitamente chiusa. La sbloccò e saltò giù, dandosi una spinta con le mani e un piede sulla cornice.
Atterrò sull'erba umida, e per poco non schiacciò l'aiuola di fiori – una volta giù, esaminò la strada di fronte e le case attorno. A quell'ora, non c'era nessuno che si aggirava per quella salita-discesa e le case, almeno la stramaggioranza, avevano le luci spente e non emettevano suoni specifici.
In notti come quelle, succedeva una certa cosa. Il respiro e il battito cardiaco delle persone arrivava alle sue orecchie come una serie di mantra, ognuno diverso dall'altro. Avevano piccole differenze, quasi impercettibili, ma se tendeva le orecchie le coglieva una ad una – con la katana legata al fianco dal cordino rosso del fodero, l'albina spiccò un piccolo salto al muro che cintava la casa, e si issò fino in cima. Saltò dall'altra parte e arrivò sul marciapiedi.

 

Il Consiglio è in discesa, appena oltre il ponte, ragionò – subito dopo, ruotò i piedi verso la sua destra e cominciò a correre in quella direzione. L'ironia era che, andando in carrozza, ci metteva qualche minuto in più rispetto che ad andarci a piedi a piena velocità.

Proprio per questo, non si era posta il problema di trovare un passaggio o scomodare qualche nobile vicino agli Akawa.

 

Con il vento che le graffiava la faccia e i capelli in balia della pressione, la mezzosangue superò la rotonda con la quercia e si addentrò nell'ultimo quartiere prima del ponte. Quella era forse la zona più bella di quella città – la piccola, verdeggiante e abbandonata Yoshino.
Quel punto vantava un grande cielo trapuntato di stelle, il profumo dell'erba, lo scrosciare del fiume sotto al cemento del ponte. Quando l'albina vi arrivò, coprendo una buona metà, decise di rallentare il passo e riprendere un po' di fiato, mantenendo una camminata veloce.

 

La luna alta in cielo vestiva l'asfalto con la sua luce.

Oltre al suono dell'acqua che scorreva proprio sotto di lei, c'era il ticchettio risonante delle sue scarpe e il suono sottile e cantato del vento.

 

In un'altra circostanza, quella sarebbe stata una notte incantevole.

 

Invece, in quella, lei doveva difendersi. Si fermò all'improvviso e fletté le ginocchia, agguantando il manico della katana e sfoderandola con un fendente fulmineo alle sue spalle – la sua lama, lunga, affilata, brillò come un diamante a contatto con l'esterno.
Voltandosi, riuscì a vedere chi era apparso alle sue spalle. Un uomo. «Ma non la finite mai?», ringhiò l'albina, puntandogli contro la spada.

L'uomo, lontano tre metri, aveva un completo nero, con una cravatta del medesimo colore e una camicia bianca al di sotto. Intorno all'orecchio, invece, spiccava il filo arrotolato di un auricolare che finiva nel padiglione. Fu proprio quell'auricolare a trattenere Yuki dall'attaccare, perché le fece subito capire che quell'uomo altri non era che una guardia – le cosiddette “Sentinelle notturne”, unicamente vampire, mentre di giorno venivano sostituite dai demoni.

 

Yuki sospirò esasperata e rinfoderò la katana, producendo un suono metallico. «Non sono una persona sospetta, sai?».

L'uomo irrigidì la mandibola e, con i pugni chiusi, si avvicinò lentamente alla ragazza. «Sappiamo chi sei. Cosa ci fai qui?».

«Wow. Quanta gentilezza». Annodò le braccia al petto, con un espressione in parte divertita. «Voglio solo parlare con il Presidente. Non hai di ché preoccuparti, scimmione».

«Sei venuta da sola?».

«Cosa vuol dire? Vedi qualcun altro, insieme a me?».

«Rispondi alla domanda, se vuoi passare».

Yuki assottigliò le palpebre. «Non so chi ti dà il diritto di darmi ordini. Gli Akawa di certo no».

 

L'uomo, tuttavia, decise di non rispondere alla provocazione. Emulando la ragazza, incrociò anche lui le braccia, rimanendo lì fermo, ad ottanta centimetri da lei, in una sorta di mutismo ostinato. Bene, era chiaro che non l'avrebbe lasciata passare tanto facilmente – almeno, non l'avrebbe lasciata in pace se non avesse fatto come diceva.

«Dal momento che non ho tempo da perdere e ho fatto una certa promessa», sibilò, sciogliendo la posa. «ti asseconderò: sì, sono venuta fin qui da sola. Io e questa katana, per l'esattezza». E nel dire ciò, tamburellò il dito indice sulla guardia della spada giapponese.

L'uomo, attraversò i sottili occhi freddi, incavati sotto folte sopracciglia, la guardava con estrema impassibilità. Sembrava che qualcuno gli avesse scucito tutto il calore. «Sei consapevole di cosa ti accadrebbe se questa fosse una spregevole menzogna?».

Yuki spalancò le braccia, al limite dell'esaurimento nervoso. «Ma sei scemo? Perché dovrei mentire? E poi dove me lo nascondo un compagno, sotto la gonna?». Sbuffando, l'albina tornò ad un tono un po' più ragionevole. «Senti, ti sto dicendo la verità: voglio solo parlare a quattrocchi con il Presidente».

 

Il vampiro chiuse le palpebre, celando quel suo sguardo di ghiaccio, e per un secondo non mosse un muscolo. Solo un istante dopo, riaprì gli occhi e annullò anche quei pochi centimetri che li separavano, passandole accanto. «Se provi a fare qualcosa, te la vedrai molto brutta».

Yuki gli lanciò un'occhiataccia, ma non disse nulla, seguendo il vampiro lungo l'ultimo pezzo di ponte; il vampiro le aprì il grande portone con una chiave che conservava al collo e le diede l'ennesimo avvertimento – o suggerimento – prima di richiudere la porta e farla piombare nella fitta oscurità dell'edificio.
Una volta all'interno, la vista della mezzosangue riconobbe subito la planimetria del piano terra e si spostò prima di un metro a sinistra e dopo di due in avanti, calciando il primo gradino delle scale con la punta degli stivali. Cominciò a salirle, stavolta con più calma e, man mano che saliva gli scalini e raggiungeva la sommità, l'ambiente si illuminava.

 

Non era mai stata all'interno dell'ufficio del Presidente, ma ci era passata di fronte e sapeva dove si trovava – quell'uomo, invece, l'aveva incontrato due volte; ricordava che, durante la prima occasione, lei era appena una bambina di sei anni e Kazumi aveva deciso di portarla con sé per non lasciarla tutta sola a casa. E proprio quella volta, aveva assistito alla sua prima riunione del Consiglio.

La seconda volta, invece, si erano incontrati quando lei aveva appena quattordici anni.

 

 

L'albina aveva superato tutto il primo piano e stava ora salendo la rampa di scale per l'ultimo piano. Appena giunta in cima, nel corridoio a destra c'era una porta, che conduceva alla sala delle riunioni.

Yuki si voltò verso il corridoio di sinistra e proprio lì, in fondo, vi trovò una porta di mogano scuro con dettagliati intarsi sulla superficie e sopra una targa grigia, luccicante, caratteri neri incisi sopra: “Presidente. Satchel Volk”.

Yuki svoltò l'angolo e in tre passi raggiunse la porta – sollevò la mano destra, la chiuse in un debole pugno e picchiò le nocche contro il pregiato legno. «Sono Yuki Akawa», come richiedeva l'etichetta, si era annunciata, con voce alta e decisa. Dall'altra parte, all'interno della stanza, ci fu una pausa di qualche secondo.

 

«Avanti», disse infine una voce maschile, gracchiante e bassa – allora lei ruotò il pomello e spalancò la porta, facendo il suo ingresso nell'ufficio del Presidente.

 

 

Come volevasi dimostrare, l'ufficio era di una raffinatezza unica. Come stanza non era particolarmente ampio, ma le tre finestre ad arco gotico in fondo, proprio dietro la scrivania, riuscivano ad allargare l'ambiente. Le pareti a sinistra e a destra erano quasi completamente nascoste da librerie e qualche quadro, mentre sul pavimento in marmo nero giaceva un tappeto di pelle di orso – le sue fauci, spalancate.
Sulla scrivania, a tre metri dai piedi di Yuki, vi era un grande assortimento di oggetti; una lampada all'angolo a destra, una raccolta di fogli e documenti al centro, un paio di penne sparpagliate in diversi punti, un quadretto con una foto alla sinistra e una tazza ormai vuota. Sulla poltrona di pelle nera, lucida e ben tenuta, un uomo in là con l'età attendeva. Teneva le dita intrecciate sotto il mento e i gomiti sulla scrivania, un espressione seria sul volto coperto da rughe.
Satchel Volk aveva degli occhi freddi come il ghiaccio. Piccoli, infossati e di un blu spento – forse, un tempo lontanissimo, quel blu aveva conosciuto una luce molto più vivida. I capelli grigi e crespi erano quasi totalmente assenti sulla sommità della testa e scendevano sotto la cute fino alle spalle.

L'uomo indossava un completo nero, abbottonato per bene, una camicia bianca e un papillon grigio metallico.

 

Alla vista di quell'uomo – un vampiro più antico dei suoi genitori, di Alyon – Yuki si sentì stringere lo stomaco. Sarà a causa del naso lungo e adunco, la fronte sporgente e ampia e quegli occhi... ma aveva un aspetto che incuteva disagio mista a soggezione.

In un certo senso, egli era portatore del passato.

«La signorina Yuki Akawa», Satchel aprì le labbra, sfoggiando lunghi e aguzzi canini ingialliti. Rispetto alla maggior parte dei vampiri e demoni, lui non si poneva il minimo scrupolo a mostrare i denti – sembravano costantemente sul punto di attaccare. Di cibarsi. «Primogenita di Oseroth e Kazumi Akawa. Qui, dinanzi a me». Satchel, che aveva squadrato la figura della ragazza, scese con la coda dell'occhio sulla katana che pendeva al suo fianco. L'angolo della sua bocca si piegò in una piccola smorfia seccata. «La fantomatica Anima... è lei, eh... ».

Per un istante, la mezzosangue sentì il suo istinto sussurrarle qualcosa all'orecchio, e la mano corse al pomo della katana. All'orecchio, una voce continuava a ripetere la stessa breve frase, vai via da lì.

«Presidente Volk». L'albina, tuttavia, sollevò il mento. «Dobbiamo parlare».

«”Dobbiamo”?», ripeté Satchel, arcuando impercettibilmente le folte sopracciglia brizzolate. Ghignò, sottovoce, appoggiando la schiena contro la poltrona. «Dobbiamo è una parola molto forte, signorina Akawa. Perché vuole usarla a sproposito?».

«Non la sto usando a sproposito. Dal momento che è una questione di vita o di morte, dobbiamo è la parola più adatta».

 

 

Sulle labbra di Satchel sparì il sorrisetto. Un'ombra calò, fitta e pesante, sul volto antico del vampiro. Il suo dito indice picchiettò sulla scrivania, producendo un suono apparentemente vuoto. «Tu sei venuta fin qui, ignorando il fatto che nessuno vuole vederti gironzolare, e pensi di poter imporre le tue volontà? Ricordati una cosa, ragazzina: se tu stai respirando, è solo grazie a tuo padre e tua madre. Se fosse per me... ».

«Mio padre è morto».

Il vampiro si fermò.

«E mia madre... scomparsa». Yuki espirò dal naso. Puntò gli occhi in quelli neri e artificiosi dell'orso, specchiandosi nel luccichio – poi tornò su Satchel Volk, con uno sguardo che non tradiva la benché minima esitazione. Fece un passo avanti, affondando la suola dello stivale nel pelo del tappeto, diminuendo sempre più quei tre metri. «Sembra sorpreso. Incredulo, persino». Davanti a quella scrivania, colpì la sua superficie con i palmi delle mani, si piegò verso di lui con occhi scarlatti. Era furente dalla rabbia. «Non le dice niente, tutto questo?».

«No». Satchel, tuttavia, riusciva a sostenere la sua rabbia. Adesso la prendeva sul serio. «Avrei voluto che mi dicesse qualcosa. Mi dispiace infinitamente per la tua perdita, signorina Akawa».

«Già», sibilò. «Dispiace anche a me».

Staccò le mani, tirò un respiro frustrato.

«Parlami di quello che è successo. Voglio sapere tutti i dettagli».

Yuki guardò l'uomo dall'alto al basso. «Perché?».

«Perché ho appena perso due dei membri più potenti di tutto il Consiglio. Questa, per me, equivale ad una dichiarazione di guerra».

 

 

 

   
 
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