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Autore: viola_capuleti    03/06/2019    0 recensioni
Raven ha sempre avuto la certezza di essere una ragazza normale, nonostante la famiglia ristretta alla madre Elen e l'amico di famiglia Andrea che non la lasciano mai sola, i numerosi traslochi e la vistosa cicatrice che ha sul petto.
Ma tutto cambierà quando un misterioso uomo comparirà davanti a casa sua, insieme ad un particolare trio di ragazzi, proprio quando sua mamma dovrà andarsene di casa per lavoro e un misterioso coniglio albino le farà compagnia nei suoi sogni per avvertirla di un pericolo.
Scoprirà ben presto di far parte di una relatà ben più grande di quanto avrebbe mai potuto immaginare...
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO 4
Mezzi demoni


Il cappuccio le era scivolato via dalla testa e i capelli fradici le impedivano la vista del marciapiede dove correva e gli eventuali ostacoli.
Aveva iniziato a correre ancora prima che cominciassero quei due cagnacci, girando i tacchi e tornando indietro, cercando di mettere immediatamente distanza tra loro. Non aveva assolutamente idea se quelle due bestiacce avrebbero iniziato ad inseguirla, ma era meglio sentirsi ridicola per una reazione esagerata che avere quei denti dentro la carne.
E il ricordo del sogno le aveva messo le ali ai piedi ancora prima di fare un ragionamento logico su quella situazione.
Poteva sentire quei cagnacci starle alle calcagna tanto vicini da sentirli calpestare il terreno bagnato e il graffiare delle loro unghiacce sulla superficie lastricata.
Non riusciva a pensare chiaramente se non a non fermarsi e di accelerare il passo. L’affanno però le stava facendo sbagliare la respirazione per continuare ancora a correre con sufficiente impegno.
Aveva la netta sensazione che il cuore le volesse uscire fuori dal petto, non solo perché la cicatrice le facesse un male cane, come se la pelle fosse tirata: aveva una paura fottuta in quel momento.
Nella confusione più totale vide una macchina solitaria attraversare la strada a velocità sostenuta e le balenò in mente un’idea disperata per togliersi quelle bestie di torno.
Chiudendo gli occhi fece un salto nella carreggiata e attraversò la strada.
Sentì freni stridere pericolosamente vicino a lei e un grido soffocato provenire dall’interno della macchina, probabilmente un insulto, ma niente urti o guaiti sofferenti.
Per buona misura non si voltò per vedere se effettivamente almeno uno di loro fosse stato investito dalla macchina prima di controllare.
Ma non ce ne fu bisogno, perché sentì abbaiare dietro di lei.
-Non ha funzionato bella! – le sembrò che quel latrato dicesse e cercò di accelerare.
Correre in quella maniera su della pietra bagnata le poteva costare uno scivolone. Sarebbe stata una bella seccatura cadere.
Avrebbe voluto urlare ma chi l’avrebbe sentita?
Aveva superato il centro dove poteva ancora sperare di trovare rifugio in un qualche negozio (ma si sarebbero davvero arresi i suoi inseguitori di fronte ad una vetrina?) e ora era in un quartiere residenziale: avrebbe potuto chiedere aiuto, sgolandosi fino a diventare rauca, ma non sarebbe riuscita a rallentare per entrare in qualche porta aperta da un buon samaritano senza che quei cagnacci da incubo la raggiungessero.
Non sarebbe neanche riuscita a chiamare qualcuno con il cellulare.
Imprecando ad alta voce, s’infilò in un vicolo.
Era bloccato da una rete metallica alta almeno tre metri.
 Per un attimo si disperò, vedendo la sua via di fuga sbarrata, ma notò una cassa di legno e un cassonetto della spazzatura chiuso addossato al muro e alla rete.
-Ti prego ti prego ti prego… - pensò saltando sulla cassa e poi sul cassonetto –Reggimi per qualche secondo. -.
Si alzò in piedi sul coperchio instabile e saltò sulla rete, aggrappandosi alla cima con le braccia. Puntò i piedi nei fori e si arrampicò, lasciandosi cadere dall’altra parte.
Atterrò in ginocchio, miracolosamente senza farsi male, mentre i cani si buttavano sulla rete con un clangore metallico, abbaiando furiosamente.
La ragazza si alzò e barcollò all’indietro, allontanandosi da loro, prendendo fiato a boccate profonde.
Dandosi lo slancio per saltare sulla rete aveva spinto via sulle sue ruote il cassonetto. Per cui, se anche fossero stati capaci si saltare su quella cassa di legno e poi sul cassonetto come aveva fatto lei, non sarebbero mai riusciti a saltare oltre la rete e raggiungerla.
Una risata liberatoria le scappò dalle labbra e mostrò loro il dito medio, esclamando: -Prendete questa bastardi! Ah! -.
I cani neri si buttarono ancora un paio di volte contro la recinzione, facendola tremare violentemente, in modo scomposto, come se fossero molto frustrati dal non poterla raggiungere.
Sotto gli occhi della ragazza, dopo questi tentativi inutili, i cani indietreggiarono e saltarono sui muri: appoggiarono tutte le zampe sui mattoni in un incredibile salto ben più alto di quanto lei potesse immaginare potessero mai fare e poi sulla cima della rete, pronti a scendere e riprendere l’inseguimento.
Raven non aspettò che atterrassero, imprecò nuovamente e ricominciò a correre con un nodo alla gola.
Dove poteva rifugiarsi da dei cani che sapevano saltare una rete alta il triplo di lei?
Provò ancora una volta a svoltare ormai a casaccio in un’altra strada e s’imbatté in uno dei parchi cittadini, piuttosto piccolo e con un’area attrezzata per i bambini. Non poteva certo nascondersi sullo scivolo, quei cosi avevano saltato una rete usando i muri per darsi lo slancio, manco facessero parkour! Un cane normale quelle cose non avrebbe potuto farle neanche se si fosse impegnato! Una persona normale le sarebbe stata alle calcagna a malapena, mentre quelle bestiacce non sembravano neanche stanche!
Qualsiasi cosa a quell’ora sarebbe stata al limite delle sue capacità.
Forse era la paura, ma si sentiva le gambe molto pesanti e stanche in quel momento. O forse correva da molto ed aveva perso la cognizione del tempo.
Per un attimo cercò di guardare oltre le sue spalle, per vedere se era riuscita a mettere un po’ di distanza tra lei e i suoi inseguitori, e andò a sbattere con una gamba contro una panca di pietra.
Finì a terra rotolando su un fianco, con un’esplosione di dolore al ginocchio destro. Se lo strinse digrignando i denti per il male, mentre sopra di lei un altro tuono scuoteva l’aria.
Provò a rialzarsi, ma la gamba cedette. Non riusciva neanche ad appoggiare il piede per terra.
Non poteva più scappare.
Stringendosi il labbro inferiore tra i denti si trascinò contro l’unica cosa che in quel momento potesse proteggerle almeno le spalle, un albero, pensando con rabbia: -Quello schifoso coniglio deve pagarmela per aver avuto ragione. -.
Solo allora si accorse che il temporale aveva reso il cielo così scuro da far sembrare che fosse notte. Sotto l’albero aveva un po’ di copertura dalla pioggia, che adesso cadeva violentemente dalle nubi.
I suoi inseguitori, vedendola a terra e ferita, avevano rallentato il passo e adesso erano a poco più di due metri da lei, terribilmente grossi e dall’aspetto famelico, con quegli occhi innaturalmente rossi.
-Si può sapere che volete da me, eh, bastardelli? – fece Raven, stringendosi il ginocchio al petto con una mano, mentre con l’altra cercava tra l’erba qualcosa con cui proteggersi. Avrebbe dato qualsiasi cosa per avere almeno un manico di scopa.
Aveva fatto quella domanda senza aspettarsi un’effettiva risposta.
Invece, il cane alla sua sinistra, alzò la testa e rispose: -Come se non lo sapessi, Portatrice. -.
Raven non poté fare a meno di spalancare la bocca per lo stupore.
Quel cane aveva parlato. Aveva parlato con una voce assolutamente fastidiosa, piena di boria, trascinando le erre come se fossero un corto ringhio.
-Una pessima idea fare una passeggiata senza scorta. – continuò il cane con tono ironico.
-Che cosa… i cani non parlano. -.
-Non siamo cani. – tagliò corto l’altro cane, con un tono di voce molto meno attaccabrighe del suo collega.
-E allora cosa sareste? -.
I due cani si scambiarono una fugace occhiata interrogativa, ma quello alla sua destra tornò a guardarla in fretta, rispondendo: -Tutto a tempo debito. Adesso verrai con noi Portatrice. -.
-Mi sembra evidente che abbiate sbagliato persona. – ribatté Raven –Non mi chiamo così, sempre che quello sia un nome. Lasciatemi stare bestiacce! -.
-Basta fare storie. – tagliò corto il cane a sinistra, mentre l’altro avanzava verso di lei.
Raven appoggiò tutte e due le mani a terra, pronta a darsi una spinta con le braccia per alzarsi e ricominciare a correre. Il ginocchio faceva ancora male, ma avrebbe provato comunque ad allontanarsi e tornare a casa, dove poteva chiudersi a chiave dietro una porta.
La mano che stringeva la gamba fino ad un momento prima sfiorò qualcosa di duro che prima non aveva potuto raggiungere con l’altra.
Senza pensarci due volte l’afferrò e mulinò il ramo contro il cane.
Accadde talmente in fretta che l’animale non ebbe il tempo di togliersi dalla traiettoria. Guaì di dolore, scrollando freneticamente la testa, indietreggiando con un balzo.
L’occhio sinistro sanguinava copiosamente, gocciolandogli lungo la guancia e il muso, imbrattandogli la pelliccia scura.
-Chuck! – esclamò l’altro cane andandogli vicino, annusando la ferita fresca. Si girò verso di lei con un ringhio furibondo: -Questa la paghi cara! Ti strapperò quella mano a morsi prima di portarti con noi. Che tua sia a pezzi o meno non farà differenza! -.
Raven impugnò meglio il bastone insanguinato, mentre il cane si abbassava per prendere lo slancio per saltarle addosso.
Dai rami sopra di lei provenne uno scricchiolio e una gran quantità di gocce d’acqua le caddero sulla testa. Dalle fronde saltò giù un’enorme ombra che si frappose tra lei e i cani, sibilando.
Vide indietreggiare i nemici, che ringhiarono, come frustrati.
La ragazza si schiacciò ancora di più contro l’albero, impaurita dalla nuova presenza, anche se quella sembrava intimorire chi fino a quel momento l’aveva vessata.
Guardandola meglio si accorse che non era affatto un’ombra, ma una pantera nera, che ora brontolava minacciosamente all’indirizzo dei due cani. A giudicare dalla lucentezza del mantello anche quella era stata alla pioggia come lei per abbastanza tempo.
Colse un movimento alla sua sinistra, ed ecco apparire un altro cane dal pelo nero, ma questo era decisamente più grosso degli altri, con il pelo più lungo, il muso più appuntito, le orecchie triangolari e una coda lunga e cespugliosa. Effettivamente assomigliava di più ad un lupo che ad un cane.
Non la degnò di uno sguardo e camminò mollemente ad affiancare la pantera, senza emettere un suono.
-Voi da quanto siete qui? – chiese il cane accecato.
-Siete voi a seguire noi, non il contrario. Sapevate che l’avremmo trovata prima noi. – replicò il lupo con una voce che Raven giurava di aver già sentito –Perché siete degli incapaci. Non ti ricordavo mezzo cieco Chuck, che è successo? -. Si capiva che la sua preoccupazione per quello sconosciuto che adesso aveva un nome era completamente disinteressata, se non addirittura ironica.
Dalle sue parole Raven non capì se adesso doveva preoccuparsi anche di queste due nuove bestie o se erano lì per aiutarla.
-Fatevi da parte! – avvertì l’altro cane con rabbia –State interferendo con dei sottoposti di Regina Hydra, che stanno lavorando su suo ordine! -.
-Siamo ribelli Buck. Ci si aspetta questo da noi. – replicò con tono annoiato il lupo –Siamo realisti, basta girarci attorno: sappiamo bene che questo scontro non è equo. Lasciate stare la ragazza e tornate a casa con la coda tra le gambe. Altrimenti tornerete a casa senza comunque. -.
-Figlio di… -.
-Buck, basta. Per questa volta l’hai ancora fatta franca Milord. Ma quando torneremo a casa, non saremo noi a tornare per darvi la caccia. – disse il cane accecato.
-Ci stai suggerendo di farvi fuori? – domandò il lupo inclinando la testa di lato.
-Andiamo Buck. -.
Raven vide Chuck toccare il suo compare con il naso, incoraggiandolo a seguirlo, allontanandosi. Ma Buck non si mosse: continuò a fissare i suoi avversari con odio, ignorando i richiami dell’altro.
-Lei viene con noi! – urlò saltando verso la ragazza, che urlò a sua volta.
Da dietro l’albero schizzò fuori un cane marrone e bianco, che lo intercettò a mezz’aria e lo sbattè a terra, dove anche il lupo lo aggredì. La pantera saltò addosso a Chuck per impedirgli di attaccare i suoi compagni.
Fu una lotta breve e caotica, condita di guaiti, ringhi e ciuffi di pelo che volavano in aria, a cui Raven assistette impotente e pietrificata dalla paura che uno dei due cani neri le saltasse addosso.
Nella confusione, vide apparire del fumo scuro, che si diradò in un attimo portandosi via Chuck e Buck.
L’ultimo arrivato, che Raven riconobbe essere un akita, si scrollò con un verso soddisfatto, leccandosi le labbra bianche.
La pantera gli leccò la testa, strusciando il mento tra le sue orecchie, per poi avvicinarsi a Raven, che subito si rimise sulla difensiva: brandì il bastone nella sua direzione, cosa che fece fermare l’animale.
-Non avvicinatevi. – intimò –Ho già cavato un occhio di oggi, non mi pesa continuare. -.
-Che lingua tagliente. – osservò il lupo con tono piatto, osservandola con occhi grigi come l’argento, familiari come la sua voce –Ma dubito che con quella gamba potrai fare molto. -.
Lei lo sentì borbottare un basso: -Stupida ragazzina arrogante… - che le fece montare la rabbia e rispondere: –Ascoltami bene, sono bagnata fradicia, ho un male terribile al ginocchio, sono stata aggredita e ora sto immaginando animali parlanti, ma non permetterti d’insultarmi cagnaccio rognoso-.
L’akita ruotò le orecchie all’indietro e si mise a ridere con dei corti guaiti divertiti: –Sentito Milord, ti ruba gli insulti. -.
-Zitto sacco di pulci. – ringhiò lui rizzando il pelo sul collo in modo così autoritario e minaccioso che fece smettere l’altro di ridere immediatamente.
-Adesso basta, ha bisogno di cure e di abiti asciutti. Portiamola a casa. – li interruppe la pantera, per poi rivolgersi alla ragazza con premura, chiedendole: –Non ce la fai proprio a camminare? -.
Fu tentata di mandarlo a quel paese e fare domande: chi diavolo erano, come facevano a sapere che era nei guai, chi erano quei due e soprattutto che diavolo stesse accadendo.
Ma si rese conto che era stanca, spaventata e troppo dolorante per continuare a cercare di attaccarli a livello verbale.
E almeno era stato gentile con lei.
Scosse la testa e si toccò la gamba facendo una smorfia di dolore per conferma.
Sotto i suoi occhi, per quel giorno ormai abituati a tutto, la pantera prese la forma di un uomo. All’inizio non capì chi fosse, ma poi lo riconobbe: era Jaguar.
 
***
 
Per la seconda volta era ospite a casa di quella famiglia ormai decisamente fuori dall’ordinario, seduta su un divano arancio pastello nonostante i pantaloni sporchi, un altro di quelli in stile scandinavo ultra moderno. Ma non stette a guardare l’arredamento degno di una rivista.
Matisse le stava applicando un disinfettante ai graffi che si era fatta cadendo, dopo averle detto di muovere il meno possibile il ginocchio, adesso munito di un pacchetto di ghiaccio istantaneo per cercare di far passare il male.
Il Lupo nero era salito si sopra facendo ticchettare le unghie sul legno della scala, ordinando di prendersi cura di lei ed aspettare il suo arrivo per parlare.
Jaguar stava appoggiato al caminetto di mattoni vintage intento a guardare fuori dalla finestra, forse controllando che nessuno apparisse nel giardino.
Non portava gli occhiali da sole.
Ormai l’umana aveva visto la sua vera forma e non c’era il caso di nascondere i suoi occhi da felino, completamente identici a quelli di una pantera anche dopo essere tornato in forma umana. Era stato lui a portarla in casa sulla schiena, camminando per la città affiancato dal Lupo e dall’Akita, sempre sotto la pioggia, in silenzio.
L’Akita era Beast, il ragazzo della sua età. Lui se ne stava sprofondato su una poltrona abbinata al divano, giocando con il cellulare svogliatamente.
-Ti fa ancora male? – le chiese Matisse mettendole un cerotto su una scorticatura sul dorso di una mano.
-Non più tanto. – rispose lei, diffidente.
Chissà se lei era normale o si trasformava in qualche animale.
-Fantastico. Ora devo solo controllare il ginocchio per vedere che non sia lussato o peggio. Non spaventarti se senti tanto male quando toccherò. -.
-Dopo questa sera non mi spavento più di nulla. – le assicurò Raven. Ma non stava cercando di fare battute.
La bionda se ne accorse ma non disse niente. Tolse il ghiaccio e prese a palparle il ginocchio con delicatezza, inarcando e corrugando le sopracciglia, e Raven pregò che il suo ginocchio non avesse niente o chissà cosa le avrebbero fatto se avessero saputo che non poteva scappare così facilmente.
Matisse batté le mani l’una contro l’altra e annunciò soddisfatta: -Credo proprio che il tuo ginocchio stia bene! Solo una botta, basterà il ghiaccio per evitare che si gonfi e riposo. Ma se senti ancora tanto male posso darti un antidolorifico o… -.
Raven si alzò dal divano e, non trovando difficoltà a muoversi nonostante il ginocchio intorpidito dal ghiaccio e ancora dolorante, si diresse subito verso l’atrio dicendo: –Tranquilli, non farò troppi sforzi ad andarmene a casa. -.
Invece andò a sbattere contro qualcuno.
Facendo un passo indietro riconobbe l’uomo con la sigaretta, che la fissava con i suoi occhi grigi freddi come un iceberg. Quelli e i capelli spettinati neri come la notte le fecero capire che il Lupo era lui, cosa che la fece preoccupare non poco: era decisamente più grosso di Jaguar trasformato e anche più aggressivo nella lotta.
Lui le diede una spintarella con una mano sulla spalla, facendola indietreggiare ancora, dicendo: -Carina la battuta scenica per svignartela Portatrice. Ma tu non alzi il culo da quel divano per nessun motivo. -.
Vedendo che non si muoveva di un centimetro appoggiò di nuovo la mano sulla sua spalla e l’accompagnò rudemente a risedersi sul divano.
-Milord fai piano. – lo sgridò Matisse, sedendosi accanto a lei –Ha ancora male al ginocchio ed è spaventata. -.
-C’è gente peggiore di me là fuori Matisse, consolati. – replicò Milord –Ha ancora la testa sul collo. -.
-Voglio andarmene a casa. – disse Raven.
-E io ti ripeto che non puoi. – rispose Milord.
-Non puoi costringermi-.
Milord le dedicò un’occhiata feroce e si abbassò all’altezza dei suoi occhi, parlandole a pochi centimetri dalla faccia: -Se non te ne sei accorta posso diventare un animale strappa budella, ma se preferisci fuori ci sono ancora quei due e tantissime altre creature simili che vogliono farti fare una brutta fine. Dimmi, ora vuoi ancora uscire? -.
Sagace, provocatorio e arrogante. Antipatico con la A maiuscola.
-No. – dovette ammettere abbassando gli occhi, incapace di sostenere quel crudele color argento dei suoi occhi –Ma non voglio neanche restare qui. Non senza spiegazioni. -.
Milord ignorò l’implicita richiesta di darle informazioni per andarsi a sedere sulla poltrona gemella sulla quale Beast ora stava seguendo la situazione con interesse. A differenza sua, però, l’uomo (se lo era) si sedette in modo composto, accavallando le gambe ed appoggiando i gomiti sui braccioli, continuando a fissare la ragazza con sguardo inquisitorio.
Sporse il mento verso l’alto e chiese a bruciapelo: –Hai una cicatrice, vero? -.
-Questi non sono affari tuoi. -.
Solitamente con le persone che non conosceva era molto rispettosa e dava del lei, ma quel tipo lì era talmente arrogante da non meritarsi la sua cortesia. E poi stava parlando della sua cicatrice.
-Che bel caratterino… in ogni caso lo so che ce l’hai: l’ho percepita il giorno in cui ti sei fermata davanti alla villa. -.
-Percepita? – ripeté Raven lasciandosi sfuggire una mezza risata dettata dal nervosismo e l’assurdità di quella situazione –È una cicatrice. Me l’hanno fatta quando ero piccola per una complicazione al cuore. Voi siete pazzi e io non capisco se sto sognando o se sto impazzendo! Animali che parlano, persone che si trasformano, bestiacce che vogliono rapirmi e portarmi chissà dove, questo stupido nomignolo di “portatrice”… come diavolo fai poi a sapere della mia cicatrice per davvero? Te l’ha detto mamma? -.
Mentre parlava l’espressione apatica dell’uomo non era cambiata affatto. Ma Raven notò che invece gli altri tre sembravano stupiti di quello che stava dicendo, se non addirittura inorriditi.
Jaguar cambiò posizione, spostando il peso del suo corpo da un piede all’altro, guardandola con incredulità: -Non sai niente di tutto questo? -. Raven gli rispose facendo una smorfia che voleva dire “ti pare che ci stia capendo qualcosa e sia tutto normale per me?” e lui si rivolse a Milord, chiedendo: -Non sa niente? -.
Milord sospirò: -Sapevo che l’avevano tenuta all’oscuro di tutto. Il motivo è da idioti, ma dopotutto non ci ho potuto fare niente per quasi due decadi. Non date la colpa a me se tutto grava sulle sue spalle ignoranti. -.
-Beh potresti metterci rimedio adesso. – sbuffò infastidita Raven, decidendo di ignorare l’insulto –Posso avere queste spiegazioni o no? Chi o cosa siete? -.
Milord fece un cenno con la testa a Jaguar, che si schiarì la gola con un colpetto di tosse e disse: -Diciamo che non siamo umani. Siamo mezzi demoni. -.
-Certo, come no… - fece Raven schioccando la lingua, con tono sarcastico.
-Raven, non vorrei essere così dura con il tuo scetticismo… - disse Matisse con comprensione, facendole girare la testa verso di lei. Raven vide seduto accanto a lei sui cuscini del divano lo strano gattino striato che l’aveva accompagnata in strada prima, che dopo un attimo di silenzio disse con la voce di Matisse: -… ma credo che gli umani non possano fare una cosa del genere. -.
La ragazza si scostò subito dall’animale, indietreggiando sul divano fino al bracciolo, con gli occhi spalancati. Anche la ragazzina era una di loro… probabilmente allora il cane che aveva visto la sera prima era Beast che la controllava.
Dopo un attimo di silenzio in cui non riuscì a distogliere lo sguardo da Matisse, Raven ripeté lentamente: -Demoni? Quei mostri umanoidi con corna, coda e forcone? -.
-Mezzi. – le ricordò Beast –Ma Matisse è un angelo. Te lo hanno detto che non siamo fratelli di sangue, no? -.
La ragazza deglutì, senza parole.
Era nella stessa stanza con delle creature teoricamente immaginarie, conosciute per essere ingannatrici, violente, subdole e malefiche. E un angelo, certo, era da aggiungere alla lista.
Sentì come un nodo allo stomaco che la fece stare quasi male a livello fisico.
Era evidente che quello che era successo era reale: a conferma aveva ancora i vestiti bagnati fradici, il dolore al ginocchio e Matisse ancora in forma di gatto accanto.
O era decisamente un brutto sogno o la realtà era ben diversa da quello che immaginava.
Si mise le mani nei capelli e appoggiò i gomiti alle ginocchia, cercando di non scoppiare in una crisi isterica.
-Hai bisogno di un bicchiere d’acqua? – chiese Matisse, ma qualsiasi risposta fu zittita da Milord: -Matisse, non è il momento di essere gentili. -.
-Mi sembra che sia il momento di essere comprensivi invece. – ribatté Matisse con fermezza, cosa a cui lui reagì con un cenno della mano in direzione della cucina, a labbra strette.
Matisse saltò sullo schienale del divano e trotterellò via silenziosamente.
-Altre domande? -.
Raven avrebbe avuto voglia di strozzarlo. Si morse un labbro e chiese: -Perché mi chiamate Portatrice? Mi chiamo Raven. Dato che sa dove abito e hai parlato con mia madre, immagino tu sappia benissimo come mi chiamo. -.
Si aspettava che le rispondessero e invece Milord alzò una mano in direzione di Jaguar, che stava per dare spiegazioni, ed esordì: -Per oggi basta così. Finiremo questo discorso domani: resterai qui e non ti muoverai finché non lo riterrò opportuno. -.
Raven s’infervorò e sbattendo un pugno sul divano esclamò: –Sentimi bene, posso anche sopportare il fatto che non vogliate spiegarmi niente, ma voglio tornare a casa mia! -.
Il mezzo demone strinse i braccioli della poltrona e corrugò la fronte, arricciando il naso. Si stava trattenendo dal ringhiare, realizzò Raven: evidentemente non era abituato ad avere qualcuno che gli tenesse testa.
All’improvviso un telefono suonò. Il rumore sembrava talmente estraneo a quella situazione che sembrava provenire addirittura da un’altra realtà.
Poi Raven si rese conto che era il suo telefono.
Lo prese dalla tasca e lesse sul display che era sua madre a chiamarla, fuori dall’orario concordato.
Si affrettò a rispondere: -Mamma che succede? -.
-Nulla, ho cinque minuti liberi. Come va? -.
Rassicurata che non era un’emergenza, Raven si affrettò a dire: -Mamma, quel tipo che è venuto a casa è un… -.
Senza neanche averlo visto muoversi, la ragazza si trovò Milord davanti, che le strappò il telefono dalla mano. Raven era convinta che avrebbe attaccato la chiamata. Invece premette il tasto del vivavoce e si avvicinò il microfono alla bocca, dicendo: -Pronto Elen. Sono io. -.
Raven trattenne il fiato.
Che aveva intenzione di fare?
-Che sta succedendo? – fece sua madre con tono preoccupato.
-Niente di preoccupante. – rispose con nonchalance Milord, guardando Raven negli occhi, l’ombra di un sogghigno sulle labbra –Ho ritenuto opportuno portare tua figlia a casa mia: purtroppo ci sono dei malintenzionati nel quartiere. Feccia. È meglio che non se ne stia sola a casa, non credi? Potrebbe essere troppo pericoloso. -.
-Mam… -.
Milord le tappò la bocca prima che potesse anche solo richiamare l’attenzione di sua madre. Provò a sottrarsi alla stretta, ma quella del mezzo demone era troppo forte per riuscire a scivolare via o fargli perdere la presa.
-Va bene. Come sta? -.
-È scossa. – rispose Milord –Meglio che attacchi, si sta agitando. -.
-Fammela salutare. -.
A quanto pare quel tipo non era solito dare ascolto agli altri, perché invece che permetterle di parlarle, attaccò.
Raven schiaffeggiò via la sua mano, esclamando: -Ridammi il cellulare! -.
-Certo. – assentì lui lanciandoglielo in grembo.
-Non ho idea se mia madre sappia di che razza di abominio sei, ma sappi che alla prossima telefonata le dirò tutto. – minaccio Raven –Ti strapperà le palle per come mi hai trattata. -.
-Oh, tua madre mi conosce.  – replicò Milord con una scollata di spalle –Non so se crederà a te o a me su questa faccenda. -.
-Io sono sua figlia. -.
-Ma io cosa sono per lei? -.
Raven digrignò i denti, non sapendo come rispondere. Decise di ribattere: -Io glielo dico lo stesso. -.
-E io ti apro la testa come un’anguria. – sibilò il mezzo demone avvicinandosi ancora una volta pericolosamente al suo viso, costringendola ad evitare il contatto stringendosi allo schienale del divano –Voi preoccupare tua mamma? Bene, fallo, dille tutto, coinvolgila in questa brutta storia: hai le spalle abbastanza larghe da prenderti questa responsabilità. -.
La ragazza fece per aprire la bocca e rispondere a tono. Però non le venne in mente come controbattere a quella parte della faccenda.
Serrò le labbra e si allontanò da lui lasciandosi cadere con le spalle contro lo schienale del divano, evitando il suo sguardo.
Comprendendo che l’ultima parola era la sua, Milord si raddrizzò, incrociando le braccia dietro la schiena, dirigendosi verso l’ingresso senza nascondere la soddisfazione con il tono di voce con cui disse: -Jaguar, assicurati che non provi a scappare. Matisse, preparale una stanza. Lessie, non disturbarmi. -.
Raven agguantò il pacchetto di ghiaccio caduto a terra e glielo lanciò dietro, ma il mezzo demone si girò in tempo per prenderlo e restituirglielo, con tale velocità e forza, che la ragazza non fece in tempo a schivarlo. Il pacchetto la colpì sulla fronte e Milord sparì indisturbato.
Matisse, che era rimasta nell’ingresso della stanza, sgridò Milord per il suo comportamento e si scusò profusamente con Raven, porgendole il bicchiere d’acqua che era andata a prendere, ma lei si girò dall’altra parte.
-Non te la prendere, Milord è uno stronzo quando ci si mette. – disse Beast, ma si guadagnò un’occhiataccia che lo fece ammutolire.
-Io qua non ci resto. – sibilò Raven cocciutamente, stringendo il pacchetto di ghiaccio tra le mani.
-Capisco che tu non voglia restare dopo questo trattamento. – intervenne Jaguar –Mi dispiace per come si è comportato Milord piccola… è un momento di tensione per tutti noi. Ma non puoi tornare a casa tua, è davvero troppo pericoloso per te: è molto meglio se resti sotto la nostra protezione qua. -.
Raven si trovò costretta ad annuire. Va bene, là fuori era riuscita a tenere a bada quei due mettendosi le ali ai piedi e accecandone uno con un bastone. Però se non fosse arrivata la cavalleria sotto forma di quei tre, se la sarebbe vista molto più brutta.
Vedendola titubante, Jaguar continuò: -Non è una situazione piacevole, lo so. Non hai neanche niente di tuo, dopotutto. Facciamo così, ti accompagno a prendere qualcosa a casa tua: torneremo prima che Milord se ne accorga e che qualcuno torni sulle tue tracce. Che ne dici? -.
Il suo tono e la proposta più che ragionevole fece passare una parte della rabbia alla ragazza. Annuì e lo seguì fuori dalla casa, dando un’ultima occhiata alle scale per vedere se per caso Milord (insomma, questi nomi diventavano sempre più assurdi) li stesse osservando.
Mentre saliva insieme a Jaguar sul pick-up verde chiese: -Che succede se Adolf ci scopre a non rispettare i suoi ordini? -.
-Niente, se tu torni sana e salva. – rispose tranquillamente l’uomo accendendo la macchina e aprendo il cancello con un telecomando –Ma con me sei al sicuro. Con tutti noi sei al sicuro. So che è una cosa assurda per una ragazza come te abituata alla normalità, ma ti devi fidare di noi. Sappiamo cosa stiamo facendo. -.
-Lo spero vivamente. -.
Per distrarsi osservò l’interno della macchina: era ordinata e profumava di pulito. Evidentemente ci teneva ad avere una macchina lustra.
Appeso allo specchietto retrovisore c’era un piccolo acchiappasogni bianco con delle piume multicolori che dondolava lentamente ad ogni movimento della macchina.
Non ci misero molto tempo ad arrivare a casa sua.
Scesero insieme ed entrarono. L’aveva lasciata aperta, ma non c’era entrato nessuno per fortuna.
Salì le scale dicendo al suo accompagnatore un frettoloso: -Ci metto poco. – per dirigersi in camera sua.
Prese il suo zaino da escursione e ne controllò il contenuto sul letto, valutando se poteva essere roba utile anche per quella situazione assurda.
Aprì l’armadio e prese maglie e pantaloni da mettere dentro allo zaino, lasciandole piegate per risparmiare spazio. Per fortuna era sempre stata una persona che in viaggio non si portava mai molto e riusciva a sopravvivere con i soliti vestiti senza preoccuparsi degli accostamenti e delle occasioni. Riuscì a farci entrare anche un paio di scarpe extra e una giacca. Non si dimenticò di recuperare il caricabatteria del cellulare e prelevare dei soldi dalla sua banca personale nascosta sotto il letto.
Poi andò in camera di sua madre.
Aveva sempre avuto un grande rispetto per quella stanza, non ci entrava molto spesso da quando aveva passato i dieci anni. Si ricordava però di quando faceva un brutto sogno da piccola e vi si rifugiava, strisciando nel cuore della notte sotto le coperte per finire tra le braccia della madre.
Entrò solo per prendere la foto del padre: eccola sul suo comodino, accanto alla lampada, dietro alla sveglia digitale.
La sua cornice era molto semplice, di legno scuro, senza decorazioni, con la loro foto dentro. In quella foto il volto del padre era leggermente in ombra, con il viso parzialmente coperto ed il corpo sfocato, come se solo quella parte della foto fosse rimasta male.
Non vi diede importanza e la mise dentro lo zaino. Se mai qualcuno sarebbe entrato in casa, quella non l’avrebbero avuta o rovinata.
Si voltò per tornare indietro, ma si soffermò a dare un’occhiata alla cabina armadio della madre. Non aveva mai notato che sopra all’armadio nella cabina ci fosse un libro abbastanza voluminoso.
Entrò nella stanza e avvicinò la bassa scaletta di ferro che Carol utilizzava per dipingere le pareti della casa o per avvitare le lampadine all’armadio salendovi sopra. Prese il libro e lo spostò.
Si accorse che non era affatto un libro, ma un album di fotografie con la copertina in stoffa a fantasia stellata blu e bianca. Era uno strano tipo di album, non ne aveva mai visti chiusi da una placca laterale con una specie di lucchetto con le lettere al posto dei numeri.
La osservò per bene e non notò nessuna serratura per aprirlo con una chiave.
Che cosa strana…
Lo mise nello zaino e tornò al piano di sotto da Jaguar.

°°°

NB: il cane dal quale ho preso ispirazione per la forma animale di Chuck e Buck, è l'Irish Wolfhound o Levriero Irlandese. L'ho scelto per il suo aspetto a prima impressione da "cane da pagliaio", come si dice dalle mie parti, che si addice alle origini umili dei due. Infatti, vistolo in carne e ossa ad una mostra canina in tutta la sua grandezza, il mio fidanzato notò candidamente che sembrava il tipo di cane che di solito affiancano ai vagabondi e senzatetto nei film, solo con stazza da guerra. Fun fact, è anche il mio patronus su Pottermore, cosa che ho scoperto almeno un anno dopo la prima scrittura della storia.
 
   
 
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