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Autore: kiribavku    13/06/2019    1 recensioni
Kiribaku
Dopo il disastro di Kamino tutto è cambiato. La fine di All might ha lasciato un segno indelebile nel cuore di Bakugou e Kirishima che ora sono costretti a confrontarsi con i propri sentimenti mentre il tempo passa e le loro vite continuano tra gioie e dolori. Il loro amore sboccerà lentamente e con dolcezza distruggendo i muri eretti dai due ragazzi, ma dove si colloca esattamente l'amore nella vita di un eroe? I due ragazzi imparano ad amarsi in un mondo dove apparentemente per l'amore non c'è spazio.
potrebbe contenere spoiler del manga
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kaminari Denki, Katsuki Bakugou, Kirishima Eijirou, Kyoka Jiro
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bianco. Tutto ciò intorno a lui era bianco. Cosi puro e candido, immacolato come la neve appena caduta in una notte d’inverno, che si posa a terra in silenzio aspettando il giorno. Aspettando di essere calpestata. 

Lui in quella stanza d’ospedale così bianca era già stato calpestato, schiacciato ed annientato. Se ne stava seduto in un letto troppo duro ad aspettare. Di fianco al letto su una mensola, unico arredo di quella che a lui ormai pareva una prigione, un vaso di vetro accoglieva una singola rosa rossa di plastica. Non capiva perché avessero deciso di mettere una fiore di plastica dentro un vaso. La fissava da quando si era svegliato lì dentro qualche giorno prima, impossibilitato a muoversi il suo sguardo vagava per le quattro mura e si concentrava a intervalli regolari su quel fiore finto che lo attirava così tanto. 

Stava guardando distrattamente la rosa mentre entrarono delle infermiere. Dopo un saluto che lui ricambiò con un cenno della testa, spalancarono le finestre lasciando entrare il vento pomeridiano, sperando di portare nuova vita in quella cella che odorava di disperazione. L’aria faceva muovere le vecchie tende fuori moda che si agitavano come ballerine sbattendo prima contro il bordo di un letto poi contro il muro e poi uscivano di scena incastrandosi fuori dalla finestra. La brezza gli pungeva il volto facendo arrossire le sue guance abituate ormai da troppo tempo al caldo conforto dell’ospedale. Conforto che lo soffocava ogni ora di più, le mura sembravano restringersi intorno a lui e la stanza così fastidiosamente bianca lo accecava. Respirò a pieni polmoni l’aria fresca, cercando di scacciare il forte odore di ospedale che gli permeava le narici da giorni, gli dava la nausea. Le infermiere ritornarono, questa volta portandosi dietro il necessario per le medicazioni. Eccola, la parte che Kirishima detestava di più. Si girò a guardare Bakugou, seduto su un sedia presumibilmente scomoda e stretta di fianco al suo letto. 

Il ragazzo veniva ogni giorno a trovarlo. Con puntualità quasi meccanica si presentava da lui poco dopo la fine delle lezioni e si sedeva su quella sedia per ore. Durante la sua permanenza il biondo gli raccontava brevemente cosa avevano fatto quel giorno a scuola e poi se ne stava in silenzio e lui lo lasciava fare. Non voleva parlare. Dopo quella notte in cui Katsuki si era presentato distrutto al suo capezzale Eijirou aveva innalzato mura altissime intorno a lui, chiudendosi dentro se stesso per evitare di ferirsi, per evitare di affrontare il dolore che lo aspettava dall’altra parte. In questa cella si isolava e lasciare che il tempo gli scorresse attorno, nulla riusciva a raggiungerlo lì dentro, tutto si disintegrava prima di riuscire a penetrarne i confini. 

Si girò a guardarlo e i loro occhi si incontrarono. Occhi rossi dentro occhi rossi. Ma i suoi occhi erano assenti, la scintilla che li contraddistingueva si era spenta. 

“Va bene Eijirou, è ora di cambiare le medicazioni.” Gli comunicò un’infermiera con una voce intenzionalmente dolce. 

Lui non si oppose e le offrì le braccia, avvolte da uno spesso strato di bende, come un condannato a morte offre la propria vita alla guardia carceraria. Bakugou fissava con attenzione ogni gesto dell’infermiera quasi ipnotizzato da quello spettacolo pietoso, troppo affascinato per distogliere lo sguardo come si guarda un cadavere, sapeva di doversi girare eppure era attratto da quello che succedeva. 

Non oppose resistenza, che guardi pure le ferite, che ne sia disgustato, che capisca quanto era debole. Non poteva più nascondersi. 

La ragazza, forse troppo giovane per essere infermiera, iniziò a srotolare le bende con delicatezza. Storse il naso per il dolore. Più andava avanti più la garza diventava rossa, incrostata di pelle, impregnata di sangue vecchio, ma soprattutto di dolore e disperazione. Una volta finito le gettò via lasciando esposto al mondo il disastro che era il suo corpo. Le braccia gonfie e piene di tagli che si stavano rimarginando, di chiazze verdi e nere di lividi che sarebbero scomparsi. Non sembravano nemmeno le sue. La pelle si spaccava in certi punti e le ferite avevano scavato a fondo creando nuove forme dal polso fino al gomito.

Kirishima odiava farsi vedere così. Debole e sconfitto. Poteva sentire i muri della sua cella cadere, il dolore che si infiltrava e gli annebbiava la mente, le lacrime che volevano uscire. Si trattenne e si voltò di nuovo verso il ragazzo che seduto dietro di lui lo fissava come si fissa un cucciolo ferito. 

Ti compatisce. Gli fai pena. 

L’aria colpì le sue ferite come il retro di una lama prima che nuove garze gli avvolgessero le braccia, fresche e bianche come una tela vuota, diverse da quelle vecchie ma altrettanto pesanti. Aprì la bocca ma non uscì nulla. Vedeva il biondo aspettare una sua parola, pendeva dalle sue labbra, aspettava che gli dicesse che sarebbe andato tutto bene, aspettava una risata o una battuta come suo solito. 

“Lascerà delle cicatrici.” Disse alla fine con voce strozzata. 

Gli occhi dell’altro si spalancarono come quelli di un bambino. Si limitò ad annuire. Lascerà della cicatrici. Cicatrici che sarebbero andate a fare compagnia a quelle invisibili che si portava dentro.

Katsuki partì per afferrargli la mano ma si fermò a metà strada. Il braccio sospeso a metà come le parole che avrebbe voluto dire. Il ragazzo dai capelli rossi vedeva quanto l’altro era turbato quindi cercò di abbozzare un sorriso, debole come la fiamma di una candela che si sta spegnendo. Gli occhi gli si stavano quasi chiudendo dalla stanchezza e quel sorriso appena accennato sembrava averlo svuotato di ogni energia. Il ragazzo non sembrò bersi quel sorriso finto.

Il sole stava tramontando e Bakugou se ne andò con esso, salutandolo con una debole stretta di mano, forse aveva paura di romperlo. 

Lui però si era già rotto. 

Di notte la calma della stanza diventava quasi insopportabile. il silenzio gli faceva fischiare le orecchie e lo assordava. L’odore di farmaci e sostanze chimiche lo disgustava. Quella era l’ultima notte. Il giorno dopo sarebbe tornato alla UA per riprendere la sua normale vita da studente. Per quanto potesse essere normale ora la sua vita. Sarebbe tornato sconfitto, come un fallito che torna strisciando a casa senza più speranza. 

L’aveva persa, la speranza. Rappa era arrivato feroce come una tempesta a luglio e lo aveva privato del lusso di non sapere cosa volesse dire dare il meglio di sé e perdere, di definirsi indistruttibile e rompersi comunque. Aveva creduto di morire in quel momento, e aveva pensato ai suoi genitori, ai suoi amici, ma soprattutto al ragazzo dagli occhi come rubini, al quale aveva promesso mentre erano abbracciati di non lasciarlo mai. E lo stava per lasciare. Ora sapeva che non poteva mantenere quella promessa, sapeva che Bakugou non meritava di soffrire a causa sua, sapeva che prima o poi sarebbe stato sconfitto definitivamente e il biondo sarebbe rimasto solo. Faticava a dormire. Sognava di nuovo quel momento, sognava il rapimento dell’altro, dava vita a tutte le sue paure che lo tormentavano. 

La mattina si svegliò presto, con poche ore di sonno e gli occhi sempre più marcati da delle profonde occhiaie che ormai erano diventate vecchie amiche. Si vestì con poco entusiasmo e si preparò per uscire definitivamente da quel luogo così angusto. Prima di lasciarlo andare le infermiere lo istruirono su come medicarsi le ferite. Le bende andavano cambiate almeno una volta al giorno e le ferite, ormai quasi rimarginate, disinfettate con cura. 

“Sarebbe meglio lasciare che prendano aria quindi ti suggerisco di dormire senza fasciature.” Gli suggerì la donna mentre gli sorrideva caldamente. 

Fargli prendere aria. Lo detestava. Faceva sembrare le sue ferite come esseri viventi che avevano bisogno respirare. Parassiti che avevano nidificato nel suo corpo e lo prosciugavano lentamente. Immaginava i tagli sulle braccia boccheggiare in cerca di ossigeno mentre lui avrebbe voluto solo lasciare che soffocassero sotto le bende. 

Arrivò a scuola poco dopo la fine delle lezioni e si incamminò lentamente verso il dormitorio. Non era in vena di incontrare nessuno dei suoi compagni, non aveva detto a nessuno se non al biondo che sarebbe tornato. Voleva gustarsi quel poco di solitudine che gli rimaneva prima di diventare l’oggetto di discussione di tutta la classe. Voleva evitare più che poteva le domande, gli sguardi di compassione, le pacche sulle spalle. 

Varcò in silenzio la porta osservando quel luogo che da qualche mese era diventato casa sua. Il divano dove la sera lui e suoi amici si radunavano per chiacchierare, la cucina dove Katsuki gli cucinava piatti deliziosi quando si sentiva giù. Fino ad arrivare alla sua stanza, proprio di fianco a quella del ragazzo, aprì la porta svogliatamente e la chiuse alle sue spalle una volta entrato. La camera era esattamente come l’aveva lasciata, perfino i vestiti sparsi sul pavimento erano rimasti al loro posto. 

Avrebbe dovuto trarre conforto dal fatto che nulla fosse cambiato, almeno nella sua stanza. Ma ora tutto gli pareva di poca importanza. Anche se la sua camera era rimasta la stessa lui era profondamente e irrimediabilmente cambiato. Si sedette sul letto e lasciò andare un sospiro stanco mentre si spogliava. Si tolse i vestiti così come i suoi scudi mentali, rimanendo indifeso di fronte alla sua immagine riflessa nello specchio. Srotolò le bende aggrottando la fronte quando sentì la pelle pizzicargli, ennesima prova che le sue ferite non intendevano lasciarlo dimenticare. Una volta cadute a terra come nastri che fluttuavano a mezz’aria Kirishima si osservò, fissando il se stesso riflesso di fronte a lui. Era la prima volta che si guardava da quando era in ospedale e non riconobbe la persona che aveva di fronte. Gli occhi spenti e scavati dalle occhiaie, i capelli cadevano spettinati sul suo volto e la ricrescita nera sempre più evidente visto che non li tingeva da molto. Il labbro era ancora tumefatto dallo scontro e la mascella leggermente gonfia. 

Si fece pena. 

Studiò le ferite che si estendevano lungo le sue braccia. I lividi avevano iniziato a sparire, e solo qualche macchia giallognola rimaneva insistente. I tagli si stavano rimarginando e sembravano infossarsi nella sua pelle, scavavano dentro di lui distruggendolo internamente, cicatrici pronte a nascere che lo avrebbero marchiato per sempre, ricordandogli eternamente quello scontro, quel momento, quel fallimento.

Le odiava. 

Odiava lo spessore innaturale che avevano, come buche coperte di terra, odiava la loro irregolarità, di come avessero deciso di ridisegnare il suo corpo imponendosi sulla sua fisionomia, una mappa dolorosa incisa a fuoco su di lui. Si diramavano e si aprivano su di lui che nulla era se non un misero foglio di carta. Aveva ormai imparato a memoria lo schema di quei fiordi innavigabili che gli ricoprivano il corpo. Sembra fosse stato colpito da un fulmine, la forma ad albero delle ferite gli ricordava una di quelle cicatrici che aveva visto online. Ma più che altro nella sua testa erano crepe. 

Perché lui si era rotto.

Si era rotto e il suo corpo aveva voluto ricordarglielo per sempre, nonostante fosse ancora vivo, nonostante sarebbe guarito, avrebbe avuto per sempre sul corpo quelle crepe così indecenti, lì sule braccia, dove tutti avrebbero potuto vederle e constatare la sua miseria. 

Aprì l’armadio e prese tutte le magliette a maniche corte, canottiere, qualsiasi indumento che facesse vedere le braccia e lo cacciò a forza dentro un cassetto. Finché il mondo non vedeva quei segni nemmeno lui li avrebbe visti. Solo ora, di notte, la luna illuminava quelle linee lattiginose facendole brillare. Solo la luna avrebbe assistito alla sua vera essenza. 

Il giorno seguente, dopo aver passato l’ennesima notte insonne si diresse a lezione. Indossava la versione invernale della divisa anche se il tempo era stato buono e gli aveva dato una giornata abbastanza calda. Non aspettò Bakugou. Aveva immaginato che il biondo volesse dargli i suoi spazi e lo apprezzava ma non sapeva se lui era pronto a vederlo. Temeva di scoppiargli a piangere di fronte. Di chiedergli di stringerlo. Di supplicarlo di non lasciarlo perché lo sapeva benissimo che era debole. Sapeva che lui lo avrebbe odiato se lo avesse fatto. Odiava le persone deboli e Kirishima si era illuso fin troppo a lungo di essere forte. 

Arrivò di fronte alla classe, prima di entrare fece un respiro profondo e si sistemò le maniche in modo che cadessero fino ai polsi, nascondendo il suo segreto.

“Ciao a tutti ragazzi!” Disse entrando. 

Sorrideva. 

Un sorriso che gli ricordava la rosa nella sua stanza d’ospedale. 

 
  
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