Imperium
Richard Greenwood saggiò con il
polpastrello la punta di uno dei suoi coltelli da tiro, il ferro gelido al
tatto. Osservò ad occhi socchiusi uno dei numerosi bersagli, ostacolato dalla
scarsa luce; il sole era infatti coperto da grossi e cupi nuvoloni grigiastri.
Erano circa le 10 del mattino, Richard aveva un’ora prima che le consuete
attività del Campo ricominciassero. Non gli dispiaceva la compagnia degli altri
mezzosangue, ma preferiva di gran lunga la tranquillità della solitudine.
Quando era solo non doveva sforzarsi di cercare la cosa giusta da dire, né
c’erano aspettative da soddisfare. E poi, alle 11 in punto sarebbe cominciato
il suo turno in Infermeria.
Richard prese un bel respiro e, con
movimento sicuro, lanciò il coltello. La punta penetrò nel centro scarlatto del
bersaglio. Il ragazzo sorrise, soddisfatto dalle proprie prestazioni. Quando si
trattava di coltelli da lancio, Richard poteva vantare un’ottima mira.
Probabilmente era in buona parte merito di Eros, suo padre, che con le sue
frecce centrava e scombussolava la vita di mortali e divinità.
Richard andò a riprendere il coltello,
gemendo lievemente quando si accorse di non aver centrato perfettamente il
bersaglio; e inoltre la lama non era penetrata perfettamente come avrebbe
voluto.
Non si lasciò scoraggiare. Forse doveva
semplicemente allenarsi di più. In fondo, la sua costituzione magra e la sua
scarsa forza fisica non gli permettevano di tirare con forza. E in più
bisognava considerare i vari fattori di disturbo: il lieve venticello che
deviava la traiettoria, la scarsa luminosità, l’umidità e l’arrivo di un imponente
figura che aveva preso ad osservarlo a qualche metro di distanza.
Si trattava di Arthur Clarke, la sua
spina nel fianco.
Il ragazzone asiatico lo stava fissando
con i suoi caldi occhi scuri, le braccia conserte, l’aria rilassata e un
placido sorriso sul volto.
Richard non gradiva essere oggetto di
tutte quelle attenzioni, perciò lo guardò, un sopracciglio alzato. “Arthur. Che
vuoi?”
Non sapeva bene perché, ma da quando era
arrivato al Campo Mezzosangue, quasi un anno prima, il figlio di Dioniso aveva
deciso di prenderlo sotto la sua ala protettiva. All’inizio l’idea non gli andava
particolarmente a genio, ma con il tempo l’esuberante e a tratti pressante
personalità del figlio di Dioniso era diventata parte della sua routine.
Richard cercava ancora di evitarlo; provava delle strane sensazioni quando
l’asiatico gli girava intorno, ma non riusciva bene a dare loro un nome. Il che
era strano: essendo figlio di Eros, Richard avrebbe dovuto conoscere bene
l’emozioni. Eppure non era così. Faticava a riconoscere i propri impulsi e
quelli degli altri, ma la cosa non lo disturbava più di tanto. Con il tempo,
diceva a se stesso, sarebbe riuscito a definire e a dare un nome a quelle
strane sensazioni.
Tuttavia, in quel momento era più che sicuro
di star provando tolleranza: non gli
piaceva essere disturbato mentre si allenava, ma non poteva certo cacciare in
malo modo il figlio del direttore del Campo. Almeno non subito.
Il sorriso di Arthur si allargò. Quando
cominciò a parlare, Richard poté scorgere il leggero luccichio del piercing
sulla lingua del ragazzo.
“Vedo che hai ancora il vizio di startene
qui tutto solo. Posso farti compagnia?”
“No.”
“Perché no?”
Se non avesse avuto sempre quell’aria
così leggera e spensierata, Arthur sarebbe potuto passare per un teppista. Con
quei suoi capelli neri pettinati in una morbida cresta e i numerosi anelli ad
entrambe orecchie. Non sarebbe per niente piaciuto al signore e alla signora
Greenwood.
Richard sbuffò, poi decise di tentare con
un approccio più gentile: “Ho poco tempo prima che cominci il mio turno in Infermeria.
Puoi lasciarmi allenare in pace?”
Arthur valutò per qualche istante la
richiesta, poi sorrise scuotendo la testa. “E se io volessi allenarmi con te?”
“Sei libero di farlo,” concesse Richard
dopo qualche istante, “ma cerca di lasciarmi in pace. Devo concentrarmi: ho
come l’impressione che presto mi servirà tutto questo allenamento.”
“Ah sì?,” fece Arthur, genuinamente
curioso, “perché pensi questo?”
Il ragazzo si avvicinò a Richard con un
paio di ampie falcate, sovrastandolo di circa quindici centimetri. Poi gli
sfilò il coltello dalle minute mani, le labbra tirate in un lieve ghigno.
“Pensi che questo misero coltellino ti
aiuterà lì fuori?” chiese, aggiungendo subito dopo: “Non voglio insultarti, sto
solo domandando.”
Richard non si azzardò a riprendere il
coltello dalle mani dell’altro, il viso accaldato, probabilmente
dall’irritazione. Fece un respiro profondo. “Guardami,” gli disse.
Arthur fece guizzare le sopracciglia. “Lo
sto facendo.”
“Bene. Non so cosa tu veda, ma io vedo un
fisico troppo minuto per maneggiare una spada o un’ascia; una struttura troppo
fragile per tendere un arco o sollevare martelli. Questo,” e prese uno dei
coltelli che aveva nella cintura, “è tutto ciò che ho per difendermi. Ma
credimi, uno di questi gioiellini nel punto giusto basterà a garantirmi la
vittoria o la fuga. Contento ora?” concluse acidamente.
Arthur lo guardò per qualche secondo, gli
occhi più scuri di quanto Richard ricordasse. Non che passasse il tempo ad
osservarli, sia chiaro. Fece un passo indietro, a disagio. Avvertiva di nuovo
quella strana e pesante sensazione all’altezza del petto. Quando fece per
parlare, pur non sapendo bene cosa dire, una voce femminile lo interruppe.
“Arthur?”
Il diretto interessato sbatté velocemente
le palpebre e, riconoscendo la proprietaria di quella voce così dolce, si voltò
sorridendo. “Xue Hua!”
Richard mosse i piedi, leggermente a
disagio.
Freya Gray, figlia del tremendo Deimos,
si avvicinò a testa bassa ad Arthur, che le sorrise, le prese il viso pallido
fra le mani e le scoccò un veloce bacio sulle labbra.
“Scusami il disturbo… ciao Richard.”
Freya agitò lentamente la piccola mano guantata, un timido sorriso modellato
sulle labbra rosee.
Il ragazzo ricambiò il saluto con
cortesia, non capacitandosi di quanto potesse essere contraddittoria la figura
di Freya Gray. Pur essendo figlia di Deimos, il dio del terrore, era una
normalissima e gentilissima ragazza, che non aveva assolutamente nulla di
peculiare. Tralasciando, ovviamente, i capelli bianchi, che in quel momento
erano lasciati sciolti e le sfioravano le spalle. Una volta, spinto da
un’improvvisa curiosità, aveva casualmente domandato ad Arthur se fossero
naturali. Il figlio di Dioniso gli aveva risposto con un secco sì, che aveva lasciato Richard
perplesso: non era da Arthur dare una risposta così breve e coincisa. Tuttavia alla
fine non aveva insistito, decidendo di farsi gli affari suoi.
Freya era una ragazza dolce e gentile,
non la si vedeva spesso in giro e Richard era convinto che se non fosse stato
per la sua particolare discendenza divina sarebbe passata totalmente
inosservata. Richard non pensava questo per cattiveria, ma proprio non riusciva
a capire come una persona esuberante ed avventurosa come Arthur potesse aver
scelto come compagna una ragazza tranquilla e silenziosa come lei.
Non che fossero affari suoi, no di certo.
In fondo, se stavano insieme da quasi due anni evidentemente un motivo c’era.
“Io e Richard ci stavamo allenando,”
disse allegramente Arthur, che sembrava aver totalmente dimenticato la tensione
di qualche attimo prima, “vuoi unirti a noi?”
“No, grazie. Ho delle faccende da
sbrigare ora, ma penso che dopo andrò ad allenarmi un po’ e poi forse mi vedrò
con Morgana: mi sembra particolarmente giù in questo periodo,” Freya si sistemò
il berretto nero sul capo, infreddolita, “il Signor D. vuole che passi a
trovarlo il prima possibile, Arthur.”
“Spero si sia finalmente deciso a
chiedermi qualche consiglio di stile! Quello zoticone ha bisogno di tirarsi a
lucido.”
Richard non riuscì a trattenere un
sorrisetto divertito, che si trasformò in un espressione gentile non appena
Freya si rivolse anche a lui.
“Chirone mi ha anche chiesto di ricordare
a tutti i capocabina della riunione di dopodomani. Sembra si tratti di qualcosa
di importante, ma non ha voluto dirmi altro.”
“Va bene, sarò puntuale.” Assicurò
Richard.
Essendo l’unico figlio di Eros
attualmente presente al Campo Mezzosangue, era toccato a lui ricoprire il ruolo
di capocabina. Non era una carica che gli pesava, dovendo rappresentare solo se
stesso. E poi, aveva conosciuto tante persone relativamente simpatiche grazie a
quel ruolo.
“Okay, piccola messaggera, adesso perché
non vai direttamente nella cabina di Morgana? Stai tremando, dovresti stare al
caldo.” Arthur strofinò le grandi mani sulle braccia di lei, cercando di
trasmetterle calore.
Freya scosse la testa, guardandolo – come
avrebbe detto sua sorella Rachel – con gli
occhi della devozione. Che stupidaggine.
“Te l’ho detto, ho bisogno di allenarmi
un po’ prima. Però sei davvero carino a preoccuparti per me, tesoro.” Sembrava
quasi essere dispiaciuta nel contraddirlo.
Arthur sospirò con fare drammatico. “Non
lo faccio sempre?”
La ragazza ridacchiò e gli prese la mano.
“Starò attenta. E se dovessi prendermi un brutto raffreddore sarai libero di
dirmi con fare saccente te l’avevo detto.”
Grazie al suo unico potere, Richard
percepì una grossa ondata di affetto provenire da entrambi i semidei.
Ringraziando gli dei, non avvertì quantità spropositate di desiderio sessuale
come spesso accadeva quando era in prossimità di alcune coppiette di
adolescenti. Era un po’ strano, ma cosa poteva capirne lui? Quando si accorse
di star fissando, Richard si affrettò a distogliere lo sguardo e a rimettere a
posto nella cintura i restanti coltelli da lancio. Se Freya non fosse stata
così gentile e Arthur così petulante, probabilmente Richard se ne sarebbe già
andato senza dire una parola. Non si sentiva a proprio agio quando le persone si
dimostravano affetto in maniera così spontanea.
Alzò lo sguardo solamente quando udì
Freya augurargli educatamente una buona giornata e allontanarsi a passo svelto.
Arthur ritornò a concentrarsi completamente
su di lui. “Di cosa pensi voglia parlarci Chirone?”
Richard si riscoprì vagamente irritato,
non sapeva bene per quale motivo. “Non lo so,” rispose scostante, “ma ora non
m’importa. Devo andare in Infermeria.”
Arthur sembrò ignorare il suo tono di
voce. “Spero si parli di questo freddo: non ne posso più del naso screpolato!”
La giornata di Perseo Baron Harris non
era cominciata particolarmente bene.
Erano le 8:34 di un uggioso e tetro
mercoledì di marzo, a San Diego faceva un gran freddo e la lezione di inglese
era più pesante del solito. Perseo non aveva idea di cosa ci fosse scritto alla
lavagna, né di cosa stesse dicendo Mr. Dallas. Già di per sé il vecchio
insegnante era noioso e poco coinvolgente, se poi si aggiungevano la dislessia
e l’iperattività di Perseo… beh, il risultato era un gran mal di testa per il
povero ragazzo e un quaderno completamente privo di appunti.
Perseo sospirò, annoiato. Altri 26 minuti
e finalmente quella lezione sarebbe giunta al termine. A seguire ci sarebbero
state ben due ore di matematica.
Finalmente.
Contò le penne nel suo portapenne,
annoiato e infastidito dal clima. Due penne nere, due blu e due rosse. Sei.
Numero pari. Perseo sospirò nuovamente, questa volta soddisfatto. Trovava una
certa pace nei numeri; a causa della sua dislessia, leggere non gli risultava
essere un’attività semplice e piacevole: le lettere cominciavamo a muoversi, a
farsi irriconoscibili. Con i numeri invece era diverso. Quelli rimanevano fermi
dove dovevano stare; chiari, immobili e immutati.
Oscar, il suo compagno di banco, un
ragazzo magrolino e dai capelli rossi, gli chiese in prestito la gomma da
cancellare. Perseo gettò una veloce occhiata sul quaderno del compagno, che
invece di prendere appunti stava disegnando un gatto siamese. A quanto pareva
non era l’unico a non star seguendo.
Una volta utilizzata, Oscar la ripose
distrattamente sul banco di Perseo, lasciando pezzettini di gomma ovunque.
Leggermente irritato, Perseo si affrettò
a gettare oltre il bordo del banco quella fastidiosa sporcizia e a riporre la
gomma nel portapenne. Proprio non sopportava il disordine.
Le 8:47. Erano passati 13 minuti e ne
mancavano ancora altri 13 al suono della campanella.
Guardò fuori dalla finestra,
profondamente annoiato. Il suo posto alla penultima fila gli permetteva il
lusso di poter staccare un po’ la mente senza essere notato. Non troppo almeno.
L’aula di Perseo affacciava sul cortile e il cancello della scuola. Gli alberi
che poteva scorgere all’esterno – li aveva contati minuziosamente: ce n’erano
ventitré – erano completamente spogli così come le varie aiuole che
costeggiavano la strada. Il quartiere dove si trovava la Westerburg High era
particolarmente tranquillo e curato. Nonostante l’edificio si affacciasse
proprio su una delle strade principali, il traffico era poco e l’inquinamento
acustico ridotto al minimo. Si ritrovò a pensare alla sua città natale: New
Orleans. Mesi fa, Chirone aveva fatto in modo che la sua famiglia si spostasse
a San Diego. In un primo momento, Perseo l’aveva trovata una decisione stupida.
Che senso aveva allontanarlo così tanto dal Campo Mezzosangue? Poi, un’idea
forse non del tutto sbagliato aveva preso a formarsi nella sua mente: la sua
sorellastra, Cecily, frequentava il college nei pressi di New York. Probabilmente
due figli di Poseidone non potevano vivere così vicini a causa della loro
potente aura. E, forse, anche perché i due si detestavano e un possibile
scontro fisico poteva rivelarsi una catastrofe vera e propria. Perseo non lo
trovava per niente giusto, ma non poteva contestare gli ordini diretti del
Signor D. e di Chirone. Quest’ultimo gli aveva garantito che tuttavia la
vicinanza al Campo Giove gli avrebbe garantito tutta la protezione di cui aveva
bisogno. In effetti, San Diego era molto pulita
come zona: erano mesi che Perseo non subiva attacchi rilevanti: qualche
empusa di qua, un paio di Ciclopi di là… niente che non sapesse gestire.
Stava osservando per l’ennesima volta il
cancello del cortile, in balia dei suoi pensieri, quando avvertì una strana
sensazione nelle viscere, come se qualcosa gli avesse scombussolato lo stomaco.
Non gli piaceva. Anche grazie ai suoi poteri, Perseo aveva imparato a dar retta
al proprio istinto, perciò si chiese se fosse il caso di avvertire Avery. Ci
pensò su per un paio di secondi e, come se gli avesse letto nel pensiero, udì
un paio di colpi alla porta dell’aula.
Mr. Dallas alzò lo sguardo apatico.
“Avanti.”
Avery, con i suoi ricci biondi e il
sorriso luminoso, fece il suo ingresso nella classe. “Buongiorno, professor
Dallas”, salutò educatamente, “posso rubarle un secondo Harris? È una questione
importante.”
Perseo si alzò in piedi prima che il
professore potesse rispondere. Quest’ultimo lo guardò, un po’ contrariato. “Ma
sì, vai pure. Ma solo perché è Benson a chiedermelo così gentilmente. Non che
faccia alcuna differenza… non stavi comunque prestando attenzione.”
“Mi dispiace”, si sforzò di dire Perseo,
“prometto che la prossima volta starò più attento alla sua lezione.”
L’uomo non era per nulla convinto, ma lo
liquidò con un gesto veloce della mano ossuta.
Perseo uscì dall’aula, l’espressione
corrucciata. “Che succede?”
Il caratteristico sorriso di Avery si
spense. “Abbiamo un problema.”
Avery Benson era un mezzosangue, come
lui. Da quel che Perseo era riuscito a capire, era stato mandato nella sua
stessa scuola per vegliare su di lui
e assicurarsi che non gli accadesse nulla di male. A quanto pare Chirone
riteneva che avesse bisogno di una guardia del corpo o stronzate simili a causa
del suo forte odore-attira-mostri. “Ma
d’altronde,” gli aveva detto il vecchio centauro, “non è colpa tua. Sei figlio di Poseidone, è chiaro che i mostri siano
attratti da te.” La cosa lo infastidiva non poco. Gli altri mezzosangue
sostenevano che essere figlio di uno dei Tre Pezzi Grossi fosse una figata
pazzesca ed aveva i suoi vantaggi; tutto ciò che Perseo aveva ottenuto da
quando Poseidone l’aveva riconosciuto come figlio erano stati una buona dose di
ansia e aspettative, un’irascibile e fastidiosa sorellastra e un nutrito numero
di mostri ed entità antiche che volevano farlo fuori. Sì, davvero una figata pazzesca.
Comunque sia, Avery non aveva esattamente
l’aspetto di una guardia del corpo:
con quel suo aspetto da principe delle favole e il carattere costantemente
allegro e positivo non avrebbe dissuaso alcun mostro dal fargli del male. E
poi, era figlio di una dea pressoché sconosciuta: Leucotea, che a quanto pareva
era una specie di divinità protettrice dei marinai. Perseo non ne sapeva molto,
ma era abbastanza convinto che non si trattasse di una dea particolarmente
pericolosa.
Eppure in quel momento, Avery era così
serio da incutere quasi un certo timore. Quasi.
Era comunque più basso di lui.
“Non mi dire… qualche mostro nei
paraggi?” indagò Perseo.
Avery scosse la testa bionda. “No,
peggio. Seguimi.”
I due mezzosangue si diressero
indisturbati verso i bagni al piano inferiore, i corridoi praticamente deserti.
Perseo era sempre più preoccupato.
Guardò Avery, sconcertato. “Ehm… che ci
facciamo qui?”
L’altro si fermò davanti alla porta
bianca dei bagni maschili al piano terra. Si mise a braccia conserte, il
maglione blu tirato sulle braccia discretamente muscolose “Entra.”
Perseo non sapeva cosa pensare. Il
comportamento dell’altro lo turbava “Cosa? Perché…?”
Avery fece per parlare, ma proprio in
quel momento, dall’interno del bagno, provenne un’ovattata voce femminile:
“Avery?” chiamò.
Perseo sgranò gli occhi, ancora più
confuso. “Ma che sta succedendo?”
Il biondo fece spallucce “Entra e basta.
Io rimarrò fuori a fare da palo.”
Perseo sbatté un paio di volte le
palpebre, ma si decise ad entrare, aprendo con cautela la porta per poi
richiuderla alle proprie spalle.
Con sua grande sorpresa, dall’unico dei
quattro bagni con la porta chiusa venne fuori una ragazza dall’aria sin troppo
familiare: capelli lunghi e scurissimi, naso vagamente aquilino e sopracciglia
espressive e costantemente inarcate. La vista dei numerosi anelli sulle sue
dita gli fece ritorcere le budella: non c’era un ordine logico in quella
composizione. Perché tenerne tre sull’anulare quando sull’indice ce n’era solo
uno?! Ma Perseo era troppo sorpreso per prestare veramente attenzione a quei
particolari.
“Elizabeth? Che ci fai qui?” quasi
esclamò, rimanendo impalato lì dov’era.
“Ciao, Baron!” fece lei con un sorrisetto
colpevole, “come stai? Spero bene, perché sono venuta qui a prenderti.”
Il mondo sembrò vorticargli attorno. Non
poteva essere. Stava andando tutto così bene! Nessun attacco di mostri recente,
le cose in case andavano per il meglio e in settimana sarebbe andato a studiare
matematica a casa dei suoi amici. Sì, si
trattava senz’altro di uno scherzo di cattivo gusto.
“È uno scherzo? Dai, seriamente, che ci
fai qui? E come ci sei arrivata?”
Elizabeth sembrò quasi dispiaciuta. “No,
purtroppo non è uno scherzo. Al Campo Mezzosangue le cose vanno male e avere
proprio te lontano dalla supervisione
di Chirone è… pericoloso. Contattare sia te che Avery è risultato inutile: c’è
qualcosa di strano nei messaggi Iride ultimamente…” fece un breve pausa, in modo
da lasciargli assimilare il tutto, poi riprese: “non è stato difficile
trovarti, se è questo che intendevi. Non è stato nemmeno difficile entrare in
questa scuola.” Ed indicò una finestrella semiaperta in alto, da cui proveniva
aria fredda dall’esterno.
Perseo sentì la voce di Avery oltre la
porta. Stava dicendo a qualcuno, forse ad un professore, che il suo amico era
dentro a vomitare e che non conveniva proprio disturbarlo.
“Baron…” cominciò Elizabeth, ma venne
interrotta da una profonda voce maschile proveniente dall’esterno.
“Elizabeth? Quanto ci vuole? Se non vuole
venire legalo, imbavaglialo e trascinalo fuori di lì. Se entro dieci minuti non
siete fuori giuro che... ”
“Sì, sì,” sbuffò la mezzosangue, alzando
gli occhi al cielo.
Perseo aggrottò la fronte. “Chi è
quello?”
Un sorriso sornione si modellò sulle
labbra della ragazza. “Oh, si chiama Mark. Vedrai, è un simpaticone!”
La porta si aprì nuovamente. La testa di
Avery spuntò da dietro il legno bianco. “Allora? Che si fa? Il professore è
andato via: o ce ne andiamo ora o mai più.”
“Hai intenzione di andare?” chiese
Perseo, incredulo.
“Amico… abbiamo scelta?”
Si girò verso Elizabeth, che li stava
guardando con un’espressione che faceva intendere che no, non ce l’avevano.
“Il Campo… entrambi i Campi hanno bisogno di te.” Disse, gli occhi scuri
imploranti fissi nei suoi.
Perseo distolse lo sguardo e prese uno,
due, tre profondi respiri. “Come faccio con la scuola? Con la mia famiglia…?”
“Lascia fare a me,” lo rassicurò la
semidea, “Chirone ha già pensato a tutto. Dobbiamo solo passare a casa tua per
prendere le tue cose e poi siamo pronti ad andare.”
L’ultima cosa che Perseo voleva era
un’iperattiva figlia di Ermes in casa sua. Rabbrividì al pensiero della sua
impeccabile camera messa a soqquadro dalla ragazza. Si girò a guardare Avery,
che lo stava fissando intensamente. Annuì impercettibilmente.
“Oh, e va bene,” decise infine,
esasperato, “andiamo.”
“Quale dei due è il figlio di Poseidone?”
Grazie alla Foschia creata da Elizabeth e
alle sue abilità da ninja americano,
come diceva lei, i tre erano riusciti a sgattaiolare fuori dalla scuola
completamente indisturbati.
Ad aspettarli all’esterno c’era un
ragazzo armato dall’aria burbera e costantemente infastidita. Era ben
infagottato nei propri vestiti invernali, la schiena perfettamente dritta, le
braccia conserte e le sopracciglia scure aggrottate. Questo deve essere Mark. Non l’ho mai visto al Campo Mezzosangue.
Perseo gettò una veloce occhiata al fodero da gladio che pendeva dalla sua cinta. È romano, realizzò.
Perseo notò con piacere di essere più
alto di lui di almeno una decina di centimetri.
“Lui è Perseo,” disse Elizabeth,
indicandolo con l’indice ingioiellato, “è lui il nostro obbiettivo. Lui invece
si chiama Avery,” fece poi indicando il biondo, che le sorrise quasi
timidamente.
Mark squadrò entrambi con i suoi profondi
occhi blu, soffermandosi in particolar modo su Perseo. La cosa lo metteva
leggermente a disagio, ma decise di non volergli dare alcun tipo di
soddisfazione.
“Quindi abbiamo fatto tutta questa fatica
per lui?” Non c’era cattiveria nel
suo tono di voce, ma a Perseo non piacque ugualmente.
Gonfiò il petto, infastidito. “Non ho
chiesto io di essere venuto a prendere.”
“No, certo che no. Mi aspettavo
semplicemente qualcosa in più. Ma chi
sono io per giudicare?”
Perseo alzò le sopracciglia, poco
impressionato. Quel tipo non gli piaceva per niente.
“Nessuno.”
Avery ed Elizabeth si scambiarono un
veloce sguardo preoccupato. Fu la ragazza a prendere la parola e a spezzare la
tensione, un sorriso carico d’ansia sul volto pallido. “Okay! Ora che abbiamo
fatto tutti amicizia, che ne dite di muoverci? Non abbiamo una macchina, perciò
la strada sarà lunga.”
“Dove andiamo?” domandò Perseo.
Gli occhi scuri di Elizabeth brillarono.
“Sei mai stato a Nuova Roma?”
La risposta era no. Perseo aveva sentito
parlare di quella straordinaria città. Si diceva che l’architettura in quel
posto fosse spettacolare. L’idea di poter ammirare dal vivo un tale splendore
rendeva la prospettiva di quel viaggio nettamente più allettante agli occhi del
figlio di Poseidone.
“Comunque sia, sta’ tranquillo,” lo
rassicurò Elizabeth, “È la prima volta anche per me, ma sono sicura che Mark
sarà ben felice di farci da guida. Non è così, Mark?”
Il ragazzo si limitò a lanciarle
un’occhiataccia.
“Se posso permettermi…” intervenne Avery
con un sorrisetto, rivolgendosi soprattutto alla semidea “possiedo una
macchina”
“Bene.” Fece Mark.
“Benissimo!” esclamò Elizabeth.
Un largo sorriso compiaciuto si formò
sulla bocca di Avery. “L’unico problema è che questa mattina sono venuto con
l’autobus…”
Perseo sentì Mark borbottare qualcosa, ma
decise di ignorarlo.
“Non c’è problema,” assicurò Elizabeth, “Possiamo
chiamare un taxi.”
“Con quale telefono?” domandò Perseo.
Erano mezzosangue, dopotutto. I figli di Efesto si stavano ingegnando per poter
creare dei telefoni a prova di mostro, ma erano ancora tutti da collaudare.
“Con questo!”, disse allegramente
Elizabeth, tirando fuori dalla tasca un cellulare di ultima generazione.
“E questo da dove sbuca fuori?” chiese
Mark.
Elizabeth si limitò a fare spallucce.
Fece un paio di telefonate. “Dobbiamo spostarci un po’ più verso la strada
principale. Il tassista dice che questa è una strada a senso unico. Andiamo.”
Il gruppo si incamminò verso il punto
indicato loro dal tassista. Mentre camminava, Perseo avvertì un’improvvisa strana
sensazione all’altezza della vertigine. Era come se un velo invisibile gli
stesse ricoprendo l’intero corpo partendo dalla testa. Proprio mentre la
sensazione andava ad intensificarsi, Elizabeth, che stava in testa al gruppo,
si accasciò su se stessa. Prima che potesse toccare terra, Mark scattò in
avanti e la sostenne, evitando che cadesse.
“Che succede? Che hai?” chiese il semidio
romano. Perseo si stupì nell’udire una nota di preoccupazione nel solitamente impassibile
tono del ragazzo.
Avery si immobilizzò, sconcertato.
Elizabeth sbatté le palpebre, mettendo
piano piano a fuoco le figure dei tre ragazzi. Posò lo sguardo su Perseo mentre
si rialzava. Sembrava quasi lo stesse accusando, ma il semidio non riusciva a
capirne il motivo. Elizabeth continuò a fissarlo, il volto pallido e le labbra
tirate. “Sei davvero potente, Baron.”
“Cosa intendi?” domandò il diretto
interessato.
“La tua aura da mezzosangue,” spiegò lei,
“ho provato a comprimerla e mascherarla tutta per evitare eventuali attacchi
ma… è stata una stronzata. A volte sono troppo sicura di me.”
“Riesci a metterti in piedi?” volle
sapere Mark, tenendola per un braccio.
Elizabeth annuì e si rimise in piedi.
“Sì, è stato solo un momento.” Perseo percepì la protezione affievolirsi ma non
sparire completamente.
“È pazzesco,” commentò Avery, “come riesci
a farlo?”
“Ho scoperto da poco di poter espandere
questa cosa anche ad altri mezzosangue… c’è bisogno di molta concentrazione ed
energia. È… complicato.”
Avery fece segno di aver capito, ma
Perseo lo conosceva bene: non aveva capito un tubo.
Una volta accertatosi delle condizioni
della sua compagna, Mark riprese a camminare. Raggiunsero il luogo stabilito
dal tassista e, dopo un paio di minuti, vennero raggiunti dal veicolo.
Il tassista non sembrò far caso alla
pericolosa spada che penzolava dal fianco di Mark.
“Non dovreste essere a scuola, ragazzi?”
domandò l’uomo.
“Non dovresti farti gli affari tuoi?”
replicò Mark.
Il tassista non parlò più se non per
chiedere quale fosse la destinazione.
Dopo quattordici minuti, erano arrivati a
casa Benson.
I quattro semidei pagarono e scesero dal
taxi.
“Aspettatemi qui, per favore.” Disse
Avery. Tirò fuori dallo zaino delle chiavi e si avviò a passo svelto verso la
porta.
Perseo si guardò un po’ intorno. Non era
mai stato a casa di Avery prima di allora. Frequentavano la stessa scuola da
mesi, eppure solo in quel momento Perseo si rese conto di non conoscere
assolutamente nulla della vita di quello che ormai considerava un amico. Non
sapeva chi fosse suo padre, se avesse fratelli mortali, cosa facesse nel tempo
libero. La cosa lo destabilizzò un po’.
La sua era una normale casetta nel
classico stile americano; molto probabilmente le fondamenta erano di legno il
che, secondo il modesto parere di
Perseo, non era un materiale adatto per la costruzione di case del genere.
Il cortile era poco curato: c’erano
parecchie erbacce sparse lungo tutto il viottolo principale, alcune statuette
da giardino era piazzate in giro senza un apparente ordine logico. C’erano due
nani da giardino, un cerbiatto e quattro coniglietti. Qualcuno aveva provato a
piantare un alberello – forse di mimose – ma il freddo e le poche attenzioni
l’avevano fatto letteralmente appassire.
Elizabeth si era accovacciata di fianco
ad un nano da giardino con il cappello a punta rosso e lo stava osservando con
occhio critico. Probabilmente si stava domandando quanto valesse.
Mark aveva le braccia conserte e si stava
guardando attorno. Impallidì. “Non mi dire che…”
Perseo seguì il suo sguardo. Aveva
adocchiato una macchinina color crema: assomigliava vagamente ad una British
Leyland Mini.
“Ma è la macchina di Mr. Bean!” esclamò
divertita Elizabeth, indicandola.
Perseo si godette l’espressione
inorridita di Mark.
Si rese conto di non conoscere ancora il
genitore divino del ragazzo. Era curioso, ma non aveva intenzione di
rivolgergli più parole del necessario.
Dopo un paio di minuti, Avery tornò da
loro, un paio di zainetti in spalla e le chiavi della macchina ciondolanti al
dito.
Porse uno dei due zaini a Perseo, che lo
ringraziò e se lo sistemò in spalla.
“Dobbiamo passare da te, amico?”, domandò
Avery, “però sappi che in questa borsa c’è tutto quello di cui potresti aver
bisogno. L’avevo pronta da tempo…”
Mark guardò intensamente Perseo, che
sostenne il suo sguardo solo per pochi secondi. Quanto mi infastidisce, pensò stringendo i pugni.
“Ehm… Baron,” intervenne Elizabeth con
gentilezza, “non abbiamo molto tempo. So che potrebbe farti piacere passare a
salutare la tua famiglia e prendere le tue cose ma… è un po’ tardi. Più tempo
passiamo qua fuori più siamo esposti al pericolo. Se ci assicuri che si
tratterà solo di un paio di minuti però...”
Perseo ci pensò su. Sua madre non lo
avrebbe lasciato andar via così facilmente. Avrebbe preteso spiegazioni e
chiarimenti, costringendo Elizabeth a creare uno spesso strato di Foschia e a
dar fondo ad ulteriori energie. Non capiva ancora da chi lo stessero apparentemente
proteggendo, ma da quando Poseidone l’aveva riconosciuto come figlio suo aveva
imparato a dar retta al proprio istinto. E in quel momento il suo istinto gli
stava suggerendo – o meglio, imponendo
– di fidarsi di Mark ed Elizabeth.
Sospirò, ricacciando giù il groppo che
gli si stava formando in gola. “No, possiamo andare. Cercherò di mettermi in
contatto con la mia famiglia dopo.”
Con sua grande sorpresa, Mark annuì,
approvando il suo gesto. “Ottimo spirito di sacrificio.”
Avery gli lanciò un’occhiata preoccupata,
ma Perseo lo ignorò. In che guaio si stava cacciando?
D’altra parte, per Elizabeth la questione
era chiusa: si lanciò con un scatto fulmineo verso la macchina, conquistando il
posto di fianco al guidatore. “Mio!” esclamò soddisfatta.
Avery ridacchiò e si sistemò al volante.
A Perseo toccò stiparsi sui sedili
posteriori insieme a Mark. Entrambi i ragazzi tenevano le gambe ben strette tra
di loro per evitate contatti indesiderati. Il romano borbottò un’ imprecazione
in latino e guardò in cagnesco Avery.
Il biondo sorrise, mostrando i brillanti
e dritti denti bianchi. “Che strada prendo?”
Perseo, suo malgrado, sentì Mark agitarsi
di fianco a lui.
“Non puoi lasciar guidare me?”, domandò
fra i denti.
Avery assunse una finta espressione
corrucciata. “Mmh, no. Questo gioiellino è un po’ capriccioso. Bisogna saperci
fare.” E gli fece l’occhiolino.
Se possibile, l’espressione del romano si
fece ancora più arcigna.
Elizabeth si sistemò la cintura di
sicurezza e posò il proprio zaino ai suoi piedi. Non aveva armi, notò Perseo. “Oh,
non prendertela Mark! In fondo non hai nemmeno la patente…” poi tirò fuori
dalla tasca il cellulare che aveva probabilmente rubato.
“Ma sei impazzita?!” sbottò Perseo,
allarmato. “L’hai già usato prima! Non possiamo rischiare ancora.”
“Non urlare,” brontolò a bassa voce Mark.
Perseo si girò verso di lui. “Hai
intenzione di lasciarla fare?”
L’altro scrollò le spalle. “Saremo più
veloci di qualsiasi mostro. O almeno è quello che spero.” Guardò con
aspettativa Avery, che intanto picchiettava le dita sul volante e osservava
Elizabeth smanettare con il cellulare, gli occhi scuri saettanti sullo schermo.
Quando si accorse che il romano si stava
rivolgendo a lui, raddrizzò le spalle e gonfiò il petto. “Ci puoi scommettere!”
“Ecco fatto!” esclamò Elizabeth. Abbassò
il finestrino e vi gettò fuori il telefono. “So benissimo dove andare. Metti in
moto, Avery, vi guido io!”
L’ultimo affermazione non tranquillizzò
per nulla Perseo, che poggiò la schiena sul sediolino, rassegnato.
“Ho vinto di nuovo!”
“Tutta fortuna…”
“No, questo è talento.”
Eva Jean Hooke amava vincere. Secondo il umile parere non esisteva sapore più
dolce di quello della vittoria, né tra i mortali né tra gli dei.
Non poté fare a meno di gongolare mentre
tirava a sé il piccolo bottino di monete d’oro. Il suo avversario, un gracile
anziano a cui mancavano tutti i denti fatta eccezione per un unico sporgente
incisivi inferiore, brontolò.
“Tu bari,” disse.
Eva impilò sorridendo le monete.
Lentamente, gustandosi quella dolce ed inebriante sensazione. “Questa è
calunnia, Adam. Calunnia bella e buona. Vuoi la rivincita?”
Adam la fissò per un lungo istante con i
suoi piccoli occhietti astiosi, poi voltò di scatto il capo, emise un rumoroso
gorgoglio e sputò sul pavimento. “Sei una stronza. Ci sto!”
A quel punto, Eva non riuscì più a
trattenersi e cominciò a ridacchiare, per poi mescolare le carte di gioco. “Mi
dispiace, ma non c’è un gioco in cui io non sia campionessa.”
Adam sospirò, poggiando il peso del
proprio corpo rattrappito sullo schienale della sedia in legno. “In gioventù
ero io il campione di Pinnacolo.”
“Beh,” disse Eva, spezzando il mazzo e
continuando a mischiare, “le cose cambiano. Però facciamo così: se vinci questo
round, prometto che ti restituirò tutto quello che hai perso. Che ne dici?”
Adam fece un paio di gestacci che
suscitarono l’ilarità della giovane semidea. “Non ho bisogno della tua carità,
mocciosetta.”
“Vedila più come una scommessa. Dici che
in gioventù eri tu il campione… quindi non sarà difficile per te
dimostrarmelo.”
Detto ciò, i due sfidanti si calarono in
un’intensa partita di carte, condita da numerosi insulti da parte di Adam e più
moderate provocazioni da parte della semidea più giovane.
Si trovavano nel modesto salotto
nell’altrettanto modesta casetta dell’anziano. Elle, l’ottantaseienne moglie di
Adam, le aveva spiegato che era impossibile tenere oggetti pregiati nella
stessa casa dove viveva l’uomo, che aveva da sempre avuto il vizio di
scommettere e giocare d’azzardo. Nel momento in cui Elle gli aveva proibito di
maneggiare denaro, Adam aveva iniziato a mettere in palio i vari oggetti
presenti in casa. La povera donna era stata costretta a mettere sotto chiave
qualsiasi genere di ninnolo, dal vecchio orologio a cucù al corredo nuziale.
Nonostante l’abitazione fosse un po’
spoglia, c’era un bel tepore. Eva aveva addirittura poggiato il giaccone sullo
schienale della propria sedia.
Non erano nemmeno arrivati a metà
partita, quando il campanello suonò, interrompendoli sul più bello.
“Elle! Melissa! Qualcuno apra quella
dannata porta!”, abbaiò Adam, stizzito, “e tu!”
fece poi, puntando un indice ossuto verso Eva, “non azzardarti a smettere di
giocare. Me lo sento, questa è la mia partita.”
Eva non aveva alcuna intenzione di
muoversi, ma annuì ugualmente. Ad aprire fu una donna bionda e grassoccia sulla
quarantina: si trattava di Melissa, una delle nipoti di Adam.
I due tornarono a concentrarsi sul gioco.
“Ciao, come posso aiutarti?”, udì Melissa
chiedere con una lieve punta di incertezza nella voce.
“Sì, salve… ehm… cercavo Eva. Eva Hooke.
Mi chiamo Fil Wong, siamo amici.”
“Oh, ma sì! Sei il figlio di Plutone.
Entra pure! Zi… Eva? C’è Fil Wong alla porta per te!”
Eva lo ignorò, non distogliendo lo
sguardo dalle carte, completamente assorta. Non poteva perdere, non l’avrebbe
sopportato.
“Eva, non
cominciamo. È important…” fece Fil entrando in casa, ma venne prontamente
interrotto dalla voce raschiante di Adam.
“Fa’ silenzio, cinesino, stiamo facendo una cosa seria qui.”
“Nonno!”, scattò su Melissa, “ti prego di
perdonarlo… è sputo quello lì per terra?”
“Non importa,” disse il ragazzo,
schiarendosi la voce, “però, Eva, dobbiamo proprio andare. Crystal e Martin
chiedono di te.”
Eva gli concesse finalmente la sua
attenzione, con grande disappunto di Adam, che gettò le carte per aria,
stizzito. “Dei! Un vecchio non può
più nemmeno giocare in casa propria?! Proprio ora che stavo per vincere,” fece
poi con fare lamentoso.
Melissa lo raggiunse, aggirando
accuratamente la macchia di saliva sul pavimento, e gli posò una delicata mano
sulla spalla, sospirando. “Dai, nonno, non fare così. Prometto che giocherò con
te non appena Eva se ne sarà andata.”
“Bah! Non è la stessa cosa.” Sbottò il
vecchio. Se anche Melissa ci rimase male, non lo diede a vedere. Era una donna
adulta dopotutto.
“Cosa possono mai volere da me i due
pretori?”
“Tanto per cominciare,” fece Fil, a
disagio, “sei centurione della quarta coorte.”
“Quisquiglie.”
“… è c’è anche Aster con loro.”
“Ah beh,” sospirò allora Eva, poggiando i
palmi delle mani sul tavolo e alzandosi con riluttanza, “questa volta mi tocca
proprio. Adam?”
Il diretto interessato sbuffò. Quel
vecchiaccio non faceva altro che sbuffare.
“Oh, ‘fanculo. Va’ se proprio devi.
Finiremo questa partita in un secondo momento. Ma intanto,” e si allungò con
sorprendente agilità sul tavolo, afferrando con disinvoltura il sacchetto di
monete di Eva; ghignando lo scosse, facendo tintinnare il bottino, “questo
rimane qui con me.”
Fil non volle dirle niente riguardo
l’incontro. Lungo il tragitto, il ragazzo cambiava continuamente discorso,
facendo innervosire la già di per sé nervosa Eva: l’avevano interrotta proprio
sul più bello. Qualsiasi fosse la loro richiesta – perché, andiamo, perché scomodarsi tanto se non per pretendere qualcosa da
lei? – non era esattamente ben disposta a dar loro retta.
“Adam sembra star meglio. Stare con te
gli restituisce vigore.”
Eva scosse le spalle. “Un po’ di sana
competizione restituisce vigore a chiunque. A nessuno piace perdere.”
Fil non parlò più finché non raggiunsero
Crystal ed Aster. I due potevano essere scorti dalla vetrina di un bar poco
lontano dalla casa di Adam. A vederli così, sembravano una semplice coppia di
amici intenta a passare una fredda mattinata invernale nella piacevole
compagnia l’uno dell’altro. Ma già da lontano Eva poté notare che c’era
qualcosa di strano nella coppia, soprattutto in Crystal. Sembrava stanca, e
qualcosa nei suoi elettrici occhi azzurri sembrava essersi spenta.
Fil si congedò.
Eva entrò nel bar, facendo tintinnare il
campanellino sulla porta rossa. Senza salutare nessuno, si diresse direttamente
al tavolo dei due. Sedevano vicini e non avevano ancora ordinato nulla.
“Ce ne hai messo di tempo,” commentò
Crystal, vagamente infastidita dal suo ritardo.
“Ero da Adam.” Rispose semplicemente Eva,
mettendosi comoda sulla poltroncina rossa intrecciando le mani sul tavolo, in
attesa che uno dei due parlasse. I suoi occhi passavano dall’uno all’altro, le
sopracciglia inarcate. Crystal la stava deliberatamente osservando con il suo miglior
sguardo inquisitore. Eva sentì l’ansia correrle lungo la spina dorsale, perciò
decise di concentrare tutte le proprie attenzioni su Aster, che d’altra parte
sembrava preoccupato. “Allora?”, fece dopo qualche secondo di troppo di
silenzio, “che succede? Dov’è Martin?”
Fu proprio Aster a schiarirsi la voce a
rispondere. “Arriverà presto, aveva un paio di faccende da sbrigare prima. Ti
chiederai il perché di tutta questa urgenza…”
“Fatemi indovinare,” sospirò Eva, “si
tratta di quella rompicoglioni di mia madre, non è così?”
Crystal si guardò attorno nervosamente,
ma non accadde nulla. “Fa’ attenzione, Hooke. Non parlerei della dea Vittoria
in questa maniera se fossi in te. È una divinità potente.”
Eva fece irrispettosamente schioccare la
lingua in un gesto di sdegno. “Sai quanto me ne importa. Sono diciott’anni che
mi rovina la vita con le sue malsane aspettative.”
Vittoria superava di gran lunga Eva a
livello di competitività. La dea, sin da quando Eva era poco più di una
bambina, soleva raccomandarla per ogni genere di missione ed istigarla a non
frenare i suoi impulsi più egoisti. Un buon genitore avrebbe dovuto dire alla
propria bambina che no, non si può avere
tutto dalla vita e l’importante è
partecipare o ancora vincere non è
tutto. Ma Vittoria non era quel tipo di madre. Lei pretendeva che la
propria prole eccellesse in tutto e surclassasse il migliore in ogni ambito
possibile; a partire dal lancio dei coltelli, alla corsa delle bighe, fino ad
arrivare alla danza o alla cucina.
Eva aveva sempre adorato vincere, sin dai
tempi della scuola materna. Gli altri bambini la detestavano a causa della sua
prematura e sconcertante arroganza. Suo padre poi… no, non se la sentiva ancora
di ricordare suo padre.
Aster parve leggermente a disagio. “Oh,
beh… è proprio di questo che volevamo parlarti. Ho avuto una visione… tua madre
mi ha parlato.”
Eva sentì il sangue ribollirle nelle
vene. Quando avrebbe smesso di intromettersi nella sua vita? Mise le mani sotto
al tavolo e strinse forte i pugni, intimando a se stessa di stare in silenzio e
sopprimere le proprie emozioni. Come se
stessi giocando a poker.
Aster si inumidì le labbra, scambiando
una breve occhiata con Crystal prima di continuare. “Mi ha parlato e mia detto
che il successo di Roma significa tutto per lei. Non c’è nulla che non farei per
Roma e Nuova Roma, ha detto così...”
“E io cosa c’entro?”
Crystal le lanciò un’occhiataccia.
“Lascialo parlare,” intimò.
Eva incrociò le braccia al petto e poggiò
la schiena alla poltroncina, gli occhi socchiusi e il mento tenuto su con
arroganza. Non osò tuttavia rispondere per le rime, suo malgrado intimorita
dall’altra ragazza. Non era mai corso buon sangue tra le due, questo era chiaro
agli occhi di chiunque; per questo e in rispetto del quieto vivere generale, le
due avevano scelto di ignorarsi.
Esaminò velocemente il pretore: aveva
l’aria stanca; non si era pettinata i capelli e la cicatrice sembrava
risaltare. Quando Crystal si accorse di essere osservata, ricambiò
silenziosamente lo sguardo, spingendo Eva ad abbassare docilmente la testa.
Aster stava osservando silenziosamente la
scena, affascinato. Si passò una mano tra i suoi bizzarri capelli bianchi,
abbozzando un lieve sorriso. “Ho osservato gli uccelli per giorni…”, fece una
breve pausa, riuscendo così a far sorridere divertite le due semidee, “okay, mi
è uscita male, ma sapete quello che intendo. Con questo freddo ne ho visti ben
pochi, perciò tutto quello che so viene principalmente dal sogno e da tua
madre.”
Si ammutolì quando il cameriere si
avvicinò per prendere gli ordini. “Ovviamente,” stava dicendo l’inserviente, un
ometto tutto pelle e ossa, “per il Pretore, l’Augure e la signorina Hooke offre
la casa.”
Alla fine presero tre cioccolate calde,
sotto insistenza di Aster. Crystal non aveva l’aria di una che aveva voglia di
perdere più tempo del previsto per sorseggiare una bevanda calda. Eva non
poteva biasimarla, non su questo. Era brava a leggere le persone – ogni buon
giocatore d’azzardo deve saperlo fare –
ed era chiaro ormai da tempo che il ruolo di pretore le stava stretto.
Quando il cameriere se ne andò, Aster
riprese a parlare. “Sei qui perché tua madre ha fatto esplicitamente il tuo
nome. Sostiene di conoscere la profezia e che il tuo nome figura tra quelli
degli altri eroi.”
Eva sbatté le palpebre un paio di volte,
confusa. “Profezia? Di quale profezia stiamo parlando?”
Crystal prese la parola: “Questo ancora
non lo sappiamo, ma gli anziani ed Aster sostengono che qualcosa si sia
risvegliato. Ho mandato Mark Crassus in missione per cercare informazioni, dal
momento che dai Greci l’Oracolo tace.”
Aster annuì, posando lo sguardo ceruleo
sul tavolo, chiaramente impensierito. “Il punto è che non sappiamo se lasciarti
partite oppure no.”
Eva si mosse sulla poltrona, scalpitante.
“Chi meglio della figlia di Vittoria può garantire il successo di Roma?”, disse
gonfiando il petto, poi abbassò la voce, “odio mia madre per ciò che ha fatto a
me e a mio fratello, ma non si possono ignorare le profezie.”
“Eva, non ci fidiamo di te,” intervenne
Crystal senza troppi giri di parole, “tu cerchi la gloria personale, non quella
di Roma.”
“Può darsi,” ammise lei, spiazzando i
suoi due superiori, “ma chi rimarrà ad osannarmi se lascio che il Campo Giove
venga distrutto o sottomesso?”
Aster scosse la testa, sorridendo appena.
“Non cambi mai tu, eh?”
Ricambiò il sorriso, facendo per parlare
ma venendo interrotta dall’arrivo delle cioccolate.
“Tieni,” disse Crystal al cameriere,
premendogli in mano una manciata di monete, “e tieni il resto.”
L’ometto fece per parlare, ma poi ci
ripensò, abbassò la testa quasi con riverenza e si allontanò, tenendo nel pugno
le monete e stringendosi al petto il vassoio.
Eva alzò un sopracciglio, ma non disse
nulla.
Il sorriso di Aster non fece che
allargarsi. L’augure tornò a concentrarsi su Eva. “Quindi mi assicuri, ci assicuri che porterai a termine la
missione, qualunque essa sia?”
La ragazza annuì, soffiando sulla propria
tazza. “Io non sono mio fratello.”
“No, non lo sei,” concesse Crystal, “ma
purtroppo il sangue non mente.”
“Non ho mai tradito il Campo Giove! Mi
state facendo passare per una povera irresponsabile…”
“Tua madre dice di essere dalla nostra
parte,” riprese Crystal, fissando la tazza con occhi assenti, “ma si sa, non le
piace perdere. Come non piace perdere a
te. Cosa accadrebbe se Vittoria ci voltasse le spalle? Cosa faresti tu in quel caso?”
Un forte peso si avviluppò al petto della
semidea. Era vero, lei odiava essere
sconfitta più di ogni altra cosa. Sarebbe rimasta fedele al Campo nonostante
tutto? Avrebbe protetto Nuova Roma con tutto ciò che aveva. Ripensò a suo
fratello, indifeso e scartato da tutti… tradire la città significava tradire
lui e la sua famiglia. No, non doveva, non poteva
lasciarsi corrompere dai propri impulsi.
Guardò prima Aster, poi il pretore dritto
negli occhi, il peso nel petto sempre più pressante ed invasivo. Ci volle tutto
il suo coraggio per sostenere lo sguardo elettrico e indecifrabile di Crystal.
“Io non sono né mia madre né mio fratello. Sono un soldato al servizio di Roma
e centurione della mia coorte. E mai
volterò le spalle alla mia gente. Quando e se
i Greci ci comunicheranno la profezia, io seguirò il volere del Fato.”
Lo sguardo di Crystal ebbe un guizzo
divertito. “Interessante.”
Eva sospirò, conscia del significato di
quell’espressione. “Cosa posso fare per convincerti?”
“Assolutamente nulla,” disse la mora,
“l’hai detto tu, no? Seguirai il volere del Fato, e gli dei solo sanno cosa ha
in serbo per tutti noi.”
“Letteralmente,” aggiunse Aster, “solo
gli dei sanno, e a volte neppure loro.”
Freya Grey, con quella sua pelle diafana,
i capelli bianchi e gli occhi grigi e slavati, sembrava un fantasma. Richard
non riusciva a non pensarci, mentre passava con delicatezza un unguento a base
di erbe sulla coscia destra di lei: un lungo taglio percorreva l’arto nella sua
quasi totale interezza, partendo da metà coscia per poi fermarsi poco sopra il
ginocchio.
“Ahi…”, mugolò Freya, gli occhi lucidi e
il bel viso contratto in una smorfia di dolore. Era seduta in mutande e
maglietta a maniche lunghe su uno dei lettino dell’infermeria, le dita strette
sulle lenzuola e i denti affondati nel labbro inferiore. Per essere una semidea, sopporta veramente poco il dolore, pensò
Richard, mentre esaminava con attenzione la ferita. Non era un taglio grave,
nulla a cui un po’ di unguenti non potessero provvedere. Fortunatamente era
arrivata in tempo.
“È tutta colpa mia! Avrei dovuto dire a
Fred di lasciar perdere quella sua invenzione…”
A parlare era stata Jun, della casa di
Efesto, un’iperattiva ragazzona dalla pelle mulatta e i tratti asiatici. Era
stato difficile per Richard rimanere impassibile dinanzi alla scena che gli si
era presentata davanti agli occhi una decina di minuti prima. Jun aveva
spalancato la porta dell’Infermeria con un vigoroso calcio, facendo perdere a
Richard dieci anni di vita. La ragazza era in canottiera e urlava frasi
sconnesse mentre teneva a mo’ di sacco di patate la povera Freya, che sembrava
più confusa che sofferente. L’aveva poi fatta sedere su di una brandina,
iniziando a spiegare a Richard la situazione: a quanto pareva, Freya era andata
nelle fucine per ricordare proprio a Jun dell’incontro dei capocabina che si
sarebbe tenuto l’indomani. Fred, un chiassoso ragazzo di sedici anni, stava
proprio in quel momento brevettando la sua ultima invenzione: il lancia- shuriken. “All’inizio pensavo
fosse una grande idea!,” disse Jun gesticolando con enfasi, “ma poi
quell’imbecille l’ha fatto cadere e quell’aggeggio ha iniziato a sparare
stelline ninja di bronzo celeste dappertutto!”
Freya ridacchiò lievemente al ricordo,
nonostante il dolore. “Non ho mai sentito tante parolacce insieme in vita mia.”
Jun arrossì, accaldata. Richard le offrì
un bicchiere d’acqua, ma lei scosse la testa, continuando a raccontare e
scusarsi e offrire a Freya di stringere la propria mano per sopportare il
dolore. “Noi figli di Efesto abbiamo la pellaccia dura, ma questa poverina è
così delicata… oh, sono così dispiaciuta!”
Freya si irrigidì un po’ al termine poverina, ma sorrise ugualmente con
dolcezza. “Non fa niente, Jun, capita. E poi, non sono così delicata come cred…
ahi! Richard, perché mi hai artigliato la gamba?”
Richard aveva gli occhi spalancati, ma
non stava fissando lei, bensì qualcosa alla sua destra. Freya e Jun si
voltarono lentamente. Ciò che videro causò l’urlo della figlia di Deimos e un
rumoroso “O carajo!” da parte di Jun:
Makayla, l’indifesa figlia di Moros, era seduta a mezzo busto sul letto, le
numerose lenzuola le coprivano solo le sottili ed ossute gambe; i capelli erano
disordinati, le guance incavate e la pelle pallidissima. Ma ciò che fece
rabbrividire Richard furono gli occhi: Makayla, che di norma possedeva dei
caldi ed affabili occhi scuri, in quel momento esibiva orbite completamente
bianche e spiritate. Richard dovette ricredersi: il fantasma non era Freya,
proprio per nulla.
Il semidio cercò con lo sguardo Ethalyn,
ricordandosi solo in seguito che era stato proprio lui a mandarla dai figli di
Ermes a recuperare altre bende.
“Jun,” sussurrò, “corri a chiamare
Chirone. Non posso lasciare Freya qui.”
Quest’ultima aveva allacciato le braccia
intorno al collo di Richard, che intanto le aveva messo un braccio intorno alla
vita, e stava tentando di mettersi in piedi grazie al suo aiuto, ma lo sforzo e
la contrazione dell’arto infortunato causarono la caduta di diversi rivoli di
sangue e il sommesso lamento della semidea.
Jun li guardò con un’espressione a metà
tra l’esasperazione e la paura, poi si allontanò cautamente da loro, uscì
dall’infermeria e cominciò a correre in tuta e canottiera alla fredda aria
aperta.
“Makayla? Riesci a sentirmi?,” tentò
Richard. Quella girò lentamente la testa, poi si inumidì le labbra screpolate e
cominciò a parlare con voce gutturale.
“Mark
Anthony Richard Greenwood.”
“Ehm… sì, sono io.”
“Freya
Grey.”
Gli occhi pallidi di Freya si
illuminarono. “Ci riconosce!”
“Imbecilli!
Prendete carta e penna!”, sbottò Makayla.
Imbarazzata, Freya si separò da Richard e
si mise a sedere sul letto, lo sguardo basso. Più infastidito che spaventato
dalla situazione, Richard si affrettò a cercare una penna. Una volta trovata,
si rese conto di non avere più né carta né bende. Quindi ritornò da Freya e
cominciò a scrivere sul cuscino bianco.
“Jun-Lin
Ortega, Mark Crassus, Avery Benson, Arthur Clarke…”
Sia lui che Freya trasalirono udendo
l’ultimo nome, sin troppo familiare per entrambi.
“Blanca
Delgado, Jackie Harmon…”
“Un attimo!,” fece Richard, agitato, “si
è scaricata la penna.”
Makayla, o chiunque ci fosse nel suo
corpo, aspettò pazientemente mentre Richard andava alla frenetica ricerca di
una nuova penna. Ma dove diavolo erano le penne? Erano sempre lì quando non
servivano e ora…
“Chirone…” sentì Freya sussurrare,
sollevata. Richard, ancora impegnato nella ricerca di una penna, udì il
familiare rumore degli zoccoli del centauro e il preoccupante rumore di
numerosi passi. Sbuffò, sentendo l’ansia crescergli in petto.
Proprio quando stava per rinunciarci,
finalmente trovò una Bic nera su di uno scaffale.
Alzò lo sguardo, notando nel gruppo
alcuni visi familiari: c’erano Chirone, il Signor D., Jun, Morgana, Arthur…
quest’ultimo aveva gli occhi fissi su Freya, in particolare sulla sua ferita.
Il figlio di Dioniso fece per raggiungerla, ma fu proprio suo padre a
trattenerlo per un braccio. Arthur provò a divincolarsi, ma senza successo: la
stretta del dio era salda, seppur non troppo stretta. A dispetto delle
apparenze, il Signor D. era comunque una divinità: era sin troppo semplice per
lui tenere a bada un semidio, anche se
della stazza di Arthur.
Richard ritornò a scrivere sul cuscino.
“Elizabeth
Larson, Axel Klein, Daphne Nabizaba, Eva Hooke e Perseo Harris. Sono
questi i nomi del gruppo che partirà alla ricerca dei mali e della Spada di
Attila. Seppur non da soli, sono loro che sconfiggeranno la disperazione e
porranno fine al gelo.”
“Aspetta, devo scrivere anche questo?”,
domandò Richard, genuinamente confuso.
“E io?!”, esclamò una voce femminile
dalla folla: quella di Cat Thorne, “io non posso
rimanere qui! Devo partire! Devo… devo cercare…” ma prima che potesse spiegare
le proprie motivazioni, ormai note a tutti, venne portata via da un ragazzo
biondo con un Fedora nero che non riuscì a riconoscere in tempo.
“Divino Moros, cosa significa tutto
questo?”, domandò Chirone.
Moros. Come aveva fatto a non capirlo subito?
Avrebbe dovuto immaginare che quello che aveva posseduto Makayla non era un
fantasma, ma bensì suo padre, il dio delle profezie e del destino inevitabile.
Notò gli altri semidei guardarsi attorno incuriositi. Tra loro c’erano anche
Jackie Harmon e la sua bambina.
Si ritrovò colto da un’improvvisa
tristezza. In infermeria c’erano solo lui e Freya quando Moros aveva fatto il
nome della figlia di Imeneo. Povera
Jackie, costretta a separarsi da sua figlia…
Il viso di Makayla si contorse in
un’agghiacciante smorfia sofferente. Il tono di Moros ora era urgente: “Non posso occupare il corpo di mia figlia
così a lungo, non ho intenzione di ucciderla. Perciò ascoltatemi bene: la Spada
di Attila è un’arma potente e pericolosa. C’è più di un motivo se Attila veniva
chiamato Flagello di Dio. Se Anìa dovesse trovarla… si vendicherebbe su tutti
noi, dei e mortali compresi. Inoltre, dovrete anche trovare i Mali.”
Richard notò Arthur e il Signor D.
scambiarsi un veloce sguardo d’intesa. Durò un istante, ma lo notò ugualmente.
Che sapesse qualcosa…?
“Mi scusi,” disse un ragazzo riccio che
riconobbe essere Alexander Townsend, figlio di Clio, “è una profezia?”
Makayla si accigliò. “Cosa vuoi che sia, ragazzo?”
“Ma… non è né in rima né criptica,”
protestò Alexander, “è sorprendentemente chiara.
Tutti conoscono i Mali.” Si guardò intorno, sconcertato dagli sguardi confusi
dei suoi compagni, “O forse no…?”
Le gote di Makayla arrossirono. “Beh, che posso dire? Sono un tipo pratico
io. Se volete però mi ci posso mettere d’impegno e buttar giù un paio di eleganti
ed elaborati versi.” L’ultima affermazione era chiaramente intrisa di
sarcasmo.
Alexander alzò le mani in segno di resa,
ritenendosi soddisfatto dalla risposta.
Faccio
parte di una profezia?,
pensò Richard, stralunato.
Al suo fianco, Freya assunse
un’espressione confusa. “Chi… Chi è Anìa?
Significa disperazione in greco antico… se non sbaglio.”
Tutti gli occhi si puntarono su di lei,
anche quelli di Moros. Solo allora la ragazza si rese conto di essere ancora in
mutande. Arrossì violentemente e si coprì alla svelta con una delle numerose
lenzuola presenti sulla brandina. Stava tremando, ma Richard non capì se a
causa del freddo o della mortificazione.
Makayla – o meglio, Moros – non distolse lo sguardo da lei. “Si tratta della Quarta Ora.”
“Ma le Ore sono solo tre!”, protesto
Michael Donovan, della Cabina Sei.
“Ed
è qui che sbagli figliolo. Sempre saccenti questi figli di Atena! Le Ore sono
quattro, ed è proprio per affermazioni come la tua che Anìa cerca vendetta. Lei
è… diversa.”
Un rivoletto di saliva colò dalla bocca
di Makayla. Richard vide solo in quel moment le lacrime e il sudore bagnare il
viso smagrito della semidea. Gli dispiacque per lei, sembrava stesse soffrendo
molto. Si ripromise di offrirle tutto l’aiuto possibile una volta conclusasi
quella fastidiosa faccenda.
Se
riuscirò a tornare vivo da questa fantomatica missione, ricordò a se stesso. Perché Moros
avesse scelto proprio lui, questo non gli era chiaro. Forse si era trattato
semplicemente di sfortuna; forse… forse si era trovato nel posto sbagliato al
momento sbagliato.
Rabbrividì quando il dio ricominciò a
parlare: “Avete tempo fino al Solstizio
di Primavera. A quel punto Anìa avrà già preso la spada e corrotto i Mali.”
Detto ciò, Moros posò per un lungo istante il suo sguardo spento sul Signor D.,
che rimase impassibile, poi il corpo di Makayla si accasciò, privo di sensi.
Ethalyn, che aveva con sé una busta piena
di bende e che Richard aveva notato solo in quel momento, accorse in suo aiuto.
Stessa cosa fece Arthur, che si precipitò
nella direzione sua e di Freya.
Con sua grande sorpresa, li tirò entrambi
in un grande abbraccio.
Richard rimase pietrificato, confuso e
stupito.
Arthur non riusciva nemmeno a parlare.
“Pensavo… pensavo… oh, ho avuto paura...”
“Tesoro… va tutto bene,” lo rassicurò
Freya, poi però gemette, “ti stai… ti stai appoggiando sulla gamba…”
Arthur si affrettò a separarsi dai due.
“Cos’è successo? Chi ti ha ferita, Xiao
Hua?”
La ragazza sorrise, intenerita. “È una
lunga storia, ma Richard mi ha aiutata e non mi ha lasciata nemmeno per un
secondo.”
Richard abbassò lo sguardo, sentendo
tuttavia gli occhi di Arthur penetrargli la nuca con la loro intensità. Non lo
stava guardando, ma poteva quasi immaginare il suo sguardo riconoscente. “È il
mio lavoro.”, rispose, un po’ a disagio.
La folla di semidei intanto urlava e
faceva domande, accalcandosi intorno a Chirone e al Signor D.. Il viso di
quest’ultimo stava assumendo man mano una pericolosa sfumatura vermiglia.
Arthur continuò a fissarlo per un lungo, lunghissimo, momento. Poi coprì con le
sue grandi mani le orecchie di Freya e ridacchiò leggermente. “Amico mio…
preparati, sarà divertente.”
Dopo un paio di secondi, Dioniso esplose:
“AVETE ROTTO LE PALLE!”, urlò, esasperato, il viso rosso e i pugni grassocci
stretti, “FATE SILENZIO. TACETE, STUPIDI BABBUINI! BUON ZEUS! STUPIDI SUINI CHE
NON FANNO ALTRO CHE ROTOLARSI NELLA MELMA DELLA PROPRIA IGNORANZA.”
I mezzosangue ammutolirono nel giro di un
secondo. Freya, nonostante la premurosa accortezza del suo ragazzo, aveva udito
ogni parola e si era premuta le piccole mani sulla bocca, cercando di non
scoppiare a ridere. Arthur guardava in basso, un lievissimo sorriso stampato
sulle labbra.
Richard invece non ci trovava così tanto
da ridere. Guardò Chirone, che era rimasto stranamente serio e, con sua
sorpresa, il centauro stava ricambiando il suo sguardo.
Si schiarì la voce, e parlo con tono
chiaro e forzatamente pacato. Richard rabbrividì nuovamente. Se anche Chirone
era in ansia allora la questione era davvero seria.
“Ne parleremo oggi nel tardo pomeriggio,”
disse il mentore, “anticiperemo la riunione alle diciotto. Siate puntuali,” poi
si rivolse a Richard, “saresti così gentile da portare il cuscino?”
Richard annuì, stringendosi al petto l’importantissimo
oggetto.
Cat aveva una gran voglia di urlare.
Si sentiva inutile, indifesa, persa. Era
da tempo che non provava altro.
Osservò leggermente intimorita il ragazzo
che l’aveva trascinata nei pressi del bosco.
Jack Walker, figlio di Acli, era un tipo
particolare. Bear ce l’aveva a morte con lui dopo ciò che aveva fatto ad uno
dei suoi fratelli. Cat non ricordava bene la storia; tutto ciò che sapeva era
che quel ragazzo la rendeva inquieta. Morgana, invece, sosteneva fosse un tipo
eccentrico, con quel suo modo di vestire tanto particolare: capello Fedora
nero, camicia bianca e gilet scuro. In quel momento però, Jack aveva messo da
parte il gilet per far spazio ad un lungo cappotto nero che faceva risaltare i
suoi occhi chiari.
“Perché mi hai portata qui?” chiese Cat
sulla difensiva. Ricordò il modo brusco in cui le aveva afferrato con la mano
guantata la pelle del braccio nudo in Infermeria e l’aveva trascinata senza
emettere nemmeno un suono. Per qualche motivo l’aveva lasciato fare.
Jack si guardò attorno, assicurandosi di
essere soli. Poggiò il peso del proprio corpo sull’albero più vicino, facendo
trasalire Cat. Le ci volle qualche istante per ricordarsi che le driadi
andavano in letargo.
“Beh, tanto per cominciare ti ho
risparmiato una grande figuraccia. Ringraziami dopo,” incrociò le braccia al
petto, guardandola con un sopracciglio alzato, “e poi… mi servi.”
Cat sussultò. “In che senso, scusa? Cosa
puoi mai volere da me?”
Jack si avvicinò a lei, gli occhi puntati
nei suoi. “Hanno portato via una cosa a me molto preziosa. Ho bisogno di
persone disperate come te per riportarla indietro.”
Man mano che lui si avvicinava, Cat
indietreggiava. L’ansia cominciò a montarle in petto, la leggera canotta che
indossava la faceva sentire esposta. Riportò alla mente gli insegnamenti di
Bear, ciò che le aveva detto sul conto del figlio di Acli: “Stagli bene alla larga. Quel ragazzo ha
fatto cose… non fidarti di quello sciroccato.”
“Non un altro passo,” mormorò la ragazza,
“non posso aiutarti.”
Jack si fermò, alzando il mento. “Certo
che puoi. Insieme li riporteremo indietro.” Qualcosa luccicò negli occhi del
semidio.
Non
fidarti di quello sciroccato.
“Io… noi non facciamo parte della
Profezia.” Tentò, abbassando lo sguardo e sentendosi messa in trappola. Jack
poteva davvero aiutarla? Possedeva davvero un tale potere?
“E con questo?”
“Gli dei non ci aiuteranno.”
La risata di lui le fece raggelare il sangue.
“Quando mai ci hanno aiutato! Andiamo, Thorne, è un offerta che non puoi
proprio rifiutare. Vuoi o non vuoi salvare il tuo ragazzo?”
Cat alzò la testa di scatto. “Bear non è il mio ragazzo. Il nostro rapporto
non funziona così.”
“Perdonami. Che figura sgradevole che ho
fatto.”
Immagini di lei e Bear insieme, le sue
forti braccia attorno al suo esile corpo mentre le sussurrava che “sì, sarò sempre dalla tua parte.” Immagini,
momenti del turbolento passato che condividevano insieme: la prima canna, il primo
litigio, la prima fuga. Un giorno, forse, avrebbe avuto la forza di raccontare
a qualcuno di quei momenti. Nemmeno Morgana, la sua cara amica Morgana,
conosceva i particolari della loro storia. Suo malgrado, sentì le lacrime
formarsi e minacciare di bagnarle le guance fredde.
“Io non voglio tradire la fiducia di
Chirone,” sospirò, “e nemmeno quella del Signor D.”
Jack emise in verso a metà tra lo scherno
e l’esasperazione. “Ma andiamo! Pensa a quanto sarà contento Chirone quando non solo riporteremo Abigail e… Bear… a
casa, ma tutti i semidei scomparsi!”
Cat soppesò quelle parole, sfregandosi a
disagio un braccio. “Io… non lo so. Valuterò questa proposta e ti darò una
risposta dopo la riunione di stasera.”
Il ragazzo sembrò soddisfatto da quella
risposta. Sorrise di nuovo, questa volta con maggior gentilezza.
“Rifletti su queste mie parole: saremo
ricordati come eroi, Cat. Al diavolo Moros e la sua profezia!”
Con sua grande sorpresa, le afferrò la
mano, stringendola. Jack tremava, ma la sua voce era ferma e convinta.
“L’amore… l’amore e più forte di
qualsiasi profezia.”
Xue
Hua: piccolo fiocco
di neve
O
carajo!: oh cazzo!
Xiao
Hua: fiorellino
I know, I know… sono un filiiiiiiiino in
ritardo. Chiedo umilmente perdono.
Con la
fine della scuola e tutto ho avuto davvero poco tempo per occuparmi della
storia, ma ora eccomi qui c:
Ho
cercato di dar retta ai vostri consigli e spero vivamente di esserci riuscita.
Parto
subito col dirvi che il prossimo capitolo sarà quasi interamente dedicato ai villain . Ne vedremo delle belle.
Spero
vivamente che questo capitolo sia stato di vostro gradimento, non esitate a
farmi notare eventuali errori e, nel caso, a richiedere chiarimenti. Mi state
dando tutti, chi più chi meno, aiutando a migliorare il mio modo di scrivere e
raccontare una storia. Fatemi inoltre sapere se preferite questo stile di impaginazione o quello precedente.
A
presto! (Questa volta per davvero ♡)