Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: Happy_Pumpkin    22/06/2019    1 recensioni
La nonna di Abel Mahogany sosteneva che nella vita ci fossero due tipi di scelte: quelle obbligate dalle circostanze e quelle fatte d'istinto. A volte certo erano connesse, ma di una cosa la vecchia signora Abigail era sicura: le decisioni istintive erano le migliori.
Tim Westfield però, con il suo cognome dal sapore inglese, la cadenza ignorante della Louisiana e la sequela effettivamente incontestabile di sfighe, manifestava le sue rimostranze in merito, proprio perché si trovava nella condizione di aver fatto una scelta d’istinto poche ore prima, più precisamente nella fase disperatissima del ‘rielabora a mente fredda quello che hai appena fatto, idiota’.
Un viaggio on the road ironico e a tratti malinconico, fatto di scoperte, di scelte, di personaggi eclettici e ricordi.
[Partecipante alla challenge Somewhere over the Rainbow indetta dal gruppo SasuNaru Fanfiction Italia in onore del Pride Month]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

I walked through the fire and I fly through the smoke:
mama, I'm a voodoo child.

2. Healing

 

 

Abel amava le mattine pigre, quelle in cui la luce estiva del giorno scaldava le lenzuola impalpabili facendole assomigliare a un plaid invernale. Amava l’impercettibile sudore vicino al collo e il modo in cui la testa affondava in un solco perfetto nel cuscino stropicciato, al pari della guancia arrossata che, simile a un trasferibile da bambini, fotocopiava le pieghe del tessuto.
Tirò un sospiro profondo, poi stirò le braccia e si alzò a sedere, massaggiandosi la faccia e ravvivandosi i capelli.
“Ho fatto un sogno” annunciò, dando per scontato che Tim, a pancia in giù e girato dall’altra parte, fosse sveglio e riuscisse a sentirlo.
Non ci fu risposta, eccetto un placido respiro. Prese la sigaretta elettronica, controllò ci fosse ancora liquido, poi guardò vago fuori dalla finestra, le cui tende tirate filtravano un po’ di luce; aspirò, con il piacere perverso di sentire un gusto aereo di nicotina e mentolo nella bocca ancora impastata dal sonno.
“Eravamo in riva a un fiume, non so quale. Attorno c’era qualche albero e delle colline, la sabbia era ghiaiosa, metallica direi – rise appena – l’acqua gelida, cazzo. A un certo punto arriva un’onda gigantesca, di quelle che ci travolgono, ci schiacciano e ci portano nel mezzo della corrente. So che è impossibile, ma, ehi, il potere dei sogni, no?”
L’altro non gli rispose, né si mosse. Il frigo ancora ronzava, si udiva in lontananza il passaggio di qualche macchina coi pneumatici che grattavano l’asfalto caldo.
Abel continuò placido, sbattendo lentamente le palpebre mentre nella stanza si diffondeva l’odore al mentolo del vapore denso, reso quasi magico dalla luce soffusa che passava attraverso le tende polverose:
“La prima cosa che ho fatto è stata cercarti, assicurarmi che stessi bene. Poi mi sono preoccupato del cellulare che per qualche motivo sapevo essere rimasto a riva. È arrivata un’altra onda e me l’ha portato via, fin dentro il letto. Tu mi hai detto di lasciar perdere, che non ne vale la pena, io invece mi sono immerso lo stesso e l’ho recuperato. Mi sentivo, ah, trionfante, come se avessi fatto chissà cosa.”
Appoggiò la testa contro la parete e sollevò gli occhi verso il soffitto, assottigliandoli appena mentre inspirava e poi gettava una nuova nuvola.
“E alla fin fine il cellulare funzionava?”
La domanda improvvisa era stata detta con la voce arrochita di chi doveva ancora scaldare le corde vocali. Abel spostò lo sguardo verso Tim, con una leggera sorpresa: “Allora eri sveglio – scrollò le spalle, facendo un mezzo sorrisetto – sì, funzionava. Sai che sono ostinato, poi ho preso il tuo ‘provaci lo stesso anche quando le cose vanno di merda’ et, voilà, mesdames et messierus, les jeux sont faits: cellulare recuperato e funzionante. Ma sai qual è la cosa davvero figa?”
Espirò un’ultima nuvola ancora, poi si leccò un labbro, continuando a guardare Tim che si voltò verso di lui in un fruscio di lenzuola. Westfield lo fissava con occhi strani, di chi già sapeva la risposta ma non attendeva necessariamente di sentirla.
“Che non hai vomitato anche l’anima dopo la centrifuga del fiume?” ironizzò l’altro, sbattendo una volta le ciglia. Sembrò impassibile, anche se le labbra fecero un mezzo sorriso, parzialmente coperto dal cuscino.
Mahogany finse di non cogliere l’ironia e specificò, come se si trattasse di un evento reale: “La cosa figa è che eri nel fiume, assieme a me. E nuotavi. Da quello che mi raccontavi della Louisiana ti ho sempre immaginato simile a una bellissima ranocchietta.”
“Che sogni assurdi fai – replicò Tim, senza muoversi – un cellulare non si ripara e io non ho più intenzione di nuotare da nessunissima parte. Che ore sono?”
Domandò di seguito, come per chiudere il discorso; senza inflessioni cattive, ma quasi fingendo che  fosse una semplice sequenza priva di possibilità di tornare indietro.
Abel fece un sorriso dei suoi, particolari, che riuscivano a essere seducenti con fascino leggero, mentre gli occhi scuri si assottigliavano impercettibilmente, come se lui fosse a conoscenza di qualcosa di più profondo.
“Le undici di mattina, amore.”
Tim roteò gli occhi e si girò a pancia in su: “Dobbiamo muoverci, abbiamo dormito troppo. Ci saranno ancora almeno tre ore di viaggio.”
Si alzò infine in piedi, legandosi i capelli per poi cominciare a raccogliere i vestiti mentre si massaggiava una guancia, nell’atto di carburare e riprendere la piena attività del cervello dopo comunque troppe poche ore di sonno.
Abel non si mosse; lo osservò, contemplando con morbido piacere la nudità del suo ragazzo, infine lo rassicurò: “Johnny non ci aspetta prima delle 18,00. Abbiamo tempo.”
“Sì, va bene, ma dobbiamo mangiare.”
Lo guardò quando glielo disse, lasciando i vestiti sul letto, simili a una dichiarazione di guerra. Abel cambiò impercettibilmente il sorriso, poi sospirò e annuì, come se fosse un’immensa concessione: “Lo so, ovvio. Abbiamo tempo lo stesso. Non dirmi cosa devo o non devo fare.”
Glielo ribadì con tono tranquillo, quasi scherzoso, in quel modo speciale che aveva di riuscire a plasmare la rabbia altrui, trasformandola in comprensione. Tim infatti non fu in grado di prendersela, anche se come sempre avvertì un moto di superiorità scaturire senza cattiveria da Abel, persino di maturità rispetto a se stesso, quasi fosse assurdo che un poppante di ventun anni desse qualche suggerimento a una persona più vicina ai trenta che ai venti.
“Tu lo fai continuamente con me” replicò però d’istinto, pentendosene subito dopo per la connotazione infantile, e stupida, che aveva dato a quella frase.
“Che bugiardo! Non è affatto vero!” replicò l’altro, sgranando gli occhi divertito. Gli tirò un cuscino e si alzò in piedi – cuscino che Tim aveva afferrato e stava per lasciar andare a terra, già propenso a ignorare tutto il discorso.
Però Abel lo raggiunse, gli prese il cuscino e lo appoggiò sul letto, per poi stringergli un polso e dirgli con l’intonazione di chi avesse ricevuto l’ispirazione del secolo: “Andiamo a Carlisle e ci cerchiamo un diner. Facciamo una colazione abbondante, poi ritorniamo sulla 76 e via, diretti verso Pittsburgh.”
Per un istante, con una morsa d’angoscia al cuore, Tim fu tentato di andare a controllare il portafoglio e vedere quanti soldi aveva con sé, gli ultimi che possedeva e si era portato dietro dopo aver sfanculato Akash. Si sentì in colpa, avvertì un senso di nausea e paura all’idea di cosa sarebbe stato di lui a quel punto, se non avesse avuto più nulla in tasca. Anche se... davanti aveva Abel che gli parlava di mangiare assieme.
Non lo fece dunque, non controllò i suoi patetici contanti, esattamente come non aveva ancora controllato il telefono, sicuro di trovare qualche messaggio furente del suo capo che lo licenziava mandandolo a farsi fottere, con la concentrazione di tutti gli insulti accumulati verso la sua patetica persona di ragazzino. In generale, c’erano momenti della propria vita in cui Tim non guardava il telefono e basta: la gente aveva un peso specifico importante e non sempre, ogni singolo giorno, sentiva di essere in grado di gestirlo.
Però appunto si trattava di Abel, e Abel che gli proponeva di andare a mangiare in un diner stupido nel mezzo di una cittadina sconosciuta era un evento da segnare sul calendario. Avesse potuto, avrebbe speso anche tutto quello che aveva per far sì che avvenisse davvero:
“Va bene, certo, ci sto.”
Abel sollevò un sopracciglio e gli sorrise, mordendosi un labbro. Compiva quel gesto solo quando facevano l’amore o qualcosa lo rendeva particolarmente felice; in quei tre anni più o meno insieme Tim aveva imparato a conoscere parecchie cose di Abel, nonostante questi sostenesse di essere il vero osservatore della coppia. In realtà Mahogany l’aveva sostenuto più specificatamente nell’ultimo anno, perché prima per tutti e due le idee erano un po’ confuse, persino vaghe, riguardo l’impegno dello stare assieme, sebbene si fossero conosciuti in una situazione fragile e delicata per entrambi.
Tim non era un grande esperto di relazioni, né aveva avuto chissà quanti uomini, ma aveva sempre immaginato che da una parte la fedeltà, così come la stabilità di coppia, e dall’altra l’essere gay, fossero due universi paralleli e distinti, destinati raramente a incrociarsi. Solo ultimamente stava ricredendosi, anche se ogni tanto riteneva plausibile, persino normale, che saltuariamente Abel potesse vedersi con qualcuno: ipotizzava che, continuando a pensarlo, gli avrebbe fatto meno male se un giorno avesse avuto ragione. Senza false modestie, Westifield pensava di avere una straordinaria abilità nell’anestetizzarsi in molte cose.
Abel per contro lo baciò e, a piedi nudi – perché amava stare scalzo – raccolse le ultime cose sparse nella stanza, si dette una sciacquata e fumò ancora, mentre aveva lasciato a Tim il suo cellulare per telefonare a Steve ed Ellie. Poi, dopo aver pagato il conto si mise in macchina e Tim si sedette di fianco, i capelli lasciati crescere lunghi schiacciati all’indietro dal vento quando presero velocità; il guidatore improvvisato del viaggio lo scorse stare con gli occhi chiusi, il volto diretto verso l’aria.
Una volta a Carlisle, entrò in W High Street, la strada principale: era circondata da tantissimo verde, viali alberati e un generale senso di pace, dove persino il traffico sembrava moderato. Sfruttò il primo parcheggio disponibile con accanto un diner, indossò gli occhiali da sole e, in ciabatte, uscì dall’auto dove si stiracchiò la schiena e si guardò attorno, cominciando infine a camminare sicuro di sé.
Tim lo osservò un attimo, poi lo raggiunse con le mani in tasca; portava una maglietta a maniche corte dipinta da Abel e sapeva che, dietro gli occhiali, lui la stava guardando. Con soddisfazione manifesta d’artista, perché quella maglietta, come tante altre, l’aveva dipinta lui. Le metteva quasi sempre, le regalava alle persone a cui teneva, considerandole i suoi ‘quadri prêt-à-porter’. Ne andava orgogliosissimo, anche quando si trattava di linee astratte e altre elaborazioni conoscesse dopo un trip particolarmente intenso. Quella che aveva addosso Tim, per esempio, l’aveva dipinta una notte di qualche mese fa da ubriaco, dopo aver discusso di religione, etica e morale con un’interprete che lavorava al parlamento di Strasburgo ed era in vacanza negli U.S.A.
Non sono luci, sono fuochi d’artificio. Non festeggiamo abbastanza.
Non che ci fosse mai stato nulla di particolare da festeggiare, eccetto il successo di qualche mostra di Abel – evento di per sé meraviglioso, ma comunque già corredato di qualsiasi elemento per festeggiare, dal catering di alto livello, ad alcolici, alla gente coi soldi veri e l’interesse a sembrare di un certo livello di cultura, dunque non contava – però Tim capiva che quello era il suo canto d’artista per affermare di volerci credere.
Nel diner, ordinarono da bere e da mangiare. Tim non si stupì particolarmente quando vide Abel chiedere dei pancakes e una fetta di carrot cake: tanto bravo a consigliare il suo compagno, ma altrettanto pessimo nei propri eccessi, pur mantenendo sempre quell’aria sicura di sé, come se li avesse davvero programmati.
“Che c’è?” domandò infatti Abel con una sorta di sorriso, quando vide l’espressione scettica dell’altro.
“Ce la fai a finire tutta quella roba?”
“Se puoi farcela tu, non vedo perché non dovrei riuscirci io. Poi… sono previdente: mal che vada abbiamo degli avanzi da mangiare durante le lunghissime tre ore di viaggio.”
Sembrò quasi contrattare, con sottigliezza strategica. Tim lo osservò mettersi gli occhiali sul capo, così che affondarono tra i capelli mossi, infine rispose, incapace di passare oltre:
“Non prendermi per idiota – nel parlare, d’istinto il suo accento della Louisiana divenne più marcato, mai davvero influenzato dalla parlata più stretta assorbita a New York, nell’eclettico e un tempo povero quartiere di Harlem – mangia quello che ti senti. Ma se vuoi abbondare, se davvero lo vuoi, non c’è nulla di male: non sono...”
Tacque, emettendo una specie di ringhio infastidito, quasi strozzato, poi iniziò a inforchettare il pancake come se avesse dovuto ucciderlo. Ne prese una grossa fetta, cominciando a masticarla con le guance piene e gli occhi puntati verso lo sciroppo d’acero.
“Mia madre?” finì per lui Abel, diretto ma tranquillo. Lo osservò mangiare, poi ammise in uno dei suoi personali collegamenti: “Sei sempre così magro, hai un sacco di pensieri in meno da quel punto di vista.”
Tim smise di mangiare e lo guardò, con ancora la bocca piena. Abel si tolse gli occhiali da sole, li appoggiò sul tavolo e, con ancora il suo piatto e la torta intoccata, al pari dei pancakes, aggiunse mortificato eppure con fierezza:
“Scusa. Scusa amore, sono stato stronzo.”
Tim mangiò lentamente, deglutì, bevve dalla tazza un sorso di caffè macchiato. Gli servì perché altrimenti avrebbe attaccato Abel dicendogli qualcosa di cattivo, lo sapeva. Dunque prese una pausa per connettere e cercare una cosa giusta da dire, anche se era un ragazzino ignorante, non era andato al college e a malapena aveva finito le scuole.
“Non metterci troppo sciroppo sopra. Questa marca è più zuccherata del solito.”
Si grattò poi il sopracciglio. Abel annuì, la stessa espressione intensa e attenta di chi riceva una grande nozione scientifica, poi allungò la mano per far smettere il compagno. Gliela baciò, in maniera sfrontata, chiedendosi se qualcuno si sarebbe girato a guardare, infine la lasciò e iniziò a tagliare la pila di pancakes dopo averci messo sopra un po’ di sciroppo – poco: stranamente, ma non poi così tanto, aveva ascoltato almeno quel consiglio.
Dopodiché, con iniziale lentezza prese a mangiare.
“Buoni. Ne valeva la pena.”
“Sì, ne valeva la pena. Sicuramente più di salvare un cellulare nel mezzo di un fiume in piena,” replicò Tim, con una sorta di sorriso che rendeva meno ingombrante la sua cicatrice, come se in quel modo sparisse nelle minuscole rughe d’espressione.
Abel però a sua volta gli sorrise, gli occhi scuri affascinanti, saggi nonostante qualche sfumatura di follia per le idee che la sua testa perseguiva.
“Johnny – annunciò all’improvviso Abel, dopo aver tagliato in parti più piccole quello che ancora restava del pancake in cima – l’ho incontrato in clinica. Ci tenevo che lo conoscessi perché, prima di te, assieme a nonna è stato parte del mio percorso di guarigione.”
Lo disse come se fosse qualcosa di spirituale e, in un certo senso, forse era così. Abel era tanto bravo a parlare di sé come artista, a mostrarsi sicuro, pieno di certezze e al tempo stesso ricco di fragilità nascoste, che lasciava intravedere come uno spiraglio lontano a sufficienza da instillare curiosità, ma mai compassione; allo stesso modo, per opposto, era totalmente incapace di gestire le proprie debolezze: gettava in superficie tutto ciò che voleva gli altri vedessero, per evitare che, nonostante quel famoso luccichio distante che ingolosiva, la maggior parte delle persone non fosse interessata a scavare più a fondo, certa di aver già ricevuto il meglio. Lo faceva anche con se stesso, senza mai chiamare per nome ciò di cui aveva sofferto, senza mai menzionare la madre – eccetto quando gli dava i soldi e pubblicava articoli riguardo l’arte del figlio sul New Yorker, per il quale, sotto sua insistenza, Abel aveva anche disegnato una copertina, copertina che odiava e aveva usato per ‘pulirsi il culo dopo aver cagato’. Dopodiché, aveva incorniciato la suddetta copertina per spedirla via posta alla madre e al compagno di quest’ultima. Tim l’aveva visto in azione e, suo malgrado, aveva capito di essersi innamorato di Abel anche per quel suo lato ricco di parolacce nel mezzo di parole auliche, oltre che di ribellione un po’ capricciosa, all’apparenza, ma in realtà frutto di un’esasperazione dalle radici ben più profonde.
“Johnny – ripeté allora Tim, assorbendo quel nome, perché era la prima volta che Abel gli parlava così tanto all’improvviso di qualcuno incontrato in clinica – va bene, lo conoscerò volentieri. Cosa fa nella vita?”
Azzardò a chiedere, dopo aver mangiato l’ultimo boccone. Aspettò a bere, quasi per non interrompere il contatto visivo con Abel che, come se avesse atteso quella domanda, replicò soddisfatto:
Edith Labelle. È una drag queen e uno stilista piuttosto affermato nel suo ambiente. Se stessi un po’ di più su instagram lo sapresti.”
Lo prese in giro con fare pacato, consapevole che se c’era una persona a cui non fregava nulla dei social media, beh, quella era Tim, il quale era capace anche per giorni di non rispondere al telefono o persino ai più semplici messaggi.
“Stacci tu anche per me su instagram” sbottò infatti alla fine Timmy, prevedibilmente. Picchiettò la forchetta sul piatto, raccogliendo qualche residuo dello sciroppo d’acero, per poi grattarsi la cicatrice e smettere prima che glielo dicesse Abel, aggiungendo: “Facciamo portare via la carrot cake e quello che non hai mangiato dei pancakes, non era una cattiva idea quella di smangiucchiarli per strada.”
Incredibilmente, in aggiunta gli sorrise e scrollò le spalle, assumendo però come sempre un atteggiamento tiepido e vagamente distaccato, anche se Abel conosceva le sfumature dei suoi occhi e di quel sorriso. Allora abbassò lo sguardo, realizzando di aver sminuzzato e accantonato una grossa parte dei pancakes; uno dei suoi trucchi preferiti per diminuire il volume del cibo nel piatto e dopo esclamare ho mangiato fino a sfondarmi! Se prendo ancora altro esplodo!
“No. No, amore, ho ancora fame. Sai che sono lento” specificò dopo un istante di silenzio, anche se non era vero. Abel era lento solo quando accarezzava il suo compagno, o camminava a piedi nudi da qualche parte. Lì… sì, si prendeva tutto il tempo del mondo.
Infilzò i pezzettini uno dopo l’altro, con fare metodico, preciso, contandoli. Quattro per ogni forchettata. E se ne riempì la bocca, con Tim, le sue cicatrici, il suo corpo nervoso e spigoloso che, Dio, quanto cazzo gli aveva invidiato e ancora, in parte, gli invidiava, che lo guardava senza nemmeno provare a fingere di fare altro, anche se ogni tanto gli rubava un pezzetto di pancake, silenzioso, facendogli credere che potevano competere per chi mangiava di più e il ragazzo della Louisiana riuscisse davvero a perdere.
Abel dunque si riempì le guance, masticò, più e più volte, mentre continuava a fissare il piatto. Deglutì e si rese conto della fatica nel farlo, perché, cavoli, aveva esagerato come al solito, nella sua personale forma di protesta. Bevve poi del caffè, si sciacquò gli ultimi residui tra i denti e ricominciò. Meno lento quella volta.
Fu Tim a chiedere di portare via la carrot cake; quando la cameriera gliela riportò nel doggy bag, il ragazzo la ringraziò, pagò di tasca sua e si mise il sacchetto in grembo, portandosi una ciocca di capelli dietro le orecchie.
“Grazie” gli disse Abel dopo un istante, per poi sorridergli mordendosi un labbro. Tim a quel punto sentì inconsistente il peso dei soldi dati via, anche se erano pochi quelli rimanenti; pochissimi, se pensava al viaggio che ancora avevano davanti.
“Prego – guardò poi l’ora e aggiunse, dopo essersi schiarito la gola con un colpo di tosse – che ne dici di andare? Edith Labelle potrebbe essere una potenziale drag queen per gli spettacoli che volevi far vedere a Sophie.”
“Sì, decisamente sì. La amerebbe” decretò Abel. Con quelle parole fece scomparire in maniera definitiva qualunque precedente insicurezza, come dimenticandosi del cibo, anche se era finalmente nello stomaco, macigno del senso di colpa.
Si alzò in piedi, attendendo Tim; quando lo ebbe accanto gli iniziò a parlare della cantautrice Edith Piaf a cui era ispirata Labelle, del fascino del bianco e nero, di quanto fosse bella sua nonna con le sfumature antiche delle fotografie e di quanto avrebbe voluto impostare la sua prossima mostra sul bianco e nero. L’hanno fatto tutti, ma io lo farò meglio.
Sull’onda del trasporto, aggiunse anche che avrebbe fatto una prossima foto a Tim nudo in un fiume, come nel suo sogno, quasi fosse stata una missione di vita farlo tornare a nuotare con alligatori immaginari. Stupido, stupido Timmy: in passato hai avuto talmente tanta paura di annegare e soffocare da non bere per giorni. Hai rischiato di morire per la disidratazione, lo sapevi?
“Sei il paladino delle cause perse, Abel” replicò Tim salendo in macchina, ma non contestò del tutto la possibilità di fare davvero una foto in un fiume. Non perché ci credesse, semplicemente non aveva voglia di discutere: gli spiaceva smorzare l’entusiasmo ed era troppo contento nel constatare che, da un anno a quella parte, Abel aveva decisamente migliorato il suo rapporto con il cibo e ogni tanto si ubriacava persino. Certo, c’erano ancora sospetto, diffidenza e vecchi echi di rifiuto, simile a un cane che annusi con incertezza il padrone che l’ha abbandonato, però Abel e il cibo riuscivano a fare lunghe passeggiate al guinzaglio senza rischiare di scappare.
“No, niente cause perse: siamo cresciuti tanto da quando ci siamo incontrati, Timmy. Credo nella crescita appunto e nel cambiamento. Una delle tante cose buone che il mio ex mi ha insegnato è questa.”
Indicò il due con le dita, poi avviò il motore, rimettendosi gli occhiali sul naso. Tim si allacciò la cintura: “Che vuol dire quel due?”
“Seconda tappa. Il mio ex. Prima John, poi Lyanna.”
Tim non riuscì a provare nemmeno senso di inadeguatezza, o a immaginare se l’ex di Abel dovesse essere un barbone, per effetto del modus Jesus-Christ-Our-Lord-and-Saviour operandi di Mahogany Abel, che replicò sull’onda della sorpresa: “Lyanna?
Da dietro gli occhiali vide Abel inarcare un sopracciglio, sorridere, e immettersi in carreggiata senza dire altro. Accese solo la radio, che passò una canzone di Gloria Gaynor. Appena la sentì alzò il volume al massimo, abbassò i finestrini e lasciò che le parole I will survive risuonassero per le strade verdeggianti di Carlisle e, poi, in quelle immense ma polverose della Pennsylvania.

 

Daily News – Sezione annunci

AAA Artista cerca modello per terapia riabilitativa
Non interessa il fisico, né la bellezza. Compenso congruo. No scopo sessuale, solo affidabilità professionale in percorso personale parallelo di terapia. Contattare all’indirizzo mail shapeshifter@yahoo.it

 
Da: tim.westfield1234@gmail.com
A: shapeshifter@yahoo.it
Oggetto: annuncio cercasi modello

Buongiorno,
scrivo per l’anuncio. Uomo, fisico magro. Dicono che ho una buona empatia, se può aiutare nella riabilitazione.

 
Questo era l’annuncio che Abel tre anni fa aveva prescelto, tra centinaia e centinaia di altri migliori, molti dotati di foto dei candidati in ogni posa possibile, di gente che si sapeva vendere insomma o cercava perlomeno di farlo, a differenza di quelle quattro righe sputate e persino con un errore di battitura. Eppure l’aveva scelto perché era l’unico che gli avesse parlato di empatia, quando i pochi che si ricordavano della riabilitazione vantavano nient’altro che immense lauree in psicologia o addirittura in psichiatria.
L’aveva colpito, quell’empatia, aggiunta al se può aiutare, come un’entrata in punta di piedi ma da ballerina, non da ladro.
Preparò allora due mail.
Una che gli mandò:

 
Re: annuncio cercasi modello
Da: shapeshifter@yahoo.it
A: tim.westfield1234@gmail.com

 
Ciao Tim Westfield, presupponendo che sia tua la mail. Incontriamoci al Lacolombe Café, a SoHo, Lafayette Street. Domani alle 18,00?
Discutiamo del compenso e delle disponibilità di giorni e orari. Per onestà professionale preciso che sono gay; non intendo provarci con te, né molestarti sessualmente.
A presto,
Abel

 
Re: re: annuncio cercasi modello
Da: tim.westfield1234@gmail.com
A: shapeshifter@yahoo.it

 Sono Tim. Grazie per l’avviso, anche io cerco solo del lavoro se si riesce normale. Ok per domani.Ciao.

 
Quando lesse quelle righe Abel si ritrovò a mordersi il labbro e a sorridere. Lesse una qualche forma di speranza e al tempo stesso di rassegnazione, quasi come se la prima fosse contrastata da una maturità più grande, di chi non si aspettava di incappare tramite annuncio nel lavoro perfetto però volesse comunque provarci. Trovò bella la semplicità delle parole, l’essere sia dirette che schive.
Fu tentato di seguire il consiglio della sua terapista e della clinica pagata da suo padre tanti di quei soldi da poterci fare infiniti viaggi attorno al mondo, comprare materiali per la scultura, pitture, tele. Lo faceva incazzare la sola idea delle spese e pensò di mandare un messaggio a sua madre, per riversarle contro quello che era stata. Non lo fece. Riscrisse invece quella mail alternativa che non aveva mai mandato all’ormai confermato Tim.
Rimase nelle bozze, ma ogni tanto la guardava pensando che forse, un giorno, quando Tim sarebbe stato più forte emotivamente gliel’avrebbe fatta avere, come una proposta di matrimonio.

 La riabilitazione è perché ho un disturbo alimentare: anoressia. Se ti stupissi pure tu come tanti prima di te, ma credo tu sia più sveglio, ebbene sì: l’anoressia colpisce anche gli uomini; me l’hanno spiegato con un sacco di statistiche e grafici. Come per farmi sentire meno speciale, o più normale.
Parlando con il gruppo di supporto e con la terapista che mi segue, è emerso che forse potrei ritrarre dei corpi, visto che ho studiato alla New York Academy of Art. Rendermi conto che in ogni fisico c’è una forma di bellezza, persino quando tentiamo di autodistruggerci.
Sto cominciando il mio percorso per non vanificare quello che ho ottenuto in clinica. Molti mi hanno preso da parte, guardato in faccia e detto che, ehi, lo sappiamo tutti e due, non guarisci mai veramente dall’anoressia, l’allontani solo per più o meno tempo. Ma io non voglio ascoltarli, voglio andare contro le opinioni comuni, capisci? In fin dei conti voglio solo sopravvivere: sono un essere umano, è questo quello che gli uomini fanno.
Quindi, senza troppo peso o responsabilità, se cominciamo questa collaborazione è bene che tu sappia una cosa: più che la mia musa potresti essere il mio incantesimo, il mio mantra, la mia medicina per guarire veramente,

 il mio voodoo contro ciò che odio, Timmy.


Sproloqui di una zucca

Il prompt era guarigione. Spero di averlo affrontato con la giusta sensibilità, accanto a prompt importanti come malattia, supporto e fiducia. La canzone portante da inserire è ovviamente I will survive, di Gloria Gaynor. Grazie per aver letto, mi auguro che quanto scritto possa piacervi!

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Happy_Pumpkin