I
walked through the fire and I fly through the smoke:
mama, I'm a voodoo child.
2.
Healing
Tirò un sospiro profondo, poi stirò
le braccia e si alzò a sedere, massaggiandosi la faccia e
ravvivandosi i
capelli.
“Ho fatto un sogno” annunciò, dando
per scontato che Tim, a pancia in giù e girato
dall’altra parte, fosse sveglio
e riuscisse a sentirlo.
Non ci fu risposta, eccetto un
placido respiro. Prese la sigaretta elettronica, controllò
ci fosse ancora
liquido, poi guardò vago fuori dalla finestra, le cui tende
tirate filtravano
un po’ di luce; aspirò, con il piacere perverso di
sentire un gusto aereo di
nicotina e mentolo nella bocca ancora impastata dal sonno.
“Eravamo in riva a un fiume, non so
quale. Attorno c’era qualche albero e delle colline, la
sabbia era ghiaiosa,
metallica direi – rise appena – l’acqua
gelida, cazzo. A un certo punto arriva
un’onda gigantesca, di quelle che ci travolgono, ci
schiacciano e ci portano
nel mezzo della corrente. So che è impossibile, ma, ehi, il
potere dei sogni,
no?”
L’altro non gli rispose, né si
mosse. Il frigo ancora ronzava, si udiva in lontananza il passaggio di
qualche
macchina coi pneumatici che grattavano l’asfalto caldo.
Abel continuò placido, sbattendo
lentamente le palpebre mentre nella stanza si diffondeva
l’odore al mentolo del
vapore denso, reso quasi magico dalla luce soffusa che passava
attraverso le
tende polverose:
“La prima cosa che ho fatto è stata
cercarti, assicurarmi che stessi bene. Poi mi sono preoccupato del
cellulare
che per qualche motivo sapevo essere rimasto a riva. È
arrivata un’altra onda e
me l’ha portato via, fin dentro il letto. Tu mi hai detto di
lasciar perdere,
che non ne vale la pena, io invece mi sono immerso lo stesso e
l’ho recuperato.
Mi sentivo, ah, trionfante, come se avessi fatto chissà
cosa.”
Appoggiò la testa contro la parete e
sollevò gli occhi verso il soffitto, assottigliandoli appena
mentre inspirava e
poi gettava una nuova nuvola.
“E alla fin fine il cellulare
funzionava?”
La domanda improvvisa era stata detta
con la voce arrochita di chi doveva ancora scaldare le corde vocali.
Abel
spostò lo sguardo verso Tim, con una leggera sorpresa:
“Allora eri sveglio –
scrollò le spalle, facendo un mezzo sorrisetto –
sì, funzionava. Sai che sono
ostinato, poi ho preso il tuo ‘provaci lo stesso
anche quando le cose vanno
di merda’ et, voilà, mesdames et
messierus, les jeux sont faits: cellulare
recuperato e funzionante. Ma sai qual è la cosa davvero
figa?”
Espirò un’ultima nuvola ancora, poi
si leccò un labbro, continuando a guardare Tim che si
voltò verso di lui in un
fruscio di lenzuola. Westfield lo fissava con occhi strani, di chi
già sapeva
la risposta ma non attendeva necessariamente di sentirla.
“Che non hai vomitato anche l’anima
dopo la centrifuga del fiume?” ironizzò
l’altro, sbattendo una volta le ciglia.
Sembrò impassibile, anche se le labbra fecero un mezzo
sorriso, parzialmente
coperto dal cuscino.
Mahogany finse di non cogliere
l’ironia e specificò, come se si trattasse di un
evento reale: “La cosa figa è
che eri nel fiume, assieme a me. E nuotavi. Da quello che mi raccontavi
della
Louisiana ti ho sempre immaginato simile a una bellissima
ranocchietta.”
“Che sogni assurdi fai – replicò
Tim, senza muoversi – un cellulare non si ripara e io non ho
più intenzione di
nuotare da nessunissima parte. Che ore sono?”
Domandò di seguito, come per
chiudere il discorso; senza inflessioni cattive, ma quasi fingendo che fosse una semplice
sequenza priva di
possibilità di tornare indietro.
Abel fece un sorriso dei suoi,
particolari, che riuscivano a essere seducenti con fascino leggero,
mentre gli
occhi scuri si assottigliavano impercettibilmente, come se lui fosse a
conoscenza di qualcosa di più profondo.
“Le undici di mattina, amore.”
Tim roteò gli occhi e si girò a
pancia in su: “Dobbiamo muoverci, abbiamo dormito troppo. Ci
saranno ancora
almeno tre ore di viaggio.”
Si alzò infine in piedi, legandosi i
capelli per poi cominciare a raccogliere i vestiti mentre si
massaggiava una
guancia, nell’atto di carburare e riprendere la piena
attività del cervello
dopo comunque troppe poche ore di sonno.
Abel non si mosse; lo osservò,
contemplando con morbido piacere la nudità del suo ragazzo,
infine lo
rassicurò: “Johnny non ci aspetta prima delle
18,00. Abbiamo tempo.”
“Sì, va bene, ma dobbiamo mangiare.”
Lo guardò quando glielo disse,
lasciando i vestiti sul letto, simili a una dichiarazione di guerra.
Abel
cambiò impercettibilmente il sorriso, poi sospirò
e annuì, come se fosse
un’immensa concessione: “Lo so, ovvio. Abbiamo
tempo lo stesso. Non dirmi cosa
devo o non devo fare.”
Glielo ribadì con tono tranquillo,
quasi scherzoso, in quel modo speciale che aveva di riuscire a plasmare
la
rabbia altrui, trasformandola in comprensione. Tim infatti non fu in
grado di
prendersela, anche se come sempre avvertì un moto di
superiorità scaturire
senza cattiveria da Abel, persino di maturità rispetto a se
stesso, quasi fosse
assurdo che un poppante di ventun anni desse qualche suggerimento a una
persona
più vicina ai trenta che ai venti.
“Tu lo fai continuamente con me”
replicò però d’istinto, pentendosene
subito dopo per la connotazione infantile,
e stupida, che aveva dato a quella frase.
“Che bugiardo! Non è affatto vero!”
replicò l’altro, sgranando gli occhi divertito.
Gli tirò un cuscino e si alzò
in piedi – cuscino che Tim aveva afferrato e stava per
lasciar andare a terra,
già propenso a ignorare tutto il discorso.
Però Abel lo raggiunse, gli prese il
cuscino e lo appoggiò sul letto, per poi stringergli un
polso e dirgli con
l’intonazione di chi avesse ricevuto l’ispirazione
del secolo: “Andiamo a
Carlisle e ci cerchiamo un diner. Facciamo una colazione abbondante,
poi
ritorniamo sulla 76 e via, diretti verso Pittsburgh.”
Per un istante, con una morsa
d’angoscia al cuore, Tim fu tentato di andare a controllare
il portafoglio e
vedere quanti soldi aveva con sé, gli ultimi che possedeva e
si era portato
dietro dopo aver sfanculato Akash. Si sentì in colpa,
avvertì un senso di
nausea e paura all’idea di cosa sarebbe stato di lui a quel
punto, se non
avesse avuto più nulla in tasca. Anche se... davanti aveva
Abel che gli parlava
di mangiare assieme.
Non lo fece dunque, non controllò i
suoi patetici contanti, esattamente come non aveva ancora controllato
il
telefono, sicuro di trovare qualche messaggio furente del suo capo che
lo
licenziava mandandolo a farsi fottere, con la concentrazione di tutti
gli
insulti accumulati verso la sua patetica persona di ragazzino. In
generale,
c’erano momenti della propria vita in cui Tim non guardava il
telefono e basta:
la gente aveva un peso specifico importante e non sempre, ogni singolo
giorno,
sentiva di essere in grado di gestirlo.
Però appunto si trattava di Abel, e
Abel che gli proponeva di andare a mangiare in un diner stupido nel
mezzo di
una cittadina sconosciuta era un evento da segnare sul calendario.
Avesse
potuto, avrebbe speso anche tutto quello che aveva per far
sì che avvenisse
davvero:
“Va bene, certo, ci sto.”
Abel sollevò un sopracciglio e gli
sorrise, mordendosi un labbro. Compiva quel gesto solo quando facevano
l’amore
o qualcosa lo rendeva particolarmente felice; in quei tre anni
più o meno
insieme Tim aveva imparato a conoscere parecchie cose di Abel,
nonostante
questi sostenesse di essere il vero osservatore della coppia. In
realtà Mahogany
l’aveva sostenuto più specificatamente
nell’ultimo anno, perché prima per tutti
e due le idee erano un po’ confuse, persino vaghe, riguardo
l’impegno dello
stare assieme, sebbene si fossero conosciuti in una
situazione fragile e
delicata per entrambi.
Tim non era un grande esperto di
relazioni, né aveva avuto chissà quanti uomini,
ma aveva sempre immaginato che
da una parte la fedeltà, così come la
stabilità di coppia, e dall’altra
l’essere gay, fossero due universi paralleli e distinti,
destinati raramente a
incrociarsi. Solo ultimamente stava ricredendosi, anche se ogni tanto
riteneva
plausibile, persino normale, che saltuariamente Abel potesse vedersi
con
qualcuno: ipotizzava che, continuando a pensarlo, gli avrebbe fatto
meno male
se un giorno avesse avuto ragione. Senza false modestie, Westifield
pensava di
avere una straordinaria abilità
nell’anestetizzarsi in molte cose.
Abel per contro lo baciò e, a piedi
nudi – perché amava stare
scalzo – raccolse le ultime cose sparse nella
stanza, si dette una sciacquata e fumò ancora, mentre aveva
lasciato a Tim il
suo cellulare per telefonare a Steve ed Ellie. Poi, dopo aver pagato il
conto
si mise in macchina e Tim si sedette di fianco, i capelli lasciati
crescere
lunghi schiacciati all’indietro dal vento quando presero
velocità; il guidatore
improvvisato del viaggio lo scorse stare con gli occhi chiusi, il volto
diretto
verso l’aria.
Una volta a Carlisle, entrò in W
High Street, la strada principale: era circondata da tantissimo verde,
viali
alberati e un generale senso di pace, dove persino il traffico sembrava
moderato. Sfruttò il primo parcheggio disponibile con
accanto un diner, indossò
gli occhiali da sole e, in ciabatte, uscì
dall’auto dove si stiracchiò la
schiena e si guardò attorno, cominciando infine a camminare
sicuro di sé.
Tim lo osservò un attimo, poi lo
raggiunse con le mani in tasca; portava una maglietta a maniche corte
dipinta
da Abel e sapeva che, dietro gli occhiali, lui la stava guardando. Con
soddisfazione manifesta d’artista, perché quella
maglietta, come tante altre,
l’aveva dipinta lui. Le metteva quasi sempre, le regalava
alle persone a cui
teneva, considerandole i suoi ‘quadri
prêt-à-porter’. Ne andava
orgogliosissimo, anche quando si trattava di linee astratte e altre
elaborazioni
conoscesse dopo un trip particolarmente intenso. Quella che aveva
addosso Tim,
per esempio, l’aveva dipinta una notte di qualche mese fa da
ubriaco, dopo aver
discusso di religione, etica e morale con un’interprete che
lavorava al
parlamento di Strasburgo ed era in vacanza negli U.S.A.
Non sono luci, sono fuochi
d’artificio. Non festeggiamo abbastanza.
Non che ci fosse mai stato nulla di
particolare da festeggiare, eccetto il successo di qualche mostra di
Abel –
evento di per sé meraviglioso, ma comunque già
corredato di qualsiasi elemento
per festeggiare, dal catering di alto livello, ad alcolici, alla gente
coi
soldi veri e l’interesse a sembrare di un certo livello di
cultura, dunque non
contava – però Tim capiva che quello era il suo
canto d’artista per affermare
di volerci credere.
Nel diner, ordinarono da bere e da
mangiare. Tim non si stupì particolarmente quando vide Abel
chiedere dei
pancakes e una fetta di carrot cake: tanto bravo a consigliare il suo
compagno,
ma altrettanto pessimo nei propri eccessi, pur mantenendo sempre
quell’aria
sicura di sé, come se li avesse davvero programmati.
“Che c’è?” domandò
infatti Abel con
una sorta di sorriso, quando vide l’espressione scettica
dell’altro.
“Ce la fai a finire tutta quella
roba?”
“Se puoi farcela tu, non vedo perché
non dovrei riuscirci io. Poi… sono previdente: mal che vada
abbiamo degli
avanzi da mangiare durante le lunghissime tre ore di viaggio.”
Sembrò quasi contrattare, con
sottigliezza strategica. Tim lo osservò mettersi gli
occhiali sul capo, così
che affondarono tra i capelli mossi, infine rispose, incapace di
passare oltre:
“Non prendermi per idiota – nel
parlare, d’istinto il suo accento della Louisiana divenne
più marcato, mai
davvero influenzato dalla parlata più stretta assorbita a
New York, nell’eclettico
e un tempo povero quartiere di Harlem – mangia quello che ti
senti. Ma se vuoi
abbondare, se davvero lo vuoi, non c’è nulla di
male: non sono...”
Tacque, emettendo una specie di
ringhio infastidito, quasi strozzato, poi iniziò a
inforchettare il pancake
come se avesse dovuto ucciderlo. Ne prese una grossa fetta, cominciando
a
masticarla con le guance piene e gli occhi puntati verso lo sciroppo
d’acero.
“Mia madre?” finì per lui Abel,
diretto ma tranquillo. Lo osservò mangiare, poi ammise in
uno dei suoi personali
collegamenti: “Sei sempre così magro, hai un sacco
di pensieri in meno da quel
punto di vista.”
Tim smise di mangiare e lo guardò,
con ancora la bocca piena. Abel si tolse gli occhiali da sole, li
appoggiò sul
tavolo e, con ancora il suo piatto e la torta intoccata, al pari dei
pancakes,
aggiunse mortificato eppure con fierezza:
“Scusa. Scusa amore, sono stato
stronzo.”
Tim mangiò lentamente, deglutì,
bevve dalla tazza un sorso di caffè macchiato. Gli
servì perché altrimenti
avrebbe attaccato Abel dicendogli qualcosa di cattivo, lo sapeva.
Dunque prese
una pausa per connettere e cercare una cosa giusta da dire, anche se
era un
ragazzino ignorante, non era andato al college e a malapena aveva
finito le
scuole.
“Non metterci troppo sciroppo sopra.
Questa marca è più zuccherata del
solito.”
Si grattò poi il sopracciglio. Abel
annuì, la stessa espressione intensa e attenta di chi riceva
una grande nozione
scientifica, poi allungò la mano per far smettere il
compagno. Gliela baciò, in
maniera sfrontata, chiedendosi se qualcuno si sarebbe girato a
guardare, infine
la lasciò e iniziò a tagliare la pila di pancakes
dopo averci messo sopra un
po’ di sciroppo – poco: stranamente, ma non poi
così tanto, aveva ascoltato
almeno quel consiglio.
Dopodiché, con iniziale lentezza
prese a mangiare.
“Buoni. Ne valeva la pena.”
“Sì, ne valeva la pena. Sicuramente
più di salvare un cellulare nel mezzo di un fiume in
piena,” replicò Tim, con
una sorta di sorriso che rendeva meno ingombrante la sua cicatrice,
come se in
quel modo sparisse nelle minuscole rughe d’espressione.
Abel però a sua volta gli sorrise,
gli occhi scuri affascinanti, saggi nonostante qualche sfumatura di
follia per
le idee che la sua testa perseguiva.
“Johnny – annunciò
all’improvviso
Abel, dopo aver tagliato in parti più piccole quello che
ancora restava del
pancake in cima – l’ho incontrato in clinica. Ci
tenevo che lo conoscessi
perché, prima di te, assieme a nonna è stato
parte del mio percorso di
guarigione.”
Lo disse come se fosse qualcosa di
spirituale e, in un certo senso, forse era così. Abel era
tanto bravo a parlare
di sé come artista, a mostrarsi sicuro, pieno di certezze e
al tempo stesso
ricco di fragilità nascoste, che lasciava intravedere come
uno spiraglio
lontano a sufficienza da instillare curiosità, ma mai
compassione; allo stesso
modo, per opposto, era totalmente incapace di gestire le proprie
debolezze:
gettava in superficie tutto ciò che voleva gli altri
vedessero, per evitare
che, nonostante quel famoso luccichio distante che ingolosiva, la
maggior parte
delle persone non fosse interessata a scavare più a fondo,
certa di aver già
ricevuto il meglio. Lo faceva anche con se stesso, senza mai chiamare
per nome
ciò di cui aveva sofferto, senza mai menzionare la madre
– eccetto quando gli
dava i soldi e pubblicava articoli riguardo l’arte del figlio
sul New Yorker,
per il quale, sotto sua insistenza, Abel aveva anche disegnato una
copertina,
copertina che odiava e aveva usato per ‘pulirsi il culo dopo
aver cagato’.
Dopodiché, aveva incorniciato la suddetta copertina per
spedirla via posta alla
madre e al compagno di quest’ultima. Tim l’aveva
visto in azione e, suo
malgrado, aveva capito di essersi innamorato di Abel anche per quel suo
lato
ricco di parolacce nel mezzo di parole auliche, oltre che di ribellione
un po’
capricciosa, all’apparenza, ma in realtà frutto di
un’esasperazione dalle
radici ben più profonde.
“Johnny – ripeté allora Tim,
assorbendo quel nome, perché era la prima volta che Abel gli
parlava così tanto
all’improvviso di qualcuno incontrato in clinica –
va bene, lo conoscerò
volentieri. Cosa fa nella vita?”
Azzardò a chiedere, dopo aver
mangiato l’ultimo boccone. Aspettò a bere, quasi
per non interrompere il
contatto visivo con Abel che, come se avesse atteso quella domanda,
replicò
soddisfatto:
“Edith Labelle. È una drag
queen e uno stilista piuttosto affermato nel suo ambiente. Se stessi un
po’ di
più su instagram lo sapresti.”
Lo prese in giro con fare pacato,
consapevole che se c’era una persona a cui non fregava nulla
dei social media,
beh, quella era Tim, il quale era capace anche per giorni di non
rispondere al
telefono o persino ai più semplici messaggi.
“Stacci tu anche per me su
instagram” sbottò infatti alla fine Timmy,
prevedibilmente. Picchiettò la
forchetta sul piatto, raccogliendo qualche residuo dello sciroppo
d’acero, per
poi grattarsi la cicatrice e smettere prima che glielo dicesse Abel,
aggiungendo: “Facciamo portare via la carrot cake e quello
che non hai mangiato
dei pancakes, non era una cattiva idea quella di smangiucchiarli per
strada.”
Incredibilmente, in aggiunta gli
sorrise e scrollò le spalle, assumendo però come
sempre un atteggiamento
tiepido e vagamente distaccato, anche se Abel conosceva le sfumature
dei suoi
occhi e di quel sorriso. Allora abbassò
lo sguardo, realizzando di aver
sminuzzato e accantonato una grossa parte dei pancakes; uno dei suoi
trucchi
preferiti per diminuire il volume del cibo nel piatto e dopo esclamare ho
mangiato fino a sfondarmi! Se prendo ancora altro esplodo!
“No. No, amore, ho ancora fame. Sai
che sono lento” specificò dopo un istante di
silenzio, anche se non era vero.
Abel era lento solo quando accarezzava il suo compagno, o camminava a
piedi
nudi da qualche parte. Lì… sì, si
prendeva tutto il tempo del mondo.
Infilzò i pezzettini uno dopo
l’altro, con fare metodico, preciso, contandoli. Quattro per
ogni forchettata.
E se ne riempì la bocca, con Tim, le sue cicatrici, il suo
corpo nervoso e
spigoloso che, Dio, quanto cazzo gli aveva invidiato e ancora, in
parte, gli
invidiava, che lo guardava senza nemmeno provare a fingere di fare
altro, anche
se ogni tanto gli rubava un pezzetto di pancake, silenzioso, facendogli
credere
che potevano competere per chi mangiava di più e il ragazzo
della Louisiana
riuscisse davvero a perdere.
Abel dunque si riempì le guance,
masticò, più e più volte, mentre
continuava a fissare il piatto. Deglutì e si
rese conto della fatica nel farlo, perché, cavoli, aveva
esagerato come al
solito, nella sua personale forma di protesta. Bevve poi del
caffè, si sciacquò
gli ultimi residui tra i denti e ricominciò. Meno lento
quella volta.
Fu Tim a chiedere di portare via la
carrot cake; quando la cameriera gliela riportò nel doggy
bag, il ragazzo la
ringraziò, pagò di tasca sua e si mise il
sacchetto in grembo, portandosi una
ciocca di capelli dietro le orecchie.
“Grazie” gli disse Abel dopo un
istante, per poi sorridergli mordendosi un labbro. Tim a quel punto
sentì inconsistente
il peso dei soldi dati via, anche se erano pochi quelli
rimanenti;
pochissimi, se pensava al viaggio che ancora avevano davanti.
“Prego – guardò poi l’ora e
aggiunse, dopo essersi schiarito la gola con un colpo di tosse
– che ne dici di
andare? Edith Labelle potrebbe essere una potenziale drag queen per gli
spettacoli che volevi far vedere a Sophie.”
“Sì, decisamente sì. La
amerebbe”
decretò Abel. Con quelle parole fece scomparire in maniera
definitiva qualunque
precedente insicurezza, come dimenticandosi del cibo, anche se era
finalmente
nello stomaco, macigno del senso di colpa.
Si alzò in piedi, attendendo Tim;
quando lo ebbe accanto gli iniziò a parlare della
cantautrice Edith Piaf a cui
era ispirata Labelle, del fascino del bianco e nero, di quanto fosse
bella sua
nonna con le sfumature antiche delle fotografie e di quanto avrebbe
voluto
impostare la sua prossima mostra sul bianco e nero.
L’hanno fatto tutti, ma
io lo farò meglio.
Sull’onda del trasporto, aggiunse
anche che avrebbe fatto una prossima foto a Tim nudo in un fiume, come
nel suo
sogno, quasi fosse stata una missione di vita farlo tornare a nuotare
con
alligatori immaginari. Stupido, stupido Timmy: in passato hai
avuto talmente
tanta paura di annegare e soffocare da non bere per giorni. Hai
rischiato di
morire per la disidratazione, lo sapevi?
“Sei il paladino delle cause perse,
Abel” replicò Tim salendo in macchina, ma non
contestò del tutto la possibilità
di fare davvero una foto in un fiume. Non perché ci
credesse, semplicemente non
aveva voglia di discutere: gli spiaceva smorzare l’entusiasmo
ed era troppo contento
nel constatare che, da un anno a quella parte, Abel aveva decisamente
migliorato il suo rapporto con il cibo e ogni tanto si ubriacava
persino.
Certo, c’erano ancora sospetto, diffidenza e vecchi echi di
rifiuto, simile a
un cane che annusi con incertezza il padrone che l’ha
abbandonato, però Abel e
il cibo riuscivano a fare lunghe passeggiate al guinzaglio senza
rischiare di
scappare.
“No, niente cause perse: siamo
cresciuti tanto da quando ci siamo incontrati, Timmy. Credo nella
crescita
appunto e nel cambiamento. Una delle tante cose buone che il mio ex mi
ha
insegnato è questa.”
Indicò il due con le dita, poi avviò
il motore, rimettendosi gli occhiali sul naso. Tim si
allacciò la cintura: “Che
vuol dire quel due?”
“Seconda tappa. Il mio ex. Prima
John, poi Lyanna.”
Tim non riuscì a provare nemmeno
senso di inadeguatezza, o a immaginare se l’ex di Abel
dovesse essere un
barbone, per effetto del modus Jesus-Christ-Our-Lord-and-Saviour
operandi di Mahogany Abel, che replicò sull’onda
della sorpresa: “Lyanna?”
Da dietro gli occhiali vide Abel
inarcare un sopracciglio, sorridere, e immettersi in carreggiata senza
dire
altro. Accese solo la radio, che passò una canzone di Gloria
Gaynor. Appena la
sentì alzò il volume al massimo,
abbassò i finestrini e lasciò che le parole I
will survive risuonassero per le strade verdeggianti di
Carlisle e, poi, in
quelle immense ma polverose della Pennsylvania.
Daily
News – Sezione annunci
Non interessa il
fisico, né la bellezza. Compenso
congruo. No scopo sessuale, solo affidabilità professionale
in percorso
personale parallelo di terapia. Contattare all’indirizzo mail
shapeshifter@yahoo.it
Da:
tim.westfield1234@gmail.com
A:
shapeshifter@yahoo.it
Oggetto:
annuncio cercasi modello
scrivo
per l’anuncio. Uomo, fisico magro. Dicono che ho una buona
empatia, se può
aiutare nella riabilitazione.
Questo era l’annuncio che Abel tre
anni fa aveva prescelto, tra centinaia e centinaia di altri migliori,
molti
dotati di foto dei candidati in ogni posa possibile, di gente che si
sapeva
vendere insomma o cercava perlomeno di farlo, a differenza di quelle
quattro
righe sputate e persino con un errore di battitura. Eppure
l’aveva scelto
perché era l’unico che gli avesse parlato di
empatia, quando i pochi che si
ricordavano della riabilitazione vantavano nient’altro che
immense lauree in
psicologia o addirittura in psichiatria.
L’aveva colpito, quell’empatia,
aggiunta al se può aiutare, come
un’entrata in punta di piedi ma da
ballerina, non da ladro.
Una che gli mandò:
Re: annuncio cercasi
modello
Da: shapeshifter@yahoo.it
A: tim.westfield1234@gmail.com
Ciao Tim Westfield,
presupponendo che sia tua la mail.
Incontriamoci al Lacolombe Café, a SoHo, Lafayette Street.
Domani alle 18,00?
Discutiamo del
compenso e delle disponibilità di
giorni e orari. Per onestà professionale preciso che sono
gay; non intendo
provarci con te, né molestarti sessualmente.
A presto,
Abel
Re:
re: annuncio cercasi modello
Da:
tim.westfield1234@gmail.com
A:
shapeshifter@yahoo.it
Quando lesse quelle righe Abel si
ritrovò a mordersi il labbro e a sorridere. Lesse una
qualche forma di speranza
e al tempo stesso di rassegnazione, quasi come se la prima fosse
contrastata da
una maturità più grande, di chi non si aspettava
di incappare tramite annuncio
nel lavoro perfetto però volesse comunque provarci.
Trovò bella la semplicità
delle parole, l’essere sia dirette che schive.
Fu tentato di seguire il consiglio
della sua terapista e della clinica pagata da suo padre tanti di quei
soldi da
poterci fare infiniti viaggi attorno al mondo, comprare materiali per
la
scultura, pitture, tele. Lo faceva incazzare la sola idea delle spese e
pensò
di mandare un messaggio a sua madre, per riversarle contro quello che
era
stata. Non lo fece. Riscrisse invece quella mail alternativa che non
aveva mai
mandato all’ormai confermato Tim.
Rimase nelle bozze, ma ogni tanto la
guardava pensando che forse, un giorno, quando Tim sarebbe stato
più forte
emotivamente gliel’avrebbe fatta avere, come una proposta di
matrimonio.
Parlando con il gruppo di
supporto e con la terapista che mi segue, è emerso che forse
potrei ritrarre dei
corpi, visto che ho studiato alla New York Academy of Art. Rendermi
conto che
in ogni fisico c’è una forma di bellezza, persino
quando tentiamo di
autodistruggerci.
Sto cominciando il mio percorso
per non vanificare quello che ho ottenuto in clinica. Molti mi hanno
preso da
parte, guardato in faccia e detto che, ehi, lo sappiamo tutti e due,
non
guarisci mai veramente dall’anoressia, l’allontani
solo per più o meno tempo.
Ma io non voglio ascoltarli, voglio andare contro le opinioni comuni,
capisci?
In fin dei conti voglio solo sopravvivere: sono un essere umano,
è questo
quello che gli uomini fanno.
Quindi, senza troppo peso o
responsabilità, se cominciamo questa collaborazione
è bene che tu sappia una
cosa: più che la mia musa potresti essere il mio
incantesimo, il mio mantra, la
mia medicina per guarire veramente,
Sproloqui di una zucca
Il prompt era guarigione. Spero di averlo affrontato con la giusta sensibilità, accanto a prompt importanti come malattia, supporto e fiducia. La canzone portante da inserire è ovviamente I will survive, di Gloria Gaynor. Grazie per aver letto, mi auguro che quanto scritto possa piacervi!