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Autore: swimmila    24/06/2019    4 recensioni
Ciò che resta avvolto nel silenzio esiste con una forza che non ha bisogno di voce.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Questa fanfiction nasce autonomamente rispetto a L’aria di Reesejordan. Tuttavia, la coincidenza temporale fra i due scritti mi rende piacevole il pensiero - solo quello e senza altra pretesa - di considerarla come l’altra metà della sua storia. 


Non era amore

Il sole cercava ombre in cui allungare un dolore altrimenti incontenibile.
Ce n’erano di splendide fra le paratie sbilenche del relitto spiaggiato, che penzolavano a sfioro sulla superficie dell’acqua com’egre speranze. Oppure, fra le concavità delle onde che fluide lambivano il tepore appena accennato della brezza di marzo coi loro dorsi convessi e sinuosi. Meno spettacolari, ma d’ineguagliabile effetto grottesco, se ne scovavano nelle infinite irregolarità che macchiavano la distesa di sabbia, calpestata da strascichi di vita sgualcita e sprimacciata dal solerte soffio del vento.
Poi, inatteso, un colpo di fortuna: un corpo macilento e rognoso; una pelle tirata su un costato affamato; zampe che sghembe seguivano rotte istintive; il fiuto ad annusare nell’aria odore di morto e a scartare il cammino quel poco che basta. Ce n’erano di anfratti ombrosi in quei morsi scarniti, in quei bocconi spolpati, in quegli incavi raschiati. E poi, quelle orbite sporgenti. Magnifiche. Sembravano sul punto di staccarsi dal cranio oscillando di voglia di struggersi al suolo. Dentro, nascondevano di certo, infossate, ombre ideali in cui diluire un dolore.
 
Oscar guardò l’orizzonte e vi lasciò a sciogliere un dolore altrimenti intollerabile.
Nelle orecchie gli strilli volteggianti dei gabbiani. Nella memoria l’eco senza fine di quella stupida bugia.
Parlavano di ritorno e di futuro, quei suoni striduli e liberi.
Risuonavano di lontananza e menzogna, quelle parole ancora strette nei denti.
Non riusciva a credere di averle pronunciate davvero. Che un conto è pensarle, le mostruosità. Un altro è dirle. E quando si dicono, si dà loro un corpo, si anima un’azione, si produce un effetto. Si rende mostro lo spirito e mostruoso il dolore.
E lei ora era divorata dal rimorso, dalla voglia di tornare indietro sui tasti del tempo per continuare a suonare e a tacere fino a che notte e senso non fossero scesi buoni sul loro silenzio.  
Oscar guardava il mare che sbirciava il sole che rifuggiva il chiarore. Ma il suo sguardo, cieco come una mente fissa, rivedeva ossessivamente le proprie dita sorvolare senza direzione su una musica furiosa che copriva un battito impazzito che aspettava nel petto l’infuso della sera.
E poi. Alla porta un bussare educato. Il suo cuore ad andare in frantumi. La musica a separarsi dal suono. Avrebbe voluto urlargli di andarsene, di allontanarsi da quella stanza dove l’irrequietezza faceva sconcia l’amore con la follia. Invece lo aveva invitato ad entrare e aveva continuato a suonare come se il dopo non dovesse accadere.
Aveva sorseggiato piano dalla tazza che lui le aveva servito, come se una volontà così ritrosa avesse potuto impedire al tempo di avanzare. Illusa. Il tempo non avanza, il tempo assiste immobile. E il calice dell’amarezza era infine giunto al fondo della feccia. E lei non aveva potuto fare altro che sputargliela addosso voltandogli vigliacca le spalle. Che non ce l’aveva avuto il coraggio di guardarlo negli occhi, altrimenti nemmeno un empireo di dèi fra i più potenti avrebbe potuto garantirle la calma impeccabile con cui invece aveva parlato; mentre grande è il potere della viltà che chiude gli occhi e dà fiato alla bocca. E dalla sua erano uscite, miserabili, poche e pacate parole con cui lo aveva rimosso dal suo fianco a partire da quel preciso momento. Un ventennio cancellato in un istante. Un abominevole portento.
Non era stata capace di risparmiargli le sue spalle meschine mentre metteva al muro le sue. Solo così aveva potuto continuare a infierire rivendicando con ineccepibile stoltezza la solitaria fierezza di un valore che aveva invece radice plurale.
Era stata brava la sua miserevole schiena a tenere il gioco alla fermezza codarda della voce.
Una brava, miserevole bugiarda. Come bugiardo è il dolore di questo sole che soffre e gioisce con gli stessi colori.
 
Il sole rincorreva ombre in cui sfogare un buio impenetrabile, ma riusciva solo a trovare oscurità violate da un flebile lucore.
Colava sanguigno, piangeva rubino, si scioglieva rossastro, si spandeva rubizzo, si smagliava vermiglio. Ma il nero restava sempre di poco imperfetto, rischiarato da una debole fiamma che accendeva ostinata la volontà più imbolsita.
Quel cane rognoso, che lì per lì era sembrato un ottimo posto dove cercare il fondo del cupo, si era alla fine rivelato un errore. Per quanti buchi smangiucchiati avesse nella carne ormai all’osso, per quanto infossata fosse la disperazione nello sguardo, seppur scheletrico quel costato che pareva smontarsi ad ogni passo, quella bestia nascondeva sotto il manto sparuto del pelo una luce soffusa che colpita dalle ombre del sole si accendeva irritante come una beffa.
Ma poi, inaspettato, un colpo di fortuna.
Avanzava sulla spiaggia allungando ombre senza fretta né strascichi. Un incedere umano che non sembrava né camminare né trascinarsi, solo un voler raggiungere un orizzonte che invece continuava incessantemente a spostarsi in avanti, un voler afferrare l’ineffabile che non si stancava di restare tale. Si muoveva con lo sconcerto di chi sogna di volersi liberare da se stesso ma urta continuamente nel proprio corpo.
Stupende, queste ambasce umane. Così floride di mutevoli pene da non trovarne mai una espressa uguale all’altra. Antri eccellenti in cui trovare notti infinite. E questa aveva tutte le caratteristiche dell’esemplarità.
Un vuoto senza fondo. Un dolore senza speranza. Un fiato senza aria. Un volere senza potere. Una distanza incolmabile. Un rimpianto rabbioso. Una nostalgia struggente. Un animo cieco. Un essere umano. Un’occasione imperdibile.
Il sole vi affondò lesto le sue ombre e trovò le tenebre perfette. Il buio assoluto.
 
Non era lontano da sé che davvero lo voleva. Ma vicino ormai non poteva.
Lo sapeva da tempo. Sapeva e taceva. Da vile egoista, da pavida abietta, da ingorda codarda.
Lo sospettava da tanto, lo dubitava da mesi, il giorno fingeva e la notte vedeva.
Il suo vellutato sorriso; la sua risata pulita; il suo sguardo tranquillo, ma fervente e profondo; la sua vibrante dolcezza; il suo spirito libero incatenato dal cuore. Vedeva di giorno e capiva di notte.
André l’amava. Ma lei non lo ricambiava.
Non poteva fargli questo. Non poteva continuare ad averlo accanto come se non avesse ancora capito. Non era giusto togliergli l’amore che avrebbe potuto trovare altrove. Per questo lo aveva allontanato. Per questo quel nuovo incarico che a giorni l’attendeva le era sembrato uno scivolo del destino per lasciarlo libero di cercare lontano la sua felicità.
Non sarebbe stato facile: André conosceva tutte le pieghe in cui lei aveva ordinato i suoi ultimi ventitré anni di vita. Gli avrebbe spezzato il cuore e lei avrebbe dovuto fare a meno del suo amico di sempre. Ma non era così sprovveduta da non sapere che esistono decisioni tremende e inevitabili; né così debole da tirarsi indietro.
E poi, non lo amava. E questo avrebbe reso il suo dolore un nemico già spacciato.
Non lo amava, no.
Che non era amore non potersi immaginare senza: era solo abitudine di averlo accanto.
Non era amore. Questa testa stordita. Questo vuoto dentro. Quest’anima ubriaca. Questa mente confusa. Questo respiro inceppato.
Era solo una schiena impaurita e bugiarda.  
Com’è bugiardo questo sole che finge di soffrire e invece gode.
Oscar distolse lo sguardo dal niente che vedeva e mosse passi incerti nel nulla che incontrava, lasciando il sole penzolare al suo fianco. Dalla direzione opposta un cane bastonato dal destino avanzava arrancando malfermo e guardingo. Sullo sfondo ambiguo di un tramonto focoso l’ombra rischiarata di una fiera e quella assoluta di un dolore ferino si incrociarono come spade sanguinanti di una stessa sconfitta. Per un attimo si voltarono a guardarsi, bestia e bestiale, quasi che l’una sperasse di vedere nell’altro un dolore più inconsolabile del proprio col quale consolarsi. Infine, dopo breve e riconsolata ponderazione, il cane voltò i suoi passi e li affrettò lontani da quell’inquietudine opprimente che gli aveva rizzato la peluria sparuta.
   
 
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