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Autore: Ellie_x3    11/07/2019    3 recensioni
A volte a Chuuya mancava qualcuno che gli tenesse compagnia senza essere...beh, Dazai.

La stessa persona che aveva “sbadatamente” dato fuoco al suo armadio e che gli hackerava la carta di credito ogni due giorni e che a volte camminava per casa nel cuore della notte, i piedi scalzi e l’espressione vuota, in preda ai fantasmi dell’inquietudine.
Convivere con quell'idiota era un lavoro a tempo pieno.
Tuttavia, più spesso di quanto volesse ammettere, si era chiesto come avesse fatto a sopravvivere in quattro anni di separazione.
[Dazai Happiness Week 2019]
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Nota: In questo capitolo sono presenti leggeri spoiler dal Manga 🖤



Bulletproof Heart



Let's blow a hole in this town

 

La vera essenza di Soukoku era una ragnatela, nodi scarlatti che legavano Chuuya e Dazai in una danza senza musica, legami intrisi di sangue che ad ogni goccia facevano sbocciare un fiore sull’asfalto di Yokohama.
Due adolescenti raccolti dai bordi della strada. Una coppia prodigio, il protetto suicida di un medico e l’irritabile allievo di una cortigiana, due parti opposte dello stesso nero.
Grazie a quei fili, Dazai si sentiva legato all’esistenza; a causa di quel legame, Chuuya ricordava la propria umanità. Quando coglievano l’ombra reciproca fra le strade affollate, l’uno accompagnato dai nuovi compagni e l’altro seguito da un gruppo di sottoposti, Chuuya immaginava che anche lo stomaco di Dazai si stringesse per un istante, abbastanza da risultare fastidioso ma non da parlarne apertamente.
La loro convivenza era un campo di battaglia, e allo stesso tempo era la cattedrale in cui si rifugiavano. Era le bende di Dazai e il choker nero di Chuuya, era il vino dopo l’una di notte e la colazione saltata per correre all’Agenzia, erano i tentativi di suicidio fallimentari e gli scoppi d’ira. Un appartamento che fungeva da sepolcro per un Soukoku che non era mai morto del tutto, un fantasma catturato in un limbo. Era dinamite, due diamanti che facevano a gara a chi rifletteva meglio la luce, eppure come grafite continuavano a scrivere una storia già scritta.
Tornare a percorrere i vecchi pattern era sin troppo facile, sentieri dissestati che credeva di aver dimenticato, e Chuuya si convinceva ogni giorno di non aver mai davvero conosciuto Dazai.
Quella gioia che riservava ai nuovi colleghi e che l’executive non aveva mai visto erano dita di una mano che artigliava le viscere di Chuuya ogni volta che l’immagine allegra dell’ex partner si sovrapponeva al ragazzino vestito di nero coperto di bende. O, magari, quella gentilezza aveva sempre languito nell’ombra, sepolta sotto i cerotti e le fine ferite e la sincera, straziante richiesta di morire: con tutto il tempo libero che aveva, forse Oda l’aveva solo vista prima di chiunque altro, quella frattura nella maschera, vi aveva infilato le dita e l’aveva spezzata liberando una parte più luminosa dell’animo di Dazai, una parte più buona.
Intravedere l’ex partner sorridere al cellulare mentre scriveva a Kunikida, sentire la sua risata mentre si rivolgeva ad Atsushi, riportava Chuuya ai momenti che avevano condiviso, facendogli chiedere se quel Dazai non fosse sempre stato lì, in attesa di un motivo per smettere di nascondersi.

“Chuuya, allora? Ti muovi?”
A diciassette anni, nella notte rovente di Osaka con ancora l’odore del sangue e della polvere da sparo sulle dita, Chuuya si sentiva in trappola. La voce di Dazai era solo benzina sul fuoco.
“Vaffanculo, kuso Dazai!” urlò, per tutta risposta, la voce soffocata dall’acqua corrente. I muri del motel erano talmente sottili che giurò di sentirli vibrare, e gli riportarono la risata compiaciuta di Dazai come se gli fosse accanto.
“Non vorrai mica dormire nel bagno? Su, slug, ti ho fatto portare una cuccia.”
“Fatti gli affari tuoi,” ricordava di aver sbottato, ma non ne era certo. La mente gli giocava brutti scherzi e la memoria era una puttana, alle volte, uno specchio in frantumi in cui ogni riflesso era leggermente diverso.
In ogni versione del ricordo, però, Dazai compariva sulla soglia, una spalla mollemente poggiata allo stipite in plastica dopo aver calciato la porta perchè si aprisse, rivelando Chuuya chinato sul lavandino, l’acqua che gli scorreva ad un soffio dal viso.
Corruzione non era mai facile, ma alcune volte erano peggio di altre. In futuro, Osaka sarebbe stato l’episodio peggiore, il primo di una lunga serie di malesseri che avevano insegnato al ragazzo che vivere come un esperimento del governo non significava essere invincibile.
Merda, però. Era tutto quello che aveva pensato all’epoca, il sapore acre della città polverizzata in bocca e la testa che pulsava.
“Posso fare qualcosa?”
“Va’ al diavolo, è sufficiente.”
“Stai bene?”
“Come ti sembra che stia?”
Dazai non aveva risposto; gli aveva posato una mano bendata sulla schiena, dita tiepide che lo sfioravano che esprimevano parole con cui Dazai non si sarebbe sentito a proprio agio, e in cambio Chuuya non aveva fatto commenti sul suo orribile pigiama grigio e su come lo facesse sembrare un orfano ad un funerale. Era rimasto lì per tutto il tempo necessario, una fonte di calore inaspettata quando il mondo era diventato gelido, finché Chuuya non si era risvegliato nel proprio letto senza ricordare come vi fosse arrivato.

Forse, sì, era sempre stato lì.
Due Dazai convivevano nella vita di Chuuya. Uno gli dava i brividi e l’altro apparteneva all’agenzia, e l’idea gli faceva ribollire il sangue di rabbia perchè, seriamente, per quale motivo un essere umano aveva bisogno di personalità così opposte? Che se ne poteva mai fare?
A volte, Chuuya immaginava di tendere una mano, sfiorare quell’immagine, capire se si trattasse davvero di due persone sovrapposte o solo della speranza di un idiota nostalgico a cui, dopotutto, lavorare da solo non piaceva poi tanto.
Il tempo, però, gli aveva insegnato che Dazai non era l’unico ad indossare una maschera; e sorprendentemente non era stata la convivenza ad insegnarglielo, ma la Port Mafia.

 

Tachihara 
23:01

Chuuya-san, per favore, vediamoci al Yokohama Ramen Mousem. Ho delle informazioni; aspetterò tutto il tempo necessario.

 

Ora, Chuuya non era tipo da far attendere le persone “tutto il tempo necessario”, perché sapeva che c’erano individui che avrebbero aspettato fino alla fine dei tempi e, in parte, sospettava di sapere come sarebbe andata quella conversazione.
Quando era arrivato, la luna era coperta da nuvole violacee, l’eco di un temporale alle porte, e Tachihara aveva piantato gli occhi sull’asfalto, le guance scarlatte perfettamente distinguibili nella penombra e un’espressione combattuta che Chuuya aveva visto mille volte.
Maledizione. 
Avrebbe davvero, davvero voluto sbagliarsi qualche volta.
“Allora? Quella delle informazioni era un pretesto, non è così?” domandò, sfiorandosi il capello, soprappensiero.
Tachihara - controllato, sicuro di sè, solido Tachiara - era arrossito fino alle orecchie.
“Mi dispiace immensamente; non mi è venuto in mente niente di meglio.”
“Ormai siamo qui. Dunque?”
“C— Chuuya-san, io...”
Nonostante volesse scappare, Chuuya si obbligò a non interromperlo.
L’executive si era sempre ripromesso di non guardare mai dall’alto in basso i sentimenti di qualcun altro: era una cosa che avrebbe fatto Dazai, o Akutagawa, e l’idea di sfiorare certi livelli di incapacità sociale lo metteva a disagio. Non importava quanto volesse gettarsi nella baia di fronte ad una qualsiasi implicazione extra lavorativa (perché la sua vita era già complicata a sufficienza, grazie mille), Chuuya aveva affondato le mani nelle tasche dei pantaloni neri e lasciato parlare l’altro.
“Io, vorrei—“ il ragazzo aveva stretto i pugni. Non era la prima persona che si lanciava in quel rischio sapendo già la risposta, e Chuuya se non altro poteva apprezzarne il coraggio. “Chuuya-san, non voglio sembrare irrispettoso, ma usciresti con me?”
"Fai sul serio? Non ti facevo così sfacciato, Tachihara,” replicò, inarcando un sopracciglio e sentendo, proprio malgrado, un sogghigno piegargli le labbra. Le alleanze erano così labili, così insensate; Gin l’avrebbe ucciso, “dovrei porre fine alla tua vita qui ed ora, e tu mi chiedi di uscire.”
L’altro sbattè le palpebre e, per un istante, Chuuya notò che il bomber verde valorizzava gli occhi dell’altro, la spruzzata di lentiggini, il rosso dei capelli. Non l’aveva mai guardato, prima.
“Dal momento che Chuuya-san è con Dazai-san costantemente, ho pensato che valesse fare la pena fare un tentativo.”
“Sono bloccato con quell’idiota di un mackerel perché è come una gomma sotto le scarpe,” sbottò, “è lavoro.”
Dazai era 'lavoro' perchè Mori aveva una curiosa fissa con la stupida agenzia, mentre O’nee-san non perdeva occasione di visitare Kyouka-chan e Yosano, nonostante non avesse idea dei legami che potevano unire la sua distinta tutrice ad un medico assassino armato di motosega. Persino Akutagawa correva costantemente appresso a Jinko in una maniera che aveva le sfumature dello stalking (e della cotta adolescenziale, ma Chuuya non avrebbe protestato finché Jinko rimaneva una buona influenza sul ragazzo).
Ma, tutto questo, Tachihara già lo sapeva.
“Lo so. Naturalmente, immaginavo che le mie azioni cambiassero qualcosa, ma quello che ho fatto, quello che è successo, non cambia i sentimenti che provo.”
Chuuya giurò di sentire la terra tremargli sotto i piedi.
Era un dialogo già avvenuto nella sua testa, ma non pensava che quelle parole sarebbero mai arrivate da Tachihara.
“No, ma influisce su altri fattori. Durante uno scontro francamente mi troverei in difficoltà, non trovi?”
Ridacchiò perché no, non aveva intenzione nemmeno di considerare quella possibilità, e finse di non notare che l'altro era sobbalzato.
“La stessa cosa varrebbe per te, no, Tachihara?”
“Sicuramente, sì. Però—”
“In ogni caso, non avrei il tempo di uscire con qualcuno in questo momento."
Tachihara abbassò il capo, lo sguardo velato di delusione; aveva sempre avuto dei begli occhi, quel ragazzo, e indossava le proprie emozioni senza riserve, senza nasconderle, fieramente.
La tristezza, la sconfitta, non sembravano spaventarlo.
“Capisco.”
“E poi, O’nee-san non mi perdonerebbe mai.”
Scaricare la colpa su O'nee-san era semplice, ma in quel caso non completamente vero, perché chiunque sarebbe andato bene a parte Dazai: non che Chuuya avesse alcun interesse nel frequentare lo spreco di bende in qualsiasi senso oltre alla convivenza di comodo, e sicuramente il suo ultimo desiderio era passare più tempo con lui di quanto già non facesse, ma O’nee-san aveva preferito vagliare ogni ipotesi a dispetto delle proteste di entrambi.
“Oh. Oh,” Tachihara si umettò le labbra, sollevando lo sguardo, “Kouyou-sama non approverebbe.”
“Niente di personale, O’nee-san non approva nessuno," Chuuya sorrise. Un sorriso vago, in memoria delle sere passate a bere in compagnia e della cioccolata amichevole a San Valentino e delle missioni passate, “Quindi, mi spiace.”
Si disse che Tachihara era un bravo ragazzo, nonostante tutto.
Era anche carino, ad un occhio disinteressato, ed evidentemente Chuuya aveva un debole per quel genere di personalità con la tendenza a disattendere le sue più basilari aspettative — non poteva credere di averlo detto davvero —, ma non c’era molto da dire oltre a “no, grazie.”

Mi spiace, non fa niente. Facciamo finta che non sia successo nulla, torniamo ad essere persone che si odiano; persone su fronti opposti, burattini.

Per un periodo, Chuuya aveva pensato uscire di più ed iniziare a frequentare persone che non fossero prone a piantargli coltello nella schiena o a giurare fedeltà all’organizzazione: forse doveva semplicemente scaricare un’applicazione come le persone normali. La realtà era che Chuuya non era interessato a nessuno; per qualche motivo, però, tutti davano per scontato che il motivo avesse un nome e cognome.
Dazai Osamu era una seccatura.
Dazai Osamu casualmente conosceva i tasti da premere per isolare Chuuya, terrorizzando ogni possibile partito mentre riusciva contemporaneamente a flirtare con cinque donne diverse. Dazai Osamu era un'ombra costante di cui nessuno si riusciva a liberare.
Il ritorno di Dazai non era la motivazione per cui Chuuya era single sin dalla fine della propria missione all’estero, ma l'executive doveva ammettere che era in parte la causa: c’era chi aveva un figlio a carico, Chuuya aveva un ex-partner psicopatico.
Ma, no, ancora una volta, una mummia insignificante non aveva assolutamente nulla a che fare con le sue scelte di vita (era un uomo occupato, ok?) e con la sua difficoltà a provare interesse nelle persone (standard troppo alti, era colpa sua se aveva un certo canone estetico?) , con l’incapacità a fidarsi (le controindicazioni della vita nella Mafia, giusto?) e con la tendenza a preferire storie veloci piuttosto che impegni seri (à la Europea, perché l’idea di mettere su famiglia gli metteva i brividi come a chiunque, no?).
Comunque lo guardasse, Dazai era stato un errore di cui Chuuya si pentiva perché, in qualche modo, l’aveva bollato per sempre.
Un gesto impulsivo aveva dato l’autorizzazione all’idiota di agire come se Chuuya non fosse solo il suo cane, ma una sua proprietà: era stato con l’idea che a sedici anni si potesse sbagliare che aveva lasciato che Dazai lo zittisse nelle maniere più inconsuete — ficcandogli la canna della sua colt in bocca e minacciandolo di sparare, o premendo le proprie labbra contro quelle di Chuuya.
Due anni dpo le missioni costanti, lo stile di vita frenetico, le occhiate pregne di lussuria che gli lanciavano sottoposti di entrambi i sessi scivolavano via solo nel momento in cui, durante un litigio per qualcosa di stupido, Chuuya smetteva di cercare di colpire Dazai e attraversava la stanza per lasciarsi cadere insieme sul pavimento, la cravatta del demone della Port Mafia già allentata e la giacca dell’executive sfilata con voracità. Ma quelli erano gli ormoni, niente di serio.
Ora, ogni volta che Chuuya ricordava anche solo vagamente come fosse la sensazione delle sue dita sulla pelle libera dalle bende, un’altra voce gli strillava nella testa di non dimenticare com’era finita la prima volta.
In mesi, non era accaduto nulla.
Litigavano, Chuuya bloccava i polsi di Dazai sul pavimento e gli stringeva le ginocchia contro i fianchi e l’altro sogghignava e si tendeva in avanti finché le loro fronti non si sfioravano solo per caricare una testata che avrebbe mandato Chuuya dall’altra parte della stanza, e potevano guardarsi quanto volevano, ma nessuno avrebbe fatto la prima mossa.
Dunque le considerazioni di Tachihara erano sbagliate.
Mortalmente sbagliate.
Inoltre, c’era un dettaglio che l'executive non riusciva a superare nonostante gli anni che si susseguivano. Riviveva una notte d’autunno nella penombra dello studio di Mori-san, il tappeto scarlatto brillava come sangue illuminato da uno spiraglio di luna e il volto del boss era nascosto, Elise risucchiata dal buio, e si chiedeva perchè.
'Chuuya-kun, c’è una cosa che è tuo diritto sapere.'

 

“Mi spiace per te, mackerel, dev’essere stato orribile quando Mori ti ha detto di no.”
Aggrottando la fronte, Dazai si fermò per un secondo. Al rumore dei piatti riposti nelle mensole dopo l'ennesima lotta a chi doveva sistemare la cucina (il conto delle stoviglie cadute in battaglia iniziava a diventare ingombrante) si sostituì un silenzio assordante mentre Chuuya veniva scrutato da occhi nocciola che cercavano di ricordare quando Mori gli avesse impedito, in varie declinazioni del termine, di fare qualcosa.
“Cosa?”
“Sei anche sordo, adesso?”
“Dovrai essere un po’ più specifico di così, chibikko,” dichiarò il detective, infine, decidendo che quella delle cose che gli erano state negate da Mori non era una montagna di spazzatura che poteva spalare da solo.
Un ordine in particolare, l'ultimo che aveva disatteso, bruciava come una ferita ancora fresca e portava a galla serate passate in compagnia, una vecchia macchina fotografica e un bar che odorava di sigari ed alcool; sorprendentemente non c’era andato troppo lontano.
“Quando hai chiesto di cambiare partner. Con la questione di Mimic non ho più avuto l’occasione di insultarti come meriti, traditore bastardo che non sei altro.”
“Hm? Non ricordo niente del genere, devi davvero smetterla di credere a tutto quello che ti dicono."
“Non fare il finto tonto,” Chuuya si passò una mano fra i capelli come se non gli importasse, ma gli importava. Dazai poteva leggere fra le righe, cogliere la punta di rosso sulle sue guance. “Mori me l’ha detto ed era ovvio che con Oda ci fosse maggior affidabilità, più chimica, qualcuno che riuscissi a vedere durante le missioni, yada yada yada. Potevi anche dirmelo, ti avrei aperto la porta e dato una festa in tuo onore, ma non mi hai mai detto perché.
Preso alla sprovvista, Dazai aprí la bocca — e la richiuse, e la riaprí come un pesce lasciato a boccheggiare, la mente completamente bianca.
Chuuya lo guarda attraverso gli occhi socchiusi, la quieta convinzione di chi non ha un solo motivo al mondo per dubitare che il proprio partner avrebbe mai voluto azzardare una richiesta del genere. Per qualche motivo, era quella sicurezza che lo insultava più delle parole.
“Pensi davvero che gli avrei chiesto una cosa del genere?”
“Perché no?” replicò l’altro, la schiena poggiata al bancone della cucina. “Eri un lamento continuo, non se ne sentiva più la fine. Vorrei almeno vedere il mio partner, oh, è difficile lavorare con chibikko, OdaSaku non si ubriaca durante le missioni—”
Dazai sogghignò.
“Tutto vero, devi sapere che è difficile collaborare con un microbo.”
“Perchè, secondo te è facile collaborare con un idiota suicida?!” sbottò Chuuya, trattenendosi a fatica dal lanciargli addosso la ciotola di ramen precotto che aveva smesso di girare nel microonde, dimenticata.
Dazai lo guardò, quell’espressione quietamente curiosa ancora dipinta sul volto.
“L’avrei portato all’attenzione di Mori, secondo te?”
“Mi sorprende che ti ci siano voluti anni, francamente.”
Non un secondo d’esitazione.
In quell’istante, Dazai realizzò che non aveva fatto altro che dargli ragione, allineando motivi per cui Chuuya era arrivato a credere di essere sostituibile; e lo era, tutti erano sostituibili, ma non in quel modo. Gli parve quasi di sentirla cadere, la maschera, spezzarsi con un suono sordo. Quello che c’era dietro la pellicola di disinteresse che aveva messo a punto con così tanta minuzia era puro fastidio, una linea che riempiva le sue parole di sdegno.
“Sei stupido? Ti ho già detto che lavoriamo bene insieme, perché dovrei voler— perché avrei dovuto voler cambiare partner?”
“Che diavolo ne so, non sono io che l’ho chiesto.”
“OdaSaku era una persona migliore di me e te, sicuramente migliore di chiunque dentro la Port Mafia,” mormorò Dazai, abbassando lo sguardo, “non mi sarei mai azzardato a volerlo trascinare con me in quel nero, in quel luogo senza luce. Soffocare un fiore per il puro gusto di averlo per sè è un’azione piuttosto crudele, non trovi?”
La serietà e la profondità erano tratti del suo carattere che Dazai aveva lasciato intravedere solo in determinate occasioni, e mai dopo che Soukoku era stato sciolto: ma mentendo ora gli sembrava di mancare di rispetto a OdaSaku, ma anche a qualcosa di più grande— ad una speranza che, su fronti opposti, li legava tutti.
“A posteriori, avrei voluto avere la forza di fare quello che ha fatto Atsushi con Kyouka-chan, se vuoi. Trascinare entrambi nella luce, prima che fosse troppo tardi.”
“Tu? Mr demone della Port Mafia, re dello squilibrio mentale, portare qualcuno sulla buona strada?” Chuuya aggrottò le sopracciglia “Questa è la più grossa idiozia che tu abbia mai detto, e ce ne sono state tante.”
“Vedi che non capisci nulla, chibikko? Sarebbe stato il contrario. OdaSaku mi avrebbe salvato come si salva la Bella Addormentata, e saremmo vissuti felici e contenti. Fine.”
“Sembri una ragazzina innamorata, kuso Dazai, mi fai venire i brividi.”
“Se avessi fatto attenzione, sapresti che Mori ti stava prendendo in giro.”
Chuuya esitó.
“Lo sapevo,” dichiarò, dopo un istante, “per quanto fosse plausibile, sapevo che doveva essere una sorta di macchinazione. Ma poi mi hai fatto saltare la macchina, e nessuno ti ha visto per anni.”
Poi gli hai dato ragione. 
Era stato in quel momento che Dazai aveva mosso due passi verso Chuuya e gli aveva preso il volto fra le mani. Non stavano litigando e la scusa dello stress era scivolata fuori portata, ma per qualche momento Dazai pensò che Chuuya l’avrebbe colpito e che se lo meritava, perché aveva continuato a ferire senza rendersene conto.
No, non aveva idea che Mori avesse detto una cosa del genere.
No, non si sarebbe mai disturbato a negare.
Tuttavia, in quel momento Chuuya aveva le guance bollenti, un rosso acceso in un contrasto bizzarro con i suoi capelli e gli abiti neri: sembrava più che mai un gamberetto e tutto ad un tratto Dazai faticava a respirare, lo stomaco retrocesso ad un groviglio di emozioni e fastidio e dolore. Devo essere allergico ai garberetti come chibikko, avrebbe voluto dire, ma la voce di Chuuya lo interruppe — e tremava e maledizione, cosa gli avrebbe voluto fare e cosa gli stava per fare e cosa, cosa, cosa gli avrebbe fatto in tutti quei mesi di convivenza se avesse avuto meno autocontrollo.
“Oi, Daza—”
“Mi spiace per la macchina, chibi, ma era un insulto al buon gusto e non mi risulta che i cani possano avere la patente. Comunque, la moto non l’ho toccata, no? Dovresti ringraziarmi,” lo interruppe.
Sempre fedele al proprio carattere -- orribile e irruento, come un cane, dichiarò a sé stesso Dazai, -- Chuuya aveva già iniziato a produrre un brontolio sordo e Dazai stesso era fin troppo conscio dei suoi polpastrelli che sfioravano la nuca e i fianchi dell'ex partner, la pelle tiepida e la stoffa costosa, ma si umettò le labbra e si fece coraggio. 
“E non potevo permettere che sospettassero di Chuuya.”
Era stata un’ammissione sussurrata, ovattata da labbra che premevano contro le quelle di Chuuya, ma il modo in cui l'executive aveva sussultato aveva, in qualche modo, sciolto il nodo di tensione che immobilizzava Dazai. Era come tornare a respirare senza essersi mai accorti di aver vissuto in apnea.
Chuuya avrebbe dovuto fermarlo perché non erano più dei ragazzini, ma le labbra di Dazai erano ruvide e gentili, era fastidioso e rumoroso ma il silenzio che li avvolgeva quando lo baciava era il suono migliore che Chuuya avesse mai sentito. E, sì, Chuuya non l’avrebbe mai ammesso ma il sogghigno che si dipingeva sul viso dell’ex partner quando si alzava istintivamente sulle punte per incontrarlo a metà gli rimescolava lo stomaco, sapendo che da qualche parte in quell’idiota era nato un commento sarcastico che avrebbe potuto aspettare più tardi.
Dazai era pigro, e lento, e si lamentava di qualsiasi cosa, ma non aveva esitato un momento quando Chuuya l’aveva spinto sul letto e usato la gravità per chiudere la porta con un sono secco.


La sveglia sul comodino segnava le sei e un quarto, tre cifre rosse che l’avrebbero presto strappato a quel momento di calma. Nonostante il sole non fosse che un timido accenno azzurrino oltre i profili dei palazzi, Chuuya scivolò fuori dal groviglio di coperte e bende senza fare rumore.
Si mise a sedere e si voltò, lentamente, cercando di imprimere nella propria mente ogni dettaglio di quell’immagine nuova che gli stringeva lo stomaco in un misto di paura e tristezza. Ed era sciocco, perchè avrebbe dovuto essere felice — era felice — ma quello che vedeva lo terrorizzava.
Il profilo di Dazai, pallido in contrasto con la federa scura del cuscino, i capelli castani che gli cadevano sulla fronte e le labbra socchiuse. Le bende allentate dalla notte precedente che gli fasciavano mollemente il collo, lasciando intravedere un unico segno che andava arrossandosi, e la mano tesa che scompariva sotto il cuscino di Chuuya.
In silenzio, Chuuya si disse che era la cosa più terribile che avesse mai fatto a sè stesso. Dazai non era una persona fatta per rimanere. Era inquieto ed infelice, terribile e fragile, ironico e crudele; ma, più di tutto, era geneticamente programmato per abbandonare le persone, camminando su un piano diverso dell’esistenza.
Prima o poi avrebbe lasciato andare anche il suo nuovo allievo nel momento in cui aveva più bisogno, come aveva fatto con Akutagawa.
Eppure, mentre lo guardava respirare pesantemente, le ciglia che sfioravano gli zigomi alti, il torace bendato che spariva sotto il lenzuolo e quell’espressione inerme che non era né il sorriso sagace di repertorio né la maschera impenetrabile, Chuuya non aveva la forza di negare a sé stesso che ne era valsa la pena.
Ne era sempre valsa la pena.
Lasciando vagare lo sguardo sul volto addormentato di Dazai, affioravano alla mente vecchi ricordi: sigarette offerte dopo le missioni, passate fra mani macchiate di sangue nel tentativo di condividere il più possibile, Dazai allo stremo che si addormentava sulla propria scrivania ed Oda che se lo caricava in spalla, i pomeriggi a prendersi cura di Elise. Più lo guardava, più Chuuya immaginava di passargli le dita fra i capelli, svegliarlo e parlare come se i loro caratteri non fossero impossibili da coniugare, sputar fuori tutte le cose che non sapeva bene come esprimere a parole.
Quando erano ragazzi si erano vergognati, non dell’atto in sè, ma dei propri gusti in fatto di partner: Chuuya non poteva credere di aver di nuovo ceduto al ricatto emotivo di Dazai, e sapeva per esperienza (e perchè l'ex partner era piuttosto verboso a riguardo, specialmente con i suoi due migliori amici) che lo spreco di bende l’aveva imputato alla noia eccessiva.
Nulla di serio.
In quel momento però, mentre i raggi si facevano più tiepidi e illuminavano la stanza ed il volto addormentato dell’ex partner, Chuuya non aveva intenzione di mentire a sè stesso riguardo quello che era successo.
In silenzio, si alzò e chiuse le tende dimenticate aperte dalla sera prima per non svegliare Dazai, immaginando con un sorriso indulgente che quell’idiota sarebbe di nuovo corso al lavoro in ritardo e che nessuno, comunque, se ne sarebbe stupito.


- - -

 

La luce gioiosa di mezzogiorno illuminava ma promenade sul mare, riflettendo cristalli di luce sulle onde. Il caldo aveva costretto Dazai ad abbandonare l’impermeabile, e anche Chuuya aveva arrotolato le maniche della camicia, lasciandosi cadere pesantemente su una panchina.
Di fronte a loro un gruppo di bambini urlavano in un’area giochi, una delle tante che costellavano il lungomare; Dazai si sedette accanto a Chuuya, quietamente, posando il sacchetto rosa accanto a sé apparentemente poco preoccupato degli sguardi che aveva attirato: un bell'uomo con un sacchetto di un famoso negozio di giocattoli con sè doveva essere una visione curiosa, si disse l'executive sollevando un sopracciglio, ma non fece commenti.
“Sei sicuro che Yumeno volesse questa bambola?”
“È lo stesso regalo da anni,” Chuuya sospirò, sopprimendo un brivido al ricordo dell’altra bambola di Q, sotto chiave chissà dove, “quel piccolo bastardo è un abitudinario.”
“Non credere che non abbia notato il vestito— e la consolle? Chuuya ha così tanti soldi che li spende in giocattoli nonostante non sia più un bambino~”
“Deficiente, non sono cose per me.”
“Oh, giusto, giusto! Dev’essere arrivato Natale in anticipo per i fratelli Akutagawa, non è così?”
Sul volto di Dazai si disegnò un sogghigno stiracchiato ma, per quanto si sforzasse, Chuuya non ne comprendeva il motivo.
“E allora? Hai dei problemi?”
“Hm-hm. Sei sempre stato una mamma chioccia, hatrack.”
Nessun insulto, solo un tono affezionato e le loro mani che si sfioravano.
“Non è vero.”
“O forse dovrei dire una mamma pecora, eh?”
Infastidito dal ricordo, e dal ruolo che Dazai aveva avuto nel tracollo politico che l’aveva quasi ammazzato, Chuuya digrignò i denti.
“Dacci un taglio, se non vuoi che ti avveleni la cena.”
“Uh, che paura~”
“Oi, Dazai. Non trovi che sia una bella giornata?”
Anticlimatico, smielato e patetico: quel commento era tutto quello e anche peggio, oltre che imbarazzante, peccato gli fosse scivolato dalle labbra prima di poterlo fermare, un sussurro che gli aveva portato tutto il sangue al viso non appena Chuuya si era reso conto di cosa si fosse lasciato sfuggire. Il sorriso di Dazai pareva una mezzaluna, lontana e illeggibile, una falce che guidava nella notte individui che altrimenti avrebbero brancolato nel buio, eppure non si degnava di illuminare i pericoli.
“Siamo diventati sentimentali, Chuuya? È per questo che tu, O’nee-san e Tachihara siete andati a vedere i ciliegi?”
Chuuya sbattè le palpebre.
“Cosa?” domandò. Aveva ricordi offuscati di quell’hanami, ma non del mal di testa che l’aveva perseguitato per tutta la settimana successiva.
Dazai scosse le spalle.
“Tachihara mi ha parlato, dopo quel giorno. Mi ha chiesto il permesso per uscire con te!” esclamò, battendo le mani, “deve aver capito che sei il mio cane, no? E bravo Tachihara!”
Chuuya giurò di sentire lo stomaco crollargli alle caviglie.
Dunque il bastardo prima era andato da Dazai; avrebbe voluto ucciderlo solo per quello, ma aveva anche la sensazione di aver perso il diritto di offendersi dopo ciò che era successo.
“Cos— e che diavolo gli hai risposto, bastardo?”
Dazai si strinse nelle spalle.
“Che dovevo dire? Auguri e figli con un miglior senso della moda del tuo, petit mafia. E più alti.”
Dazai era fottutamente sereno e Chuuya si chiese come potevano sperare di fare qualsiasi passo avanti se quello spreco di bende e disagio lo vendeva al miglior offerente? Che poi era Tachihara: Tachihara che si preoccupava che Chuuya avesse sempre un posto di riguardo, che pensava a lui prima che agli altri, addirittura prima che a sé stesso, Tachihara che era di gran lunga il meno fastidioso fra gli executive che dimostravano interesse nei suoi confronti.
Con uno scherzo della natura come Dazai arrabbiarsi non sarebbe servito a nulla. Chuuya se lo ripetè per l'ennesima volta rilassando il pugno già stretto e volse lo sguardo all’oceano.
“Hm. Ci stavo pensando anche io.”
“Ehh?”
“Tachihara non è male, e mi ha chiesto di uscire. Forse...”
Prima di poter finire la frase, l'executive sentí due braccia che gli si stringevano attorno al corpo e il peso di Dazai che gli premeva contro una spalla.
“No.”
“Sei impazzito, idiota?”
Gli rispose solo un lungo silenzio, una sorta di ronzio inconsulto, che costrinse l’executive a sollevare un sopracciglio e azzardare un’occhiata laterale.
“Hm?”
“Dovrò ucciderlo,” sibilò la voce di Dazai, ultraterrena, abbastanza spoglia di qualsiasi emozione da far sussultare Chuuya. “Addio, Tachihara Michizou.”
L'uomo riuscì a disfarsi del proprio ex-partner con un pugno, che venne schivato ma obbligò Dazai a lasciarlo andare, ma doveva immaginare che le proteste ululate — Tu non uccidi proprio nessuno, brutto deficiente! Ma la tua stupida Agenzia non era contro l’omicidio? — e l’aria svagata dell’altro avrebbero spaventato i bambini ed i genitori all’area giochi, attirando le occhiate dei curiosi e generando un fuggi-fuggi generale.
Quando Dazai si era alzato per andare a commettere chissà che bagno di sangue, dichiarando di avere una missione da compiere, Chuuya aveva utilizzato la gravità per sollevare i sampietrini bianchi della promenade e, a quel punto, la maggior parte dei civili era già scomparsa. Non che importasse a nessuno dei due.
Certe cose non cambiavano mai, nonostante Yokohama fosse un luogo migliore e il sole che calava oltre il mare vegliasse su una città pacifica guidata da due organizzazioni che coesistevano.
In pace; più o meno.


“Ma Chuu~!”
“E non azzardarti a darmi nomignoli, mackerel! Ti uccido!”

 

- - -

 

“Usciamo, Chuuya.”
“Dove andiamo?” Sbottò Chuuya, meccanicamente, senza alzare lo sguardo dal libro. Un secondo di pausa. Lentamente, le parole presero un significato differente — e più le interiorizzava, più alzava lo sguardo su Dazai sul divano e più si sentiva la presa sul libro farsi molle.
Lo stupido mackerel aveva un sogghigno dipinto sul volto, gli occhi che brillavano di malizia e gioia per essere riuscito nuovamente a mettere in ridicolo l’ex partner.
“Oh,” gorgogliò, incapace di dire altro. “Oh.”
“Un appuntamento, certo che chibikko non ci prova nemmeno a sembrare intelligente~! Dovrei dire tipo ‘passo a prenderti alle sette’, o qualcosa del genere? Non posso lasciare che mi si veda sulla tua moto rosa, sarebbe troppo imbarazzante…”
“É rossa e viviamo insieme, spreco di bende. Comunque assolutamente no.”
Dazai ridacchiò, e Chuuya sapeva di non avere più nulla da dire sull’argomento perché, che se si fosse rifiutato, l’altro avrebbe comunque trovato un modo — probabilmente illegale, pericoloso e con ingente rischio di danni collaterali alla città — per trascinarlo fuori di casa.
“Chibi non ha bisogno di uscire di casa per delle passeggiate, come ogni chihuahua? Non è così, Nakahara Chuihuahua-kun?”
“Sei morto. Giuro che ti taglio la gola,” masticò Chuuya, fra i denti, eppure sembrava che la minaccia mettesse di buon umore Dazai nonostante spergiurasse di essere alla ricerca di una fanciulla che si unisse a lui nel suicidio.
“Sono solo un bravo padrone che si preoccupa per il suo chibikko. Capisco che sei un microbo tascabile, ma questa casa diventerà stretta anche a te, no~?”
“L’unica cosa stretta è il cappio che ti legherò al collo, kuso Dazai.”
“Noiosooo, Chuuya! Non va bene!”
“Dove vuoi andare?” sospirò, passandosi una mano fra i capelli perché no, non c’era un modo di uscire da quella situazione e Chuuya sentiva già il principio di mal di testa pungolargli la nuca. Sperava solo che uscire fosse indolore e che Dazai non finisse per utilizzare un appuntamento come pretesto per infastidire Jinko (e Kunikida di conseguenza), distruggere Dostoevsky, ribaltare il governo e conquistare il mondo.
Ma ovviamente aveva sperato invano.
Alla fine, Dazai lo aveva trascinato fuori casa dopo un breve giro di telefonate, dichiarando che sarebbero andati a fare una passeggiata Sankei-en, perchè ‘stare sempre vicino al mare lo metteva di cattivo umore’.
Incredibilmente, era una considerazione con cui Chuuya poteva empatizzare e dopo il conflitto il memoriale Sankei e la residenza Hara erano ancora miracolosamente intatti, così come i giardini, quindi non aveva trovato motivo di protestare: quella parte della città era una località piacevole, troppo raffinata per una macchina spreca-bende ambulante come Dazai Osamu, e Chuuya doveva immaginare che ci fosse qualcosa sotto.
Appena raggiunsero le vicinanze dei giardini, alla realizzazione si aggiunse un vago odore di bruciato e asfalto spaccato permeava l’aria, mentre una cappa di fumo chiaro sovrastava il profilo frastagliato della pagoda.
Portami fuori’ un cavolo.
Tutto quello che avevano fatto, fra il chiacchiericcio spaventato di un drappello di turisti, era stato separare una rissa fra Jinko ed Akutagawa — Chuuya si disse che la Port Mafia doveva decisamente iniziare a stringere il guinzaglio sul suo assassino, che stava crescendo vagabondo come quell’altro idiota del suo ex mentore — dovuta all’ennesima collisione fra le rispettive missioni. Nakajima Atsushi aveva le zampe di una tigre bianca al posto delle braccia, mentre Rashomon svettava come una nuvola temporalesca accanto ad Akutagawa.
Con un sospiro pesante, Chuuya si ripromise di non fidarsi mai più di quell’idiota, né di lasciarsi trascinare nelle sue ritrovate manie da maestro elementare.
“Neh, neh, Atsushi-kun! Non credi di averne avuto abbastanza? Ranpo-san mi ha mandato a riprenderti.”
La voce di Dazai era allegra, una patina di gentilezza che addolciva la minaccia che Chuuya ed Akutagawa riuscivano a percepire — il primo per esperienza, il secondo per puro trauma.
Istintivamente, entrambi i ragazzi alzarono gli occhi verso di loro.
“Nakahara-san, Dazai-san!”
“Allora? Non avevate detto di voler combattere come si deve, voi due?”
“Ha cominciato Akutagawa!” replicò Jinko, gli occhi cangianti carichi d’apprensione che erano l’esatto opposto della freddezza di Akutagawa, che da solo avrebbe potuto rabbuiare una giornata d’agosto.
“Jinko mi ha provocato.”
“Non ho neanche parlato!”
"Come al solito, dimostri un'ingenuità che dovrebbe averti già ammazzato. Non è necessario parlare, Jinko, per provocare il tuo avversario."
“Hm; vedo, vedo. Beh, Akutagawa-kun, mi sembra chiaro che stesse vincendo Atsushi, dunque continuate pure~”
“Ma, Dazai-san…!”
Chuuya avrebbe voluto morire: persino il modo in cui lo chiamavano era in sincrono, come due uccellini abbandonati nel nido che attendevano il ritorno della madre.
Ballavano al suono del fischietto di quel bastardo manipolatore senza nemmeno rendersene conto, ed era affascinante e orribile al tempo stesso. La tentazione di sfoderare il cellulare per mandare un video a Gin morì quando la sensazione di qualcosa di morbido che gli si strusciava contro una gamba lo fece sobbalzare violentemente e, sbattendo le palpebre, l’executive abbassò gli occhi. Processò a fatica l'immagine di un gatto rosso e marrone che gli si sfregava leggermente sui pantaloni, lunghi baffi neri che vibravano su un muso illuminato da occhi color cioccolato abbastanza espressivi da sembrare umani.
Jinko, Akutagawa, Dazai ed un gatto…se glielo avessero raccontato, l’avrebbe dichiarato l’inizio di una brutta barzelletta, o più probabilmente un altro thriller infernale del tirapiedi di Edogawa Ranpo.
“Che diavolo—” 
“Ah, Sensei, ben trovato,” salutò Dazai, con un ampio sorriso. Il micio rispose con un miagolio leggero, come se avesse capito il linguaggio umano, saltando su una panchina con un balzo aggraziato.
“Ora parli ai gatti, spreco di bende?”
“Taci, Chuuya, fammi questo favore,” inamovibile, il sorriso sembrava stampato sul volto di Dazai ed ogni secondo lo rendeva meno genuino. “Ora, che dovremmo fare con voi due?”
A differenza di come si comportava con Akutagawa, Dazai non sembrava in grado di essere crudele con Nakajima Atsushi.
Nonostante le informazioni che aveva sul ragazzino fossero sparse e poco confortanti, Chuuya stesso doveva ammettere che Jinko tendeva a non essere una persona che ispirava violenza indiscriminata a differenza della maggior parte dei suoi colleghi: non era nè fastidioso al punto di chiedere di essere annientato, come Ranpo, nè eccessivamente pericoloso come Yosano.
“Jinko non è in grado di essere un avversario degno; Dazai-san dovrebbe riconsiderare le proprie scelte e riconoscere che questo animaletto  non è degno d’attenzione.”
Il sorriso di Dazai si fece gelido.
“Oh? Stai mettendo in discussione le mie scelte, Akutagawa-kun?”
“No,” rispose il ragazzo, portandosi una mano al volto ed abbassando lo sguardo, “Non mi permetterei.”
“Molto bene, allora. Non vi sto facendo collaborare perchè diate spettacolo in città, quindi niente più abilità, intesi? Capito, Atsushi-kun?”
Atsushi si era tirato indietro come se il tono gentile dell’uomo l’avesse scottato.
“In realtà, non dipende da me,” sussurrò, lanciando uno sguardo al proprio rivale.
Occhieggiando il cappotto nero di Akutagawa, la sua postura tesa e l’espressione scontenta, Chuuya non aveva dubbi a credere che fosse stato lui a cominciare: tuttavia, cosa doveva dirgli? Non c’erano tregue apertamente dichiarate con l’Agenzia, checchè tramassero Mori e Fukuzawa
“E tu, Akutagawa-kun?” stava continuando Dazai, la voce improvvisamente annoiata; era quel distacco a rendere la differenza fra i due così netta. L’interesse del mentore nei confronti del potenziale di Akutagawa era vicino allo zero, e non mancava di ricordarglielo, “Non costringermi ad intervenire per spiegarti ancora una volta una cosa così semplice, persino un bambino l’avrebbe già capito.”
Gli occhi di Akutagawa si strinsero, una patina scura che ne velava le iridi nonostante la mano che teneva di fronte al viso ne nascondesse l’espressione.
“Vieni qui un secondo, brutto stupido,” lo chiamò Chuuya, afferrando Dazai per un braccio, avendo cura di affondargli i polpastrelli nella carne fino a sentire l’osso.
Si augurò di imprimere lividi neri nonostante le bende, segni profondi come quelli che Dazai continuava a lasciare su Ryunosuke, perché nessuno aveva il diritto di comportarsi così.
Lasciando Sensei a monitorare la situazione ed i due ragazzi ad urlarsi contro, troppo spaventati dalla presenza del mentore per contraddirlo, Chuuya aveva piantato una gomitata nelle costole di Dazai nella vana speranza di cancellargli l’espressione compiaciuta sul volto.
“Oi, kuso Dazai. Lo avevi previsto, figlio di puttana?”
“Mi sembra ovvio!” replicò lui, allegramente, “Con una così bella giornata, il parco è pullulante di turisti e visitatori di ogni tipo. Atsushi-kun ed Akutagawa-kun sono qui grazie ad una soffiata anonima, un’informazione che Dostoevsky avrebbe fatto saltare una bomba nel parco.”
“Non me lo dire,” ringhiò Chuuya, sentendo il sopracciglio sollevarsi.
Non era possibile, non poteva essere così machiavellico.
“Esatto, esatto, quella soffiata era dell’intelligenza più raffinata della città, modestamente. Ma secondo Ango c’era effettivamente una possibilità che un’organizzazione estera si materializzasse e attaccasse, anche se minima; non abbiamo rischiato ed è servito a rafforzare il loro legame, quindi tutto è bene quello che finisce bene!”
“Tutto è bene? Ma se si stanno ammazzando, kuso Dazai!”
“Hm, e non ti ricordano qualcuno?” gli scoccò un sogghigno affilato, “ad ogni modo, abbiamo quasi finito. Ti prometto che tra poco ce ne andremo, così chibikko può portarmi in un ristorante costoso di quelli che gli piacciono tanto!”
“Non ci pensare nemmeno! Non ti pago la cena, kuso Dazai, mi hai ricattato per uscire.”
“Suvvia non essere taccagno per una volta che non sei tu ad essere portato fuori, Ya-ch-chin,” commentò Dazai con un ghigno crudele. Preso alla sprovvista dal ricordo che lo investí con un momento di ritardo ma abbastanza violentemente da far scomparire nello sfondo il litigio fra Jinko e Akutagawa, Chuuya sbattè le palpebre.
Era stato Tokyo, quasi sei anni prima: non era la prima volta che si fingeva una geigi per isolare un bersaglio, flirtando dietro una maschera di trucco e un kimono di seta di O’nee-san.
Improvvisamente, sentì il bisogno di scappare.
“Hai una memoria allucinante solo per le cose sbagliate, brutto imbecille,” abbaiò, ma era certo che a Dazai non fosse sfuggito il gesto di allentarsi la cravatta, perché scoppiò in una risata.
“Interessante.”
“È stato imbarazzante, bastardo di un mackerel. Non parlarne mai più.”
“Uh, chissà perché era così imbarazzante. Forse perché Chuuya era una cortigiana molto credibile? Ho sentito che O’nee-san ha ancora quel vestito…”
“Oggi ti ammazzo se continui, giuro.”
“Allora? Vorrei mangiare granchio, ma visto che sei una brava cortigiana e hai una paga decisamente superiore alla mia mi accontento di una bella cena di sushi, o un ristorante europeo!

“Ti chiudo in una stanza con Akutagawa se non la smetti.”
“Hm, e io che pensavo che chibi volesse del vino. Dopotutto, a casa non c’è.”
Chuuya sbattè le palpebre.
A casa aveva una bottiglia d’importazione da poco aggiunta alla sua collezione, un nuovo Petrus su cui aveva speso buona parte del proprio stipendio. L’aveva comprata ad un’asta oltreoceano durante una missione e riposta sbadatamente in un’anta a caso, tanto in chiavistelli erano il pane quotidiano di Lupin 2.0, e l’aveva...
Oh no.
No.
Ancor prima di parlare, sentí un ringhio salirgli in gola come un animale messo al muro.
“Bastardo, se hai fatto qualcosa giuro che—”
“Rilassati, hatrack. È solo nascosta.”
Chuuya non era certo di aver sollevato scientemente le rocce che si erano lanciate come proiettili contro Dazai, e che l’altro aveva evitato con grazia senza battere ciglio. Un sassolino aveva colpito Atsushi, però; karma negativo per Dazai, si disse Chuuya, era colpa sua.
“Ridammela e ti finirò in fretta senza farti soffrire troppo, kuso Dazai.”
“Portami a cena.”
“Te lo scordi!"
“Giusto, errore mio: lasciami riformulare per i chibi idioti,” sorrise, “portami ad un appuntamento, Chuuya.”
Chuuya sussultò, perché era il tono più profondo e quieto che avesse mai sentito, e perché chi aveva esattamente dato il permesso a Dazai di essere così affascinante, quando non si comportava come un perfetto idiota ed uno scherzo della natura?
“N—”
“Sì?”
“No,” ripetè l’altro, ma era una negazione priva di forza.
Senza dire una parola, Dazai si piegò su di lui, le labbra che sfioravano quelle di Chuuya per il più breve e nascosto degli istanti. Quello dopo, nonostante l’executive fosse ancora bloccato con le guance in fiamme, Dazai era già corso ad infastidire Akutagawa e a giocare alla pessima figura paterna con Jinko, il gatto che li fissava dalla panchina senza emettere un suono.
Chuuya, quella sera, optò per un ristorante francese che negli anni era diventato uno dei suoi rifugi prediletti, un locale costoso con affreschi che prendevano spunto dai palazzi più famosi e vero cristallo che pioveva dai candelabri in stile europeo, oltre che una fornitissima lista di vini che certamente Dazai non avrebbe apprezzato nè notato, ma non distolse per un secondo lo sguardo dal proprio ex partner.
Con un peso sul petto si chiese se — e quando — si fosse innamorato di un cretino.


 

And do our talking with the laser beam
Coming out of this place
In a bullet's embrace
Then we'll do it again

   
 
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