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Autore: Adeia Di Elferas    15/07/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Francesco Gonzaga dondolava il peso da un piede all'altro. Forse era prematuro anche per la levatrice avere qualche certezza, ma Isabella sembrava ormai certa di essere incinta e il Marchese anelava come non mai una buona notizia, in quei giorni.

Secondo i calcoli della moglie, doveva essere in stato interessante da almeno un mese o due, e sarebbe stato prudente attendere ancora un po', per averne una certezza, ma anche l'Este, esattamente come il marito, voleva a tutti i costi credere che finalmente stesse arrivando qualcosa di buono anche per loro e un erede maschio sarebbe stato il coronamento di tante aspettative.

A rendere entrambi i Marchesi molto cupi e mesti, nelle ultime due settimane circa, era stato un insieme di eventi che erano del sfuggiti al loro controllo.

Prima di tutto, dopo aver sdegnosamente rifiutato la richiesta in extremis di Milano di correre in suo soccorso – e su questo rifiuto sia Francesco sia Isabella si erano trovati d'accordo – l'ambasceria portata al Doge non era affatto finita come sperato.

Il Gonzaga aveva mandato Antonio Ruberti e Donato di Preti a parlamentare con il Consiglio dei Dieci, sicuro che Venezia sarebbe stata ben felice, in quel momento della guerra, di averlo tra i suoi.

La Serenissima, invece, aveva dapprima preso tempo e poi aveva iniziato a opporre un no dopo l'altro, e così i due portavoce avevano solo potuto tornarsene a casa con un nulla di fatto.

Ora che quel tentativo era andato a vuoto e che Milano, nel frattempo, veniva data per spacciata, al Marchese pareva ci fosse un'unica via percorribile: appellarsi direttamente al re di Francia.

“Mio signore...” bisbigliò la levatrice, arrivandogli alle spalle e facendolo quasi sussultare: “Come voi stesso avete ammesso, è presto per fare di qualche sintomo una certezza, ma faccio questo mestiere da troppi anni per non capire che vostra moglie è davvero incinta.”

Quella notizia ebbe un effetto immediato sull'uomo che, lasciando immediatamente il suo posto alla finestra, scansò la donna quasi di peso, correndo come un fulmine alla stanza della moglie.

Quando entrò la trovò ancora intenta a rivestirsi, aiutata da una delle sue dame di compagnia più fidate. Questa, accarezzando la vestaglia di seta della sua signora, mentre gliela infilava, le stava sussurrando delle parole concitate, alle quali Isabella annuiva di continuo.

Quella scena a Francesco non piacque molto. Negli anni aveva imparato a diffidare delle amiche della sua sposa, e, di riflesso, anche di lei, quando sospettava che stesse seguendo uno dei loro consigli.

“Puoi lasciarci soli un momento?” chiese Isabella, sorridendo alla sua dama di compagnia.

La donna le sorrise, annuendo e se ne andò subito, quasi senza far rumore, impalpabile come l'abito alla moda che la Marchesa le aveva donato appena qualche giorno addietro.

Il Gonzaga seguì con lo sguardo la giovane che se ne andava, pensando tra sé come spesso le amiche della moglie finissero sulla bocca di tutti per qualche scandalo. Anche se l'Este le aveva scelte tutte nelle migliori famiglie di Mantova, quasi nessuna di loro si salvava dalla nomina di essere di facili costumi. E Francesco, suo malgrado, aveva avuto modo di accorgersene in prima persona, finendo in più occasioni nelle mire di questa o quella dama.

“Guarda me, invece di guardare lei.” lo riprese con freddezza la Marchesa, scrutando il viso asimmetrico del marito come faceva ogni volta in cui lo pizzicava intento a fissare le grazie di una qualsiasi donna che non fosse lei.

“Allora sei davvero incinta?” fece lui, non dando molto peso a quel rimprovero.

La ferrarese lasciò che il marito le si sedesse accanto, nel letto, ma appena lui provò ad allungare una mano verso la sua coscia, lei si alzò di scatto: “Pare di sì. E visto com'è andata la mia ultima gravidanza – disse, fingendosi molto indaffarata vicino al mobile a muro – la levatrice mi ha consigliato di non giacere con te per qualche tempo. Forse è una precauzione eccessiva, ma non voglio rischiare. Sento che questa volta sarà un maschio.”

Quella dichiarazione pietrificò per qualche istante il Gonzaga. In quel periodo avevano ritrovato una sintonia che da troppo tempo avevano perso e pensare di dover rinunciare a lei per settimane o addirittura mesi era per lui qualcosa di inaccettabile.

“Ma...” provò a dire, prima che la donna lo zittisse di colpo, mettendosi a parlare d'altro.

“Ho pensato a cosa dobbiamo fare. Per prima cosa, manderai tuo fratello Giovanni e Baldino Scarampo a Milano. Devono essere lì, quando re Luigi entrerà in città.” la voce dell'Este era svelta e priva di emozioni, come quella di un generale che fa un elenco di ordini che pretende vengano eseguiti all'istante: “Tutti quanti staranno cercando di ingraziarsi il francese e noi dobbiamo essere tra i primi a farlo. I nostri messaggeri renderanno atto di omaggio e, a tempo debito, spiegheranno come siamo stati trattati da Venezia. Faranno in modo di farti invitare a Milano e, una volta lì, dovrai far sì che il re ti inviti a caccia con lui. E poi passa con lui le serate... Insomma, portalo a donne, fallo ubriacare e fallo divertire, tutte cose in cui sei bravo, no?”

Francesco taceva, imbambolato dalle parole di Isabella. Gli sembrava surreale vederla tornare tanto di colpo la donna calcolatrice e distante che era stata fino a pochi mesi prima. Si era convinto che ormai le loro divergenze si fossero appianate e che un nuovo inizio li stesse portando a nuovi traguardi, insieme, indivisibili, uniti come il primo giorno.

E invece l'Este continuava a dargli le spalle e stava già tornando a trattarlo come un suo sottoposto.

“Devi trovare il mondo di renderti utile anche tu.” concluse la Marchesa, stringendo un po' i denti, prima di soggiungere: “E con lui evita di vantarti con quella vecchia storia di Fornovo... In fondo lui è il re di Francia. Non sarebbe proprio il caso.”

Il Gonzaga, ancora seduto a letto, si schiarì la voce e chiese, un po' roco: “Solo questo hai da dirmi?”

“Non mi sembra poca roba.” commentò lei, dandogli una rapida occhiata da sopra la spalla: “E ora vattene, che ho bisogno di riposare. Il figlio che porto in pancia è troppo importante, non posso metterlo in pericolo.”

L'uomo non se lo fece dire due volte e, alzandosi ancora perplesso, arrivò alla porta con una vaga confusione dipinta in volto.

Isabella gli disse che gli avrebbe ripetuto tutto quanto più tardi, se non era stato in grado di capirlo la prima volta, e poi, appena riuscì a cacciarlo fuori, chiuse l'uscio a due mandate e tornò a coricarsi.

Era la prima a sorprendersi, per il suo modo di reagire, ma le era bastata quella visita e le raccomandazioni della levatrice prima e della sua dama di compagnia poi per ricordarsi quanto un erede maschio fosse cruciale per i suoi progetti.

Accarezzandosi lentamente il ventre, che ancora celava la vita che portava in sé, sussurrò, quasi con tono di minaccia: “Vedi di essere un maschio, che di un'altra femmina non saprei cosa farmene.”

 

Caterina aveva finito di scrivere una breve lettera a Leonardo Strozzi, per chiedergli di far avere a Puccio Pucci dieci ducati per rabbonirlo, dato che si stava lamentando di essere stato trattato da lei come un misero notaio.

Sarebbe stato più semplice, forse, fargli avere subito il denaro. E sarebbe stato forse più efficace invitarlo alla rocca per un piccolo banchetto. La Sforza, però, non voleva avere a che fare con lui e quindi preferiva una transazione per interposta persona, magari quando il fiorentino fosse addirittura già tornato in patria.

Lo studiolo era tranquillo e, quando la donna firmò la missiva, si accorse che Bernardino la stava fissando in silenzio, immobile come tutto quello che li circondava.

Il bambino era seduto sulla poltrona che un tempo era stata il rifugio preferito di suo padre e in quel momento, mentre la teneva d'occhio senza abbassare lo sguardo nemmeno quando incrociava il suo, alla Tigre ricordava Giacomo come non mai.

Anche se i colori non erano esattamente gli stessi e anche se, innegabilmente, nel suo viso poteva ritrovare anche dei tratti che aveva ereditato da lei, il piccolo Feo era ciò che di più simile al suo grande amore poteva trovare al mondo.

E, proprio perché era così, guardarlo la faceva solo soffrire.

Pensare, poi, che non sarebbe riuscita a vederlo crescere, che non avrebbe mai saputo se da adulto sarebbe stato simile al padre anche nell'indole o meno, era solo un carico di patimento in più.

Con un sospiro, mentre aspettava che l'inchiostro si asciugasse un po', la Contessa cercò di fare un minimo di conversazione per distrarsi: “Come mai alla sera rientri sempre così tardi?”

Il piccolo ci pensò qualche secondo e poi provò a dire semplicemente la verità: “Perché, anche se non voglio far tardi, a volte non sento le campane e così non so che ore sono e finisco a star fuori più del dovuto.”

“Quando ti capita – ribatté la Leonessa, iniziando a chiudere la lettera – ti basterebbe guardare un orologio. Quello della Torre si vede da molti punti della città.”

Il silenzio imbarazzato che seguì mise la Sforza sull'attenti. Anche se Bernardino aveva subito annuito per darle ragione, il lieve rossore delle sue guance e il modo evasivo con cui si era messo a far ciondolare le gambe, le misero la pulce nell'orecchio.

“Sai leggere l'orologio, vero?” gli chiese, colta da quel dubbio tremendo.

Aveva ormai accettato di buon grado l'idea che quel suo figlio non sarebbe mai stato un letterato, né un matematico. Sapeva leggere e scrivere, ma appena quel tanto che bastava per non dirsi un illetterato. Nessuno dei suoi precettori era mai riuscito a tenerlo sui libri abbastanza da poterlo definire uno studente zelante e alla fine tutti si erano arresi con lui, anche prima di provare a combattere.

Perfino Caterina non aveva fatto grossi sforzi, per dargli una cultura. Si era detta che era comunque figlio di Giacomo e che i figli non possono essere tanto diversi dai padri.

Però saper leggere l'ora poteva fare una grande differenza nella vita pratica. Era inaccettabile che il figlio di una Contessa non ne fosse capace.

Il bambino non rispondeva, visibilmente imbarazzato e forse anche spaventato dall'eventuale punizione materna.

“Rispondimi.” riprese la Leonessa: “Sai leggere l'orologio?”

Finalmente il piccolo Feo si convinse a vuotare il sacco e, con lentezza, scosse il capo a destra e a sinistra.

“Come sarebbe a dire che non ne sei capace?!” sbottò la Tigre, rendendosi subito conto della risposta spropositata che stava avendo, ma non riuscendo a frenarsi: “Hai quasi nove anni e non sei capace di leggere l'ora?!”

L'ultimo urlo della Contessa, che nel frattempo era scattata in piedi, picchiando il pugno sul tavolo, era arrivato all'orecchio di Cesare Feo, che, appena fuori dallo studiolo, stava giusto andando a cercarla. Capendo che tutta quella collera era rivolta a Bernardino, si diede una mossa ed entrò, senza nemmeno annunciarsi, pronto a difendere come poteva il piccolo.

“Giusto voi!” esclamò Caterina, voltandosi verso il castellano, felice di quell'interruzione, che le avrebbe impedito di perdere il controllo: “Insegnate a vostro nipote a leggere l'orologio!” ordinò e poi, ricordandosi della lettera per Strozzi, soggiunse: “E spedite quella dannata missiva!”

In tutto quel trambusto, Bernardino era rimasto pietrificato sulla poltrona, tanto sconvolto da un simile attacco da non avere nemmeno ben capito che cosa stesse accadendo.

Mentre la Sforza lasciava lo studiolo furibonda, arrabbiata prima di tutto con sé stessa e con la propria incapacità di tenersi a freno, Cesare, solerte, si avvicinò al figlio di suoi nipote Giacomo e, con fare paterno, lo abbracciò, cercando di rassicurarlo.

Quel gesto in parte calmò il piccolo Feo, che, però, si trovò a scoppiare a piangere, frustrato per quell'impossibilità di trovare un dialogo sereno con sua madre e, ancor di più, per via della costante sensazione di inadeguatezza che un episodio del genere aveva solo acuito.

“Ti va se impariamo a leggere l'ora, così poi tua madre sarà contenta?” chiese il castellano, staccandosi appena dal bambino.

Questi, gli occhi rossi e le guance madide di lacrime, scosse il capo con rabbia e, divincolandosi con più forza di quella che ci si sarebbe potuti attendere da un bambino tanto piccolo, riuscì a sgusciare via dalle braccia del prozio, scappando di corsa, diretto chissà dove.

Cesare, preoccupato per Bernardino, avrebbe voluto filargli dietro, ma non sapeva a quanto sarebbe servito.

Si mise alla scrivania, sentendosi impotente e stremato. Avrebbe tanto voluto vedere il pronipote sereno, amato e felice. E invece non passava giorno senza che lo trovasse irrequieto, incompreso e macerato nella rabbia.

Con una stanchezza difficile da definire, l'uomo si prese il volto tra le mani e si chiese per quanto ancora la situazione avrebbe retto e, soprattutto, cosa sarebbe successo quando fosse davvero arrivata la guerra.

Non voleva essere troppo catastrofista, ma solo realista. Eppure tutti gli scenari che gli si presentavano davanti agli occhi nulla avevano di positivo e, in ciascuno di essi, Bernardino restava sempre trappola della sua natura e di quella di una madre come la Tigre di Forlì.

 

Paolo Vitelli non voleva crederci. Gli sembrava un accanimento della sorte. Un perfido accanimento della sorte e basta.

“E quanti pezzi di artiglieria abbiamo perso?” chiese, tossicchiando e stringendosi un po' nelle spalle.

Era inutile, forse, fare come stava facendo lui. Mostrare noncuranza, come se fosse una cosa di poco conto, anzi, come se fosse normale affidare l'artiglieria più pregiata a un manipolo di navi e saperle affondate quasi tutte appena dopo la partenza.

“Difficile dirlo...” spiegò il messaggero che era corso dal porto fino a lì non appena si aveva avuto la certezza di cosa fosse accaduto al largo di Torre di Foce.

“Dovrò darne notizia alla Signoria, immagino...” soppesò tra sé il comandante: “Meglio che scriva subito tutto quanto...”

Con passo un po' incerto, la testa che pulsava e le gambe che cedevano un po', provate sia dalla febbre alta passata appena da poche ore, sia dal duro smacco appena ricevuto, Vitelli si andò a sedere sul suo sgabello da campo, davanti allo scrittoietto e, impugnata la penna, aspettò qualche istante.

“I pezzi caduti in mare sono recuperabili?” domandò, per puro scrupolo.

“Dai nostri no di certo...” gli fece presente Ranuccio da Marciano che, fumante di rabbia, aveva subito preso quella notizia come un'ulteriore prova della totale incapacità dell'altro: “Non trovereste nessun fiorentino disposto a rischiare tanto per un pezzo di ferro. Coi pisani che già stanno entrando a Torre di Foce, è molto più probabile che siano loro a riuscire a recuperare qualcuno dei nostri pezzi di artiglieria!”

“Questo sarebbe un problema...” soppesò, assorto, Paolo.

“Un problema!” sbottò Ranuccio, con una risata secca, guardando anche il messaggero, in cerca di sostegno: “Un comandante generale che parla per eufemismi! Ci mancava solo questa!”

“Se il mio modo di condurre la campagna non vi convince – sibilò il Vitelli, ormai stanco dell'atteggiamento via via più negativo e a lui avverso del Marciano – allora fatelo presente alla Signoria. Magari sceglieranno finalmente voi come mio sostituto.”

L'altro allargò le braccia e, lasciando il padiglione, ribatté: “Ma è esattamente quello che intendo fare! Non ho intenzione di vedere Firenze rovinarsi per i capricci di un vecchio codardo!”

Paolo si morse il labbro e poi tornò con gli occhi tondi sulla lettera che voleva scrivere a Firenze.

Però, senza quasi ragionarci, rimise l'inchiostro, il foglio e tutto il resto al loro posto: “Tanto ci penserà ben Ranuccio, a spiegar loro ogni cosa...” soffiò.

Il messaggero, che non riconosceva nei modi stanchi e lenti dell'uomo che aveva dinnanzi il polso di ferro del comandante Vitelli, deglutì e poi soggiunse: “Avete ordini da passare..?”

“Solo questo: che mi si portino le stime delle perdite. Voglio avere un'idea, anche vaga, del disastro cui sto andando incontro.” fece, funereo, l'uomo.

L'altro, un po' spiazzato, annuì e confermò: “Vi farò avere al più presto un elenco preciso di cosa si è salvato.”

Paolo lo ringraziò e lo salutò con un cenno del capo, chiedendogli di lasciarlo in pace. Benché mancasse parecchio al scendere della sera, il comandante generale dei fiorentini si avvicinò alla sua brande e, con movimento un po' legnosi, vi si coricò, chiudendo gli occhi con un sospiro, quasi sperando di potersi risvegliare a Firenze, e scoprire che tutta quella situazione era solo un brutto sogno.

 

Dopo la sfuriata fatta a Bernardino, Caterina aveva deciso di sbollire a modo suo. Aveva preso il suo stallone nero e, senza dire niente a nessuno, era uscita a gran velocità dalla rocca, lasciandosi alle spalle per un po' tutti i suoi problemi.

Non aveva preso con sé né armi né cibo, perciò, dopo appena un paio d'ore nei boschi, aveva deciso di tornare. Non appena aveva messo piede a Ravaldino, però, già si era pentita di non essere rimasta fuori più a lungo.

Prima il Capitano Rossetti, poi Luffo Numai e infine il Capitano Mongardini, che la stavano aspettando, in ansia, le erano corsi incontro per riferirle tutta una serie di cose che era culminata con il terzo che spiegava: “E quindi quei cremonesi che dovevano arrivare, alla fine sono riusciti ad arrivare, e li ho fatti attendere nei baraccamenti...”

Siccome Rossetti e Numai, al contrario di Mongardini, le avevano posto dei problemi di ordine chi organizzativo e chi amministrativo, dedicarsi ai soldati le era parso l'espediente migliore per ritardare ancora di qualche ora il ritorno agli affari di Stato.

“Prima di tutto – disse – voglio incontrare queste nuove reclute e vedere di cosa sono capaci.”

I tre uomini non osarono contraddirla e, anzi, l'accompagnarono in silenzio fino alle stalle, dove lasciò lo stallone, e poi fino alla Sala delle Armi. Infastidita dalla loro presenza, la donna ordinò loro di andare a chiamare questi cremonesi e di portarli nel cortile, dove lei stessa li avrebbe messi alla prova.

“Posso saggiare io le loro capacità, se avete di meglio da fare...” si propose il maestro d'armi, mentre l'aiutava a infilarsi le protezioni e le porgeva la spada.

“Non se ne parla...” sbuffò lei, impugnando l'arma da allenamento e controllando che fosse adeguatamente smussata: “Affideremo anche a loro la sicurezza di questo Stato. Voglio conoscere gli uomini che mi porto in casa.”

Quella costatazione fece riecheggiare nella mente del maestro d'armi una delle tante battutacce che giravano tra la soldataglia. 'Più che chi si tira in casa – avrebbe sicuramente detto qualcuno – a lei interessa vedere chi si porterà a letto'.

Scacciando quell'immagine deleteria, l'uomo chinò appena il capo e disse: “Comunque, se avete bisogno di me, sapete dove trovarmi.”

La Sforza lo ringraziò e poi uscì in cortile, ben felice di vedere che le reclute erano già disposte in fila. Si trattava di circa una dozzina di uomini, ma anche un simile manipolo poteva tornare utile, in momenti del genere.

Caterina li passò silenziosamente in rassegna, uno dopo l'altro. Erano tutti abbastanza alti e sembravano avvezzi all'attività fisica. Tra loro, però, solo uno attirò realmente la sua attenzione.

Era quello che chiudeva il gruppo, aveva un fisico massiccio, ma apparentemente molto agile, le guance ben rasate, e i capelli ordinati. Ciò che di lui l'aveva incuriosita di più, però, erano gli occhi, penetranti e intelligenti, e il suo modo di fissarla, che non era sbagliato definire sfacciato.

“Andate nella Sala delle Armi e fatevi dare il necessario per un dei duelli a coppie.” ordinò la Tigre, compiaciuta nel vederli eseguire subito quel che aveva detto.

Mentre aspettava che tutti tornassero, guardò verso l'alto. Da una delle finestre del loggiato vide Pirovano che si sporgeva per osservare la scena. Il suo bel viso svettava contro il cielo che iniziava a scurirsi. Avrebbe voluto dirgli di scendere e farle compagnia, ma preferiva non avere interferenze, così gli fece solo un cenno con il capo e poi tornò a guardare verso la Sala delle Armi.

Non appena li ebbe di nuovo tutti davanti a sé, come inizio, la donna chiese loro di dividersi in gruppi di due o tre e cominciare a duellare. Per un po' rimase ad osservarli e dovette ammettere che uno era decisamente sopra la media, ma non era quello che aveva notato poco prima.

Quando ordinò di cambiare abbinamenti, fece in modo di trovarsi vicino a quello che le pareva più abile, e gli chiese di combattere con lei. Questi accettò subito e Caterina trovò molto soddisfacente poter tirare di spada con qualcuno tanto capace.

“Come vi chiamate?” chiese, quando decisero di comune accordo di fermarsi un attimo per rifiatare.

“Bernardino.” rispose lui, notando uno strano lampeggiare negli occhi della Leonessa.

“Bernardino da Cremona.” fece eco lei, quasi a voler evitare di collegare quel nome a suo figlio.

Era un atteggiamento stupido e lei stessa se ne accorgeva, ma non poteva evitarlo. Le bruciava ancora troppo l'essersi accorta una volta di più di non saper essere una buona madre per il figlio che, a rigor di logica, avrebbe dovuto avere più caro.

Il cremonese sollevò appena le sopracciglia e poi convenne: “Sì, sì, mi si può chiamare anche così.”

Caterina, decisa a menar ancora le mani per liberarsi un po' la mente, gli disse che apprezzava molto la sua bravura con la spada, e passò oltre. Duellò con tutti i nuovi arrivati, e, senza averlo premeditato, lasciò per ultimo il soldato che aveva attratto la sua attenzione durante la prima ispezione.

Nel cimentarsi con lui trovò molto più complicato del solito concentrarsi. C'era qualcosa, nel modo in cui quel cremonese faceva guizzare i propri muscoli, e nel costante tentativo di lui di metterla in difficoltà non solo con la lama, ma anche con sguardi irriverenti e sorrisi insinuanti, che la distraeva.

Come se il buio fosse calato di colpo, la Sforza si rese conto che ormai s'era fatto tardi solo quando vide con la coda dell'occhio un paio di servi accendere le torce a muro.

“Basta così.” concluse, dopo aver mandato a gambe all'aria l'uomo che ancora stava duellando con lei: “Voi due – disse, indicando proprio lui e Bernardino da Cremona – resterete alla rocca. Gli altri andranno alla cittadella.”

Mongardini, che si era messo in disparte per guardare quello che succedeva, disse subito che avrebbe riferito quella decisione, e poi prese con sé quelli destinati al Paradiso, iniziando a spiegare loro dove avrebbero alloggiato.

“Come vi chiamate?” chiese la Sforza, aiutando il suo sfidante a rialzarsi.

Questi afferrò la mano della Leonessa con una voracità che quasi la spaventò. Le aveva afferrato anche il polso e aveva sfruttato appieno il suo soccorso, per tirarsi in piedi.

Tenendo il suo viso a breve distanza da quello della Leonessa, il soldato rispose: “Sono Bartolomeo, ma mi hanno sempre chiamato Baccino. Voi potete chiamarmi come preferite.”

Caterina era un po' interdetta. Da un lato quel modo di atteggiarsi spavaldo e sciolto le ricordava Ottaviano Manfredi e la sua ostentata disinvoltura, ma, di contro, sentiva che in quel giovane c'era anche qualcosa di diverso, ma era impossibile capirlo dopo così poco tempo.

“Va bene...” fece lei, riuscendo finalmente a liberare la mano dalla stretta del cremonese: “Ora andate assieme al vostro amico ai baraccamenti e dite al Capitano Bezzi, che troverete lì, che vi ho destinati di stanza a questa rocca.”

Baccino fece un profondo inchino e ammiccando appena, disse: “Come la mia signora desidera.” e un secondo dopo diede voce a Bernardino, affinché lo seguisse.

La Contessa andò nella sala delle armi e si tolse le protezioni, rimise nell'armario la spada, e solo dopo qualche minuto decise di salire al piano di sopra. Voleva bere e mangiare qualcosa. Era stanca e quell'ultima sessione di addestramento le aveva lasciato addosso una sensazione strana, che voleva lavar via con un bagno.

Attraversò il cortile quasi di corsa, salì le scale due gradini per volta e quando arrivò nel corridoio su cui affacciava la sua stanza, trovò Giovanni da Casale che l'aspettava.

“Ci mancava solo che ti chiedesse di spogliarlo lì dov'era.” fece l'uomo, ruvido.

“Chi?” chiese la Tigre, pur intuendo il soggetto di quella frase.

“L'ultimo tizio con cui hai combattuto.” ribatté infatti subito lui: “Avanti, quello non è tirar di spada... Sembrava più che ti avesse invitata a ballare, che non a combattere.”

“Sei ridicolo.” tagliò corto Caterina, affiancandolo e poi passandogli oltre, diretta in camera per cambiarsi.

“Non sono ridicolo.” si adombrò Pirovano: “E...”

“Ti ho già detto che non hai il diritto di essere geloso di me.” ci tenne a precisare la Contessa, tornando un attimo su suoi passi e puntandogli contro l'indice: “Noi due non siamo nulla, e se stanotte di mi venisse voglia di portarmi nella mia tana quel cremonese, potrei farlo benissimo senza dover render conto a te!”

“Attenta, che anche le corde più robuste alla fine si spezzano.” sussurrò lui, guardandola di sottinsu, facendole pesare la loro differenza d'altezza.

“Se una corda si spezza – rimbeccò lei – se ne può sempre usare una più robusta.”

Giovanni scosse il capo, volendo sedare subito quel litigio, fondato alla fin fine sul nulla e che, lo sapeva, non li avrebbe portati a niente.

“Cerca Argentina e dille che deve prepararmi un bagno caldo – riprese la Tigre, voltandogli le spalle e ricominciando a camminare verso la sua stanza – e poi prendi del cibo e un paio di caraffe di vino. Non ho voglia di scendere, per la cena. Mangiamo in camera.”

Osservando la sua donna che si allontanava, i capelli bianchi sciolti sulla schiena che si muovevano come saette nella luce tremula delle torce, Pirovano deglutì un paio di volte, cercando di calmarsi.

“Come la mia signora desidera...” sussurrò tra sé, e, con un respiro molto fondo e molto lento, andò a cercare Argentina per riferire gli ordini della Leonessa di Romagna.

 
 
   
 
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