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Autore: Restart    17/07/2019    1 recensioni
Mia è in procinto di sposarsi con Gabriele, quando una bufera di neve improvvisa la costringe a passare il pomeriggio col suo vicino di casa Massimo. La convivenza porterà a galla questioni irrisolte.
Primo capitolo della serie "Per le vie di Firenze".
Genere: Commedia, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Giovedì 3 Dicembre 2015
Incontri ravvicinati del terzo tipo (con attori che non sognavo nemmeno di incontrare).
Okay, facciamo con calma. Bisogna rimanere rilassati. Non può andare così male, no?
Guardo il portone di ciliegio e sento la gamba destra fremere dalla paura. Non solo la gamba. Ho anche un buco allo stomaco.
Sono interamente attanagliata dalla paura. Con lentezza infilo la chiave nella toppa e faccio scattare un paio di volte. Dentro pare non esserci nessuno. Perfetto, via libera.
Neanche il tempo di mettere il piede dentro che la vedo arrivare a corsa sulle scale. Ha gli occhi infiammati e la bocca serrata. Era troppo bello per essere vero.
«Mia! MIA! Ti devo parlare subito» si posiziona davanti a me con gli occhi ridotti a fessure e le mani appoggiate sui fianchi. E, giustamente per completare il tutto sta battendo la punta dello stiletto firmato sul pavimento. Mi chiudo la porta alle spalle e sospiro. Niente vie di fuga, ormai sono in trappola.
«Dimmi mamma» cerco di far finta di niente anche se so di cosa vorrà parlare. Aspetto con finta calma che lei parli.
«Mi ha chiamato Benedetta» si prende una pausa tattica per farmi salire l’ansia, come se non lo sapesse che ne sto già morendo. «Mi ha detto che non sei passata a provarti l’abito, che non hai ancora preso quello delle damigelle e che non hai ordinato i fiori» scandisce piano, come al suo solito. Sebbene viva da più di quarant’anni in Italia non ha perso questa abitudine di parlare piano, studiare ogni parola, ogni frase prima di dirla.
«Posso usare la giustificazione che ci sono un sacco di turisti qui in questo periodo?» tento di usare la scusa del lavoro. Che poi alla fine è la verità. Ogni giorno enormi gruppi di persone arrivano a Firenze per vederla sotto Natale, per ammirare la città di giorno con tutte le sue bellezze artistiche e la città di notte, illuminata da centinaia di luci che la rendono magica. Se non ci vivessi trecentosessantacinque giorni all’anno (moltiplicato per i miei trent’anni di vita), anche io ci verrei in questo periodo.
A mia madre s’infiamma ancor di più lo sguardo e scuote con forza la testa. Okay, ci ho provato.
«Non hai scusanti» enuncia severa. «Lo sai che mi sto facendo in quattro per organizzare il tuo matrimonio? E a te non importa per niente».
«Lo sai, anzi lo sapete sia tu che la Benedetta, che io e Gabri non abbiamo mai voluta una cerimonia in grande» replico con calma, cercando di non arrabbiarmi. La odio quando è così. E lei è così. Sempre.
«Già, ricordo. Voi volevate sposarvi senza neanche invitarci. Senza neanche uno straccio di abito o di ricevimento» ricorda acidamente. Questa cosa che secondo me e il mio fidanzato non è importante la cerimonia non le è mai andato giù. Per lei non è un matrimonio. E nemmeno per la mia terribile suocera Benedetta. Allora hanno deciso di loro spontanea volontà che la dovevano organizzare loro la nostra cerimonia, sennò che avrebbe pensato la gente? Io e Gabriele avevamo anche architettato una fuga per andarci a sposare in segreto a Roma. Ma ovviamente abbiamo rinunciato, perché sennò chi le sopportava quelle due?
«Mia, darling, why are you acting like this? Io mi ci metto d’impegno e tu non sembri apprezzare i miei sforzi, e nemmeno quelli di tua suocera. Sembra che ci si tenga molto più noi che tu e Gabriele» si lamenta e io non posso non sbuffare annoiata. Me l’avrà detto almeno cento volte questa cosa. Non ce la fa a capire che a noi non interessa quel certo tipo di cerimonia, a quanto pare.
«Devo farmi una doccia adesso» cambio discorso aspramente. «Sono stata invitata ad un gala agli Uffizi stasera, e sono già in ritardo» cerco di superarla ma lei mi si para nuovamente davanti.
«Promettimi che domani andrai almeno a provarti l’abito e scegliere quello delle damigelle. Mancano quattro settimane, Mia, le sarte non ce la faranno mai a confezionare due abiti se perdi ancora tempo» domanda con le mani congiunte davanti al petto come una vecchietta che sta recitando i rosari. Okay, niente vie di fuga. Devo accettare.
«Alright mom» sospiro e lei si lascia sfuggire un sorrisetto compiaciuto.
«Divertiti stasera. Io ora torno a casa» mi lascia un frettoloso bacio sulla guancia e dopo aver preso la borsetta esce di casa.
Libertà, finalmente.
Mi dirigo verso il bagno, sentendo il forte bisogno fisico di fare una bella doccia bollente. Per tutto il percorso lascio indumenti sparsi per terra. Appena infilo il piede nel box doccia il telefono squilla. Mai un minuto di pace, eh?
«Pronto?» rispondo stancamente.
«Ciao Mia» l’accento vagamente laziale di Gabriele mi arriva piano e lontano. Mi era mancato
«Ciao Amore» lo saluto con poca voglia di parlare. Ho solo bisogno di sentire l’acqua scivolare sulla pelle, sono congelata dalla punta dei piedi a quelle dei capelli. Sono gli inconvenienti del mestiere: stare tutto il giorno all’aperto non è un granché né d’inverno né d’estate. Oppure quando piove. O tira vento. Cioè in pratica mi va bene per circa venti giorni all’anno.
«Senti sarò veloce che sta per arrivare il treno. Torno martedì, perché alla fine ci sono voluti meno giorni di quanto Paolo pensasse, quindi niente,ti volevo avvisare di questo. Prendo l’aereo da Berlino alle sette la mattina, dovrei essere a Firenze per le nove, forse le dieci. Lo potresti dire anche a mia madre almeno si calma? Un bacio amore, devo andare» Chiude la chiamata non appena io gli rispondo. Facile per lui andare a Berlino per due settimane quando manca meno di un mese al matrimonio. Così io mi sono dovuta sorbire l’isteria di mia madre e della sua insieme. Poso il telefono e finalmente mi posso godere i miei meritati minuti di calma e relax.
Merda.
Mentre mi sciacquo i capelli ho un’illuminazione: ho dimenticato di prendere il vestito per stasera in lavanderia. Finisco di togliere le ultime tracce di sapone tra le ciocche rosse e mi muovo ad uscire. Do una sbirciata alla sveglia posta sotto la finestra. 18:00.
«Cazzo» impreco sottovoce mentre mi dirigo a piedi nudi verso la camera da letto. Acciuffo il telefono e cerco il numero di Viola tra i contatti.
Squilla.
«Pronto?» risponde lei, con la sua classica voce sempre tranquilla in ogni occasione.
«Vì, senti, mi devi fare un favorone» comincio velocemente. «Mi passeresti dalla Luisa a ritirare il vestito rosso?»
«Quale vestito dici? Quello di seta con le spalline?»
«Sì, esatto. Lei ti conosce, ci conosce bene entrambe, non ti farà storie se non hai la ricevuta. Dille che gliela porto domani». Risponde con un veloce “sì” e attacca di colpo, senza lasciarmi il tempo di ringraziarla. Non ce n’è bisogno. Io lo avrei fatto per lei come lei l’ha fatto per me
Un quarto d’ora più tardi sento già suonare il campanello. Strano, deve aver dimenticato le chiavi.
Mi infilo di fretta la maglietta bianca di Gabriele abbandonata sulla sedia dello studio e vado velocemente ad aprire.
Ma quello che non vedo non è il sorriso smagliante di Viola.
Una figura alta e magra, coi capelli piuttosto lunghi e neri come l’ebano e con occhi sottili e felini. Ha un sorriso sbilenco. Massimo. Il mio odioso vicino.
«Che vuoi?» chiedo scocciata. È proprio la ciliegina sulla torta di una giornata di merda.
«Che ce l’hai un po’ di zucchero?» domanda senza salutare. Non è che io l’abbia accolto nei migliori dei modi, lo ammetto, però lui non saluta mai.
«Vieni. Muoviti però, che c’ho da uscire» lo avverto conducendolo in cucina. Lui mi segue con passi pesanti e lenti. Lo odio. Deve sempre da farmi degli spregi.
«Sai stasera vengono i miei genitori e voglio accoglierli con un dolce fatto da me e Fede e…» comincia lui, mentre ci dirigiamo verso la cucina.
«Non t’ho chiesto come va la tua triste vita. Dimmi quanto zucchero vuoi e poi levati di torno» mi allungo per prendere il barattolo di vetro che tengo sulla mensola. Mossa sbagliata. Mi rinvengo troppo tardi di avere indosso solamente la maglietta di Gabri e le mutande. E non delle mutande normali, certo che no. Un odioso perizoma che mi metto solamente quando devo indossare abiti come quello rosso. Con la coda dell’occhio lo vedo abbassare lo sguardo e approvare con un silenzioso cenno del capo.
Accecata dalla rabbia agguanto lo zucchero e lo faccio battere sul tavolo della cucina. «To’, prendilo anche tutto, ma riportami il barattolo» gli dico indicandoglielo. Lui lo prende con il solito sorrisetto dipinto sulle labbra e se ne va, ringraziandomi con un grazie borbottato. Quando sbatte la porta sento la stizza che mi provoca ogni volta, andarsene piano piano. Stasera devo restare tranquilla.
Neanche cinque minuti dopo sento la chiave girare nella porta e vedo la chioma ramata di Viola sbucare. Tiene in mano il sacchetto con il mio vestito dentro e un altro con quello che presumo sia il suo.
«Ciao Lola» la saluto dal lontano del mio divano dove sono collassata esattamente tre minuti fa. Lei avanza spedita verso di me, arrancando appena per via dei sacchetti.
«Ci si prepara insieme» annuncia allegra, buttando gli abiti sul divano ed sbuffando appena per la fatica che ha impiegato nel salire le cinque rampe di scale.
Ecco se dovessi trovare un difetto al mio appartamento grande, elegante e in centro a quella che io reputo la più bella città del mondo, sarebbe la pesante assenza di un ascensore. È un cruccio che dobbiamo sopportare noi che viviamo in un palazzo antico.
«Forza, che manca poco e bisogna fare ancora tanto lavoro» dice Viola tirandosi su le maniche e indicando con gesto eloquente i miei capelli.
«Sei la miglior cognata che abbia mai avuto» la ringrazio con un sorriso ebete.
«Sono la tua migliore amica da tempi immemori» ricorda lei, mentre rovista accigliata nel beauty nero e argento che aveva ficcato nel borsone di pelle marrone. «E la tua unica cognata da sempre».
Estrae la piastra di ultima generazione con un sorriso soddisfatto. La attacca alla spina in bagno e mi fa cenno di andare lì.
Che il supplizio abbia inizio.
Un’ora dopo sono pronta. Io ho indossato il mio abito bordeaux di seta che arriva fino alla caviglia. Mi sono fatta presentare le pump nere lucide da Caterina. Io le chiamo le Suicidio, perché ogni volta che qualcuno se le mette, vuole suicidarsi. Ma stasera ce n’è bisogno per fare figura.
Il trucco invece non è tanto carico. È molto basico, fondotinta, correttore, cipria e un leggero velo di blush sugli zigomi. E poi il rossetto che mi sono regalata per Natale che è dello stesso colore dell’abito. Alla fine Lola si è dovuta arrendere e mi ha fatto l’acconciatura che volevo io: delle morbide onde retrò che adoro tanto.
Lei invece è sempre chiusa in camera mia. Non ha voluto farmi vedere l’abito. Ha detto che è un regalo di Leonardo, il suo compagno, per Natale.
«Vi, muoviti, che tra due minuti arriva il taxi» la chiamo mentre cerco di infilare il mio cellulare dentro la minuscola pochette nera. Quando sono ad un passo per farcela sento la porta della mia stanza aprirsi. Ne esce la mia migliore amica e io boccheggio nel vederla.
Ammetto che sono sempre stata invidiosa del suo aspetto e fisico da modella. Quando avevamo sedici anni le ho consigliato di andare a Miss Italia. Lei ha ribattuto che odiava quei tipi di programmi. Insomma è sempre stata bellissima.
Ha un abito nero lungo fino a terra, con uno scollo piuttosto generoso sul davanti, decorato con dei leggerissimi volant di pizzo scuro, gli stessi che si vedono sulle maniche. Ha i capelli ramati raccolti in una crocchia morbida e un trucco non troppo pesante. Ha messo in evidenzia le sue sopracciglia folte per far risaltare anche i suoi meravigliosi occhi verdi. Sulle labbra invece ha il rossetto fucsia che le ho già visto diverse volte.
Un’apparizione dunque.
«Sei uno schianto» commento e lei sorride timidamente. «Ancora non mi spiego come mio fratello sia andato con quella melanzana di nome Giulia».
«Si era stancato delle puppe flosce e di questa pancia non più tonica. Purtroppo io ho avuto due gravidanze, Giulia è sempre bella, giovane e soda» risponde triste, con gli occhi lucidi dalle lacrime pronte a scendere.
Per quanto io ami mio fratello, non lo perdonerò mai per la scelta che ha fatto. Viola era l’amore della sua vita, la madre dei suoi figli e l’ha lasciata per quel fico secco. La sua attuale compagna ha dieci anni meno di lui ed è l’apologia dell’antipatia. Mia madre non la può vedere, anche perché lei, come me, ha sempre nel cuore Viola che reputa la miglior nuora che una donna possa desiderare. Bella, intelligente, sveglia, simpatica, brava con i figli. Non a caso quando facciamo dei pranzi in famiglia la invitiamo sempre.
La stringo in un abbraccio e le porgo un fazzoletto di carta. «’Un ti sciupa’ un trucco così ben fatto per questa serata così importante. E poi Leo è cento volte meglio di Tommaso» la consolo mentre la stringo tra le mie braccia. Lei tira su col naso e ridacchia.
Non l’ho detto solo per consolarla. Leonardo è effettivamente cento volte meglio di Tommaso. Bello, affascinante, intelligente e simpatico, cattura l’attenzione non appena entra in una stanza. Certe volte invidio la sua disinvoltura. Viola mi sorride appena. «Okay, andiamo, il taxi dev’esse qui a momenti» dice, tirando ancora una volta su col naso. Prendiamo il cappotto ed usciamo lentamente (sì lentamente, perché se mi dovessi mettere a correre adesso farei un ruzzolone giù per le scale). Mentre mi adopero a chiudere la porta, dall’appartamento vicino al mio escono tre figure.
No, che palle.
«Oh, vicina, guarda come sei bella stasera» il vago accento romano di Massimo arriva forte e chiaro alle mie orecchie, magari con un leggero rimbombo dovuto alla tromba delle scale tra di noi.
«Ciao Massimo» lo saluto senza voltarmi, armeggiando ancora con la serratura difettosa che mi sono sempre rifiutata di far vedere e sistemare. Lo sento avvicinarsi, facendo battere ritmicamente i tacchi delle scarpe nuove sul pavimento antico. Con la sua mano calda, prende la mia e inizia ad armeggiare con le chiavi. Trenta secondi dopo la porta è chiusa e lui sorride soddisfatto e orgoglioso di sé.
«Non c’è di che» mi rende il mazzo di chiavi e si riavvicina a quella coppia di persone con lui. Con la coda dell’occhio li scruto e per poco non mi strozzo con la mia stessa saliva. Mi volto a guardare Viola e noto che ha gli occhi sbarrati.
«Dimmi che non sono l’unica che ha notato che quelli sono Mara e Augusto Rossi» mormora a labbra strette e io annuisco di scatto.
«Dio, Mia, lui è il mio attore preferito fin da quando son piccina. Gli posso chiede’ l’autografo? Ce l’hai un foglio? Una penna?»
«Ma certo, li tengo dentro questa immensa borsa» le rispondo sarcastica mostrando quel quadratino dove c’è entrato a forza il cellulare del museo e un mazzo di chiavi.
«Beh, allora muoviti a rientrare in casa a prenderli, sennò vanno via» mi dice incitandomi ad aprire velocemente la porta. «No via, sei troppo lenta, fammi fa’ a me. Te intrattienili» con un paio di scatti energici apre il portone di legno scuro e io sento il sudore freddo scendermi sulla schiena. Premetto che non è la prima volta che incontro li incontro. Però ogni volta mi si attorciglia lo stomaco dall’emozione. Mi chiedo che c’entrino con Massimo che sembra (anzi è) uno schifoso latin lover che ha ereditato a culo la libreria Fiore davanti a Santa Maria Novella e l’appartamento in Via San Gallo da uno zio morto otto o nove anni fa.
Mia, oh, riprenditi, se ne stanno per andare via. Pensa testa a pinolo, pensa.
«Testa a pinolo!» strillo e tutti e tre si voltano a guardarmi. Figura a merda fatta.
«Che hai detto, voisine?» chiede turbato Massimo che cerca di trattenere una risata. Adora quando faccio delle figurette. Cavoli quanto lo odio. Okay cerchiamoci di ricomporci. Pensiamo a qualcosa di intelligente da dir…
«TROVATI» un urlo si leva da camera mia e vedo Viola venire vittoriosa verso di me con un foglio stretto in mano. Quando arriva tutta ansimante non posso che trattenere una risata per la situazione comica che si è creata. Con la coda dell’occhio vedo che anche la signora Mara sembra divertita.
«Scusate, per questa entrata in scena, ma io sono una grandissima fan e lo so che magari vi stancherà però vorrei chiedervi, se non vi dispiace, se mi potete firmare questo. Giuro che capirò se non lo farete. La situazione è già epica così di suo, lo posso raccontare ai miei figli, a mia madre» Mara ride di gusto e annuisce vigorosamente, mentre il marito si limita a mostrarci un sorriso dolce.
«Ma certo! È sempre un piacere incontrare persone che apprezzano il nostro lavoro!» la donna fa cenno di darle il foglio e la penna. Mentre i due firmano, con dedica per Viola, il foglio, io mi avvicino a Massimo. È leggermente scuro in volto (di che mi meraviglio? Il 90% delle volte è così. Il restante 10 ha un sorrisetto strafottente dipinto sulle labbra) e non sembra gradire tutto questo apprezzamento per la coppia di attori.
«Che hai vicino?» chiedo scherzosamente, ma lui sembra non apprezzare il mio tono di voce.
«Non mi ci abituerò mai a essere figlio loro» borbotta, e accenno un sorriso. È una delle poche cose che ci accomunano: dei genitori un po’ troppo ingombranti ed essere i figli che hanno rifiutato la loro fama.
« Per fortuna il mio cognome è abbastanza anonimo. Se fosse stato Mastroianni o Gassman sarebbe stato un po’ più difficile» alza le spalle, continuando a guardare la coppia di attori. Viola li sta tempestando di domande, soprattutto la signora, che risponde gentilmente e con entusiasmo. Il marito se ne sta un po’ in disparte ad osservare la moglie. Riesco a leggere nei suoi occhi un profondo amore per la donna. Amore, ammirazione. Lui è uscito dai riflettori, si è messo dietro la macchina da presa solo per dare più spazio a lei.
«Mamma, bisogna andare» le interrompe ad un certo punto Massimo con un tono di voce appena infastidito. La donna gli regala un velato sguardo di rimprovero, ma poi annuisce.
«Scusate ragazze, dobbiamo essere agli Uffizi tra…» dà un’occhiata all’orologio che porta al polso e sobbalza. «Adesso, siamo in terribile ritardo. Scusate ancora. Se vivete qui, potremmo vederci altre volte per parlare»
«Molto volentieri» trilla tutta sorridente Viola. «Ci vediamo al museo, tanto. Anche noi andiamo lì». Lo sguardo dell’attrice s’illumina di colpo.
«Che cosa meravigliosa. Augusto hai sentito? Potremmo accompagnarle noi le ragazze» l’uomo si limitò ad annuire bonariamente e regalarci un sorriso.
«Bene, perfetto. Venite con noi allora»
«Signora, non vogliamo disturbare…» comincio io, cercando di nascondere l’eccitazione. Rettifico quello che ho detto prima. Altro che giornata di merda. Oggi è il giorno migliore della mia vita. Vorrei mettermi a saltare e urlare, così come Viola che l’ho vista impallidire appena e fremere.
Massimo invece no. È accigliato e guarda la madre con disapprovazione. Non ci vuole. Beh se è per questo neanche io voglio stare vicino a lui per dieci minuti senza via di fuga.
Però quando mi ricapita un’occasione del genere? Quando mi ricapita di essere in macchina con due divi del cinema nostrano?
«Ma state scherzando? L’auto è abbastanza grande per tutti» protesta lei, gesticolando appena. Io e Viola ci guardiamo sorridenti. Un sogno che si avvera.
«Grazie mille» ringraziamo all’unisono. Ragazzi che serata!
 
 
   
 
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