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Autore: Adeia Di Elferas    20/07/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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La sera prima, alla fine, Caterina e Giovanni avevano fatto pace. Era stato tutto sommato facile, specie per merito del carattere abbastanza tranquillo di Pirovano, e la Sforza si era sentita molto sollevata da quel risvolto positivo della situazione. Con tutti i motivi di preoccupazione che già aveva, aggiungerci quello sarebbe stato sciocco.

Quando era arrivata l'acqua per il bagno – portata alla tana, come da accordi – la Contessa vi era entrata e aveva chiesto ad Argentina di lasciarla sola. Quando era riemersa, si era trovata in stanza il milanese, che, come nulla fosse successo, stava sistemando i teli con cui l'avrebbe avvolta una volta uscita dalla tinozza.

Per tutto il tempo, mentre si lasciava lavare la schiena e massaggiare il collo da lui, la Tigre era stata tentata di chiedergli di unirsi a lei, come, un tempo aveva fatto spesso con Giovanni Medici.

Tuttavia, però, proprio quando stava per dar voce a quel suo desiderio, aveva intravisto nell'acqua il luccicare del proprio nodo nuziale e si era ricordata, all'improvviso e in modo subdolo, del fatto che il giorno dopo sarebbe stato il primo anniversario della morte del suo terzo marito.

Quella consapevolezza l'aveva ridotta di nuovo al silenzio e, qualche minuto dopo, si era alzata, sussurrando: “Aiutami ad asciugarmi...”

E così, senza aver cura nemmeno di lasciare libera la tana, per permettere ad Argentina di arrivare a togliere la tinozza, Pirovano e la Leonessa avevano trasformato i semplici gesti necessari per asciugare lei in una serie di abbracci e strette sempre più insistenti, finché si erano ritrovati stesi a letto, finendo per fare la pace nel modo che entrambi trovavano più semplice, dimenticandosi perfino del cibo e del vino che li attendevano nella stanza accanto.

Il resta della notte era trascorsa senza grosse difficoltà. Stanca e molto provata dall'accumularsi di preoccupazioni vecchie e nuove, la Tigre, finito l'impeto che l'aveva unita ancora una volta al suo amante, si era sistemata con calma, apprezzando il calore del corpo di lui, e aveva preso sonno.

Si era risvegliata solo quando dalla finestra cominciavano già a filtrare i primi raggi di sole, scossa da uno dei soliti incubi. Era vividissimo, come sempre, ma le aveva lasciato una sensazione amara in bocca molto più sgradevole del solito.

Forse perché, a differenza di come capitava spesso, quando aveva visto il cadavere di Ludovico Marcobelli cadere inerme dinnanzi a lei, non aveva provato assolutamente nulla.

Con il respiro ancora un po' affannoso e la fronte imperlata di sudore, la donna aveva passato qualche minuto a guardare il soffitto, osservando con pazienza le ombre farsi più lunghe, man mano che il sole sorgeva.

Giovanni da Casale dormiva ancora profondamente, accanto a lei, per nulla smosso dal suo agitarsi nel sonno e, tanto meno, dal suo improvviso risveglio.

La Sforza attese ancora un po'. Essendo abbastanza presto, poteva permettersi di stare per qualche tempo in ozio a quel modo. Era coperta dal lenzuolo solo fino alla vita, con una mano sul petto e l'altra che penzolava dal bordo del letto, e aveva i capelli arruffati e sparsi sul cuscino. Pirovano, anche nel sonno, invece dava un'idea di compostezza e robustezza che lei quasi invidiava.

Era completamente scoperto, insofferente al caldo, benché quel 14 settembre sembrasse già portare con sé un lieve abbassamento delle temperature. I suoi muscoli erano disegnati come quelli di una statua e il suo viso, ancora fresco e dai tratti regolari, era spianato da qualsiasi ruga o preoccupazione.

Come aveva già avuto modo di considerare, la Leonessa trovava che, da addormentato, il suo amante sembrasse molto più giovane del solito. La loro differenza d'età era più schiacciante del solito.

Dopo averlo guardato per un po', la donna tornò a far vagare lo sguardo per la stanza. Si soffermò sulla tinozza che restava abbandonata poco lontano dal loro giaciglio. Ricordava ancora molto bene quando lei e Giovanni Medici vi si immergevano assieme, lasciando che l'acqua da calda diventasse tiepida e poi addirittura fredda.

Erano riusciti a ritagliarsi dei momenti di passione e intimità anche nei periodi peggiori, perfino quando la città era stata lambita e poi travolta dalla peste.

Con un sospiro tremulo, la Contessa si rese conto di come fosse passato un anno esatto dalla morte del suo terzo marito. Si sfiorò il nodo nuziale con indice e medio e avvertì un insanabile senso di vuoto pervaderla.

Non era tanto la lontananza, la perdita o la solitudine a darle quella vertigine, quanto la consapevolezza di tutto quello che era successo dopo.

A differenza di come aveva fatto alla morte di Giacomo, una volta perduto Giovanni aveva subito cercato altri uomini, senza fermarsi mai, vagando da un lido all'altro senza tregua, come un viandante affamato che non riesca mai a trovare una mensa sufficiente a saziarlo.

Se avesse dovuto fare un bilancio di cos'erano stati quegli ultimi trecentosessantacinque giorni, avrebbe fatto fatica a dare un giudizio positivo.

In un anno, aveva fatto in tempo a trovare Ottaviano Manfredi e a perderlo. Aveva fatto in tempo a bruciare come un rovo al contatto con uomini di cui non sapeva quasi il nome. Aveva fatto in tempo a strappare Giovanni da Casale al Moro al solo scopo di poterlo avere come amante, non solo come comandante.

Spaventata da tutte quelle costatazioni, Caterina si rivoltò nel letto, cercando, con quel movimento, di risvegliare Pirovano. Non voleva più pensare. Quella sarebbe stata una giornata pesante, come sempre, e sarebbe gravato su di lei anche il sentore del Medici, la consapevolezza che a un anno dalla sua morte, lei era stata in grado di rimpiazzarlo più e più volte, anche se solo su un piano fisico.

Quando il milanese diede segno di essere in procinto di risvegliarsi, la Contessa non perse tempo e cominciò a carezzargli l'addome, inducendolo a svegliarsi sempre di più. Posandogli poi la mano sulla radice della coscia, proponendogli tacitamente di voltarsi verso di lei, lo strappò definitivamente dalle braccia di Morfeo.

Giovanni da Casale si lasciava guidare, docile, ormai abbastanza avvezzo a quel genere di risveglio. Ogni volta si sorprendeva di trovarsi accanto una donna tanto vorace da cercarlo anche al mattino presto, ma poi si ricordava che quella con cui divideva il letto non era una donna qualsiasi, ma la Tigre di Forlì, quella che aveva fatto sparlare di sé tutta Italia.

Erano ancora impegnati a dar sfogo ai loro desideri, stretti l'uno all'altra, avvolti in modo confuso al lenzuolo, quando qualcuno bussò alla porta.

Quasi senza fiato, la Sforza smise per un attimo di baciare il collo del suo amante, imponendogli di stare fermo un istante con un solo sguardo, e chiese, cercando di controllare la voce: “Che c'è?”

Da oltre la porta, il castellano Feo disse: “Mia signora, è questione importante. Ci sono notizie gravi.”

Il tono con cui il Feo aveva parlato aveva messo in guardia Caterina. Sapeva che non sarebbe venuto a disturbarla, specie alla sua tana, se non si fosse trattato di qualcosa di serio.

Pirovano, che le stava ancora avvinghiato, incapace di spostarsi, riottoso all'idea di dover interrompere il loro incontro per colpa degli affari di Stato, dovette comunque ubbidire, quando lei gli disse, con fare autoritario: “Alzati e infilati le brache. Apri al castellano e digli che arrivo subito.”

Giovanni le diede un ultimo bacio, che però la Sforza scansò, più per evitarsi di lasciarsi convincere a continuare che perché non lo volesse, e saltò fuori dal letto, prendendo di scatto il lenzuolo, convinto che l'avrebbe coperto molto meglio delle strette brache di cuoio bollito che si era sfilato la sera prima.

Mentre il suo amante apriva, lasciando appena uno spiraglio, la Tigre si sbrigò a infilarsi l'abito e rimettersi a posto i capelli. Sapeva di avere il viso arrossato e di non essere ancora del tutto padrona di sé, ma immaginava anche che Cesare Feo avesse capito benissimo cosa avesse appena interrotto.

“Oh, siete voi...” balbettò il castellano, trovandosi davanti Pirovano.

Il milanese immaginava che, trovando la sua signora alla tana, il Feo avesse immaginato di trovarla con qualcun altro.

Così, grattandosi un po' contrariato la nuca, Giovanni ribatté, con secchezza: “Sono io, nessun altro. Come mai cercate la Contessa?”

“Mia signora...” Cesare, nell'intravedere Caterina, lasciò perdere subito il milanese e si concentrò su di lei: “Ci sono notizie gravi che dovreste sentire...”

“Non potete riferirmele voi?” chiese la donna, finendo di sistemarsi l'abito, non spiegandosi quella reticenza del castellano.

“Vi prego, venite con me di là...” insistette lui, facendole segno di seguirlo: “Nulla che non aspettassimo, in fondo, ma è meglio che sia chi ne sa più di me a parlarvene...”

Con un nodo che si stava stringendo all'altezza della bocca dello stomaco, la Leonessa non si pose altre domande e andò dove il Feo le chiedeva, lasciando indietro, almeno per il momento, Giovanni da Casale, che doveva ancora vestirsi.

Quando la Sforza arrivò nello studiolo del castellano, si trovò davanti l'Oliva, Luffo Numai, il Governatore Ridolfi, il Capitano Rossetti, il Segretario Baldraccani e – la Sforza trovò strano vederlo lì, per di più a quell'ora – Galeazzo.

Era come se tutti i presenti fossero lì da parecchio e avessero già avuto modo di discutere a lungo di qualcosa e quel dettaglio diede subito sui nervi alla Contessa. Non sopportava di capire che qualcuno si era preso la libertà di discorrere di affari di sua competenza, aspettando a informarla in prima persona.

L'unica consolazione era vedere che anche suo figlio era stato chiamato in causa, perché il fatto che si fossero presi il disturbo di coinvolgerlo significava che il giovane Riario cominciava a essere considerato degno di attenzione e rispetto.

“Allora, si può sapere che è successo?” chiese la Tigre, rinunciando al tentativo di indovinare qualcosa semplicemente osservando gli uomini che aveva davanti.

“Mia signora...” cominciò a dire Numai, l'unico, tra i presenti, che avesse sufficiente animo per prendere la parola: “Ci è appena giunta notizia certa... Milano è in mano francese.”

Caterina non batté ciglio. Anche se si rendeva conto che tutti stessero attendendo una sua reazione, quella notizia le sembrava del tutto priva di senso. Aveva passato settimane, anzi, mesi a dire lei stessa che Milano sarebbe caduta. Ora, però, che le veniva riferito che i francesi avevano effettivamente preso la città, le sembrava semplicemente impossibile.

Tra i suoi fedelissimi cominciava a serpeggiare una certa inquietudine. Negli anni tutti loro avevano imparato per esperienza che era di gran lunga preferibile un'improvvisa e iraconda sfuriata delle loro signora, che non un suo prolungato e imperscrutabile silenzio.

“Eccomi. Potete ragguagliarmi?” Giovanni da Casale, rivestitosi in fretta e ancora scapigliato, era arrivato proprio in quel momento nello studiolo e, trovando tutti immersi in un silenzio tanto fitto, aveva sentito il bisogno di avere qualche delucidazione.

“Io...” sussurrò la Contessa, la fronte che si corrugava, mentre i suoi occhi verdi finalmente lasciavano trasparire un velo di comprensione: “Io... Io vado da mio figlio Giovannino, perché...”

“Milano è caduta in mano francese. Il Moro è scappato e la guerra è persa.” tagliò corto il Governatore Ridolfi, non sopportando né l'espressione stolida dell'amante della Sforza, né quella spenta e distante della donna.

“Che... Cosa?” in quel momento Pirovano sembrava parecchio più sconvolto della Leonessa: “Ma non è possibile... Milano non può essere caduta... Non tanto in fretta... Ma Pavia non ha resistito? E il Duca è scappato davvero? Non sta cercando di... Caterina, dove diavolo stai andando?!”

Vedere Giovanni da Casale afferrare per un braccio la Tigre e sentirlo rivolgersi a lei in quel modo così colloquiale e poco gentile suscito qualche occhiataccia e un paio di commenti a mezza bocca da parte dei presenti, ma l'uomo non si lasciò fermare da così poco, tenendo salda la presa, ben deciso a non lasciare che la sua amante se ne andasse così, senza fare o dire nulla.

“Sto andando da mio figlio, mi sembrava di averlo già detto.” ribatté lei, gelida, divincolando il braccio dalla presa ferrea di lui.

“Ma..! Ma dobbiamo discutere!” insistette il milanese, cercando l'appoggio anche degli altri, ma incontrando solo espressioni sfuggenti o – nel caso di Galeazzo – sguardi di aperto rimprovero per il suo comportamento.

“Discutere?!” finalmente anche la voce della Contessa si era alzata, dimostrando che l'apatia di poco prima fosse dovuta solo ed esclusivamente al suo stato di incredulità: “Abbiamo già passato mesi a discutere di cosa fare se fosse successo questo. Ebbene, è successo, agiremo come deciso da tempo.”

Pirovano rimase spiazzato. Cercò di frenarla di nuovo, riacciuffandola come poco prima, ma la donna gli scivolò via, e, se quel gesto non fosse stato sufficiente, Galeazzo era già scattato in avanti, pronto a intervenire per dar manforte alla madre in caso di bisogno.

“Ho bisogno di stare da sola e pensare.” concluse la Sforza, senza più guardare nessuno: “Non voglio essere disturbata.” e. con quell'ultimo inciso, raggiunse la porta e si diresse con passo spedito verso la stanza di Giovannino.

 

Isabella d'Aragona si rigirava una mano nell'altra. Era arrivata a Pavia solo il giorno prima, ma le sembrava di essere in quella città da anni.

Le ore parevano non passare più e ogni volta in cui chiedeva quando il re sarebbe arrivato, era uno strazio sentirsi ripetere che ci volevano ancora almeno due o tre giorni, se non addirittura quattro.

Quando aveva parlamentato con Gian Giacomo da Trivulzio, le si era riaccesa nel petto una speranza molto limpida, quasi tangibile. Certo, il comandante dei francesi le aveva impedito di liberare subito suo figlio Francesco, ma Isabella poteva capirlo. Doveva essere paziente. Aveva pazientato anni, non sarebbe stato un problema farlo per altri due o tre giorni.

Ciò che contava era stato l'appoggio che il Trivulzio le aveva subito dimostrato, credendole, soprattutto, quando gli aveva parlato di una questione estremamente delicata.

Dopo i primi scambi di battute, durante i quali sia lei sia l'altro avevano studiato la situazione, la donna aveva accusato con nettezza e pubblicamente il Duca Sforza e il suo prediletto Ambrogio da Rosate di omicidio.

“Ma che intendete?” aveva chiesto, accigliandosi, Gian Giacomo.

“Intendo – aveva risposto senza indugio Isabella – che Ambrogio Varese da Rosate ha confessato di aver avvelenato con un suo speciale sciroppo, assieme allo speziale del Duca, e su ordine del Duca stesso, mio marito Gian Galeazzo. Mandando in rovina questo Ducato, i miei figli e anche me.”

Nelle orecchie dell'Aragona rimbombavano ancora con troppo dolore le accuse di tanti anni prima, quando lei stessa era stata accusata da Ludovico di aver cercato di avvelenare Rozone e Galeazzo Sanseverino. Non era mai riuscita a dimostrare il contrario, né il Moro aveva mai perso un minuto del suo tempo per scusarsi con lei di quell'infamia.

E poi, proprio appena dopo la fuga del Duca da Milano, Rozone, lo stesso grezzo ragazzetto che aveva cercato di portarle via il marito, di distrarlo e catturare tutte le sue attenzioni a suo scapito, si era presentato al suo palazzo, corroso dalla rabbia e dal dolore, per riferirle quanto aveva saputo dalla viva voce proprio di Ambrogio da Rosate.

A Isabella non importava di essersi dovuta subire le lacrime di un vecchio amante disperato, né di aver dovuto accogliere in casa un simile individuo. Tutto questo era accettabile, se come contropartita poteva dare un nome agli assassini di Gian Galeazzo.

Gian Giacomo da Trivulzio aveva fatto domande circostanziate, aveva indagato, aveva cercato di capire fin dove si spingesse la fantasia di una vedova inconsolabile e fin dove, invece, arrivasse la verità dei fatti.

Quando era stato abbastanza convinto quanto meno della buona fede della donna, aveva dato ordine di arrestare l'indovino e portarlo al sicuro a casa di un suo parente, Luigi Trivulzio, e tenerlo sotto chiave fino all'arrivo del re, che avrebbe deciso cosa farne.

“Se solo potessi vedere il mio Francesco...” sospirò l'Aragona, guardando fuori dalla finestra.

Il palazzo pavese che la stava ospitando era bello, accogliente e lussuoso. Ma lei non vedeva nulla, nemmeno i broccati e i cristalli che la circondavano. Negli occhi aveva solo il castello di Pavia, la torre maledetta in cui era stata rinchiusa come la peggiore dei criminali, la stessa in cui aveva perso per sempre una figlia.

“Vedrete – le disse una delle dame che l'aveva scortata fino a Pavia – che appena re Luigi sarà qui, ve lo restituirà e vi permetterà di vivere finalmente in pace con lui.”

La napoletana sospirò, chiuse un attimo gli occhi e poi, fattasi il segno della croce, ordinò: “Fate venire di qui le mie figlie. Lo sapete che voglio sempre averle davanti a me.”

L'altra fece una riverenza veloce e sparì alla ricerca delle due piccole Sforza. Intanto Isabella tornò a guardare Pavia che si stagliava davanti a lei, con le sue torri e le sue strade che, malgrado fosse mattina presto, già brulicavano di francesi. Non era la Pavia che aveva conosciuto quando si era sposata, né quella che l'aveva vista fare la fame in una stanzetta minuscola. Era qualcosa di diverso e, anche se le faceva paura, voleva illudersi che quella ventata di novità avrebbe portato la sua vita su una carreggiata più liscia e piana, proteggendola da altri scossoni e dalle impennate improvvise che il suo destino, fino a quel momento, le aveva riservato di continuo.

 

Restare da sola con Giovannino si era dimostrata tutto fuorché una buona idea. Dopo un primo momento in cui la Tigre aveva preso tra le braccia il piccolo, coccolandolo come non aveva mai fatto né con lui né tanto meno con nessun altro dei suoi figli.

Tuttavia, dopo un po', mentre il piccolo si godeva beato quello slancio di tenerezza, alla Contessa erano tornate in mente di colpo tante cose, troppe per poterle gestire serenamente. Ignorando la delusione che aveva spento il sorriso del piccolo Medici, lo aveva rimesso al suo posto sul suo lettuccio e si era estraniata, immergendosi nei suoi pensieri.

Quel giorno ricorreva l'anniversario della morte di Giovanni e avere per le mani il loro unico figlio le stava facendo pesare l'assenza del fiorentino come non mai. La notizia, poi, della caduta di Milano, le martellava l'anima con violenza, togliendole quasi il fiato. Benché non volesse pensarci, non poteva fare a meno di ricordare i luoghi della sua infanzia, il palazzo che tanto aveva amato, la terra che le aveva regalato gli unici anni di spensieratezza della sua vita, e sapere che tutte quelle cose – in pratica che il suo passato e le sue radici – fossero in mano straniera, le chiudeva lo stomaco e le confondeva i sensi.

Quando Giovannino aveva cercato di riattirare la sua attenzione, con qualche sillaba appena balbettata e tendendo verso di lei le manine, la donna aveva accolto la sua richiesta riprendendolo in braccio per qualche minuto, ma poi aveva capito che a quel modo non avrebbe risolto assolutamente nulla.

Uscì dalla camera con il piccolo che si aggrappava al suo collo, quasi avesse intuito che non sarebbero rimasti assieme ancora a lungo, e cercò Bianca. La trovò senza fatica nella sala delle letture, assieme al precettore che in quel periodo seguiva Sforzino. La fame di conoscenza e cultura della figlia riempiva di orgoglio la Contessa, e non era sua intenzione disturbarla proprio mentre stava discutendo di poesia classica, ma, come spesso le accadeva, non poteva pensare a nessun altro che potesse aiutarla.

“Puoi tenere Giovannino con te?” le chiese, evitando di imporsi come avrebbe fatto normalmente.

La ragazza, vedendola provata e stanca, annuì all'istante, alzandosi e andando a prendere il fratellino, ma non si trattenne dal chiedere: “Madre, è successo qualcosa di grave?”

“Milano è diventata francese.” rispose, con tono quasi distaccato, la Leonessa.

La Riario capì all'istante lo stato d'animo della donna che aveva davanti. Sapeva cosa significasse Milano per lei ed era abbastanza sveglia da evitare altre domande e lasciare sua madre ai proprio tormenti. Non era il momento di assillarla. Avrebbe potuto sapere quel che le interessava più tardi o, magari, da Galeazzo, dato che era, tra i suoi fratelli, quello più addentro agli affari di Stato.

“Tuo fratello Ottaviano dov'è?” chiese Caterina, stringendo un po' gli occhi.

Molto sorpresa da quella richiesta, Bianca ammise: “Non lo so... O nella sua stanza, immagino, o in città.”

La Sforza sospirò e poi disse solo: “Se lo vedi, digli che Milano è caduta e che voglio che riprenda le sue lezioni di spada.”

La ragazza avrebbe voluto far presente che Ottaviano era la negazione in persona, con le armi, e che imporgli di riprovarci avrebbe solo innervosito tutti quanti, specie se Forlì cominciava ad avere davvero i minuti contati. Ma non ne ebbe il coraggio.

“Va bene, madre.” disse solo.

La Contessa la ringraziò e poi le disse, a voce bassa, quasi come se non volesse che il precettore sentisse: “Sto uscendo, voglio andare nel bosco. Devo ragionare. Se qualcuno mi cerca, mi si troverà nella mia riserva di caccia.”

Siccome, nel dire ciò, la Leonessa si era sfiorata involontariamente il nodo nuziale, Bianca ebbe l'improvviso sospetto che allo smarrimento della madre avesse contribuito anche il fatto che quel giorno fosse l'anniversario di morte di Giovanni Medici.

Dando un piccolo bacio sulla testa di Giovannino – che stava già cominciando a protestare per tornare in braccio alla madre – la Riario volle far capire alla Tigre che non era sola e che non era l'unica a essere in forte difficoltà, così le bisbigliò: “Manca molto anche a me. Moltissimo. È stato un padre, per me.”

Quella dichiarazione, che andava a colpire uno dei punti più dolenti del cuore della Sforza, le fece inumidire gli occhi, ma le infuse anche un certo calore: “Lo so.” ribatté, in fretta e, con una rapidissima carezza al figlio, la Sforza tornò alla porta, salutò con un cenno il precettore e Bianca, e se ne andò.

 

Bartolomeo d'Alviano teneva la testa ritta e lo sguardo fisso su Melchiorre Trevisan. Il Provveditore Generale era stato mandato direttamente dai Pregadi lì solo per lodarlo per la facilità con cui aveva preso Cremona.

Lo stava ricoprendo di belle parole, di complimenti e tante altre cose che all'uomo sembravano solo un cumulo di inutilità.

“Voglio sapere se mi riconfermate l'anno di rispetto.” disse il condottiero, appena Trevisan smise di infilare una parola dopo l'altra.

Il veneziano, che trovava il modo di parlare dell'Alviano sempre troppo secco e non scusabile solo dalla difficoltà che aveva nel muovere la lingua, si esibì comunque in un ampio sorriso e disse, sibillino: “Ora che Cremona è caduta in mano veneziana, Giampaolo Manfrone verrà mandato in Friuli a contrastare i turchi.”

“Non mi avete risposto.” ribatté, irritato, Bartolomeo.

Più faceva fatica ad articolare le parole, più quel dannato Trevisan sembrava goderci nel menarlo per il naso, trascinandolo in uno scambio di battute sterili e insulse.

“Dovrete sentire il Doge, per questo.” concluse, più frettolosamente del previsto il Provveditore Generale, un po' intimorito dall'espressione dura assunta dagli occhietti incavati dell'uomo che aveva davanti.

L'Alviano, in realtà, non aveva fretta di tornare a casa. Non aveva una casa, ormai. Da quando la sua Bartolomea non c'era più, si sentiva straniero ovunque. Il castello di Bracciano, la stanza della moglie, che era diventata la loro camera nuziale, e tutti i luoghi che erano cari a lei, erano stati la sua dimora e la sua patria. Adesso che quel legame era spezzato, si sentiva come un cane randagio.

“Comunque, per il momento potete ritirare le vostre truppe...” soggiunse il veneziano, interpretando male il silenzio del condottiero: “Se avete fretta di tornare da vostra moglie... So che madonna Pantasilea è una donna bellissima e immagino quanta voglia abbiate di...”

“Tacete.” lo interruppe con una specie di ringhio l'Alviano, e, passandogli accanto, terminò bruscamente il loro colloquio.

Mentre attraversava a passo spedito il salone e poi percorreva tutta la strada necessaria per arrivare al campo dove aveva sistemato i suoi uomini, Bartolomeo dovette lottare con le lacrime. Non era nella sua indole, disperarsi tanto facilmente, ma il pensiero di dover tornare dai Baglioni, lo atterriva.

Sapeva che a Perugia c'era suo figlio, ma non era una consolazione. Per lui era quasi uno sconosciuto. Si erano frequentati sempre molto poco e, per peggiorare la situazione, c'era da ammettere che Marco non era mai stato come gli altri. Non era sufficiente per non amarlo, ovviamente. Il legame paterno che aveva con lui c'era comunque, a maggior ragione ora che l'Orsini era morta e restava solo quel ragazzo, come prova di quello che c'era stato tra di loro.

Però, inutile essere ipocriti con sé stessi, Bartolomeo non avrebbe esitato un solo istante a scambiare suo figlio con la sua Bartolomea.

“Leviamo le tende.” ordinò al suo attendente che, ben addestrato a essere la voce del proprio comandante, iniziò a gridare direttive e a organizzare la partenza, lasciando l'Alviano libero di crogiolarsi nel proprio dispiacere ancora un po'.

 

Caterina aveva passato tutta mattina e tutto il pomeriggio nei boschi. Non aveva cacciato, né aveva corso con il cavallo. Aveva trascorso tutto il tempo a ragionare.

Non solo sulla questione politica, né solo sulla guerra. Aveva cercato di scandagliare il fondo della propria coscienza per capire se quello che stava facendo, se le decisioni che stava prendendo fossero giuste o meno. Aveva ripercorso tutta la sua storia d'amore con Giovanni Medici. Era passata anche dalla Casina, lasciandosi invadere dai ricordi, oscillando senza sosta dalla rabbia, alla tristezza.

Poi aveva cercato di rivalutare con lucidità la sua posizione nei confronti di Firenze e l'assurdo trattamento che la Signoria le stava riservando. Si era interrogata su quanto fosse realmente opportuno lasciare che i suoi figli cercassero la salvezza in quella città di cui erano cittadini a tutti gli effetti, grazie all'intuizione di Giovanni il Popolano, e poi aveva cercato di convincersi che stava già facendo tutto quello che era in suo potere e che, anche volendo, non avrebbe saputo fare di meglio.

Quando si era alzato un po' di vento e il cielo aveva cominciato a farsi meno brillante, aveva spronato il suo stallone nero ed era tornata verso Ravaldino.

Lungo la via, man mano che si iniziavano a intravedere le mura della città, nella mente della donna il ricordo di Giovanni si era fatto preponderante. Si avvicinava l'ora in cui era morto e quindi la Tigre non poteva impedirsi di ricordare ancora la corsa forsennata che aveva fatto fino a San Pietro in Bagno, la quiete innaturale che aveva trovato nella stanza del marito, il silenzio, rotto solo dal suo respiro spezzato, e poi il senso di vuoto improvviso che aveva provato, quando aveva capito che era davvero troppo tardi.

Aveva lo stomaco vuoto, ma non aveva voglia di cenare nella sala dei banchetti. Erano molte ore, troppe ore, che non metteva nulla sotto i denti. Controllò la scarsella che portava in vita e vi trovò abbastanza denaro per fermarsi in una locanda.

Passò oltre la rocca e cercò un'osteria tranquilla. Non aveva voglia di confusione, né di sentire chiacchiere che l'avrebbero, probabilmente, solo fatta arrabbiare di più.

Mangiò un bollito che aveva più verdure che carne, e lo pagò più del previsto, a dimostrazione che il manzo stava diventato davvero una rarità. Bevve del buon vino, scelto dal locandiere tra le botti migliori della sua cantina, solo per compiacere la sua signora.

Riempito lo stomaco, la Contessa si guardò attorno. C'erano pochi avventori, ma ne conosceva qualcuno. In un tavolo non molto lontano da lei, per esempio, vide alcuni soldati di stanza a Ravaldino, tra cui due nuovi arrivati, Bartolomeo e Baccino da Cremona. Perse qualche tempo a osservarli e, più li guardava, più si rendeva conto che il secondo l'attraeva.

Non era più bello degli altri, e forse non era nemmeno più interessante. Ma la sua sfacciataggine, ben evidente anche mentre scherzava e rideva coi commilitoni, le ricordava, con le dovute differenze, quella di Manfredi e, in un certo senso, anche l'esuberanza che il suo Giacomo aveva saputo dimostrare nell'intimità del loro Paradiso.

Per un bel po' restò indecisa se provare ad avvicinarlo in qualche modo o meno. Poi, però, proprio mentre si stava alzando per andare a parlargli, l'occhio le cadde sul nodo nuziale. Non poteva farlo proprio quella sera. Tanto meno, si disse, con Pirovano che l'aspettava.

Così lasciò il suo tavolo, e uscì dalla locanda. Riprese il suo stallone e si diresse senza altri indugi verso casa, mentre il cielo sopra di lei si riempiva di stelle.

Varcò la soglia della rocca ancora in sella. Portò personalmente il suo stallone nella stalla, lo strigliò e lo sistemò per la notte.

Salì in camera senza incontrare nessuno e trovò Giovanni da Casale già coricato a letto, con il viso teso e i nervi scossi. Quando la vide, saltò in piedi e corse ad abbracciarla.

“Avevo paura che avessi fatto qualche sciocchezza...” le disse, il volto immerso nei suoi capelli.

La Sforza lo scostò: “Se l'hai pensato, è perché non mi conosci.”

L'uomo non volle accendere un diverbio e così le diede silenziosamente ragione e l'aiutò subito a svestirsi e indossare la veste da notte. Avrebbe voluto altro, da lei, malgrado tutto, ma non osò farglielo capire.

Quando la vide stendersi e dargli le spalle, capì che per quella sera non avrebbe avuto quello che desiderava, ma era disposto a trattenersi, in rispetto a quello che la sua amante doveva provare in quel momento.

“Mi fa star male pensare che sto cercando di passare dall'altra parte.” disse piano lei, mentre Pirovano spegneva le candele e la raggiungeva sotto il lenzuolo: “Cercare contatti con Venezia... Ho anche pensato di provare a parlamentare direttamente con re Luigi... Come posso fare una cosa simile, specie adesso?”

“Salvati, Caterina.” le sussurrò lui, parlandole direttamente all'orecchio: “Quando farai scappare i tuoi figli, scappa con loro.”

“Non avrebbe alcun senso. Troverebbero lo stesso un modo per ammazzarmi.” ribatté lei, affondando il volto nel cuscino: “E poi non voglio morire da codarda.”

Nella testa della Tigre, in quel momento, si stavano affastellando tante cose: il dolore per l'assenza di Giovanni Medici, la paura della guerra, la delusione verso suo zio, che non era stato minimamente in grado di tenersi Milano, e la vergogna per l'essere stata sul punto di chiedere a Baccino da Cremona di seguirla in una stanza della locanda per passare insieme la notte.

“Abbracciami.” soffiò, con il tono di chi impartisce un ordine.

Pirovano, da bravo soldato, fece subito quanto gli era stato detto e così la Contessa, stretta tra le braccia forti del suo amante, si impose di spegnere il cervello e, a pezzi dopo una giornata che le aveva rimesso davanti, uno dopo l'altro, tutti i suoi fantasmi, si addormentò.

Giovanni la sentì rilassarsi poco per volta e provò un senso di protezione e tenerezza verso di lei che difficilmente lo aveva sfiorato prima di quella notte. Le diede un leggero bacio sul collo, attendo a non svegliarla e poi, ricacciando indietro il desiderio e tutto il resto, si lasciò cullare da quella sensazione di famiglia che gli era sempre stata estranea e, nel giro di pochi minuti, si immerse anche lui in un sonno profondo e tranquillo.

 

 
 
   
 
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