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Autore: Saelde_und_Ehre    25/07/2019    6 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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XII.
Die Würfel sind gefallen



I bagliori degli incendi rosseggiavano nell’atmosfera sospesa dell’ora blu, gonfiando il cielo di nubi incandescenti.
Tra le vie del paese, i lampioni ancora in funzione spandevano aloni di luce tremolante che proiettavano ombre contorte sui muri.
“Fermatevi qui,” disse il maggiore Bühler ai suoi soldati. La gola gli bruciava a causa delle folate di fumo, e la voce gli uscì fuori dalla bocca in una sorta di gracchio. Arretrò in posizione difensiva dietro un frammento di muro, annerito e divorato dalle esplosioni, che gli permetteva a malapena di ripararsi senza chinare la testa. “Ci troviamo in una zona pericolosa.”
Dell’edificio che torreggiava su di loro restavano solo un’insegna di ferro accartocciato, con una scritta ormai irriconoscibile, e uno scalino in marmo imbrattato di sangue, che alla luce del tramonto sembrava una di quelle macchie lasciate dalla boccetta d’inchiostro nero quando si sbriciolava cadendo per terra.
Se lo guardava fisso, riusciva ancora a vedere i due soldati della sua squadra che si afflosciavano crivellati dalle mitragliatrici pesanti. Riusciva ancora a sentire la sua stessa voce che ordinava la copertura, quasi come se non gli appartenesse, le grida d’allarme, il rumore delle granate che esplodevano a distanza ravvicinata…
“Signor maggiore, non c’è nessuno”, mormorò Friedrich, sporgendosi appena per sbirciare la strada dietro l’angolo.
Inorridito, Hans gli artigliò un braccio e lo tirò indietro con un gesto rude. Quel semplice movimento gli spedì una stilettata lancinante al torace, bloccandogli il respiro. Sollevò la mano armata come per ribadire l’ordine, e con l’altra si sostenne al muro mentre puntini bianchi e luminosi gli intralciavano il campo visivo.

“Ach, Scheiße…” La voce del soldato era poco più di un rantolo stroncato da spasimi e colpi di tosse.
Qualunque cosa Hans avesse voluto dire, fu coperta dall’ululato di una detonazione; una porzione di muro crollò rivelando le viscere del palazzo. Una botta secca gli riverberò sull’elmetto; egli barcollò stordito mentre tutti i rumori si facevano ovattati, indistinti, e i suoi occhi non videro altro che buio. Provò ad alzarsi, ma il suo corpo, sordo a ogni comando, ristette immobile, un frammento acuminato gli trafisse la mano.
Non poté far altro che rassegnarsi a giacere bocconi attendendo che quell’istante finisse, col mitra scarico che gli pendeva dal collo e il sangue che dal palmo gocciolava per terra.
La coscienza andava e veniva, a sprazzi in cui si ritrovava inerme a contemplare l’incertezza.
“Signor maggiore?” ripeté la prima voce, in tono allarmato.
Fu come se quel richiamo lo avesse riscosso da un sogno allucinato. Bühler si rialzò come un sonnambulo, impugnò febbrilmente la pistola e fece scattare la sicura. “Via da qui!” ordinò.
Un boato, una scossa come di terremoto, una raffica di mitra. Il crollo travolse due soldati, il terzo cadde a faccia in giù con un proiettile in fronte. Il maggiore riuscì a strisciare dietro una colonna e a sparare al mitragliere prima che colpisse anche lui.
“Via da qui, presto!”
Gli rispose soltanto un lamento strozzato, che si andava affievolendo da qualche parte sotto le macerie. Poi, il silenzio.
Il peso della consapevolezza gli provocò un’ondata di nausea. Ormai solo, arrancò tra le rovine come uno spettro derelitto, chiedendosi se mai sarebbe riuscito ad arrivare vivo al comando di reggimento.

Quando rialzò la testa, notò che Friedrich lo stava fissando con un guizzo di apprensione negli occhi, senza però osare rivolgergli ad alta voce la fatidica domanda. Il cane gli strofinò il muso contro il ginocchio e scodinzolò quando lui, con un gesto distratto, lo grattò tra le orecchie.
Quelle visioni ferali continuavano a sovrapporsi allo scenario presente, tuttavia si sforzò di riprendere il controllo della situazione: nessuno doveva vederlo in quello stato, non in quel momento. Neanche il suo compagno, che ormai da tempo aveva imparato a conoscere l’uomo sotto la divisa e a non lasciar trapelare all’esterno ciò che li legava.
Per l’ennesima volta, si passò una mano sugli occhi offuscati e si affacciò oltre la barriera: la strada era ostruita da una montagnola di macerie e la carcassa di un Panzer era incagliata in un cratere coi cingoli all’aria; le mitragliatrici alle finestre tacevano.
Un plotone di Waffen-SS attraversò il crocevia cantando una marcia, i volti chini e i passi stanchi.
“Possiamo andare. Fate attenzione.”

Non c’erano più reparti compatti che si affrontavano in campo aperto, ma piccoli nuclei che avanzavano isolati, spazzando via tutto ciò che si parava loro davanti. Ogni angolo di strada era teatro di mischie furiose, che rendevano difficile capire se quella zona fosse controllata dai tedeschi oppure dai polacchi.
Friedrich avanzava spedito, i movimenti fluidi e scattanti, lo sguardo attento.
Ogni tanto si voltava verso di lui come per accertarsi che fosse ancora al suo fianco, e Hans non sapeva più se serbargli gratitudine o sentirsi a disagio per il suo stato attuale, che gli impediva di seguirlo e guidarlo al massimo delle proprie possibilità.

Quando tornò in sé, si ritrovò in una stanza stretta e angusta, legato mani e piedi a una sedia che scricchiolava a ogni suo movimento. Perdeva sangue dal naso e un rivolo appiccicoso gli colava lungo lo zigomo, dove poteva ancora sentire il dolore provocatogli dal calcio del fucile.
Un uomo avvolto in un pastrano militare stava affilando un coltellaccio mentre mugugnava una strana litania, seduto a gambe incrociate in un angolo. Gli scoccò di sottecchi un’occhiata velenosa, poi abbaiò un nome che il maggiore non riuscì ad afferrare. La sua apparenza trasandata, unitamente alla barba che gli ombreggiava le guance scarne, lo rendeva molto diverso dai soldati polacchi che aveva incontrato fino ad allora.
Passò qualche minuto, poi arrivò un sergente seguito a pochi passi di distanza da due soldati, che il maggiore riconobbe subito come coloro che lo avevano catturato.
Il sottufficiale gli chiese il nome in un tedesco stentato, controllò la targhetta identificativa che portava al collo e gli rivelò che alla fine della battaglia sarebbe stato consegnato a un tale capitano Pawlowski; dopodiché diede un paio di ordini concisi al più giovane dei due soldati, che scattò sull’attenti e lasciò la stanza con passo celere.
“Al centro di smistamento la affideremo a un medico,” disse poi, fermo contro lo specchio della porta.
Bühler si limitò a fissarlo con espressione accigliata, ma strinse i denti e non replicò.
Certo – pensò, con amaro sarcasmo – e poi mi offrirete sigarette, zuppa e vodka mentre cercherete di estorcermi informazioni vitali sulla strategia del Reggimento… informazioni che io non conosco, dato che alla fabbrica non ci sono neanche arrivato.
Il ragazzo tornò reggendo un catino pieno d’acqua e, insieme al commilitone più anziano, gli si avvicinò, provocandogli un istintivo moto di ritrosia. L’ufficiale si costrinse tuttavia a rimanere immobile, teso fino allo spasimo, mentre uno gli ripuliva il viso con una salvietta inumidita e l’altro gli applicava del ghiaccio sui lividi.
Prima di lasciarlo di nuovo da solo col suo carceriere, il soldato più giovane gli portò un bicchiere alle labbra, offrendogli un sorso d’acqua dal vago sentore alcolico che Hans ingollò a forza. Guardò la porta che si richiudeva mentre gli occhi riprendevano a pizzicargli per la rabbia e la frustrazione.
In quel buco di stanza c’era solo una finestrella protetta da un’inferriata, e quel bieco figuro lo sorvegliava a vista. Si ritrovava legato, dolorante e disarmato, e ciò – almeno per il momento – vanificava ogni possibilità di fuga: se non avesse trovato un modo per liberarsi, la guerra per lui sarebbe finita dopo nemmeno due settimane, in un campo prigionieri. La promessa di un trattamento umano non avrebbe certo reso la situazione più tollerabile, o meno umiliante.
Che cosa ne sarebbe stato di lui, del suo battaglione, di Friedrich? Dove lo avrebbero portato, che cosa gli avrebbero fatto? Che cos’era successo, nel frattempo, per le strade del paese? Chi avrebbe preso il comando al suo posto, come si sarebbe comportato Friedrich una volta appresa la notizia?
Al pensiero di tutte le possibili implicazioni che la situazione presente si portava dietro, e la sua totale impossibilità di agire per influenzarla, contrasse i muscoli e strinse i pugni con rabbia, fino a graffiarsi i polsi con le corde.

Bühler meditava già le domande da rivolgere al capitano per trovare risposta ai dubbi che lo attanagliavano, ma la priorità assoluta era quella di tornare al suo posto, al comando del battaglione. Al di là dell’esigenza di essere messo al corrente delle ultime manovre e recuperare il controllo della situazione, aveva fiducia in lui ed era sicuro che avesse agito con cognizione, tuttavia non era nel suo carattere dare per scontato che ogni azione ben pianificata fosse destinata ad andare a buon fine. Soprattutto, non dopo ciò che era successo quel giorno: le sorti di una battaglia potevano ribaltarsi in fretta, e senza preavviso.
E quel silenzio, proprio nei pressi del quartiere in cui il capitano aveva detto di aver attestato la compagnia, gli sembrava troppo sinistro: il tumulto della battaglia era distante, come se gli scontri si fossero spostati altrove, ma le strade erano disseminate di cadaveri di tedeschi e polacchi.
Ancora una volta, esortò i suoi uomini alla cautela e si mise alla testa del gruppo, alzando la pistola.
Al suo fianco poté sentire Friedrich che si irrigidiva, gli occhi freddi e affilati come due lame di ghiaccio.
Fiutando il pericolo, il cane emise un ringhio sommesso.

“Kühn!” tossì Hartmann, “Kühn, dove sei?”
Erich allungò una mano ricercando a tentoni la pistola, ma la sua guancia rimase poggiata alle dure pietre dell’acciottolato, che sembravano letteralmente ribollire di una sorda e insistente vibrazione.
“Kühn!”
“Se ne sono andati?” balbettò il giovane.
“Non ancora,” rispose laconico l’altro, “ma qualcun altro ha risposto alla nostra segnalazione.”
Ancora intorpidito, Erich si puntellò sui gomiti per tirarsi su.
Hartmann, inginocchiato dietro un cumulo di detriti, fece spaziare le ottiche del binocolo da un punto all’altro dello scorcio che si offriva alla sua vista; poi indicò un gruppo di uomini in grigioverde. “Quelli là sono della compagnia di Bentheim, riconosco il tenente Mertens insieme ad alcuni dei nostri… ma più avanti vedo anche una formazione di Panzer.”
Quando il capitano von Kleist era partito per recuperare il maggiore, la compagnia era stata in breve isolata e messa in rotta dalla cavalleria polacca. Wessel, che lo sostituiva, era rimasto ferito durante uno scontro a fuoco, di Körner non si sapeva neanche se fosse riuscito ad arrivare vivo al posto di medicazione, e il comando della compagnia era momentaneamente passato al sottotenente Hartmann. Gli uomini del capitano Bentheim erano intervenuti in loro soccorso, evitando che la battaglia finisse in una carneficina, ma al loro arrivo le pietre erano già scivolose del sangue di molti soldati e sul marciapiedi c’erano decine di feriti stesi sulle barelle.
“Ormai è finita: siamo davvero nella merda. Fino al collo”, sentenziò il caporale Schneider, esalando ampie boccate di fumo mentre camminava su e giù protetto dalla corazzatura dell’obice da campo.
Nessuno osò contraddire quell’asserzione, nemmeno il vecchio maresciallo Eichmann, che vegliava con aria torva sui pochi soldati superstiti.
Erich, invece, scrollò le spalle e levò lo sguardo verso il cielo nero: rimarcare l’ovvio non sarebbe servito a nulla. Si avvicinò di soppiatto al collega, che abbandonò il binocolo e si volse verso di lui con gli occhi gonfi e arrossati. “Emil”, gli disse a bassa voce, poggiandogli una mano sul braccio, “l’unica cosa che possiamo fare, adesso, è unirci a loro e aiutarli a respingere il nemico.”
Hartmann frugò nella tasca alla ricerca delle sue sigarette e ne offrì una anche a lui, che però rifiutò con un cenno di diniego: l’odore del fumo gli aveva sempre dato fastidio, e portava con sé il ricordo di suo padre quando tornava a casa dopo il lavoro. Senza dire nulla, l’altro se ne mise una tra le labbra e l’accese, fissando assorto i combattimenti lontani. “Sì, Erich, forse hai ragione”, ammise infine. “Vieni, raduniamo tutti gli uomini ancora in grado di tenere un’arma in mano e andiamo a cercare il capitano Bentheim.”

Seduti sul marciapiede, sotto le luci giallognole dei lampioni, i prigionieri polacchi erano stretti spalla contro spalla. Avevano i volti sporchi di polvere, fuliggine e sangue, solcati dalle lacrime; qualcuno di loro sembrava poco più che un adolescente. Tenevano gli occhi abbassati, senza osare incontrare lo sguardo dell’ufficiale tedesco che li osservava a uno a uno.
“Qualcuno che parla polacco tra gli effettivi?” chiese Bentheim, terminata l’ispezione.
Il maresciallo Horowitz fece un passo avanti. “Io, signor capitano.”
“Si accerti che tutti i prigionieri ricevano le cure di cui hanno bisogno,” ordinò, “e cerchi di ottenere da loro qualche informazione utile.”
“Sissignore.”
Quando il graduato se ne fu andato, il giovane esalò un sospiro e si passò una mano sul volto. Alle sue spalle erano allineati una ventina di caduti, senza distinzione di schieramento: i teli che li ricoprivano rendevano impossibile decretare, a una prima impressione, chi di loro fosse tedesco e chi polacco, ma Konrad sapeva di conoscere di vista almeno i tre quarti di loro. Gli tornò in mente uno dei primi giorni al fronte, quando un colpo di mortaio aveva ucciso sotto i suoi occhi e quelli di Friedrich tre degli uomini più validi della sua compagnia. Ci stava ormai facendo l’abitudine: conosceva per nome praticamente tutti i suoi sottoposti e cercava di occuparsi di persona dei feriti quando le situazioni operative glielo permettevano ma, per ognuno di loro, era sempre uno strazio vedere un soldato spirare su un letto intriso di sangue, nonostante tutti gli sforzi spesi per salvarlo, o ricomporre i resti ormai irriconoscibili di un camerata morto e procedere per esclusione per risalire alla sua identità.
Mentre era immerso in simili considerazioni, un soldato delle Waffen-SS lo raggiunse, salutò col braccio alzato e annunciò: “Signor capitano, l’Hauptsturmführer Greifenberg chiede di lei.”
Nell’udire quel nome, Konrad quasi sobbalzò. “Mi conduca da lui,” disse semplicemente.

Gli uomini dell’equipaggio, in uniforme nera da carristi, erano seduti su un basso muretto come corvi appollaiati su un ramo. Le gambe di un meccanico spuntavano dal ventre di un Panzer III.
Leggermente in disparte, appoggiato alla fiancata del blindato, c’era un ufficiale alto e robusto, coi capelli biondi che s’intravedevano da sotto la bustina nera ornata da una testa di morto argentata. Intorno al collo portava ancora le cuffie e fissava assorto l’imponente cancellata che si ergeva di fronte a lui, a protezione di quella che sembrava una vecchia scuola.
Ridestato dal rumore dei suoi passi, si riscosse di colpo e gli si avvicinò. “Konrad!” esclamò in tono informale, quando furono abbastanza lontani dal resto del gruppo.
Bentheim non poté far a meno di sorridere. “Reinhardt,” lo salutò.
I loro occhi si cercarono e, per un fugace istante, lo sguardo dell’Hauptsturmführer fu offuscato da un barlume di preoccupazione. “Siamo arrivati appena le circostanze ce l’hanno permesso”, spiegò, indicando il carro danneggiato, poi diede le spalle ai suoi uomini e abbassò la voce: “Ho sentito dire che Hans è stato catturato…”
“Sì, e Friedrich è andato a liberarlo, nonostante l’impossibilità tattica e le indicazioni contrarie del colonnello.”
Reinhardt volse lo sguardo altrove, indugiando in pensieri che non poteva esprimere ad alta voce. “Non me la sento proprio di biasimarlo, sai?”
“Non è ancora tornato,” proseguì Konrad, in tono più duro. Scosse la testa, rammentando tutte le volte che Friedrich aveva anteposto la sua legge morale al regolamento, fin dai tempi della scuola militare. “E non voglio immaginare cosa succederebbe se tornasse da solo, soprattutto considerando il pericolo che la compagnia ha corso in sua assenza.”
L’altro gli appoggiò una mano sulla spalla e la strinse appena, come per rassicurarlo. “Sono fiducioso: anche noi ce l’abbiamo fatta, nonostante tutte le difficoltà che abbiamo incontrato lungo la strada.”
Bentheim emise un sospiro. “Sì, ma il prezzo da pagare è stato alto.” Non oso immaginare a quanto ammonterà la conta dei caduti, completò mentalmente, ma senza esternarlo ad alta voce. Si limitò a rivolgere al compagno uno sguardo intenso e penetrante, che bastò a comunicare tutto ciò che aveva lasciato in sospeso. Anche l’espressione di Reinhardt s’incupì, e il discorso terminò così com’era iniziato, mentre il cielo veniva invaso da un potente ronzio e l’ultima luce del crepuscolo oscurata dalle sagome dei bombardieri bimotore.

Dopo il fragore della battaglia, quella quiete insospettiva più che dare sollievo.
Di solito, quando le armi tacevano e i soldati si preparavano per rimettersi in marcia, stuzzicati dal pensiero di un fuoco intorno al quale consumare il pasto serale, a riecheggiare erano i canti e le risa, gli scherzi e gli aneddoti che cementificavano i legami tra camerati.
Quella sera invece, le strade apparivano così desolate da amplificare ogni minimo rumore, dagli isolati lamenti di un qualche ferito al calpestare ritmico delle suole chiodate, mentre il lontano rumore delle bombe riverberava in sottofondo.
L’oscurità rendeva le figure umane che si aggiravano tra le rovine simili a spettri inquieti.
I soldati della sanità avevano raccolto i feriti sotto i resti di un loggiato, mentre gli altri, taluni ancora sporchi e insanguinati, cercavano di prestare soccorso come potevano: c’era chi trasportava una barella e chi un commilitone zoppicante, chi sorvegliava i prigionieri e comunicava con loro a frasi smozzicate.
Friedrich si sentì raggelare il sangue nelle vene quando realizzò che quello scarso centinaio di uomini era tutto ciò che restava della sua compagnia, mentre un atroce presentimento si radicava in lui. Fece un passo avanti, cercando con lo sguardo il tenente Wessel.
Hans gli camminava al fianco osservando la scena con un’espressione dura sul volto, segno che in quel momento la sua fortezza mentale era totalmente inespugnabile. “Von Kleist, raduni gli uomini e faccia una conta degli effettivi.”
“Sì, signor maggiore.”
Quando i rapporti dei soldati conferirono ai suoi presentimenti una forma concreta, il capitano si sentì come se qualcuno, approfittandosi della sua buona fede, gli avesse piantato senza preavviso un pugnale tra le scapole: non poteva più sottrarsi dalle responsabilità che lo avevano travolto, né negare il suo coinvolgimento in quella vicenda. Se passava in rassegna la catena di conseguenze che vanificavano la vittoria e il successo dell’operazione di salvataggio, alle quali si sommava il peso di tutto il sangue versato, si ritrovava in ceppi, inerme e indifeso a subire l’impeto delle coltellate. Ogni testimonianza era un anello della catena che lo stritolava, una lama che penetrava sempre più a fondo.
“Dove sono i comandanti di plotone?” chiese Bühler, in tono glaciale. La sua sola presenza bastò a indurre gli uomini al silenzio.
Gli unici a presentarsi furono Kühn e Hartmann: il primo era coperto di fuliggine da capo a piedi, il secondo aveva una fasciatura insanguinata intorno alla coscia. Con un gesto perentorio, il maggiore li prevenne dal mettersi sull’attenti.
Dopo aver ascoltato tutto ciò che avevano da comunicargli, li congedò e si rivolse direttamente al suo aiutante di campo: “Capitano, mi faccia rapporto di tutte le manovre che ha effettuato da quando sono partito.”
Imponendosi di sostenere il suo sguardo, Friedrich deglutì e iniziò ad esporgli i fatti.

L’atmosfera dell’accampamento, nonostante la vittoria dell’ultimo minuto, era pervasa di un’insolita gravità: i fuochi intorno alle tende militari sembravano ardere di una luce più fioca, e i canti dei soldati, che ogni sera ritempravano dopo le fatiche campali, risuonavano smorzati da note malinconiche.
Il capitano Bentheim rivolse un ultimo sguardo al cielo scuro e senza stelle ed entrò nella propria tenda: doveva ancora compilare alcuni documenti da consegnare al comandante di battaglione, ma il ricordo del suo incontro con Reinhardt riuscì a restituirgli un barlume di sollievo.
Prima di sedersi al tavolino e iniziare a occuparsi della burocrazia, si soffermò ancora qualche istante sul pensiero del compagno, con un leggero sorriso che gli aleggiava sulle labbra. Si erano separati il giorno prima di muovere il primo attacco alla Polonia, e si erano ritrovati dopo due settimane con un carico di battaglie ed esperienze da condividere.
“È permesso?” chiese all’improvviso una voce, da fuori.
Nel riconoscere il suo timbro familiare, Konrad richiuse la cartelletta. “Prego, capitano,” scherzò.
Il drappo verde della tenda fu scostato e Reinhardt entrò con disinvoltura, avendo cura di richiuderselo alle spalle. Portava di nuovo l’uniforme di servizio, grigioverde come la sua, con la croce di ferro appuntata sul taschino. L’unica differenza vistosa, che segnava la sua appartenenza alle Waffen-SS, erano le mostrine del colletto su cui, da una parte, erano ricamate le rune della vittoria, e dall’altra i tre semi d’argento e le due righe orizzontali che indicavano il suo grado.
Il giovane abbozzò un saluto militare, sfiorando la visiera del berretto mentre un guizzo divertito attraversava i suoi occhi blu. “Salve, capitano Bentheim.”
“Salve a lei, capitano Greifenberg,” rispose Konrad, sullo stesso tono.
Si guardarono per un istante e Reinhardt scoppiò a ridere di una risata spontanea. Lui non poté fare a meno di lasciarsi trascinare dalla sua allegria, che per la prima volta dopo giorni ebbe il potere di scrollargli di dosso un cospicuo carico di preoccupazioni.
“Pensavo che ci saremmo rivisti a Varsavia”, disse alla fine. “E invece…”
“Temo che ne avremo ancora per qualche giorno, qui.” Come per abitudine consolidata, l’Hauptsturmführer si sedette sulla branda e si tolse il berretto, poggiandoselo sulle ginocchia.
Bentheim abbandonò il tavolino e si sistemò accanto a lui. “Tu come stai, Reinhardt?”
“Oh, ne sono successe talmente tante di cose in questi giorni, che non saprei neanche da dove iniziare a raccontare… ma da parte mia, per fortuna, sono più le buone notizie che le cattive. E tu?”
“Come al solito. Certo, nessuno si sarebbe mai aspettato una giornata come quella di oggi: ha seriamente rischiato di stravolgere tutti i piani, ed è solo con molta fatica che siamo riusciti a mantenere quel poco controllo che ci era rimasto.” Konrad esalò un sospiro: cercava sempre di mostrarsi calmo e di impedire che i dubbi prendessero il sopravvento sulla razionalità, ma quella volta dovette fare uno sforzo per sostenere lo sguardo di Reinhardt senza lasciarli riaffiorare.
“Faremo tutto il possibile per recuperarlo. D’ora in poi, fino a nuovo ordine, le nostre compagnie opereranno nella stessa zona,” lo rassicurò l’altro, sfiorandogli la spalla con la propria. “Di Hans e Friedrich sai qualcosa?”
“Sì, sono tornati entrambi sani e salvi, anche se la situazione è perfino peggio di quanto ci aspettassimo.”
Reinhardt annuì gravemente e Konrad stirò un sorriso, mentre la sua mano raggiungeva quella del compagno e la stringeva appena. “Ma spero che le cose si sistemino per il meglio.”
L’Hauptsturmführer gli avvolse un braccio intorno alle spalle e lo strinse a sé, sfruttando quel breve momento di solitudine che era loro concesso. “Lo spero anch’io”, ripeté.

Nell’alone di luce fioca emanato dalla lampada a carburo, Hans terminò di rispolverare la vecchia Luger che aveva recuperato dal bagaglio e la ripose nella fondina, in attesa che l’armeria gli assegnasse un’altra Walther P38 d’ordinanza. Era la sua prima pistola, col calcio consunto dall’uso e un graffio sulla canna, che aveva ricevuto quando era diventato sottotenente e viveva ancora nel Baden: un oggetto che, a distanza di anni, continuava a riportargli alla mente i ricordi di un tempo in cui tutti conoscevano l’arte della guerra ma nessuno l’aveva mai davvero provata sul campo.
Controllò l’orologio che portava al polso, e la mano, nervosa, prese a tamburellare la penna sul piano del tavolino da campo che gli fungeva da scrivania: erano già passate le dieci di sera, ma stimò che aveva davanti a sé ancora un paio d’ore prima di riuscire sistemare tutto quello sfacelo. Il thermos del caffè era quasi per metà vuoto, ma se ne versò comunque un’altra tazza e la sorseggiò distrattamente mentre si rimetteva a compilare i rapporti da consegnare al colonnello Wolff.
Gli unici rumori a scandire il tempo, che gli parve scorrere dieci volte più lento, erano lo scartabellare dei fogli e il fruscio della penna che scorreva rapida sulla carta. Con un sospiro, il maggiore stirò le gambe, si portò una mano dietro la testa indolenzita e si appoggiò allo schienale della sedia: aveva un disperato bisogno di sdraiarsi sulla branda, chiudere gli occhi e non pensare a nulla, almeno per un paio d’ore. Ma prima di poterselo permettere, doveva sbrigarsi a finire il suo lavoro senza dare a nessuno dei suoi subalterni ragione di preoccuparsi per la sua salute, né delegare ai furieri un compito che aveva sempre insistito per svolgere di persona.
Tempo prima, il tenente colonnello von Rauheneck gli aveva detto: “Un ufficiale deve essere come un padre, attento e severo, e conformarsi come un esempio da cui i subalterni possano trarre il meglio.”
Forse, rifletté, c’era un fondo di verità nelle velate accuse che gli si rivolgevano – che un Bursche come lui fosse troppo inesperto per comandare un battaglione. Forse era vero che il disastro di quel giorno era da imputarsi a un suo errore strategico, a quella stessa hybris che tanto aveva rimproverato ai suoi sottoposti.
Riconsiderandola in quell’ottica, l’errore poteva essere ovunque – l’intera operazione poteva essere un errore. In guerra, anche la svista più banale poteva avere conseguenze imprevedibili, e von Eltz lo aveva messo in guardia da esse.
Sapeva tuttavia che era inutile tormentarsi sulle proprie colpe, vere o presunte: nessuno avrebbe riposto fiducia in un comandante insicuro. L’unica cosa da fare era riconsiderare in maniera obiettiva l’intera situazione e adoperarsi affinché certi errori non si ripetessero. Aveva ascoltato le testimonianze degli ufficiali, compreso Wessel dall’infermeria, e ne aveva dedotto che a causare il disastro era stata una mossa inaspettata del nemico, che aveva ben pensato di accerchiare la compagnia quando non aveva vie d’uscita: loro non avevano potuto far altro che resistere a oltranza, attendendo poi l’intervento del capitano Bentheim che li aveva aiutati a respingerlo.
Scorse un altro foglio, lo firmò e lo mise da parte, impilandolo insieme agli altri.
Aveva sempre pensato che il Bund nobilitasse il legame tra due soldati, ma in una situazione come quella, dove Friedrich era intervenuto per liberarlo sfidando ogni altra cosa, se Hans ne riconosceva le ragioni più reali e profonde, che cosa avrebbe dovuto fare il maggiore Bühler?
A considerare la questione da un punto di vista egoistico, il suo compagno gli aveva risparmiato l’umiliazione di finire la guerra in un campo prigionieri. A considerarla da un punto di vista militare, era grazie a lui se aveva potuto riprendere il suo servizio e tornare a combattere insieme ai suoi uomini. Lo aveva fatto per lui, per tutto il battaglione, ed entrambi sapevano cosa significava.
Ma restava il fatto che il capitano aveva agito sulla base di un’iniziativa personale non richiesta, anche se formalmente giusta, sulla quale – tra morti, feriti e prigionieri – gravava il peso della metà degli effettivi della compagnia.
Un leggero bussare alla porta della baracca lo indusse a drizzare la schiena e interrompere il flusso dei suoi pensieri. “Avanti.”
“Signor maggiore, gli elenchi delle perdite e dei feriti,” disse il capitano von Kleist in tono impersonale, poggiando sul tavolo una cartelletta grigia. “Li ho già compilati.”
Bühler alzò lo sguardo su di lui e annuì lentamente.
Friedrich era ancora in uniforme completa, con la pistola allacciata alla cintura e la visiera del berretto che gli ombreggiava lo sguardo. Arretrò di qualche passo e si fermò davanti alla porta, in atto di congedarsi. “Se c’è bisogno di me, sa dove trovarmi.”
“Non adesso.”
A quelle parole, Friedrich aggrottò le sopracciglia e rimase fermo a braccia conserte di fronte a lui, senza proferire motto.
“Si sieda, capitano.” Quello di Hans doveva suonare come un invito, ma il tono era quello di un ordine. Rimase a guardarlo mentre si toglieva il berretto e prendeva una delle sedie adagiate contro la parete, poi mise da parte le formalità e decise di affrontarlo a viso aperto. Gli versò del caffè nella tazza e gliela allungò dall’altra parte del tavolo.
Friedrich accettò titubante, senza neanche chiedergli se la quantità di zucchero fosse quella giusta. Leggeva nel volto dell’uomo una collera a stento trattenuta, che riaffiorava soltanto nei momenti in cui era al limite: allora, si chiudeva in se stesso e non voleva vedere nessuno, neanche lui. Abbassò lo sguardo sul liquido scuro e lo sentì sospirare.
“Von Kleist.” La sua voce lo richiamò all’attenzione: era severa, ma sotto sotto s’intuiva un calore quasi impercettibile. “Le avevo ordinato di rimanere con la sua compagnia e di non prendere iniziative personali.”
“Se l’avessi fatto, signore, probabilmente l’avrebbero portata altrove”, rispose lui. “Ho agito prima che fosse troppo tardi.”
“Conosce la convenzione di Ginevra, capitano: di certo, non mi sarei rassegnato a vodka e zuppa di barbabietole mentre voi continuavate a combattere. Avrei tentato la fuga con qualsiasi mezzo, lecito o…” S’interruppe, soppesando le parole. “Meno lecito.”
“Con tutto il rispetto, Hans,” gli occhi chiari di Friedrich divennero affilati, “conosci bene il motivo per cui l’ho fatto.”
Bühler gli scoccò un’occhiataccia, ma decise di soprassedere su quell’evidente violazione del regolamento. Tra loro calò una coltre di silenzio tanto densa da assumere consistenza fisica, mentre i loro occhi si cercavano e si incatenavano gli uni agli altri, scambiandosi uno sguardo che da solo bastò a comunicare tutto ciò che non potevano esprimere a parole.
Entrambi conoscevano la verità e non potevano parlare oltre, perché a quel punto ne sarebbero usciti ancor più compromessi. Sapevano di essere legati a doppio filo e, se quell’episodio avesse avuto conseguenze gravi, nessuno dei due si sarebbe potuto sottrarre alla loro portata.

Il colonnello Wolff sospirò e si passò una mano tra i capelli striati di bianco. Per la prima volta dopo ore, si alzò dalla scrivania ingombra di carte e si avvicinò alla finestra della caserma che ospitava il suo reggimento, scostando la tenda di pesante stoffa scura. La pioggerellina, fitta e insistente, che batteva contro i vetri, faceva sembrare lo scorcio del paese simile a una pittura ad acquarelli; i lampioni già accesi erano macchie di luce su uno sfondo sfocato. Da lì, oltre il vetro imperlato di pioggia, si poteva scorgere anche un’ansa della Vistola con le sue morbide sponde.
Ripensò all’inaspettata parentesi di Łowicz – uno scontro senza quartiere che aveva visto le sorti ribaltarsi più volte – e ancora una volta fu colto dal presentimento di aver sottovalutato la determinazione del nemico: solo dopo giorni di furiosi combattimenti, e solo perché ormai si erano visti messi alle strette, i polacchi si erano ritirati verso est per difendere la capitale, minacciata su due fronti dalle armate tedesche.
Dall’anticamera, un rumore di passi che si avvicinavano lo distolse dalle sue considerazioni. Udì bussare alla porta e il suo aiutante di campo si affacciò sulla soglia. “Signor colonnello, i documenti che mi aveva richiesto.”
“Può poggiarli sulla scrivania, Meyerhof.”
L’altro gli consegnò con solerzia due voluminose cartelle rilegate, poi si fermò irresoluto a qualche passo dalla scrivania, come se si aspettasse di essere trattenuto per il solito caffè pomeridiano.
Wolff, tuttavia, lo congedò con un cenno frettoloso. “Ora può andare, capitano.”
Meyerhof non si mosse, e i suoi occhi piccoli e sottili si strinsero ancora di più dietro le spesse lenti degli occhiali. “Con permesso, signore…”
“Ne abbiamo già parlato, Meyerhof. Domattina voglio i comandanti di battaglione a rapporto da me, per fare il punto sulla situazione tattica prima di ripartire per Varsavia.” E stavolta non dobbiamo lasciarci sfuggire nulla, pensò.
“Signor colonnello, se me ne dà licenza, avrei voluto chiederle della sua ferita.”
“Ne ho ricevute di peggiori durante la Grande Guerra.” Mentre diceva quelle parole, si accorse che lo sguardo dell’aiutante era ricaduto sul distintivo per feriti d’oro che portava appuntato sul taschino, un ricordo delle trincee di Passchendaele che conservava ancora vivido dopo oltre vent’anni. “Adesso vada, capitano.”
Aspettò che se ne andasse, poi sollevò la manica della giubba per controllare che la fasciatura intorno al braccio fosse ancora al suo posto: l’assedio a quella fabbrica era durato fino a notte fonda, e perfino lui si era beccato un colpo di striscio durante i combattimenti. Alla fine, gli uomini del suo seguito erano riusciti a uscirne solo grazie all’intervento di un battaglione di Waffen-SS.
In quel momento, alcuni mezzi militari fecero il loro ingresso nel piazzale della caserma, sollevando schizzi d’acqua dalle pozzanghere. Dal più avanzato di essi scese un ufficiale alto e segaligno, che il colonnello riconobbe come il maggiore Bühler. Lo vide radunare i suoi uomini e fermarsi sotto un cornicione a parlare col suo aiutante di campo von Kleist, mentre i soldati si dirigevano ai baraccamenti. Wolff ne fu sottilmente compiaciuto: in quel battaglione, gli ufficiali sembravano legati da profondi rapporti d’amicizia, ma ciò non ne aveva mai compromesso il funzionamento – a suo parere, semmai, ne aveva rafforzato la coesione – tuttavia restava ancora una faccenda sulla quale occorreva far luce al più presto.
Voltò le spalle a quella scena per tornare a sedersi alla scrivania e, senza quasi rendersene conto, riprese a sfogliare nervosamente i documenti compilati dal maggiore.
Aveva letto decine e decine di pagine di rapporti relativi alle giornate di Łowicz, nei quali venivano riportate le notizie più disparate, ma quello di Bühler aveva dovuto leggerlo e rileggerlo più volte: nonostante il modo, sempre chiaro e dovizioso di particolari, in cui l’ufficiale aveva esposto i fatti, alcuni punti continuavano a risultargli oscuri.
“Meyerhof?” chiamò, ad alta voce per farsi sentire.
Poco dopo, l’aiutante di campo ricomparve sulla porta.
“Vada a chiamare il maggiore Bühler, per cortesia.”

Solo quando lo scalpiccio di un paio di stivali militari si sovrappose al monotono scrosciare della pioggia che proveniva dall’esterno, Wolff distolse gli occhi dal rapporto incriminato.
Il convocato fece il suo ingresso nella stanza e il rumore dei tacchi rimbombò nel silenzio mentre scattava sull’attenti. “Signor colonnello.”
“Comodo, maggiore,” gli ingiunse, con un gesto sbrigativo.
Il giovane rilassò appena la propria posizione, spingendo in avanti il piede destro e congiungendo le braccia dietro la schiena. Wolff lo squadrò da sotto le sopracciglia cespugliose: appariva più pallido del normale ma, se anche fosse realmente stanco, nulla alterava il suo solito contegno.
“Ci risulta che il capitano von Kleist abbia preso un’iniziativa personale, contrariamente alle sue disposizioni. È così, Bühler?”
Hans si sentì trapassare dallo sguardo indagatore del suo superiore, che gli provocò un involontario brivido lungo la spina dorsale. Cercò di rimanere tuttavia immobile. “Era una situazione d’emergenza, signore”, rispose, in tono imparziale, “si tratta di una manovra che, se fossi stato presente, avrei effettuato io stesso. Von Kleist ha provato a rintracciare prima me e poi lei, ma non c’è riuscito. Pertanto…”
Un cenno del colonnello lo indusse a tacere. “Le ho fatto una domanda ben precisa, maggiore.”
Bühler strinse impercettibilmente le labbra. Avrebbe dovuto dire di sì, ammettere che il capitano aveva trasgredito i suoi ordini, ma dentro di sé sapeva che, se solo fosse stato possibile, lui stesso gli avrebbe dato l’autorizzazione a procedere.
Per un istante gli parve di sentire su di sé lo sguardo di Friedrich, e il cuore gli mancò un battito prima di riprendere ad agitarsi come un uccellino in gabbia. “Conosci bene il motivo per cui l’ho fatto, Hans.”
Non poteva mentire dicendo di essere stato lui a emanare quell’ordine, ma non poteva neanche scaricare la colpa dell’insuccesso su di lui, dopo tutti i rischi che il giovane si era sobbarcato sulle spalle pur di salvarlo: come minimo, doveva tener fede al loro proposito di proteggersi a vicenda. “Non ho dato indicazioni contrarie in merito, signor colonnello.”
“Dunque lei sostiene che, in quel frangente, il capitano fosse pienamente autorizzato a compiere manovre d’emergenza.”
“È così, signore,” rispose con fermezza il maggiore.
Wolff annuì lentamente e congiunse i polpastrelli mentre una ruga verticale gli si disegnava sulla fronte. “Capisco”, disse infine, senza che i suoi occhi chiari smettessero di fissarlo. “Può andare, Bühler. La ringrazio per la sua deposizione.”

Il capitano von Kleist entrò nell’ufficio del comandante di reggimento e scattò sull’attenti: sapeva già cosa aspettarsi da quel colloquio, ma cercò di restituirgli una facciata impenetrabile. Anche quando l’uomo gli ordinò il riposo, rimase rigido nella propria posizione, limitandosi ad abbassare il braccio e a lasciarlo ricadere lungo il fianco.
“Von Kleist, come giustifica la sua iniziativa?”
“Signor colonnello,” rispose il giovane con voce distaccata, “Radio e telefono non funzionavano, la città era stata ripresa dai polacchi: mi è stato ordinato di battermi per la nostra vittoria e l’ho fatto, anche se ciò ha comportato un alto prezzo da pagare.”
“Sostiene dunque di aver agito in linea con le indicazioni del suo superiore?”
“Il maggiore Bühler era assente, non ha alcuna responsabilità in merito: è stata una manovra d’emergenza, che ho compiuto nei limiti del possibile.”
“E questo è sacrosanto, capitano”, asserì Wolff, imperturbabile. “E per quanto riguarda la sua liberazione?”
“Ho fatto ciò che andava fatto, signor colonnello.”
“Certo, von Kleist, ma avrebbe dovuto attendere una conferma da parte mia,” replicò l’altro, senza scomporsi. “Avremmo mandato qualcuno a recuperarlo, alla fine della battaglia: non era necessario in quel momento imbarcarsi in un’impresa tanto rischiosa.”
A quelle parole seguì una lunga pausa. Friedrich si sentì come se gli occhi dell’uomo volessero scavargli nel profondo, ma non poté far altro che ostentare ancora una volta distacco: lo doveva a se stesso, ma soprattutto lo doveva a Hans. “Con tutto il rispetto, signore,” obiettò, glaciale, “se avessi atteso, probabilmente non lo avremmo più ritrovato.”
“Lei ritiene quindi di aver fatto la cosa giusta.”
“Me ne assumerò la piena responsabilità, signor colonnello.”
“Si rende conto del peso della sua dichiarazione, capitano?”
Friedrich represse un sospiro. “Signorsì, signore.”
Wolff rimase a lungo in silenzio, ponderando con attenzione le sue parole. Von Kleist si sforzò di sostenere il suo sguardo anche se, per ogni secondo che passava, le pareti di quella stanza sembravano stringersi sempre di più intorno a lui, come se volessero schiacciarlo.
Infine, il colonnello si alzò in piedi e disse: “Non posso privarmi di ufficiali competenti come voi adesso che siamo a un passo da Varsavia, pertanto la questione verrà sottoposta a regolare processo ed eventualmente giudicata soltanto alla fine di questa campagna. Sia lei che il suo superiore verrete chiamati a rispondere delle vostre azioni e, se necessario, prenderemo i provvedimenti del caso. Si ritenga congedato, capitano.”

Hans quasi sobbalzò quando sentì bussare alla porta del suo ufficio: tre colpi regolari, come concordato, dati con le punte delle nocche. “Entri pure, von Kleist,” disse, ricomponendosi.
Anche quando il capitano si richiuse l’uscio alle spalle, Bühler rimase fermo davanti alla finestra socchiusa, con la schiena appoggiata all’intelaiatura e le braccia conserte. “Alea iacta est, Friedrich,” esordì, “spero che tu sia soddisfatto.”
Il giovane alzò lo sguardo su di lui e incontrò l’espressione seria che induriva i suoi lineamenti, totalmente in contrasto col caustico sarcasmo delle sue parole. Sapeva che non avrebbe potuto agire in maniera diversa, perché ciò sarebbe equivalso ad abbandonarlo al proprio destino – cosa del tutto contraria ai suoi principi – ma percepiva anche la preoccupazione che l’uomo si sforzava di nascondere sotto la sua ruvida corazza. Gli si avvicinò fino a quando non furono che pochi passi a separarli. “E a te non servirà a niente assumerti colpe che non hai.”
Hans gli girò le spalle, appoggiando le mani al davanzale. “Se tu dovessi finire alla corte marziale… io che cosa dovrei fare, stare a guardare mentre ti tolgono i gradi e ti ricoprono di vergogna?” Scrollò la testa infastidito, reprimendo un moto di stizza.
“Avrei dovuto mentire, in modo da spartire la colpa in parti uguali?” Friedrich inarcò un sopracciglio e lo ripagò con altro sarcasmo, ma la sua voce risuonò insolitamente bassa. “Sai che non funziona così.”
A quelle parole, l’altro inspirò come se stesse per riemergere dopo una lunga apnea. Quando si voltò, tuttavia, la sua espressione era di nuovo seria. “No, avresti dovuto attenerti alle disposizioni del tuo comandante. È così difficile obbedire agli ordini, una volta tanto?”
“Perché ti dai tutta questa pena per proteggermi, se ritieni che io abbia sbagliato?”
Rimasero per un lungo istante a fronteggiarsi in silenzio: ormai erano così vicini da poter vedere il proprio riflesso negli occhi dell’altro. “Suppongo che sia lo stesso motivo per cui tu hai deciso di fare ciò che hai fatto,” lo rimbeccò con amarezza il maggiore, “dovresti smettere di farmi domande di cui conosci già la risposta.”
“Se ho sbagliato me ne assumo le responsabilità, ma non voglio che tu ti metta in mezzo.”
Di fronte allo sguardo dardeggiante di Friedrich, Hans aggrottò le sopracciglia e si raffreddò di colpo. “Questa faccenda non riguarda soltanto te, che tu lo voglia o no.”

  
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