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Autore: Tatystories    04/08/2019    1 recensioni
Maya è una ragazza come tante che però deve fare i conti con una sedia a rotelle, con un vicino fastidioso e con una realtà celata nella sua memoria che si ripete fin dai tempi più antichi e che prevede la lotta del bene contro del male, di Madre Natura contro Caos e di cinque Elementi contro forze oscure e diaboliche. Passione, magia e mistero...
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Maya: oggi
Non mi piace quando vengo sorpassata dalle moto, le sento arrivare e so che non rallenteranno perché mai si aspetterebbero di vedere in strada un così strano mezzo di trasporto e poi mi investe un’onda d’aria che mi fa tremare e il loro rombo mi stordisce. Quindi mi fermo e aspetto paziente che passi. Così farò proprio ora, l’ho udita poco fa, dalla vibrazione dell’asfalto e il frastuono del motore, tra qualche istante sarà tutto passato. Cosa succede? La moto ha rallentato, non capita mai… Nessun vento o rumore, solo un fruscio leggero e un formicolio dolce e languido, poi un profumo che conosco, ma non so dove l’ho già incontrato: è legno e agrumi, forse bergamotto … mi volto. Sotto un casco nero come la notte, due occhi nocciola e oro mi fissano intensamente, mi sento nuda e fragile, ma se n’è già andato, silenzioso com’è arrivato. Che strana sensazione, ma in fretta tornò alla realtà.
- Salve signora Torre, c’è Chicco?
Il citofono fischia leggermente, mi avvicino per comprendere la risposta.
- No Maya, mi dispiace. Ti apro così entri…
Non capisco cosa prenda a quel ragazzo, mi fa impazzire, cambia umore e idea come il vento cambia direzione. Lo sapeva che sarei arrivata. Ultimamente non lo capisco più, eppure siamo sempre stati come fratelli, anzi gemelli siamesi.
- No, grazie. Vado a casa, gli dica che sono passata.
- Ma sei sola? Sei sicura? Ti accompagno io a casa… davvero Maya dammi due minuti e sono pronta.
Ormai mi trattano tutti così, disponibili e gentili quasi alla nausea, ma capisco che nella testa della gente ho più bisogno di aiuto che di fiducia.
- No, grazie, non si preoccupi, sono arrivata con la mia Spider…
Sento un sospiro, lieve e soffocato, probabilmente ha avuto l’accortezza di allontanarsi dal citofono per farlo, ma seppur impercettibili li sento tutti quanti. Dopo l’incidente i sospiri della gente sono diventati i miei peggiori incubi. Pensare che con la battuta della Spider volevo farla sorridere non certo sospirare!
Saluto educatamente e decido di scrivere un messaggio a Chicco su wapp. Scendo dal marciapiede, facendo il giro largo anche se questo gradino è basso e potrei azzardare, ho fatto ben di peggio. Mi accosto per prendere il cellullare che tengo nello zaino appeso dietro, in quella sacca scolorita ho tutto il mio mondo, tutto quello di cui ho bisogno davvero. Mi accorgo di essere vicino alla villetta dei miei terribili gemellini, prima di tornare a casa è meglio se entro a salutarli. Dopo l’incidente non sono più stata a casa loro, ultimamente ho ripreso a fargli da baby-sitter, ma sempre da me per ovviare al problema scale. Mi occupo di loro da quando hanno undici mesi, sapevano a mala pena gattonare, ma erano già in grado di combinare un sacco di guai. Impossibile dimenticare come mi accolse Roby, seduto davanti alla porta d’ingresso con in mano un cucchiaio di legno da cucina, in testa un cappello da chef e la più bella bavaglia che avessi mai visto: “Eccomi mi chiamo Roberto e da oggi comando io!”. In lontananza intanto sentivo le urla di Giacomo, sembrava che qualcuno stesse spennando un pollo vivo, invece era Giacchy che voleva che il padre cambiasse canale. E infine Filippo, che con quei riccioli biondi che incorniciano un viso candido e tutto da pizzicare, gli occhioni azzurri come un lago ghiacciato e un paio di guanciotte rosse e tirabaci: l’incarnazione dell’autentico putto fiorentino. Peccato che al posto delle ali angeliche avesse coda e forcone come un diavoletto diabolico e che il suo passatempo principale fosse arrampicarsi sulla mia schiena lanciandosi da qualsiasi supporto trovasse. Tre pesti allo stato puro.
Mia madre e la loro sono amiche da sempre ed era parso a tutti naturale che essendo io in età da lavoretti diventassi la loro baby-sitter. Tutto sommato anche a me stava bene, la mancia che mi avevano assicurato era più che adeguata e la mia vita sociale piuttosto monotona. Non potevo però immaginare che mi sarei ritrovata a dover gestire una piccola banda di teppisti. Chi poteva crederlo? Grazia, mamma/amica/datore di lavoro ha cominciato a portarli a casa nostra per qualche consiglio o qualche minuto di riposo fin da neonati, ma fortuna o caso volle che in quelle circostanze i piccoli angioletti dormissero o io fossi troppo impegnata con lo studio per soffermarmi oltre un saluto veloce. Pertanto per undici mesi sono stata autorizzata a crederli bravi, buoni e silenziosi. Mia madre mi avvertì vagamente che non sarebbe stata una passeggiata far loro da tata, ma si limitò a descriverli vivaci, non certo indemoniati.
- Mamma cosa vuoi che siano poche ore? Gli racconterò un paio di favole e poi dormiranno… magari riesco anche a studiare…
Studiare? Sarebbe già stato un successo riuscire a sedermi. Insomma quel giorno, intendo il primo giorno di lavoro, entrai con la prospettiva di una serata tranquilla e invece dovetti affrontare Roby spaccattutto, Giacchy spaccatimpani e Pippo spaccaschiena. La signora Bruni mi sussurrò molto velocemente di guardare sul tavolo della cucina dove avrei trovato una serie di istruzioni scritte su un foglio in modo che non le dimenticassi, ma secondo me voleva solo scappare prima possibile per evitare che uno dei tre la bloccasse alla porta e dovesse rinunciare alla sua prima serata da sola con il marito dopo undici mesi di astinenza da qualsiasi attività che non riguardasse pannolini, biberon e ninna nanne.
Mi diressi subito in cucina e per farlo passai accanto a Roby che allungò il cucchiaio verso le mie caviglie tanto da farmi inciampare. Mantenni l’equilibrio e proseguii verso il tavolo dove trovai ciò che cercavo. Le istruzioni erano poche e chiare. Prima di tutto cambio pannolino e pigiama, poi biberon di latte e miele, infine storia della buona notte. Il tutto da fare subito o comunque entro e non oltre le ore venti altrimenti i gemelli si agitavano troppo e diventava difficile metterli a letto, almeno questo quello che aveva scritto su quel foglietto. Per un attimo mi frullò in testa l’immagine di tre bambini che come cenerentola, scoccate le ore venti, si trasformavano da piccoli lattanti a scimmie indiavolate devastatutto. Scoppiai a ridere, non potevo certo immaginare quanta verità ci fosse in quell’incubo ad occhi aperti. Avevo più di un’ora per assolvere i miei compiti, decisi quindi di ignorare il suggerimento di mettermi all’opera in fretta e andai a controllare i piccoli. Roby aveva gattonato fino al salotto e stava picchiando con il cucchiaio un povero pinguino peluche, Giacchy strillava rivolto allo stesso pinguino che poveretto in mezzo a quella confusione era l’unico a rimetterci, di Pippo nemmeno l’ombra… fino a quando non sentii un colpo sulla schiena, zona lombare, e mi accorsi che l’angioletto biondo si era lanciato dal tavolino su di me -  e solo il Signore sa come era riuscito a salirci, ma soprattutto come era riuscito ad evitare di precipitare –  e aveva tutta l’intenzione di aggrapparsi a me con unghie e denti per non cadere nemmeno fossi stata la sua mamma koala. Mentre cercavo di acchiappare Pippo contorcendomi come un’anguilla, gli altri due pensarono bene di rincarare la dose e cominciarono a colpirmi con il cucchiaio di legno e con il povero e innocente pinguino. Immagino la scena possa apparire divertente, ma giuro che lo fu molto meno di quanto non avrei voluto. Ci volle tutta la mia calma e concentrazione per ripristinare un po’ di normalità e anche allora non avevo certo la situazione sotto controllo, ma perlomeno non mi stavano più picchiando. L’arma segreta che utilizzai è anche la mia dote più spiccata: il disegno e la fantasia.  Quei piccoli furfanti non erano in grado di disegnare, ma guardandomi intorno scoprii in fretta che erano affascinati dagli animali, ogni giocattolo o immagine sparsa per la casa riguardava uni di essi. Veloce come mai, recuperai carta e matite colorate e gli preparai delle vignette che scorrendo una dopo l’altra creavano delle tigri in movimento. Ne furono incantati a tal punto da restare ammutoliti per quasi un quarto d’ora. A quel punto li avevo calmati e riuscii a portarli al piano superiore per cambiarli e metterli a letto. Mancavano pochi minuti all’orari indicato sul foglietto lasciato dalla signora Bruni e questo mi agitò parecchio perché dopo averli visti in azione non potevo più dubitare della veridicità delle sue parole. Pannolino, pigiami e storia della buona notte… in perfetta sequenza ed entro il tempo limite. Ci vollero cinque favole, ero sul punto di addormentarmi io stessa, ma finalmente cedettero e si addormentarono. Li guardai a lungo, erano bellissimi ed era impensabile crederli gli stessi monelli che mi avevano assalito. Da quel giorno diventai la loro baby-sitter fissa, avevo superato il test, mi avevano scelta e io avevo scelto loro e da allora sono passati quattro anni. Questo inverno, nel periodo di fermo forzato nei mesi successivi all’operazione, i signori Bruni erano disperati. Venivano in ospedale e, un po’ per farmi sorridere, un po’ per disperazione, mi raccontavano di come i gemelli si impegnassero per allontanare qualsiasi tata venisse loro proposta. Sebbene le modalità cambiassero, a volte erano i gemelli a farle fuggire, altre erano loro stesse a scappare a gambe levate, il risultato era il medesimo: non potevano più uscire senza avere il terrore che prima o dopo arrivasse una telefonata per avvisarli che dovevano tornare a casa perché i gemelli avevano combinato l’ennesima bravata.
Scrivo velocemente a Chicco, mi ha chiesto lui di passare e mi infastidisce che non si faccia trovare, sa perfettamente che i miei spostamenti sono faticosi. Per lui farei questo ed altro, ma ultimamente si comporta in modo strano e credo sia arrivato il momento di parlarci chiaramente.
Citofono a casa Bruni, spero di vedere i gemellini. Mi aprono, passo dalla porta della cucina perché davanti all’ingresso principale ci sono dieci gradini, mai come dopo l’incidente ho scoperto quanto inospitale può essere una casa o una città. Davvero tanto, davvero troppo. Non li vedo e non li sento, solitamente quando scoprono che sono io ad aver citofonato i gemelli corrono in cucina per saltarmi in braccio. Roby mi sale in grembo, Giacchy comincia a spostarmi a destra e sinistra come se fossi un carrello della spesa e Pippo, beh Pippo è Pippo quindi si posiziona sopra qualche sedia e si lancia dimenticandosi spesso di prendere bene le misure e finendo immancabilmente a terra sbellicandosi dalle risate. Abbiamo tutti stabilito che da grande farà lo stuntman.
- Permesso, c’è qualcuno in casa?
Nessuna risposta. Eppure qualcuno mi ha pur aperto il cancello d’entrata. Mi dirigo in salotto, ma anche qui non c’è nessuno, poi sento una voce che non riconosco.
- Arrivo, un attimo.
È una voce maschile, ma sono abbastanza certa non si tratti del papà dei gemelli, è troppo roca e giovane. Ma chi è? Un profumo noto mi avvolge: è legno e agrumi, forse bergamotto, è lo stesso del motociclista… mi piace, anzi mi è sempre piaciuto perché sono certa di conoscerlo da molto, molto tempo. Sono un po’ scocciata, dall’incidente non amo le sorprese e soprattutto non amo conoscere persone nuove, soprattutto fuori dalla mia gabbia dorata cioè casa mia. Solo lì mi sento a mio agio, mia madre e mio padre hanno riorganizzato tutti i locali per rendermi autonoma e indipendente anche quando sono sola. Lì mi sento di nuovo normale e la carrozzella perde parte della sua sterile ferocia per lasciarmi qualche momento di spensieratezza. Dopo tutti questi mesi non mi sono ancora abituata alla mia condizione, ma nel mio regno per lo meno sento di potermi garantire un briciolo di autonomia. I dottori insistono dicendomi che potrei tornare a camminare, che è solo colpa mia se sono ancorata su questa sedia, che è tutta una questione di testa perché le mie gambe dopo l’operazione, contro ogni previsione e logica, sono tornate funzionali. Io non credo sia come dicono loro, io vorrei guarire, vorrei tornare ad avere una vita normale, è insensato pensare che non sia così. Sono convinta ci sia qualcosa che mi impedisce di tornare a camminare, qualcosa che non va nel mio corpo che i dottori non hanno ancora trovato. Mia madre e mio padre sembrano rassegnati, non hanno preso una posizione, né danno ragione ai dottori, ma nemmeno mi hanno più fatto fare dei controlli per verificare quello che sostengo. So che non sono più una ragazzina, ho diciannove anni e da parecchio ormai sono capace di badare a me stessa, ma questa nuova condizione ha cambiato tutto.
- Eccomi!
Santo cielo, ma chi è quel tipo? Quegli occhi, li conosco…
- Ciao, ci conosciamo?
Quegli occhi, li conosco…
- Scusa, sono forse sporco?
Quegli occhi li conosco. Sono consapevole che sto fissando quel ragazzo senza alcun ritegno, ma non posso farne a meno, quasi sicuramente penserà che sono una psicopatica. Adesso devo riprendere il controllo del mio corpo e della situazione, poi capirò perché quegli occhi mi sembrano così famigliari.
- Scusa, ciao, sono Maya. Pensavo di trovare in casa i gemelli, ma tu chi sei?
- Sono Lukas e sono il fratello di Grazia, la mamma dei gemelli. Se non ricordo male tu sei la loro baby-sitter.
Ribatto d’impulso e leggermente scocciata.
- Come fai a saperlo?
Mi sento in svantaggio, lui sa chi sono mentre io non avevo nemmeno idea che i gemelli avessero uno zio, tantomeno che ne avessero uno così figo. Sì, perché Lukas mi sta squadrando dalla testa a i piedi o meglio dalla testa alla carrozzina, come se fossi io quella mezza nuda, quando al contrario è lui che senza vergogna sta di fronte ad una perfetta sconosciuta in accappatoio.
- I gemelli ti adorano e credono siano anche segretamente innamorati di te. Ero curioso di conoscere la famigerata Maya, devo dire che la fama è stata ben meritata.
Molto preoccupata cerco di capire contro quale titolo dovrò lottare.
- Esattamente quale fama mi ha preceduta?
Se i gemelli hanno raccontato qualcosa di sconveniente questa volta li strozzo. Purtroppo passando molto tempo con loro ed essendo così piccoli spesso ho dovuto fare scelte un po’ imbarazzanti, come andare in bagno con la porta socchiusa o sputacchiare e ruttare come uno scaricatore di porto solo per attirare la loro attenzione.
- Bella, bella e più bella anche della principessa Elsa di Closen!
- Frozen, Elsa è la regina di Arendelle in Frozen.
Ignorante e sfrontato, ma simpatico.
- Vieni, ti offro qualcosa.
Sto pensando e ripensando se qualcuno mi ha mai parlato di lui. Mi viene in mente che qualche volta Grazia, la mamma dei gemelli, mi ha raccontato di questo zio francese con il quale parlano telefonicamente una volta alla settimana e che li tiene al telefono un sacco di tempo, ma avevo pensato ad uno zio anziano e barboso e non a questo super figo dagli occhi nocciola fuoco. Ma dove ho già visto quegli occhi? Lo seguo in cucina, è molto educato e mi propone un bicchiere di thè freddo al limone. È la mia bevanda preferita, che i gemelli gli abbiano detto anche questo? Mi sento strana, serena e tranquilla e mi accorgo che per la prima volta da tanto, tanto tempo mi sono dimenticata di essere paraplegica e ho affrontato una conversazione senza preoccuparmi di cosa pensa il mio interlocutore della mia situazione. Lo guardo con maggior attenzione mentre si versa anche lui un bicchiere di thè. È molto carino, avrà venticinque o ventisei anni, è alto, anche se la mia percezione dell’altezza da quando sto seduta qui è un po’ cambiata. Comunque sono certa che se anche mi trovassi in piedi mi supererebbe di almeno quindici centimetri. Capello biondo scuro ribelle, corti sulla nuca e più lunghi sulla fronte. Fisico atletico che da una certa sicurezza sebbene non si notino muscoli particolarmente sviluppati - Chicco, sotto questo aspetto, è decisamente più dotato. Ha un’aria rassicurante ma anche misteriosa, come se avesse dei segreti pronti per essere scoperti. Mi piace anche il suo nome, di evidente origine latina il cui significa se non ricordo male è “luce”. Ma ciò che colpisce immediatamente al primo sguardo sono i suoi occhi, credo si possano definire nocciola, ma in realtà hanno sfumature che tendono al rosso e all’arancio. Sembrano fiammelle che si materializzano ad intermittenza nella sua iride, ne sono affascinata e forse anche un poco spaventata. Il mio esame accurato non sfugge a Lukas che però non pare esserne turbato, al contrario si lascia rimirare con un pizzico di vanità. Faccio un confronto e mi rabbuio, penso a lui così fiero e slanciato verso il cielo e il futuro e io china su me stessa e relegata a guardarmi i piedi, qualcuno la chiama depressione, io la chiamo dura realtà. Questi pensieri cupi cambiano la sensazione di parità che ho provato fino a poco fa e Lukas se ne accorge perché i suoi occhi sempre più infuocati mi fissano perplessi, riesco quasi a capire, senza che pronunci parole, la domanda che si sta facendo: perché quella ragazza ha cambiato umore? Non è la prima volta che mi capita, spesso in un momento di apparente serenità mi rabbuio e le persone che mi circondano si crucciano pensando di aver fatto o detto qualcosa di sbagliato. Il problema non sono gli altri, piuttosto sono io, che senza preavviso mi lascio deprimere da piccoli dettagli che ai più sembrano inconsistenti, mentre per me diventano motivo di sconforto e rabbia. Ad esempio una farfalla che mi svolazza accanto e che mi ricorda che mai più riuscirò a sentirmi libera dalle catene della mia sedia a rotelle o la risata cristallina di un bambino che mi ricorda che non potrò mai regalare quella stessa sensazione di sicurezza e protezione che rendono un bambino libero di sorridere spensierato o ancora la scia bianca di un aeroplano che sfreccia verso l’ignoto che mi ricorda a quanti viaggi dovrò rinunciare per la mia dipendenza a persone, cose e situazioni. Mi rendo conto che la mia è pura autocommiserazione e so anche che quel dannato giorno poteva andarmi molto peggio, ma non sono ancora capace di non soffrirne, sebbene sia pienamente consapevole della mia condizione, di ciò che comporta ed estremamente convinta di poterci convivere.
- Maya che ti prende? Sei rimpicciolita alla dimensione di un topolino impaurito.
Non mi offendo, ha ragione, un giorno mentre mi sorprendeva uno di questi momenti, mi trovavo di fronte al grande specchio del corridoio di casa mia e il riflesso che mi guardava non ero io, o perlomeno non era la Maya di prima dell’incidente. Gli rispondo, non voglio che provi pietà, piuttosto preferisco mi creda un po’ scervellata.
- Tutto bene, ero solo persa nei miei pensieri. Dimmi, cosa fai nella vita? A differenza di te io non so nulla di zio Lukas. Né Grazia, né i gemelli ti hanno mai nominato.
Questa volta è lui a rabbuiarsi, forse sono stata un po’ pungente, ma volevo che smettesse di pensare a me e alle mie pene.
- In realtà sono solo un fratellastro, adottato in seconde nozze dal padre di Grazia. Sono nato e cresciuto in Francia perché la mia mamma adottiva era di origine francese e dopo pochi mesi di vita in Italia ha preteso di tornare nella sua Parigi perché qui si sentiva un pesce fuor d’acqua. Grazia era già grande e decise di rimanere in Italia a casa dei suoi nonni materni, per questo motivo non ci siamo mai conosciuti davvero. In dieci anni, all’epoca dell’adozione avevo circa quindici anni, ci saremo visti un paio di volte all’anno e da quando sono nati i gemelli ancora meno, ma ci sentiamo telefonicamente tutte le settimane e sebbene i gemelli non ricordano il colore dei miei occhi sanno tutto dello zio Lukas perché da quando sono nati passo almeno quindici minuti al telefono con ognuno di loro, spesso facendo veri e propri monologhi. Voglio molto bene a Grazia perché nonostante non siamo davvero fratelli mi ha sempre dimostrato affetto e più di chiunque altro mi ha capito e rispettato. Per questo motivo ho deciso di passare qualche giorno da loro prima di partire. lo so, siamo una grande famiglia confusa…
E scoppia in una risata imbarazzata, ma non sembra turbato, solo un po’ indeciso se aggiungere altro o fermarsi.
- Cosa significa che avevi circa quindici anni?
Di tutto quello che mi ha raccontato la mia attenzione si è focalizzata su questo punto e non sono riuscita a trattenermi dal pretendere una spiegazione, anche se non ne ho né diritto né facoltà.
- Non ricordo nulla di quello che mi è successo prima che mi trovassero e portassero nell’orfanotrofio, nemmeno la mia età.
Che strana coincidenza! Conosco altri ragazzi, solo due in realtà, che sono stati adottati, ma è la prima volta che incontro qualcuno che come me non rammenta nulla della sua vita precedente. Sono stata trovata vicino al sasso Naticarello nei boschi di faggi secolari del monte Cimino da un alpinista, avevo circa tre anni o almeno questo è quanto i medici supposero in seguito ad un’attenta visita perché per mesi da quel giorno in poi rimasi muta e anche dopo aver ricominciato a parlare non ho mai ricordato nulla della mia storia. Non ricordavo nemmeno il mio stesso nome, mi chiamarono Maya solo perché trovarono scritto questo nome sulla roccia. Se questo può sembrare un fatto strano, molto più anomalo fu il tipo di inchiostro con il quale fu scritto: sangue animale. Tutto del mio ritrovamento ebbe dell’incredibile. L’alpinista mi scovò solo per caso, scivolò dal sentiero principale, ritrovandosi a pochi passi dal sasso senza nemmeno un graffio. Raccontò di esser certo di non aver né inciampato né perso l’equilibrio, fu come se il terreno lo avesse trascinato volutamente verso il ciglio del sentiero e un vento tiepido lo avesse sospinto e accompagnato nella caduta. Ovviamente lo presero per matto o per lo meno la gente pensò che certamente avesse sbattuto la testa o bevuto troppa sambuca prima di prendere la via del ritorno dalla cima del monte Cimino. Mi trovò nuda, con al collo un medaglione contenente il seme di una pianta, avvolta in una coperta fatta di uno strano materiale terroso che però sparì appena arrivammo in paese. Nel caso in cui la sua caduta e la coperta di terra non fossero bastate per etichettarlo strambo, il bravo alpinista raccontò che per ritrovare il sentiero principale fu aiutato da una sorta di fuocherello azzurrino che leggiadro volteggiava non lontano da lui, ma non abbastanza vicino per toccarlo, ma era certo fosse caldo perché nonostante l’aria frizzante si sentì avvolto da un torpore morbido e piacevole. Era tardo pomeriggio e ad illuminare il suo cammino oltre al fuoco fatuo, definizione che gli ho dato io stessa ascoltando questo racconto, c’erano delle stelle che l’alpinista sostenne con estrema sicurezza essere già presenti in cielo a quell’orario insolito e molto più luminose di quando non avesse mai notato in tutta la sua vita. L’ultima stramberia è legata al suo arrivo in paese, il mio salvatore dichiarò che arrivato di fronte alla fontana Papaqua che dalla seconda metà del cinquecento inorgoglisce gli abitanti di Soriano, si accorse che dalle sue bocche cominciò a scorrere latte e con quello stesso mi sfamò. Quella fontana era già di per se particolarmente simbolica e mistica, tutte le figure rappresentate sono allegoriche e tutte parlano della lotta tra il bene e de l male, dopo quell’avvenimento divenne luogo di culti di vario genere. Vi sono rappresentati Mosè mentre percuote con un bastone il masso da cui sgorga l'acqua per dissetare una folla di ebrei imploranti. C'è una faunessa gigantesca con i piedi di capra che stringe a sé tre piccoli insidiati da un satiro. C'è poi un pastore che pascola il gregge suonando il flauto, e un gigantesco Pan che agitando una verga squarcia la terra. Infine vi sono quattro statue rappresentanti le stagioni. Quando l’alpinista fece la sua dichiarazione tutti accorsero alla fontana per verificare, ma anche questa volta, come per tutte le altre stranezze che aveva raccontato, non trovarono tracce che potessero confermarle e fu più facile per tutti dichiararlo brillo, sebbene qualcuno preferì dargli credito e considerare quel luogo sacro ed inviolabile. Pazzo, ubriaco o sano di mente, in ogni caso quell’uomo mi salvò ed è a lui che devo la mia meravigliosa famiglia. Se non mi avesse trovato probabilmente non avrei superato la notte.
Chissà cosa penserebbe Lukas se gli raccontassi questa misteriosa ed illogica storia? Meglio di no, ci conosciamo da pochi minuti e non voglio certo che mi cataloghi tra le stramberie viventi. Sono in pochi a conoscere questa vicenda, non la rendo pubblica volentieri anche perché la considero io stesso il farneticare di un uomo un po’ confuso, anche se tra i miei primi ricordi, pochi giorni dopo il mio arrivo a Cimmino, c’è l’immagine di una donna anziana che mi si avvicina mentre gioco nel cortile della parrocchia e mi getta della terra oltre la schiena bisbigliando parole incomprensibili, cosa che può essere letta in duplice maniera. La donna credeva alle parole dell’alpinista e con quel gesto cercava di proteggermi da qualcosa o semplicemente in quel paese erano tutti strani e come l’alpinista era stata suggestionata da una situazione insolita in un noioso paesino, quale poteva essere il ritrovamento in un bosco di una bambina senza memoria.
Sarà meglio che torni a concentrarmi su Lukas prima si stranirlo con il mio silenzio pensieroso. Cerco quindi di riprendere il filo del discorso:
- Sei stato fortunato a trovare una famiglia nonostante fossi già grande…
Lukas si volta, ha finito il suo thè, mi squadra con attenzione, questa volta si sofferma anche sulla sedia a rotelle motorizzata. Si starà chiedendo come ci sono finita, da quanto tempo, ma non mi pare mi compatisca. Nel suo sguardo non leggo pietà o compassione o il sollievo di non esserci lui al mio posto. Curiosità, tanta curiosità e forse un pizzico di stupore che però non comprendo.
- Sono stato investito e sono rimasto in coma per quindici giorni. Quando mi sono svegliato non ricordavo nulla della mia vita precedente, non il mio nome, non qualcosa della mia famiglia. La polizia di Celleno ha fatto ricerche per mesi, ma non sono risultato uno dei possibili scomparsi né di quella zona, né di tutta l’Italia. Quando mi dimisero la mia destinazione era una casa famiglia fuori dalla Toscana, ma il padre di Grazia che era rimasto al mio capezzale tutto il tempo, si propose di occuparsi di me fino allo svelamento della mia identità, cosa che non è mai successo. Dopo un anno circa sono stato ufficialmente adottato e sono diventato un Di Renzo a tutti gli effetti. Poco dopo come ti dicevo ci trasferimmo in Francia a Parigi nella casa che fu dei genitori della mia nuova matrigna e ho vissuto lì fino a qualche mese fa.
- Pensavo fosse strana la mia di storia, ma anche la tua non scherza…
- Perché? Qual è la tua storia?
Sento Lukas un’anima affine e credo che un giorno gli racconterò tutto se ce ne sarà l’occasione, ma non qui e non ora. Cerco di distrarlo e mi sposto con la mia carrozzina in salotto, non mi accorgo che uno dei gemelli ha lasciato dei lego per terra e la carrozzina sbanda. Urto la poltrona e Lukas mi raggiunge probabilmente per verificare che non sia caduta. Si avvicina lentamente e non smette di guardarmi, non capisco le sue intenzioni. Si ferma solo quando è ormai a pochi centimetri dalle mie gambe e continua a guardarmi dall’alto in basso, la diversità di prospettiva è uno dei lati peggiori di essere relegata sempre seduta. Si abbassa e il suo viso si dirige lentamente ma inesorabilmente verso il mio che se potesse si staccherebbe dal collo per scappar via, ma non può. Non riesco nemmeno a parlare per fermarlo, credo mi voglia baciare, non ci sono altri motivi per avvicinarsi tanto. I suoi occhi da vicino sono ancora più incredibili di quanto pensassi, le fiammelle dorate ci sono davvero e non sono un gioco della luce sulle sue iridi. In questo momento occupano tutto lo spazio a loro disponibile e suggeriscono l’idea di un incendio che una volta divampato non può essere domato.
- Alzati e cammina, ora!
Tutta quella determinazione per dirmi le parole che Gesù Cristo disse a Lazzaro. Ma chi è quest’uomo, un santone? Un folle? Uno psicopatico? Non ho tempo da perdere e comincio a sentirmi a disagio. Quella bella sensazione di sicurezza e tranquillità che inizialmente avevano caratterizzato i modi di fare di Lukas sparì per lasciare il posto a rabbia e frustrazione. Vado di retromarcia e mi dirigo velocemente verso la cucina, voglio uscire e andarmene e non voglio più rivedere Lukas, mi sento tremare dentro come se un terremoto stesse percuotendo la mia essenza più intima o un vulcano fosse in procinto di esplodere devastando tutto quello che lo circonda. Aria, ho bisogno di aria fresca e di sciacquarmi la faccia con dell’acqua. Non mi volto, decido di proseguire per la mia strada fino a casa e mi chiudo la porta alle spalle. Ho bisogno della mia stanza, rassicurante e rimodellata a mio uso e necessità. Non voglio più pensare a quel ragazzo, non voglio più nemmeno pronunciare il suo nome, nessuno si era mai permesso di umiliarmi in quel modo. Alzati e cammina come se io non volessi farlo, come se bastassero quelle parole per risolvere mesi di prigionia.
- IO NON CI RIESCO!
L’urlo esce potente e arrabbiato e mentre succede libero i piedi dalle staffe d’appoggio, ancoro le mani sui poggiabraccia e provo a sollevare il sedere dalla sedia. L’ho già fatto altre volte, riesco ad allontanarmi giusto di un paio di spanne, poi crollo perché le gambe si arrendono. I dottori hanno detto che dovrei già camminare, che inspiegabilmente sono guarita completamente nonostante la lesione alle vertebre lombari L1 - L3. Quando sono arrivata in ospedale quella sera sono stata operata d’urgenza. L’operazione è durata sette ore e prima ancora di portarmi in camera il chirurgo aveva già dichiarato ai miei genitori con assoluta certezza la diagnosi di paraplegia. Il proiettile mi aveva lesionato le vertebre lombari, ma durante l’intervento i dottori si erano resi conto che spostarlo avrebbe provocato il collasso della colonna. Avevano quindi rimosso tutte le schegge di ossa e tamponato laddove necessario, il proiettile però era e rimaneva conficcato nella mia colonna, ma c’erano inesistenti speranze che avrei ricominciato a camminare. Poi, inspiegabilmente, qualche giorno dopo successe quello che i medici non vogliono chiamare miracolo, ma che non ha altra definizione. Le mie gambe tornarono ricettive, esattamente come prima dell’incidente, ma nonostante questo io non riuscivo a camminare. Sebbene non ce ne fosse la necessità rimasi in ospedale per un mese durante il quale mi sottoposero a ogni tipo di riabilitazione, da quella in acqua a degli stimoli con impulsi elettrici, ma la situazione non cambiava. La mia schiena rimaneva sana e io incapace di camminare. Da allora è passato quasi un anno e non è cambiato nulla.
Continuo a fare leva sulle braccia che inevitabilmente sono diventate molto più forti, sento già le gambe che si piegano, prone a mollare tutto per ritrovarsi di nuovo inermi e inutili, ma mi compaiono gli occhi di Lukas, quelle fiamme dorate che mi sfidano a fare di più e poi risento quella frase – Alzati e cammina, adesso! –
Come osa? Chi si crede di essere? Cosa vuole da me? Domande rabbiose e roventi, sento nel petto un fuoco ardermi da dentro, ma non smetto, continuo ad alzarmi.
Non ci credo, sono in piedi, le gambe stanno reggendo, le braccia si sono staccate e sono dritta. Percepisco una forza strana, come se delle radici spuntate dal pavimento mi aiutassero a rimanere in posizione restituendomi quell’equilibrio che l’incidente mi aveva tolto. Sono ancorata alla terra e sento di poterlo fare. Metto il piede destro davanti a quello sinistro, faccio un passo, il primo dopo lo sparo. Ci riesco, le radici mi sorreggono, senza però fermare la mia marcia… poi la porta di casa si apre e qualcuno mi chiama. Crollo a terra, senza più forze e come se mai le avessi avute.
- Ciao Maya, sei in camera?
È mia madre, è rincasata dopo la spesa. Se non rispondo verrà a cercarmi e non voglio che mi trovi a terra. Dopo l ‘incidente è diventato tutto complicato e sebbene anche prima fossero genitori abbastanza apprensivi, ora è decisamente peggio. Ci provano, s’impegnano, ma sapermi in giro per strada sulla carrozzina a motore è solo una delle tante angosce che gli creo. Quando l’ho pretesa per poco mia madre non sveniva, mio padre poi per un certo periodo si irrigidì sulla sua posizione che se avessi avuto quell’attrezzo non mi sarei mai impegnata seriamente per tornare a camminare, dal momento che pareva fosse solo una questione di volontà, almeno secondo i medici. Alla fine per fortuna mi accontentarono e la mia indipendenza prese una piega più accettabile.
- Ciao mamma, sto studiando, chiamami quando è pronta la cena.
 Mi sento ridicola, sono sdraiata a terra, prona con le braccia aperte e i palmi rivolti verso il pavimento, sembro l’uomo vitruviano sotto sopra e in questo momento non voglio spostarmi. Sento che è questo il mio posto, più che su quella sedia a rotelle e più che in piedi. Qui mi sento al sicuro, quasi fosse la posizione più normale del mondo o per lo meno quella più normale per me. La rabbia che mi aveva inghiottito si è dissolta nello stesso momento in cui sono crollata a terra e sebbene mi senta particolarmente lucida quasi non ricordo più perché mi sono tanto alterata… ricordo… Lukas. Quel giovane mi ha sfidato e io non ho accettato la sfida, non subito per lo meno. Arrivata a casa mi sono sentita ribollire le viscere e qualcosa di inspiegabile mi ha imposto di provarci, di alzarmi e camminare e ce l’ho fatta. Sono stata in piedi senza reggermi per qualche secondo. Ho quasi paura di averlo sognato, ma finché rimarrò qui sdraiata posso essere certa di quello che ho fatto, perché se mi trovo con la pancia su questa fredde piastrelle di cotto è perché prima ero in piedi. Ero in piedi. Ero in piedi.
- Maya cosa vuoi per cena? Pasta o pizza?
Non so quanto tempo sono stata in questa posizione, ma la voce di mia madre mi sprona a tornare sulla sedia. Sento le membra particolarmente pesanti, ma piano piano striscio verso la pedana e blocco i freni della carrozzina. Poi con le braccia faccio leva sui braccioli e mi sollevo, mi aiuto con i piedi, ma non rispondono più ai miei comandi. Sembra che quel meraviglioso momento in cui i miei arti inferiori sono tornati attivi e ricettivi sia un lontano ricordo, comincio a pensare di essermelo sognato. Forse sono solo caduta dalla sedia, ho colpito la testa e ho sognato di riuscire a fare qualche passo. Non so più cosa sia reale e cosa immaginazione, ma Lukas me lo ricordo ed è estremamente reale.
Madre Natura
Devo risvegliare i miei Figli, è arrivato il momento. Sono dormienti da così lungo tempo, un sonno letargico e sereno che da secoli ormai accompagna i miei cavalieri. I miei poteri si stanno indebolendo, una nuova minaccia ci circonda e senza i miei Figli tutte le creature sono in pericolo. È qualcosa di sconosciuto, così potente da oscurarsi alla mia vista e così oscuro da divorare ogni cosa. E’ più terreno di quanto non lo sia mai stato, di questo ne sono certa, ma non capisco di cosa si tratta. Caos ha fatto di nuovo breccia nella sua gabbia e questa volta è l’Italia la nostra tappa, non è certo la prima volta. Molte volte questa culla di civiltà e cultura è stato teatro dei tentavi di Caos e palcoscenico di furenti battaglie. Dovranno cercare all’interno della zona che ho delimitato con la mia magia, tra Viterbo, Soriano nel cimino, Cellano, Spicciano e Montefiascone. All’interno di questo pentagono naturale c’è la breccia di Caos e da lì dovranno partire per capire cosa sta succedendo.
Sono lieta che come sempre fuoco sia già pronto, fin dagli arbori è sempre stato il più dinamico, generatore di trasformazioni e in eterna evoluzione lui stesso. Purificatore tra gli elementi, principio maschile che tutto permea e tutto vivifica. Pericoloso e distruttivo senza i suoi compagni. Nel corso della storia spesso si è incarnato in personaggi di grande levatura culturale, interpreti delle scienze e della matematica, studiosi di lingue antiche e autori classici. Anche questa volta non mi ha delusa, Lukas ha lo spirito giusto per gestire e valorizzare il suo potere.
Ora tocca a lui svegliare Terra, la più restia a lasciarsi andare, ma se c’è qualcuno in grado di ridestarla dal suo torpore è proprio Fuoco che con lei ha un legame speciale e magico. Sento che il grande pericolo che sta per soffocarci è legato a lei, arriva dalla profondità degli inferi carico del suo potere infernale.

   
 
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