Videogiochi > ARK: Survival Evolved
Segui la storia  |       
Autore: Roberto Turati    09/08/2019    1 recensioni
Laura, Sam, Chloe e Jack sono quattro neo-laureati di Sidney che, dopo aver trovato un libro segreto firmato Charles Darwin che parla di ARK, un'isola preistorica abitata da creature ritenute estinte da milioni di anni, da un intrigante popolo, protetta da una barriera che altera lo spazio-tempo e che nasconde un "Tesoro" eccezionalmente importante, decidono di scoprire di più... andando su ARK. Ma le minacce sono tante, siccome l'arcipelago arkiano non è certo il più accogliente dei posti... però, per loro fortuna, non saranno soli nell'impresa. Fra creature preistoriche, mostri surreali, nemici che tenteranno di fermarli o di ucciderli per diversi motivi, rovine antiche, incontri da ogni luogo, da ogni epoca e da altri universi e gli indizi sul misterioso passato dimenticato di ARK, riusciranno a venire a capo di un luogo tanto surreale?
 
ATTENZIONE: oggi, il 30/06/2021, è iniziato un rifacimento radicale della storia usando l'esperienza che ho fatto con gli anni e la nuova mappa di ARK usata per l'isola del mio AU. Il contenuto della storia sta per cambiare in modo notevole.
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Quando tornarono, la mattina dopo, Laura era impegnata con una nuova sessione di allenamento con Cupcake al villaggio. Stava migliorando molto: ora sapeva praticamente padroneggiare le andature, aveva imparato a memoria i fischi, cosa resa ancora più semplice dal fatto che Cuppy fosse già addestrato, e finalmente sapeva contrarre gli addominali in tempo per non farsi schiacciare la pancia dall’inerzia dopo una carica. Helena si sentiva allegra e nostalgica a vederla, perché le venivano in mente i suoi primi voli con Atena. Chissà come stava… era morta? Era ancora viva? Aveva continuato la sua vita da selvatica, dopo essere volata via quando la Nuova Legione aveva preso Helena in ostaggio? A porsi tutte quelle domande, le vennero quasi le lacrime agli occhi. Ma si riscosse quando si rese conto che i velociraptor feriti dovevano andare alle stalle comuni per farsi medicare e che dovevano comprare del disinfettante e bende per Nerva, rimasto lontano dalla palizzata come suo solito.

«Cos’è successo?» chiese Chloe, preoccupata.

«Niente di grave, è solo che il piedistallo era in un nido di mantidi spadaccine – raccontò Helena – Però, come vedete, ci siamo salvati! Tranquilli, quando saremo sistemati potremo ripartire. Voi avete il manufatto?»

«Certo» rassicurò Sam.

«Bene! Il piedistallo di questo qui è una minuscola isola nell’estremo Ovest dell’arcipelago, a ridosso del muro invisibile. Salvo imprevisti, dovrebbe essere tutto tranquillo!» spiegò, sorridente.

«Già, salvo imprevisti…» bofonchiò Sam, grattandosi il collo.

«Io vado» annunciò Mei, allontanandosi con Hei, Alba e Ippocrate.

«Va bene, a dopo!» la salutò Helena.

«Ciao, bentornata! Guarda Laura!» le disse Acceber, avvicinandosi allo steccato dall’interno.

«Vedo, vedo! Sei una brava insegnante. E poi si capisce che ci sta mettendo passione!»

«Almeno vi daremo poco fastidio col fare cambio dei velociraptor: non vedo l’ora di provare quel testone!» rise Chloe.

-----------------------------------------------------------------------------------------------

Viaggiavano alla svelta, mentre il Sole si alzava nel cielo. Helena chiedeva ogni ora a Gaius come andava la ferita. Bruciava, ma lui la tranquillizzava sempre dicendo che non era nulla: in guerra gli era successo di peggio, in fondo. Si mantenevano anche stavolta sulla costa, dal momento che la loro destinazione era un’isola. Chloe guardava quasi ossessivamente il mare, convinta di rivedere la cresta della misteriosa creatura che nessuno aveva mai visto, ma era tutto tranquillo. Anzi, diversamente da quando erano sul diplodoco, non si vedeva una forma di vita spuntare in superficie: calma piatta, letteralmente. Le dispiaceva un po’. Comunque, Cupcake era davvero socievole: aveva preso subito in simpatia Chloe e Sam, a momenti era lui che andava da loro per farsi accarezzare. Una volta si era anche accostato a Rexar per attirare l’attenzione di Acceber, ma il tilacoleo gli aveva ringhiato contro per scacciarlo.

«Tranquillo, gelosone, non ti cambierei mai con nessuno!» rise lei, arruffandogli la pelliccia sul collo.

Sam, vedendo che Chloe non smetteva un secondo di guardare il mare, decise di accostarsi a lei e confidarsi sui suoi sospetti:

«Sai cos’è sembrato a me, quando l’ho visto?» chiese.

«No»

«Anzi, chi mi è sembrato»

«Spara, mi hai incuriosita»

Sam stava per dirlo ad alta voce, ma poi gli venne un’ondata di imbarazzo. Così si coprì la bocca con una mano e glielo bisbigliò all’orecchio. Come temeva, Chloe non lo prese sul serio e si mise a ridacchiare, chiedendogli come diamine gli fosse venuto in mente. Lui protestò, più convinto che mai:

«Ma è lui, non c’è dubbio! Chi altri ha quei… quei “cosi” sulla schiena?»

«Ma dài, dev’essere una coincidenza. Siamo su un’isola di dinosauri, come hai notato ci sono tanti dinosauri coi “cosi” sulla schiena. Non abbiamo letto tutta l’enciclopedia, magari se cerchiamo troveremo una bestia così e amen»

«No, fidati: non può essere nient’altro – A quel punto, gli venne un’idea maliziosissima – Anzi, scommettiamo?»

«Oh, qualcuno gioca pesante, qui! Cosa c’è in gioco?»

«Se io ho torto, pulirò camera tua e laverò i tuoi vestiti per un mese quando torniamo a casa»

«Troppo poco. Facciamo tre mesi!»

«Uffa… vada per tre»

Helena e Mei, vedendoli discutere così come i ragazzi che erano, li fissavano e si fissavano con aria stranita e divertita allo stesso tempo. Intanto, anche loro discutevano su quanto ci sarebbe voluto prima che Rockwell e Jack li raggiungessero, ovviamente ignorando di tutta la storia della coccatrice. Ma Mei, ogni tanto, si ricordava ancora di quando lei e Nerva avevano dovuto salvare Acceber da suo fratello e il suo socio. Si erano scontrati solo con quest’ultimo, ma la guerriera era più che sicura che Gnul-Iat non fosse da meno ed era convinta che dovessero provare a domare o, molto più sbrigativamente, noleggiare nuove cavalcature in caso si fosse fatto vivo un’altra volta. E Nerva si disse d’accordo con Mei. Ma Helena era alquanto riluttante a riguardo: capiva il timore di un’imboscata, ma per lei era altrettanto vero che più si sbrigavano, meno probabilità c’erano di farsi raggiungere. Pur sapendo che era un azzardo, insisté sul provare a sbrigarsi il più possibile con le indagini sul Tesoro, in modo da concludere tutto in fretta e impedirgli di escogitare la prossima mossa. Nessuna delle due opinioni riusciva a prevalere, anche se dentro di sé Helena sapeva di dover dare ragione a Mei e Gaius. Intanto, Sam e Chloe continuavano a stuzzicarsi:

«E se invece hai ragione?»

Sam le rivolse un ghigno complice. Chloe capì al volo e dovette trattenere le risate dall’imbarazzo:

«ìOh no! No, eh? No! Avevi detto che non sarebbe più venuto fuo…»

«Voglio che mi conceda quattordici notti di passione intensa di seguito in quel motel che sai tu… o perché no, magari alla prossima taverna che becchiamo qua!»

«Dài, Sam…»

«Ah, giusto: qui non ci sono i contraccettivi. Dannazione...»

«Cosa sono i contraccettivi?» chiese Acceber.

«Ma… non li avete?» chiese Sam, stranito.

«Sì, ci sono su ARK, il fatto è che mio padre non ha mai voluto farmi sapere più di tanto in merito…» rispose lei, imbarazzata.

«Aspetta, ma allora… state ascoltando tutto?!» chiese Chloe, imbarazzatissima.

«Sì – rispose Laura, soffocando le risate – Allora, cos’è questa storia del motel? Mi nascondete qualcosa, eh, furboni?»

Sam e Chloe si guardarono per qualche secondo, poi lui si schiarì la voce e, accertatosi che almeno i tre adulti non stessero seguendo la conversazione, prese a raccontare:

«Niente di che, il fatto è che una volta abbiamo fatto questa stessa scommessa»

«Per cosa, se permettete?» chiese Laura, divertita, mentre Acceber sogghignava.

«Il primo stage in un’officina che ho avuto ai tempi del liceo… lei era convinta che non ne avrei mai trovato uno retribuito, così abbiamo scommesso che se ne avessi beccato uno avremmo fatto quello che abbiamo detto poco fa. Ed è così che abbiamo avuto la prima volta, in quel motel di cui non riuscirai mai a farmi dire il nome»

«Oh, peccato che non me l’abbiate mai detto! Sarebbe stato perfetto per trasformarti in una calamita per tutte le altre signorine che hanno spasimato per te all’università!»

Chloe scosse la testa:

«Ah, non serve! Le mirabolanti avventure sono arrivate lo stesso per lui, e anche per me»

«Vabbè, cambiamo argomento, ora che ci siamo divertiti» suggerì Laura, a cui ormai veniva il singhiozzo.

«Già, meglio…»

Quindi proseguirono facendosi raccontare di più sulla vita degli Arkiani da Acceber per il resto del tragitto. Fu davvero un argomento interessante: scoprirono che il lunghissimo passato di quella civiltà erano gli unici fatti che fossero trascritti continumente e archiviati minuziosamente perché tutte le generazioni ricordassero cosa c’era stato prima di loro. Era tutto custodito e copiato in una biblioteca apposita che si trovava al centro esatto di ARK, ovvero sulla vetta del monte Oilep. Dentro c’era lo sviluppo degli eventi di tutti i sessanta millenni che erano trascorsi dall’approdo ed era stato voluto dagli otto capivillaggio dopo la caduta del regime dispotico di Onaitsabes Ollevar nel 3045, uno dei periodi più bui della storia arkiana. Così, parlando, arrivarono alla meta senza accorgersene. L’isoletta su cui c’era il piedistallo appariva come una piccola macchia verde nel blu marino: ci si poteva fare un’idea già da quello di quanto fosse minuscola. Helena indicò un piccolo attracco al termine di una lingua di sabbia che si protendeva dalla costa a formare una piccola laguna in cui l’acqua era alta fino alla cintola e dove avannotti di celacanto sguazzavano allegramente. Passando accanto alla laguna, incrociarono un uomo sulla trentina con abiti che ricordavano lo stile delle antiche popolazioni germaniche, con la pelle a metà fra il bianco e il bronzo chiaro e capelli e barba neri. Stava seduto a gambe incrociate davanti al mare, come se fosse in attesa di qualcosa. Quando li vide, li guardò un secondo e salutò distrattamente. Loro risposero con un cenno. Quindi, scesi dalle cavalcature, andarono alla laguna, dove c’erano una piccola canoa a vela pronta per essere spinta in acqua e, lì accanto, una cabina in cui si pagava una traversata fino all’isoletta. La vecchietta alla biglietteria chiese dieci ciottoli e disse loro che ci potevano andare solo quattro persone, come voluto dalla legge degli Squali Dipinti.

«Perché?» chiese Laura.

«Lascia perdere, dietro c’è tutta una storia complicata e questioni di incidenti. Accettalo senza discutere» disse Acceber.

Decisero che sarebbero andati i tre ragazzi più Acceber, così Laura si fece dare il Manufatto del Divoratore da Helena e, con gli altri, spinse la canoa in acqua. Helena, Mei e Nerva tornarono alla spiaggia dalle creature, in attesa che tornassero. Mei chiese dove sarebbero dovuti andare dopo ed Helena rispose che sarebbero andati all’avamposto secondario degli Squali Dipinti, molto più grande di quell’isola. Poi, qualche kilometro più a Sud nell’oceano, avrebbero preso il Manufatto del Bruto dai Lupi Bianchi al Dente Ghiacciato. Mei e Gaius, per qualche motivo, erano contenti all’idea di andare in un posto freddo, non ci si spiegava il perché. Intanto, la barchetta si avvicinava all’isola: Sam remava e Acceber si occupava della vela. Laura le chiese se era già stata lì e lei rispose di no, ma di essere stata dagli Squali Dipinti in passato, quando aveva imparato a navigare e a pescare. In dieci minuti, approdarono. Lì non c’era nemmeno un animale, a parte i trilobiti che zampettavano sulla sabbia dorata e calda: c’erano solo ulivi, rose e palme. Era circondata da innumerevoli e variopinti coralli paleozoici e le rocce di uno scoglio avevano una forma strana, simile alle scanalature di una conchiglia, a causa dell’erosione.

«Ah, che pace, qui! – sospirò Chloe, stirandosi sotto il Sole – Sarebbe bellissimo averci una casetta estiva…»

Il piedistallo era sulla cima di una collinetta in fondo all’isolotto e le rovine pre-arkiane, questa volta, ricordavano il Taj Mahal e altre rovine indù, come fece notare Laura. Misero il manufatto a posto, fecero emergere la nicchia e presero il tassello del mosaico. Laura fu investita da una fortissima ondata di adrenalina nel vedere il disegno di ARK che andava lentamente a formarsi: prima o poi avrebbero capito dov’era il Tesoro. Mentre osservava i tasselli, Chloe si guardò intorno e notò che, scritta in grande e a carboncino su un muro controvento del sito in rovina, c’era un messaggio in una lingua che conosceva bene dopo dieci anni di liceo e università: il greco.

«Oh, mio Dio…» farfugliò, dopo averlo letto.

«Cosa dice?» chiese Sam, notandolo a sua volta.

«Non ci credo! “Platone e Socrate sono stati qui”… vi rendete conto?!» era così eccitata che le mancava il fiato.

«Cosa?! – Sobbalzò Laura – ARK era nota anche a personaggi celebri come loro?!»

«Sì! Mio Dio, i miei due eroi delle versioni in greco a scuola sono stati qui! Ma… come?»

«Be’, ora che sappiamo dei portali possiamo immaginare che in Grecia ce ne sia uno e che loro due, in qualche modo che non sappiamo, l’abbiano trovato e abbiano esplorato ARK. È fenomenale! Più esploriamo… più cose grosse saltano fuori!»

«Laura, sono contentissima di essere qui con te! Questo è fantastico!» esclamò Chloe, con le lacrime agli occhi dalla gioia.

Acceber li guardava, confusa, non capendo di chi stessero parlando, ma sorrise e decise di lasciarli fare, nel vederli così felici.

 

Con Chloe ancora al settimo cielo, i ragazzi tornarono alla barchetta e iniziarono la traversata di ritorno, presi da una fitta conversazione. Ma, quando furono a metà strada, la canoa fu colpita dal basso e il legno emise un fortissimo tonfo secco e sordo. Con il ricordo dell’incidente al fiume ancora ben impresso in mente, i ragazzi si irrigidirono e si aggrapparono ai bordi, terrorizzati.

«Ehm… Acceber, hai idea di cosa fosse?» chiese Sam, provando a non balbettare.

«No. Ma, nel dubbio, togliete le mani dai bordi, se non volete che ve le mangino!» li avvertì la figlia di Drof.

Loro si affrettarono ad obbedire. Chloe, che sentiva il bisogno morboso di aggrapparsi a qualcosa, abbracciò l’albero della vela e vi si tenne stretta. Si guardarono intorno a occhi spalancati, cercando di scovare il minimo movimento in acqua. Alla fine, Acceber vide una pinna dorsale inconfondibile sfrecciare verso di loro, fendendo la superficie al suo passaggio.

«Un megalodonte! Reggetevi!» esclamò.

«Oh, cazzo…»

In una manciata di secondi, una gigantesca bocca di squalo, con troppe file di denti per contarle e che a loro apparve come un vasto pozzo nero pronto ad ingoiarli, schizzò fuori dall’acqua e azzannò metà barca: dalla prua, tutta la canoa fino all’albero gli entrò in bocca. Laura e Sam si gettarono verso Acceber e Chloe all’ultimo, salvandosi dal farsi maciullare. Il megalodonte, con gli occhi chiusi a renderlo ancora più inquietante, serrò la mandibola e tranciò in due l’imbarcazione. Quello che restava si riempì d’acqua e affondò, i quattro si ritrovarono a sbracciarsi in mare, a metà strada fra l’isola e l’entroterra.

«No! Non voglio morire così! Non dopo quello a cui sono sopravvissuto!» gridò Sam, iniziando a nuotare con tutte le sue forze verso riva, con la destrezza di un atleta.

Gli altri lo seguirono come meglio poterono. Furono stranamente lasciati in pace per un lungo tratto, trovarono anche una corrente calda che li spinse ancora più in fretta verso la battigia. Ma il megalodonte riapparve in lontananza e si avvicinò veloce come un lampo. Ad un certo punto, in superficie apparve anche la testa e aprì la bocca per afferrare Laura… era vicino… vicinissimo… ma, all’ultimo, un’immenso getto di schiuma si elevò alla sua sinistra e si intravide un’imponente massa grigia al suo interno. Udirono un ruggito assordante:

GHAAAAREEEEEEEEEEEAAAAAAAAAAHHHRRUUUUUUURRRRNNNN!!!

Tutto quello che Sam riuscì a scorgere bene fu una testa squadrata da rettile che si abbatteva sul collo dello squalo preistorico, a cui seguiva l’ormai famosa cresta a tre fila e infine una lunga coda affusolata. L’onda che la creatura sollevò li spinse all’indietro, dando loro un ultimo aiuto per farli tornare a riva. Strisciarono nell’acqua bassa e si adagiarono sulla sabbia, esausti e increduli di avercela fatta. Helena, Mei e Nerva li raggiunsero di corsa.

«Oddio, state tutti bene?!» chiese Helena, aiutandoli ad alzarsi.

«Sì, sì… ma cos’era?!» domandò Laura, guardando il mare sbigottita.

Intanto, l’uomo vestito da Germano che avevano incontrato prima si era alzato e ora fissava il mare tenendosi una mano sopra la fronte per ripararsi dal Sole: aveva l’aria di aver previsto tutto…Tutti guardarono il mare: la superficie dell’acqua iniziò a ribollire, ad una ventina di metri dalla spiaggia. Improvvisamente, la creatura saltò fuori e stringeva ancora il collo del megalodonte con la mandibola, per quanto fossero quasi della stessa taglia. Poi, come una balena, si rischiantò nell’acqua e svanì tra la schiuma.

«Quid genus monstri est illud?» si chiese Nerva, pensando d’istinto a qualche manifestazione di Nettuno.

Passò un’altra manciata di secondi e, molto più vicino a loro, il mastodontico rettile riemerse. Ora, stando ritto in piedi e immerso fino ai fianchi, teneva ferma la testa del megalodonte con le zampe, dotate di quattro dita semi-opponibili. Lo squalo si contorceva e si agitava per liberarsi, ma gli artigli dell’avversario erano agganciati a fondo nella sua pelle. A quel punto, il mostro mise la testa del megalodonte di fronte alla propria e si irrigidì, iniziando ad inspirare a fondo. Notarono che una luce blu cominciava a far brillare le sue placche, partendo dalla punta della coda e avanzando rapidamente lungo il dorso, fino alla testa. Anche le venature fra le scaglie più vicine alla cresta si illuminarono di azzurro. Poi una densa voluta di vapore turchino iniziò a fuoriuscire dalle placche, come se stessero uscendo da una ciminiera; gli occhi presero a splendere a loro volta, passando dal loro naturale marrone scuro ad un blu zaffiro. Gettò con violenza il megalodonte per terra, facendolo finire sulla terraferma, dove non poteva fuggire. Quindi spalancò la bocca e… un potente e intensissimo getto di energia dal bagliore accecante si scagliò sullo squalo, carbonizzando la sua carne e uccidendolo in pochissimi secondi. La sabbia tutt’intorno si trasformò in vetro per il calore. Il gigantesco animale continuò a sprigionare quel raggio per una decina di secondi, durante i quali il vapore emesso dalle placche usciva con più forza, come se fosse soffiato dalla locomotiva di un treno. Alla fine, il getto si assottigliò fino a sparire e tutte le luci nel corpo della creatura si spensero. Del megalodonte non rimaneva altro che una carcassa annerita e in fiamme sul vetro. Il bestione scosse la testa e, con aria soddisfatta, soffiò buttando fuori una vampata di fumo. Tutti quanti erano sconcertati da quello che stavano guardando. E Sam era più sconvolto che contento dal vedere che, dal primo avvistamento, aveva indovinato.

«Godzilla?!» sobbalzarono.

Infatti era esattamente il Re dei Mostri, una leggenda della cultura popolare dal 1954. Solo che quello era nella vita reale e… molto più basso di com’era nei film: era alto "appena" poco più di una trentina di metri. A tal proposito Helena, per quanto faticasse a pensare a qualunque cosa per lo stupore, riuscì a spiegarselo: era logico che una creatura come Godzilla fosse alta quanto molti dinosauri di ARK. Fosse stato più alto di un titanosauro, la postura eretta l’avrebbe esposto al pericolo di sprofondare sotto il suo stesso peso. Solo… come diamine era possibile che si trovasse lì? Con loro grande sorpresa, Godzilla si avvicinò al tizio di prima, che iniziò a parlargli come gli Arkiani parlavano con affetto alle loro creature.

«È… è domato?!» sobbalzò.

«Credevo che ci fossimo accordati per una battuta di pesca, non per un arrosto di squalo! – scherzò lo sconosciuto, guardando il megalodonte a braccia conserte – Alla fine hai beccato quello grosso, eh, amico? E sei anche riuscito a fare l’eroe!» aggiunse, voltandosi verso il gruppo sconcertato.

Chloe si voltò verso Sam e gli disse:

«Hai decisamente vinto la scommessa»

«Già… a quanto pare…» rispose lui distrattamente, senza guardarla.

«Helena, che razza di mostruosità è quella?» chiese Mei, che intanto aveva sfoderato la spada per istinto.

«Quello… quello dovrebbe essere immaginario! Non credevo di trovarlo qui! Ed è pure domestico!»

Lo sconosciuto, che cominciava ad imbarazzarsi vedendo tanti sguardi puntati su di sé, si avvicinò e disse:

«So cosa state pensando, chiunque altro ha fatto quella faccia, da quando sono qui. Non temete, il mio amico non è pericoloso. Siamo disinfestatori, sa bene quando e cosa attaccare»

Acceber non sapeva cos’era Godzilla, ma ovviamente era senza parole anche lei. Stava abbracciata a Rexar per farsi coraggio, anche se pure il tilacoleo era in soggezione. Laura si fece avanti e trovò la forza di chiedergli come avesse domato il mostro, chiamandolo per nome.

«Non l’ho domato, non si può fare. L’ho ereditato da mio padre, che l’ha ereditato da mio nonno, che l’ha fatto nascere dopo aver portato a casa nostra l’uovo dal Giappone. E tu come fai a sapere come lo chiamò? Solo i miei amici e clienti lo sanno»

«Be’… è famoso!»

«No, non lo è. Cioè, lo è da dove vengo io, perché ha salvato il mondo dal Ghidorah, ma...»

Ogni volta che quel tizio apriva bocca, ci capivano sempre meno. Chi era? Cosa intendeva? Helena si offrì di prenderlo in disparte e farsi raccontare tutto, visto che le sembrava opportuno. Tutti annuirono e andarono un po’ più lontano con le bestie per aiutarle a calmarsi. Notarono, con spavento e dispiacere, che la vecchietta in biglietteria era morta d’infarto alla vista di Godzilla. Helena invitò il Germano a sedersi su una roccia e chiese se poteva fargli qualche domanda per vederci chiaro. Lui sembrava un tipo cortese e disponibile, infatti accettò. Intanto, Godzilla iniziò a spolpare il corpo carbonizzato del megalodonte. Si chiamava Alford ed era un Inglese dal 1495. Questo spiegava alla perfezione lo strano accento "obsoleto" con cui si esprimeva. Ma quello che colpì Helena fu scoprire che non veniva da fuori da ARK. Non lo disse esplicitamente, lo spiegò un po’ alla buona, ma il significato era chiarissimo: era venuto da un altro universo. Solo che per lui l’altro universo era ARK, ovviamente. Helena era tentata di chiedergli come fosse il suo mondo, visto che c’era qualcosa come Godzilla in carne ed ossa, ma resisté e lo tenne per dopo. Gli fece per prima la domanda più importante:

«Allora, come sei arrivato sull’isola?»

«Be’, diciamo che la scoperta fu di mio padre, io l’ho saputo pochi anni fa. È una faccenda personale…»

Le raccontò di aver passato tutta la vita credendo di essere metà inglese e metà hawaiiano, cosa che fece intuire ad Helena che grazie ai Titani (così chiamava i mostri enormi che popolavano il suo mondo) l’umanità aveva scoperto l’interezza del pianeta Terra molto in anticipo rispetto alla nostra realtà: già conoscevano il Pacifico, le Americhe e l’estremo Oriente e ci avevano rapporti regolari, addirittura i Romani avevano costruito loro ambasciate in tutto il mondo per facilitare gli scambi. Aveva passato molti anni alle Hawaii. Ma alcuni anni prima era stato richiamato in Inghilterra per la morte di sua madre. Dopo il funerale e la sepoltura, suo padre gli aveva rivelato una verità sconvolgente: sua madre era scura di pelle non perché era hawaiiana, ma perché veniva da un’isola in un altro mondo che lui aveva casualmente scoperto tramite una porta segreta nascosta fra i blocchi di pietra di Stonehenge, che aveva trovato dopo una cerimonia religiosa tradizionale. Per curiosità, aveva portato Godzilla con sé per esplorare in modo più sicuro l’isola, provocando vari scontri con Kong. In un villaggio conobbe la donna di cui si innamorò e, dopo che nacque Alford, la convinse a seguirlo nel mondo dei Titani. Ora suo padre aveva incaricato il figlio di riportare in patria l’Impianto della Maturità di lei per onorarla.

«Capisco… e l’hai fatto?» chiese Helena.

«Sì. Ora ho una seconda vita qui: voglio riscoprire le mie origini»

«Toglimi un’altra curiosità: sapresti dirmi in che punto dell’isola ti sei ritrovato, dopo il “passaggio”? Che aspetto aveva la porta?»

«Il passaggio visto da questo lato è un enorme portone che si solleva se giri una manopola che ha ad altezza d’uomo, è intagliato in uno scoglio in riva al mare. Sopra c’è il disegno di un simile di Godzilla»

«Molto interessante… grazie!»

«Be', non c'è di che»

Lo ringraziò, dicendo che le era stato di prezioso aiuto, gli augurò buon viaggio e lo guardò mentre tornava da Godzilla e gli saliva sulla schiena, mentre il Titano tornava lentamente in acqua. La nuova scoperta era straordinaria. I Pre-Arkiani non solo conoscevano le tecnologie più avanzate del ventunesimo secolo e il teletrasporto, ma anche il viaggio fra più dimensioni! Il Multiverso esisteva davvero… ed era stato scoperto prorpio lì, su ARK! Probabilmente sempre grazie al Tesoro di Darwin. Se ciò era vero, quello che stavano cercando poteva letteralmente rovesciare da cima a fondo e per sempre tutto il mondo come mai prima di allora. Ma se Darwin aveva taciuto, doveva pur esserci un motivo... l’avrebbero capito solo indagando. Per ora, si godé l’euforia della scoperta e la condivise con gli altri, che furono altrettanto emozionati.

«Sapevo che stare con voi stranieri mi avrebbe aiutata ad imparare cose nuove, ma non così tante!» commentò Acceber.

======================================================================

Recuperare Anitteb non fu facile. Come Drof si aspettava, quando erano tornati all’ingresso della grotta al fiume lei non c’era più. Così lui e Odranreb sprecarono un intero giorno: dodici ore suonate per raggiungerla, più altre dodici per tornare sui loro passi. Gnul-Iat se n’era andato in fretta, quindi per un lungo tratto dalla foresta delle sequoie al Nord delle pianure, le tracce erano chiare e facili da vedere, prima che fossero cancellate. Ma tanto, ormai, era chiaro che andavano a finire nel deserto. Per fortuna, c’era un tipo di pista che l’inseguito non aveva fatto in tempo a nascondere: l’odore. Onracoel conosceva bene l’odore di Gnul-Iat: era stato vicino a lui e ad Acceber per molti anni, quando erano bambini. Il carnotauro li guidò in un percorso insolito, fatto di depressioni e crepacci, attraversato da piccoli rigagnoli. Era una zona piuttosto isolata e coperta da pareti da quasi tutti i lati: l’ideale per l’ennesimo rifugio… o addirittura una base. L’idea di star andando ad attaccare il mostro nella sua dimora mise in tensione Drof, ma gli diede anche un pizzico di speranza: se avessero agito bene, forse avrebbero potuto finalmente liberarsi di lui. Tuttavia, doveva considerare anche un grande rischio: essendo in una zona che Gnul conosceva bene, avrebbero potuto cadere in un’imboscata. Alla fine, quando arrivarono ad una zona circolare dalle pareti attraversate da scanalature concentriche e dove i pochissimi arbusti erano tutti morti, piena di vecchie ossa di creature varie, la Luna sorse per la seconda volta da quando erano partiti: molte bestie erano stanche e anche loro, a dire la verità.

«Ci accampiamo?» chiese Odranreb.

Drof esitò per diversi istanti, ma alla fine accettò.

«Quanto cibo abbiamo ancora?» chiese.

Odranreb fece il giro delle sacche appese alle selle di quasi metà del contingente e scosse la testa mordendosi le labbra con rassegnazione:

«Purtroppo hanno tutti preso colpi belli gravi l’ultima volta: molte borse si sono rotte, è uscito tutto. Gran parte di quel che resta è solo per loro»

«Ho capito: stanotte si va a caccia. Ci penso io. Resta sempre vigile: se vieni attaccato, fai gridare lo yutiranno per chiamarmi»

«Non serve che me lo dica, cugino! Rilassati!»

«Non si è mai troppo cauti»

Quindi prese un gruppo di carnivori con sé, si salutarono e il padre di Acceber si avviò per il bel mezzo della regione desertica.

------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Sotark stava strigliando e dando da mangiare alle bestie quando uno dei dimorfodonti che avevano mandato a sorvegliare i dintorni della base entrò nella grotta che usavano come stalla strillando. Sapendo cosa voleva dire, andò ad avvertire il suo socio: lo trovò nella minuscola baracca in legno e paglia che aveva costruito sui rami di un vecchio baobab qualche mese dopo aver allestito la base, anni prima. Salì sulla scaletta che portava all’ingresso e aprì la porta, ma senza entrare perché Gnul-Iat gliel’aveva proibito, pena lo scorticamento e un bagno con gli elettrofori. Lo vide accucciato in un angolo, come suo solito: usando un dente di barionice, stava intagliando una statuetta in legno di Acceber... l’ultima di una lunghissima collezione che occupava quasi tutto l’interno della casupola. Gnul non stava indossando la bandana: l’aveva appoggiata sull’altarino accanto a lui, sul quale troneggiava una tela ingiallita su cui aveva disegnato un ritratto di sua madre incidendosi i polpastrelli e tracciando i lineamenti col sangue. In realtà, la bandana era un lembo dell’abito che Yram Ydorb indossava il giorno in cui era morta: si era squarciato e tinto di rosso quando il tilacoleo l’aveva sgozzata. E Gnul aveva visto ogni singolo dettaglio. Sotark si sentiva profondamente triste per lui ogni volta che lo vedeva così: quella casetta era il fulcro di tutta la sua follia, la rappresentazione concreta di quanto la sua mente era stata rovinata da quella perdita. Era un mostro creato da una tragedia, che spezzava la vita altrui per distrarsi dalla sofferenza.

«Tuo padre sta arrivando» disse Sotark.

«Già, com’era ovvio» rispose Gnul, con tono apatico, senza sollevare la testa.

«Ti dico subito che questa volta io non vengo»

Ora, Gnul lo guardò, vagamente sorpreso:

«Ah, sì?»

«Sì. Comincio a stancarmi delle nostre “imprese”, non riesco più a rimanere indifferente. Se vuoi uccidermi per punirmi, sappi che non ti darà soddisfazione: non ho paura della morte»

Ma ora toccò a lui farsi sorprendere dalla risposta del compagno:

«No, non ti preoccupare: tanto ti avrei detto io di non venire»

«Cosa?»

«Oggi mi sento diverso. Sento che la cosa sta diventando sempre più… personale, anche se lo è sempre stata. Non ho alcun’intenzione di fare il pagliaccio, questa volta»

«Oh… dunque te ne sei sempre reso conto?»

«Che facevo il pagliaccio? Certo, è una scelta di stile. Le esecuzioni mi vengono meglio, così… ma ho scoperto che quando si trattava di mio padre, mia sorella e Odranreb mi sentivo male a farlo. Anzi, se ora ripenso a tutta la sceneggiata che ho fatto con La Spettacolare Morte di Acceber, muoio di vergogna»

«Capisco. Va bene, io torno dalle bestie»

Gnul-Iat rimase lassù finché finì la nuova statuetta. Quindi scese con calma, prese le armi dalla rimessa degli attrezzi da tortura e chiamò metà delle creature nella base. A questo punto, avviò la prima fase dell’operazione d’emergenza che teneva sempre in serbo in caso di “invasione”: era notte, quindi prese tre megalosauri che aveva chiamato come le tre emozioni che gli piaceva di più incutere nelle sue vittime e li mandò avanti prima di tutto il contingente. Il loro scopo era attaccare i nemici da tre lati diversi e fingere di combattere per iniziare a togliere le forze alle creature, in modo che lui partisse già in vantaggio. Mentre li osservava allontanarsi, Gnul giurò a se stesso che almeno uno dei due parenti sarebbe morto, quella notte… in particolare uno.

------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Rimasto solo, Odranreb aveva deciso di iniziare a cucinare qualcosa di quello che era rimasto per sé e Drof, così il ricavato della caccia sarebbe diventato una scorta. Allestì un fuoco da campo, prese due cosce di fiomia dalle sacche di un diatrima, le infilzò in un ramo che usò come spiedo e iniziò a girarle lentamente sulle fiamme. Rimase lì così per mezz’ora, quasi tutto il tempo che serviva alla carne per caramellarsi fuori e ammorbidirsi dentro. Ma la quiete fu improvvisamente interrotta quando, da Est, provenne in ruggito di un megalosauro. Il cugino di Drof sospettò subito che dietro ci fosse Gnul-Iat, ma decise di aspettare a darlo per certo: nel deserto non erano rari, i megalosauri vagabondi. Per sicurezza, tolse la carne dal fuoco e prese un arco. Mandò un terizinosauro a controllare. Prima che il terizinosauro si avvicinasse alla parete, il megalosauro si mostrò sul bordo della sporgenza, ruggì e corse via. Allora molte delle creature lì vicine, spontaneamente, scalarono quel crinale e lo inseguirono, allontanandosi.

«Ma che fate? Tornate qui!» Odranreb le richiamò con un fischio.

Ma, contemporaneamente, altri due megalosauri avevano fatto lo stesso scherzo anche alle altre cavalcature su fronti diversi, ingannandoli a loro volta. Rimasero solo Anitteb e qualche animale più sonnecchioso di tutti gli altri. Per fortuna, Odranreb riuscì a bloccarli e ad imporre loro di tonare. Ma ormai erano sparsi e non più concentrati lì dentro… il che permise al proprietario dei tre megalosauri di fare la sua mossa. Uno alla volta, avvolti dalla più totale oscurità perché il cielo era velato e la Luna non faceva luce, gli animali furono assaltati e massacrati da figure che si erano avvicinate inosservate dopo averli circondati, seguendo i megalosauri.

“Oh, no!” pensò Odranreb.

Iniziò a correre verso lo yutiranno ma, prima che gli ordinasse di lanciare l’allarme, un dardo sparato dal cielo lo colpì sul muso. Il dinosauro piumato barcollò, intontito, poi pestò la testa contro la parete e perse i sensi. Ci voleva tanta, ma davvero tanta biotossina per stendere una creatura della sua taglia così in fretta. Intanto, la carneficina continuava: un triceratopo fu ucciso in pochi secondi da una muta di metalupi senza che potesse fare niente per difendersi, un mammut fu atterrato e soffocato dalla mascella di ferro di un tirannosauro, due kaprosuchi furono schiacciati da un paraceraterio, uno pteranodonte fu sbattuto a terra e squartato ad artigliate da un argentavis… era un vero scempio e il problema era che nessuna delle cavalcature riusciva ad avviare un contrattacco. Odranreb, assolutamente deciso a rovesciare le sorti della battaglia, corse da Anitteb e montò in sella. Il giganotosauro ruggì e si avviò verso una delle uscite dello spiazzo, con l’intenzione di arrampicarsi oltre le pareti dov’erano meno alte per unirsi alla battaglia e fare una carneficina. Ma il nemico aveva un piano anche per quello: prima che varcasse il passaggio, passò un tapejiara che stringeva qualcosa fra le zampe. Odranreb strizzò gli occhi per vedere bene cos’era e riconobbe un barile da cui stava rovesciando una sostanza biancastra e densa come melassa. Poi Gnul-Iat, che cavalcava il tapejara, accese una torcia e la buttò a terra. Un muro di fiamme si alzò da terra, bloccando il passaggio e facendo indietreggiare Anitteb con un ruggito di sorpresa. Odranreb capì: era grasso di basilosauro, una delle sostanze organiche più infiammabili sull’isola. Un argentavis versò il combustibile a sua volta sull’altro varco e Gnul-Iat volò ad incendiare anche quello. Aveva allenato i suoi volatili per anni per fare quella specifica azione.

Le creature rimaste dentro erano bloccate, ma il fuoco diede anche un vantaggio al loro contingente: con la luce delle fiamme, poterono finalmente vedere con più chiarezza intorno a loro e presero a rispondere agli attacchi. Ora anche Gnul-Iat cominciava a perdere delle creature, lo scontro si fece più equilibrato. Improvvisamente, un tirannosauro e uno spinosauro scesero dal crinale e sfidarono Anitteb: il primo le si avvicinò alle spalle, il secondo da davanti. Anitteb, ruggendo, caricò e afferrò subito il collo dello spinosauro, sbattendolo a terra. Ma il tirannosauro le afferrò la caviglia e strattonò all’indietro, facendole perdere l’equilibrio e la presa. Lo spinosauro si rialzò e le azzannò il collo, graffiandole il petto con gli artigli nel mentre. Anitteb si liberò del tirannosauro colpendogli il muso con la coda e si voltò di scatto per scrollarsi lo spinosauro di dosso, ma quello resisté. Odranreb si reggeva alle redini e le manipolava  con maestria, ma all’improvviso fu colpito in testa da un sasso. Cadde a terra e sentì alcune ossa scricchiolare, la testa gli fischiò. Si alzò molto lentamente e sempre con l’arco pronto, guardando Anitteb che continuava a tenere testa senza cedere ai due predatori. Poi sentì una voce familiare dietro di sé: era molto più seria delle due volte che l’aveva già sentita, più fredda.

«Zio Odranreb, ci rivediamo…»

Si voltò e mirò alla testa di Gnul-Iat, che lo fissava immobile a tre metri di distanza. Era sceso dal tapejara e lo fissava con aria spaventosamente seria; stava impugnando una lancia. Odranreb scoccò ma, proprio come temeva, la freccia fu schivata. Ma, in compenso, trapassò la gola del tapejara dietro di lui e lo uccise. Gnul, con gli occhi sgranati, si voltò e lo fissò dissanguarsi.

«Ma che… diamine! L’ho domato appena un mese fa!»

«Quella freccia era per te»

«Torniamo a noi. Speravo che mio padre fosse assente: se uccidessi lui, risolverei un problema. Ma se invece uccido te… sarà ancora più profondo passare a lui una volta che sarà stato consumato dal senso di colpa»

«Non contarci!»

Odranreb fischiò e chiamò un metaorso e il mammifero attaccò Gnul da sinistra. Ma il Ladro di Innesti rotolò all’indietro per schivare la sua potente zampata; rialzatosi, prese anche il suo fidato falcetto, che gli pendeva alla cintura, e rispose all’assalto: prendendo la rincorsa, ferì una zampa del metaorso affondandovi la punta della lancia e lo fece cadere. Quindi, mentre il plantigrado era a terra, gli infilzò un occhio con il falcetto, arrivando al cervello. Odranreb era senza parole: la prontezza di riflessi di suo nipote sembrava quasi sovrumana. Vedendo il suo stupore, il ragazzo spiegò che era tutto merito di Drof, che aveva allenato lui e Acceber nella natura selvaggia con gli animali più letali fin quando erano piccoli. Un gemito e il fragore di molte ossa rotte attirò la loro attenzione ed entrambi si voltarono a guardare: Anitteb era riuscita ad uccidere il tirannosauro; gli aveva afferrato la testa e spezzato il collo. Lo spinosauro, invece, era stato ferito alle zampe. Odranreb si riscosse e scoccò un’altra freccia, ma Gnul cominciò a correre agilmente intorno a lui per impedirgli di mirare bene e poi si avvicinò, provando a trafiggerlo con un affondo della lancia. Odranreb schivò il colpo saltando di lato e scoccò un’altra freccia. Con grande soddisfazione, riuscì a ferire di striscio il fianco destro del nipote, che non fu abbastanza rapido. Gnul guardò le gocce di sangue sporcare lentamente la sua veste in tessuto leggero e Odranreb ne approfittò per cercare di colpirlo ancora, ma l’avversario partì di scatto con un fendente del falcetto che gli sfregiò la faccia: ed ecco una nuova cicatrice che andava ad aggiungersi a quelle che aveva in viso. Mentre Anitteb tirava una codata allo spinosauro, Gnul si preparò a partire alla carica con la lancia, ma entrambi furono interrotti da un grido: era la voce di Drof, che era stato messo in allarme dalla luce delle fiamme vista in lontananza.

«Gnul-Iat!»

Drof, in piedi in equilibrio sulla sella di Onracoel, prese una lancia e la tirò verso Gnul, che la evitò tuffandosi di lato. Drof si rimise seduto e fece partire il carnotauro alla carica. Raggiunsero l’avversario in un lampo, ma lui rotolò via all’ultimo. Il carnotauro inchiodò, si girò e provò ancora, ma Gnul-Iat frugò in un sacchetto che aveva alla cintura, gettò della polvere arancione spargendola nell’aria e, velocissimo, prese un acciarino e lo sfregò contro la lama del falcetto. Ci furono delle scintille e un’esplosione abbagliò e assordò Onracoel: polvere pirica preparata con mortaio e pestello, spesso usata in quel modo dai cacciatori arkiani più tattici per disorientare gli animali. Il carnotauro tentennò e scosse la testa, per cui Gnul ne approfittò e gli punse la zampa con la lancia. Dal dolore, il dinosauro indietreggiò e, come se non bastasse, un calicoterio intervenne e gli tirò una spallata. Drof cadde a terra, mentre le due creature cominciavano a combattere fra loro. Il calicoterio finse di correre via, facendosi seguire da Onracoel, raggiunse un sasso e glielo lanciò in testa. Mentre il carnotauro era stordito, il mammifero lo graffiò al collo, lasciando delle rigature. Onracoel si infuriò e, abbassata la testa, lo investì e lo spinse a forza fino a fargli sbattere la schiena contro il muro, poi gli afferrò la gola e la tagliò coi denti. Per un attimo, tutti gli animali presenti sobbalzarono, spaventati da un tonfo, e guardarono cos'era stato: Anitteb era riuscita a scaraventare lo spinosauro a terra; quindi gli calpestò la testa con forza, sfondandola. Ma fu attaccata da un nuovo tirannosauro...

Gnul-Iat sapeva bene che sarebbe venuta a difendere il padrone, se avesse ucciso anche quello. Inoltre, vedere che le sue creature cominciavano a venire ammazzate una ad una lo preoccupava: decise di farla finita. Drof prese un’ascia e iniziò a sferrare una serie di colpi con l’aiuto del cugino. Gnul ebbe difficoltà a schivare e deflettere tutti gli attacchi e, alla fine, suo padre riuscì a rompere in due il falcetto, con cui si stava facendo scudo. Gnul sudò freddo quando perse l’equilibrio: era stato esposto. Drof vide l’apertura e preparò il colpo di grazia, ma mentre sollevava l’ascia Gnul-Iat fischiò. Drof gracchiare e, improvvisamente, fu investito da un ciclone di piume, artigli e calci in faccia: un microraptor gli era saltato in testa. Spontaneamente, mollò l’ascia e cominciò a ripararsi il viso con le mani per non farsi cavare gli occhi, mentre il piccolo dinosauro piumato schizzava da tutte le parti: ora era a terra, ora sulla sua faccia, ora dietro di lui, ora affondava gli artigli nella sua schiena, ora gli mordeva una caviglia… proprio a quel punto, Drof ne approfittò per scuotere la gamba e calciarlo via. Il microraptor rotolò nella polvere e, prima che si alzasse, lui gli saltò letteralmente addosso, lo afferrò per il collo e glielo tirò, come se fosse un dodo da arrostire. Si tolse piume, polvere e sangue dalla faccia e corse a recuperare la sua ascia.

Ma, quando la prese in mano, sentì un gemito alle sue spalle. Terrorizzato all’idea di cosa potesse essere accaduto, si girò e vide Odranreb, inginocchiato… e impalato dalla lancia di Gnul-Iat. Muovendo con odio lo sguardo sul volto del figlio, si soprese di vederlo fissare la vittima con serietà gelida, anziché con le sue solite smorfie provocatorie. Era l’occasione perfetta per attaccare, ma no: l’orrore l’aveva pietrificato e ora stava immobile come una statua, coi lineamenti contratti in un’espressione disgustata e inorridita, mentre la battaglia infuriava intorno a lui. Gnul-Iat sfilò l’alabarda e un getto di sangue piovve dalla bocca e dal petto di Odranreb. A quel punto, Gnul sollevò il falcetto e, con un colpo preciso, gli recise la gola. Tutte le creature di Odranreb, vedendolo cadere a terra senza vita, si voltarono per un secondo per guadarlo, interrompendo lo scontro. Anche Anitteb, che stava per uccidere il tirannosauro, si girò a fissarla. In tutti loro, per quanto fossero animali, si poteva vedere che erano sconvolti. Questo riportò Drof alla realtà e sentì un fuoco ardergli nell’anima: aveva fallito di nuovo. Non aveva saputo impedire che suo figlio diventasse un mostro otto anni prima, non aveva potuto fare niente per le dozzine di persone che erano morte per la follia del Ladro di Innesti, aveva fallito più e più volte cercando di proteggere Acceber, tutto quello che gli rimaneva, e adesso non aveva salvato suo cugino. E il peggio era che Odranreb era morto anche per colpa sua: era lui che, cercando aiuto, l’aveva trascinato in tutta questa faccenda. E adesso era stato ucciso. Tutti questi pensieri lo fecero impazzire. Gridando, partì di corsa all’impazzata e, con una foga che avrebbe fatto invidia ad un rinoceronte lanoso alla carica, placcò Gnul e lo buttò a terra, facendogli perdere le armi.

«Ti ammazzo! Ti ammazzo! Dannato mostro! Io ti ho generato, io ti distruggerò!» gridò, con le lacrime agli occhi per la disperazione e la rabbia.

Tenendolo fermo a terra, con la mano sinistra gli strinse la gola e con la destra lo tempestò di pugni, i più forti che avesse mai tirato in tutta la sua vita. Ad ogni colpo, metteva più energia nel successivo. Lo colpì in faccia una, due, tre, quattro, cinque volte… Gnul-Iat cercò di liberarsi rotolando e invertendo le posizioni, ma prima che potesse bloccarlo a terra Drof lo respinse con un calcio nello stomaco; gli afferrò le spalle e lo stordì con una testata. Guardò dove aveva lasciato l’accetta, desideroso più che mai di tagliargli la testa, ma l’arma non c’era più: qualche creatura doveva averla scalciata via lottando, facendola finire tra la mischia.

«D’accordo, lo farò con le mie mani!» esclamò.

Ma si voltò appena in tempo per vedere suo figlio che, di nuovo armato di lancia, provava a trafiggerlo. Con un balzo e tirando all’interno l’addome, riuscì a schivare e l’affondo andò a vuoto. Così Drof afferrò la punta e i due iniziarono a contendersela.

«Non ti permetterò di uccidermi, padre! Non finché lei è ancora viva!» esclamò Gnul, digrignando i denti, con lo sguardo che traboccava di follia.

«Tu non le farai niente!»

Con un ultimo strattone, Drof riuscì a prendere la lancia e tirò una ginocchiata sul naso di Gnul-Iat. Si rigirò l’arma tra le mani e, mentre Gnul cadeva in ginocchio, rivolse la punta in bassò e la sollevò per infilzarlo. Ma Gnul-Iat rotolò di lato e l’asta si conficcò nel terreno; Drof non riuscì più a liberarla. Allora si gettò di nuovo sul figlio e, dopo aver serrato tutte e dieci le dita sulla sua gola, iniziò a stringere con tutte le sue forze. La fronte gli sudava, le braccia tremavano, i tendini sporgevano a fior di pelle, le nocche sbiancavano. Lentamente, Gnul cominciò a perdere il respiro e ad opporre sempre meno resistenza. Ce la stava facendo… era vicinissimo alla vittoria… ancora pochi secondi… ma la sorte decise ancora una volta di rovinargli tutto: sentì dei dolori atroci alla schiena, come se una decina di coltelli l’avesse punto, fu sollevato per aria e buttato più lontano. Si schiantò al suolo, perdendo il fiato per un secondo. Molto a fatica, si mise seduto e capì: la femmina di allosauro di Gnul era intervenuta a salvare il suo padrone; l’aveva afferrato con la punta della bocca e buttato via. Sempre quel dannato allosauro… e adesso, per giunta, gli stava correndo incontro a bocca spalancata.

Drof vide tutto come al rallentatore e, nel mentre, pensò con amarezza a tutte le promesse che non era riuscito a mantenere. La bocca rossa dell’allosauro era a pochi metri, ormai. Ma un’ombra imponente si scagliò sull’allosauro, gli afferrò il collo e glielo ruppe con una semplice stretta: Anitteb. Il giganotosauro, più rabbioso e inarrestabile che mai, tenne in bocca l’allosauro e cominciò ad usarlo come mazza per spazzare via tutto e tutti. Tutte le creature alleate tornarono nello spazio per farsi proteggere da lei, mentre i nemici venivano massacrati e sbattuti via in pochi secondi. Gnul-Iat, ancora una volta, cedette e decise di interrompere tutto. Drof sentì la sua voce:

«Stupenda battaglia, padre! Stupenda! Non vedo l'ora della prossima volta… e presto o tardi toccherà a lei!»

Chiamò uno pteranodonte con una sella piena di sacche e borse e, balzato agilmente sul suo dorso, si librò in volo. Fischiò, ordinando la ritirata collettiva. Drof, infuriato, corse sotto lo pteranodonte e fece per chiamare un altro volatile… ma Gnul tirò fuori una cerbottana da una delle bisacce e soffiò un altro dardo alla biotossina, lo centrò al collo. Se prima si sentiva come se avesse potuto abbattere i muri a pugni, ora Drof era fiacchissimo e non si reggeva in piedi. Era frustrante: ancora una volta, Gnul-Iat si era dileguato coi suoi sporchi trucchi.

«No… non la ucciderai… non puoi…» riuscì a biascicare, prima di addormentarsi.

-------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Quando si svegliò, era l’alba e aveva mal di testa. Era circondato dalle creature del suo contingente, mentre le cavalcature di Odranreb mancavano stranamente all’appello. Si alzò e guardò in giro: non era più nello spiazzo. Era in una zona più vasta e piena di edifici, il terreno era zeppo di impronte di animali. C’era odore di morte. Ci volle poco a capire che si trattava della base di Gnul-Iat, che però ormai era abbandonata. Con tristezza, diede dei buffetti al muso di Onracoel e iniziò a guardarsi in giro. Non trovò niente di particolare in quelle che prima erano le stalle, ma alle radici di un baobab con una casetta vide un oggetto particolare. Si avvicinò, spinto da un’insolita curiosità, e si portò una mano alla bocca dall’angoscia. Era il ritratto fatto col sangue di un viso che avrebbe distinto fra mille: il viso della sua amata Yram. Notò che accanto al disegno c’erano due oggetti: una statuetta che ricordava Acceber, il che aumentò ancora di più l’angoscia, e una lettera. Prese il pezzo di carta straccia e lesse:

 

“Lurida bestia!” pensò Drof, resistendo per poco all’impulso di accartocciare il messaggio.

Prossimo a piangere, guardò il volto sorridente di Yram. Si inginocchiò e passò le dita sulle sue guance, su cui Gnul aveva appoggiato più volte le nocche insanguinate per rappresentare il rossore delle gote.

“Non lascerò che torca un capello a nostra figlia, Yram. Lo giuro! Lui morirà. È nostro figlio, ma non ho scelta: Acceber non uscirà mai da quest’incubo finché lui respira” pensò, rialzandosi.

Mise via la lettera e la statuina di Acceber, quindi tornò da Onracoel a passo deciso.

«Coraggio, amico mio: ci attende un altro lungo viaggio. Ma prima seppelliamo Odranreb: se lo merita» disse.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > ARK: Survival Evolved / Vai alla pagina dell'autore: Roberto Turati