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Autore: Adeia Di Elferas    12/08/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il cielo si era scurito quasi all'improvviso e, mentre la Sforza ancora duellava nel cortile della rocca di Forlimpopoli con quelli che secondo suo fratello Piero erano tra i migliori soldati a sua disposizione, si erano sentiti i primi tuoni, mentre imponenti fulmini squarciavano l'orizzonte con baleni accecanti.

“Chiudiamola qui.” aveva ordinato la Tigre, mentre le prime gocce di pioggia fredda le rendevano difficile vedere chi aveva davanti.

Era un temporale a tutti gli effetti, molto più simile a un'acquazzone primaverile che a una precipitazione di inizio autunno. Gli uomini che si stavano addestrando con la Contessa la seguirono senza indugio al riparo del porticato, cominciando a scambiarsi battute e impressioni su quella sessione di allenamento.

“Sei brava, con i soldati...” le disse il Landriani, mentre salivano al piano di sopra, passandole un telo per asciugarsi i capelli: “Li capisci e tiri fuori il meglio da loro.”

Caterina avrebbe voluto rifiutare quella stoffa, dato che la sua chioma, lunga e bianca, si era sì e no inumidita, ma l'accetto ugualmente, in segno di riconoscimento verso il fratello.

“Dicono sia la mia unica qualità.” commentò lei, un po' dolente: “Sarebbe bello essere altrettanto brava in altri ambiti.”

Piero non volle darle corda e così, virando verso il suo studiolo, propose: “Faccio portare la cena da me, così mangiamo in pace?”

La donna annuì, ben felice di potersi già mettere a tavola. Era ancora presto, ma il roboante fortunale che si stava abbattendo su di loro le stava facendo desiderare un posto tranquillo e sicuro dove riempire lo stomaco.

Il Landriani, che evidentemente la pensava un po' come lei, fece sistemare sulla scrivania una buona selezione di salumi, salse, formaggi e due tondi di maccheroni alle verdure. Forse, pensò subito, quando incrociò gli occhi verdi della Sforza, quello sfoggio di provviste era eccessivo, visti i tempi, ma era suo desiderio far sì che lei si trovasse bene e che, magari spinta anche da momenti come quello, decidesse di tornare a trovarlo ancora, prima della fine.

Cenarono con calma, centellinando il vino e dividendosi con tacita parsimonia le pietanze più pregiate. Restarono in silenzio quasi tutto il tempo, senza, però, che l'assenza di chiacchiere pesasse su nessuno dei due.

La Leonessa rivedeva negli occhi chiari e nella forma del viso del fratello quelli della madre e, parimenti, lui riconosceva nella sorella l'aura indefinibile di fascino che Lucrezia aveva emanato per tutto il corso della sua vita.

Allo stesso modo, pur non volendo lasciarsi cogliere da facili sentimentalismi, si misero a ricordare anche Bianca, la loro sorella comune, morta nel tentativo di dare alla luce una figlia, scorgendo ciascuno nell'altro dei dettagli e delle sfumature che le erano state proprie.

“Ti fermi per la notte?” chiese a un certo punto Piero, mandando giù l'ultimo pezzetto di salamino assieme a un lungo sorso di vino rosso.

“Con questo tempo...” soppesò la Tigre che, all'inizio, aveva pensato di rientrare a Forlì in serata.

“Vuoi che ti mandi ancora il mio stalliere?” domandò il giovane, con una naturalezza che Caterina volle scambiare solo per cortesia e non per sfacciataggine.

In fondo, loro due si erano sempre parlati in modo estremamente franco, specie quando si trattava di quel genere di argomenti. Sarebbe stato, casomai, fuori luogo se il Landriani fosse stato vago o avesse parlato per metafore.

“No.” rispose in fretta la Contessa, che aveva deciso quella mattina stessa che, se anche si fosse fermata più del previsto, non avrebbe più cercato la compagnia di un uomo lì.

Il fratello parve sorpreso, e, facendosi serio, corrugò la fronte chiedendo: “Ha fatto qualcosa che non doveva?”

La Leonessa ripensò a quella notte e agli scampoli di ricordi che le si erano impressi in mente. Si rivide tra le braccia dello stalliere, risentì le sue parole sussurrate con vago timore all'orecchio e avvertì l'eco della passione che quel ragazzo aveva messo nell'amarla.

“No, non ha fatto nulla di sbagliato. Anzi.” si schermì lei, prendendo il calice, per vuotarlo: “Solo non ne ho voglia.”

Piero non pareva troppo convinto, tanto che chiarì: “Se si è permesso di mancarti di rispetto in qualche modo, fammelo sapere e vedrai che non si azzarderà mai più.”

“Ho detto che non ha fatto nulla. Solo, preferisco restare sola.” quella seconda ammissione, detta con voce più accorata, venne recepita meglio dal giovane castellano che, non trovando altro da ribattere, sollevò appena una mano a mo' di scusa.

Proprio mentre un tuono fortissimo faceva vibrare un po' la finestra, Caterina si alzò e annunciò, con un sospiro: “Vado a dormire. Domattina voglio alzarmi presto.”

Il fratello disse che avrebbe fatto altrettanto e, dopo averla ringraziata ancora una volta per i consigli che gli aveva dato quel giorno, mentre controllavano le truppe e l'artiglieria in dotazione alla rocca, disse: “Stamattina ho scritto a mio padre, per spiegargli tutta la questione di Naldi. Sto aspettando una sua risposta, ma sono certo che sarà felice di poter uscire da quella rocca.”

La Tigre ebbe la tentazione di chiedere a Piero se anche lui desiderasse sentirsi libero dalle catene invisibili che lei stessa gli aveva messo, nominandolo castellano di Forlimpopoli. Le sembrava ancora così giovane e pieno di vita, che pensarlo destinato a morire tra quelle quattro mura le dava un profondo senso di smarrimento.

Però desistette. Averlo dalla sua parte la faceva sentire meglio. Era egoismo, il suo, lo capiva, ma era così felice di poter dire che suo fratello combatteva per lei e con lei, che non aveva alcuna voglia di indurlo a retrocedere proprio a un passo dal momento più difficile.

“Dormi bene.” gli disse, con una breve carezza alla guancia ruvida di barba bionda.

Rimasta sola nella stanza che ormai aveva imparato a conoscere, la Contessa passò qualche tempo a sbirciare fuori, cercando intravedere, tra le saette, ciò che la notte voleva celarle. L'ispezione alle truppe fatta quel giorno l'aveva lasciata ben impressionata. La rocca non era molto fornita, ma Piero era stato molto abile a creare un gruppo compatto ed efficiente di soldati.

Non era stata ferma un momento, controllando tutto, discutendo con suo fratello e coi Capitani, esponendo in modo puntiglioso i piani futuri e infondendo – almeno così le era parso – coraggio anche in quelli che stavano per vacillare dinnanzi a una simile impresa.

Tuttavia, non appena si era fermata, la sua ombra era tornata a tormentarla.

Lasciando la finestra, si andò a mettere sul letto. Seduta sopra il lenzuolo, si spogliò stancamente, gli occhi che inseguivano le fiammelle della candele. Il rumore scrosciante della pioggia era il sottofondo perfetto per il lavorio incessante del suo cervello, ma per la sua anima c'era ancora troppo silenzio.

Provò a coricarsi. Arrivò anche a chiudere gli occhi, sentendo la cena e il vino che si rimescolavano nel suo stomaco, ma non riusciva a calmarsi abbastanza da prendere sonno.

Lasciò passare a quel modo un paio d'ore, fino a capire che il problema principale, a quel punto, stava nell'essere lì da sola. Il suo istinto avrebbe voluto vederla andare alle stalle e reclamare ancora per sé l'amante che aveva già fatto suo la notte precedente. Ma il suo raziocinio no, ed era quello che voleva seguire.

Il temporale sembrava essersi appena affievolito, mentre il buio era pressoché totale. Non c'erano più lampi e probabilmente non ce ne sarebbero stati più.

Alla fine, non resistendo più, la donna lasciò il suo giaciglio e, rivestendosi in fretta, uscì, diretta all'alloggio di suo fratello. Bussò un paio di volte, e alla fine un Piero assonnato, ma abbastanza vigile, corse ad aprirle in vestaglione da notte.

“Caterina...” disse, scosso: “Ma è successo qualcosa?”

“Me ne vado.” rispose lei, sperando di non dover dare tante spiegazioni.

Il Landriani si accigliò e poi, udendo ancora i rumori dell'acquazzone ben distinguibili nella pace della notte, chiese: “Sei sicura di voler andartene adesso?”

“Se parto ora, in poco più di due ore sarò a Ravaldino.” spiegò lei, fingendo che dietro alla sua decisione ci fosse un calcolo ragionato: “Così potrò occuparmi della colonna da dare a Naldi...”

L'altro non si bevve quella giustificazione, ma l'assecondò: “Va bene. Ti accompagno alle stalle...”

“Non è necessario.” tagliò corto lei, che desiderava solo montare in sella e cavalcare fino a casa.

“Lo è.” la zittì lui, guardandola di sottecchi.

La Leonessa attese con impazienza che il fratello si rivestisse e poi, abbastanza docilmente, si lasciò scortare fino ai cavalli. Fece preparare il suo stallone nero e poi, dopo aver abbracciato stretto a sé Piero e avergli sussurrato un rapido 'grazie di tutto', montò e partì, incurante della pioggia che la stava già infradiciando.

 

Paolo Vitelli non riusciva a prendere sonno. Era passata da un pezzo mezzanotte, anzi, si poteva dire che non mancasse troppo all'aurora, eppure il condottiero aveva ancora gli occhi spalancati e fissi.

L'arrivo al campo di Braccio Martelli e Antonio Canigiani l'aveva raggelato. I due emissari della Signoria si erano presentati al suo cospetto quasi con vergogna, il giorno prima, dicendogli che Firenze aveva deciso di ordinare il suo arresto.

L'uomo, con pacatezza, aveva chiesto i motivi di una simile decisione e, non sapeva dire bene nemmeno lui come mai, tanto Martelli quanto Canigiani si erano azzittiti e avevano preso tempo, offrendosi di chiedere spiegazioni direttamente alla Repubblica, in modo da poterlo catturare dandogli una valida spiegazione.

Sul momento, Paolo era stato raggiante, per quell'inatteso risvolto della fortuna, ma subito dopo, incrociando per caso, vicino al suo padiglione, Ranuccio da Marciano, con occhi cupi e labbra serrate e livide, aveva capito che quello era solo un avvertimento.

E così aveva cominciato a ragionare, finendo per farsi convinto che sarebbe arrivato anche qualcun altro, qualcuno di molto più deciso a metterlo in catene. E, da un momento con l'altro, Vicopisano non gli era più sembrato un posto sicuro.

Ci aveva messo tutta notte, ma alla fine si era risolto a scrivere una breve lettera a degli amici che aveva a Cascina. Non era molto distante e avrebbe potuto godere, verosimilmente, di una certa protezione. Era un tentativo, e doveva farlo.

Con la coperta sulle spalle, ancora seduto sul suo sgabellino da campo, Vitelli si chiese come avesse potuto finire a quel modo e, mentre si alzava per cominciare a riordinare le sue cose, deciso a partire non appena fosse sorto il sole, provò a non pensare ai risvolti di quella che, agli occhi di Firenze, sarebbe stata vista come una fuga.

Avrebbe potuto restare lì dov'era, e aspettare queste fantomatiche spiegazioni che secondo Martelli e Canigiani sarebbero arrivate a breve. Oppure poteva provare a far valere ancora una volta il suo nome e la sua gloriosa carriera.

Con un sospiro pesante, Paolo mise da parte le sue armi, raggruppò i suoi pochi bagagli e poi si vestì. Soppesò il suo spadone e, con una fatica che andava ben oltre quella del fisico debilitato dalla malaria, se lo sistemò in vita, con una cura indicibile, quasi che fosse convinto che quella fosse l'ultima volta in cui lo faceva.

 

La pioggia, fitta e abbastanza fredda, era stata la fedele compagna di viaggio della Tigre fino al suo arrivo a Ravaldino.

Si sentiva bagnata fino al midollo e un brivido tutto particolare l'attraversava come una scossa. Si sentiva un'irresponsabile, per quella cavalcata. Avrebbe potuto aspettare il giorno, tanto per dirne una, evitando di percorrere una strada buia e pericolosa avendo come unica protezione la sua spada al fianco e il pugnale nascosto sotto le gonne, e, cosa ancor più importante, avrebbe potuto attendere che spiovesse.

“Gli avete fatto prendere un bel temporale...” disse uno degli stallieri, quando, con uno sbadiglio, le era arrivato incontro per prendere in consegna il purosangue.

L'animale nitrì, quasi a dare ragione al ragazzo, ma la Contessa liquidò la faccenda con un cenno della mano e una pacca sul manto lucido della sua bestia prediletta: “Un po' d'acqua gli ha fatto solo bene. Magari l'ha fatto sbollire un po'.”

Lo stalliere ridacchiò, pensando che forse la Tigre aveva ragione e sperando che lo stallone si dimostrasse davvero un po' più docile del consueto, nel farsi togliere i finimenti e strigliare.

“Mentre ero via è successo qualcosa?” chiese Caterina, prima di lasciare l'odore dello stallatico e del fieno, che, con quell'umidità, sembrava ingigantirsi.

“Non che io sappia.” ribatté il giovane, cominciando ad armeggiare con il cavallo, che, malgrado le premesse, sembrava ancor meno collaborante del solito: “Ma nessuno dice le cose che contano a uno come me.”

La Sforza gli diede silenziosamente ragione e, con un breve saluto, uscì dalla stalla. Non doveva mancare più di un'ora all'alba, e non aveva alcuna voglia di andare a dormire. Poteva quasi sentire il suo medico personale che la rimproverava, paterno, della sua sconsiderata noncuranza. Le aveva detto e ridetto migliaia di volte che era necessario che ritrovasse una regola, sia nel sonno sia in tutto il resto, ma di fatto la Tigre non aveva fatto alcuno sforzo concreto per seguire il consiglio.

Decise di passare quel che restava della notte suo camminamenti, per poi cercare il castellano e aggiornarlo sul fatto che Piero avesse già comunicato al Landriani di Imola le sue disposizioni.

Accorgendosi, però, delle goccioline che lasciava in terra per colpa dell'abito e dei capelli, si disse comunque che sarebbe stato opportuno almeno andarsi a cambiare.

Stava già raggiungendo le scale, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Erano dei suoni particolari che arrivavano dalla sala delle armi.

Un po' preoccupata, pur non credendo possibile che uno dei suoi uomini si azzardasse a sabotare in qualche modo la sua nutrita fornitura di spade, lance e armature, la donna preferì andare a controllare in prima persona.

Posando istintivamente una mano sulla spada che portava al fianco, avanzò cauta e solo a ridosso dell'ingresso capì l'origine di quei suoni. Giovanni da Casale, uno spadone da due mani in pugno, si stava esercitando da solo nella semioscurità di quella sala.

Non si accorse nemmeno di lei. Caterina lo osservò per un po', beneficiando della sua disattenzione, e lo poté passare al setaccio come voleva. Doveva essere intento nel suo esercizio da parecchio tempo, perché il camicione era completamente incollato al corpo per il sudore e anche i suoi capelli neri erano appiccicati alla testa.

“Molto bravo.” disse dopo un po' lei, stanca di guardare e basta.

Spaventandosi, Pirovano smise subito di roteare l'arma in aria e si voltò di scatto verso di lei: “Sei già qui?” le chiese, sinceramente stupito.

“Non avevo nient'altro da fare, a Forlimpopoli.” rispose piano lei, avvicinandoglisi.

Il suono della pioggia le rievocava molti ricordi, quasi nessuno legato al milanese. Era una suggestione, però, che le fece trovare più attraente del solito quel rigido soldato che si era messo al suo servizio chiedendo quasi nulla in cambio.

Appoggiando con un clangore sordo lo spadone su un angolo del tavolo, Pirovano le si avvicinò in paio di falcate e, stringendola a sé, la baciò. Registrò a mala pena il fatto che i suoi abiti fossero freddi e gocciolanti e, mentre le labbra di lei rispondevano sentitamente ai suoi assalti, l'uomo la sollevò da terra, i muscoli che si tendevano nell'alzare una donna imponente come lei, e la portò fino al tavolone, contro il muro.

La fece sedere sul legno ruvido, e poi, fronteggiandola, smise di baciarla e le disse: “Sono qui da un'ora, più o meno. Non riuscivo a dormire.”

“Non riuscivo a dormire nemmeno io.” sussurrò lei, tentando di specchiarsi negli occhi scuri di lui, resi misteriosi dalla semioscurità che avvolgeva la sala della armi.

Giovanni ebbe a quel punto un breve tentennamento. Le sue mani forti e decise si erano posate sulle cosce di lei, indagandole con possessiva attenzione, ignorando volutamente la spada che campeggiava nel fodero contro il suo fianco, tuttavia non accennavano a sollevarle le sottane, come invece lei si era attesa, visto l'accoglienza irruente di pochi minuti prima.

Essere lì, in quella sala, nel momento più oscuro della notte, ricordò a entrambi la prima volta che si erano amati. Era una memoria ancora viva, che bruciava, tanto presente da far avvampare tutti e due per qualche secondo. Quella volta, la Tigre era stata convinta di aver commesso un errore, mentre Giovanni si era sentito un illuso, certo che una fortuna simile, a lui, non sarebbe capitata mai più.

Per motivi diversi, si erano sbagliati entrambi.

'Sei stata con qualcuno, mentre eri a Forlimpopoli?' era la domanda che frullava nella mente del milanese, ma che, con tutta la buona volontà, non voleva risalire fino alle labbra.

“A me sta bene così.” fu invece quello che Pirovano disse.

Decontestualizzata a quel modo, quell'affermazione sarebbe stata per tutti incomprensibile. Per Caterina, invece, aveva più significato di qualsiasi altra cosa avesse potuto dire.

Gli passò una mano tra i capelli umidi di sudore, avvicinandosi un po' di più, sfiorandogli il petto con il seno e poi, dandogli un bacio quasi furtivo, bisbigliò: “Grazie.”

Giovanni fece un sorriso riluttante, chinando un po' il capo. La voleva, la desiderava come non mai, ma quel 'grazie' in risposta alla sua ennesima dichiarazione di resa andava solo a confermargli il suo sospetto.

Quando c'era ancora Manfredi, a contendersi con lui la Leonessa, c'era passato sopra e per più di una volta. Le cose, però, erano cambiate. Non se la sentiva di prenderla subito. Ci voleva un po' di tempo, a lui per sbollire e a lei per volerlo. Sapeva che gli si sarebbe concessa, perché è così che faceva sempre. Però sentiva che non ne aveva davvero bisogno. Ecco, non voleva più accontentarsi, voleva che lei lo cercasse perché non poteva fare altrimenti.

Le diede un bacio sul collo e poi, le mani che lasciavano a fatica le sue gambe, fece un passo indietro e, con un velo di tristezza, disse: “Faresti meglio a indossare abiti asciutti. Ti aspetto nella sala dei banchetti. Più tardi, se vuoi, ti mostro qualcosa al Paradiso... Ci sono dei punti critici di cui non c'eravamo accorti...”

La Sforza guardò attonita il suo amante che, con aria di circostanza, raggiungeva la porta. Con lentezza, ancora un po' confusa da quello che era appena successo, si rimise in piedi e si guardò attorno, per vedere se per caso Pirovano si fosse fermato per colpa di qualche testimone indesiderato.

Appurato di essere completamente sola, la Leonessa cercò solo di non pensarci più. Rimise nell'armario lo spadone che il milanese aveva abbandonato sul tavolo e poi ripose con cura anche la lama che portava lei stessa al fianco.

Sospirando e mordendosi le labbra, in difficoltà davanti a una situazione che riteneva per lei nuova, la donna lasciò la sala delle armi e, lasciandosi alle spalle una sottile scia di goccioline sempre più rada, si chiuse in stanza per cambiarsi, come il suo amante le aveva suggerito di fare.

 

Quel 27 settembre, per Rodrigo, non sarebbe potuto cominciare peggio. Prima di tutto, pur avendo insistito per consumare la prima colazione assieme a sua figlia – intendendo, implicitamente, di trovarsi da solo con lei – si era dovuto sorbire la compagnia, a tavola, anche di Alfonso d'Aragona, che non aveva fatto altro, per tutto il tempo, che prendere la mano di Lucrecia e guardarla con occhi svenevoli.

Dopodiché, proprio quando il papa stava cominciando a digerire la colazione e le nefaste condizioni in cui l'aveva dovuta mettere nello stomaco, era arrivata una lettera ufficiale da parte del re di Napoli.

Almeno lì a Nepi, Alessandro VI si era illuso di poter restare lontano dalle scocciature per qualche giorno, ma aveva sottovalutato la capacità delle teste coronate di rintracciare la loro preda ovunque questa si andasse a nascondere. Così, verso metà mattina, mentre era seduto mollemente in poltrona, con l'abito talare già indosso, in vista degli impegni mondani di quella giornata, e la papalina di traverso, si era visto recapitare una lettera che dava l'idea di portar rogne, ancor prima di essere aperta.

Congedando di malagrazia il servo che gliel'aveva portata, l'uomo aveva rotto il sigillo con rabbia e aveva cominciato a leggere, con gli occhi che si spalancavano via via sempre di più.

“Aragona maledetti! Che Dio vi fulmini tutti quanti!” aveva urlato, tenendo la missiva in pugno tanto malamente da rischiare di rovinarla.

Aveva fatto seguire una serie tanto serrata e cacofonica di bestemmie che più di un domestico si era avvicinato alla porta della sua camera per origliare e capire che cosa fosse successo di tanto grave.

Dopo aver ripreso fiato e aver lasciato defluire il colore violaceo che aveva trasformato il suo volto in una maschera grottesca, Rodrigo aveva cercato di ragionare a mente fredda.

Era ovvio che la bolla che avrebbe firmato il primo ottobre, con cui avrebbe revocato in modo perpetuo e definitivo i feudi a tutti i signori della Romagna, sarebbe stata motivo di malcontento per qualcuno. Ed era altrettanto scontato che il suo ordine per Cesare, per quanto di certo non ancora giunto al figlio, sarebbe stato diramato da spie e intercettatori della peggior specie.

Il problema era che il Santo Padre si era atteso un attenzione del genere dalla Sforza di Forlì, al massimo dal Malatesta di Rimini o, con un po' di elasticità, da Venezia, che in Romagna aveva ancora molti interessi e territori. Ma non da Napoli..!

Grattandosi, per nervosismo, il collo, fin quasi a escoriarsi, si mise a ragionare e, conscio di non aver con sé chi di dovere, convocò sua figlia Lucrecia. Non gli piaceva immischiarla in quel modo negli affari di Stato, tanto meno in quelli di guerra, ma era sangue del suo sangue e di certo sarebbe stata un interlocutrice più attenta e intelligente dei quattro Vescovi che aveva preso con sé per quella breve spedizione a Nepi.

Convinta che il padre volesse incontrarla solo per chiederle se alla fine avesse deciso se seguirlo a Roma, la giovane Borja era arrivata ai suoi alloggi con la stessa ritrosia di una bestie mandata al sacrificio.

Aveva deciso di non lasciare Nepi finché il papa non avesse promesso che ad Alfonso non sarebbe successo nulla, e che, anzi, gli sarebbe stato concesso di seguirla nell'Urbe senza rischiare nulla.

Perciò rimase di sasso, quando, appena varcata la soglie, Rodrigo le disse, tradendo un timore tanto profondo da essere per lui una novità: “Il re di Napoli mi ha scritto per dirmi che, se non impedirò al re di Francia di conquistare le terre degli Aragona, favorirà l'arrivo del Turco in Italia.”

La ragazza tacque per qualche istante. Sapeva, e ne aveva anche discusso con suo marito, che il Salutano stava in effetti prendendo accordi con qualche Stato italiano, ma non pensava che tra questi rientrasse anche Napoli, dato che Alfonso non ne aveva fatto parola.

In più le tornava strano pensare che Federico d'Aragona pensasse che re Luigi volesse conquistare anche Napoli. Il piano dichiarato dei francesi riguardava solo Milano, e poi c'era la richiesta romana di proseguire la discesa in Romagna... Ma ufficialmente nessuno aveva mai parlato di Napoli.

“E quindi?” chiese, fredda, Lucrecia: “Perché ne parlate a una donna come me?”

Il pontefice la fissò. Lo sbigottimento per tanta freddezza si tramutò in delusione e poi in furia.

“Non hai idea di quello che sta per accadere! Tu non..!” cominciò a vociare, ma la Borja non fece una piega.

“Avete ragione, io non ne ho idea. Quindi non parlatene con me.” fece la giovane, deglutendo rumorosamente.

“Stai attenta a come parli, quando ti rivolgi a me.” la mise in guardia l'uomo: “Sono tuo padre, ma sono anche il papa. Devi avere il doppio del rispetto che...”

“Scusatemi.” fece Lucrecia, le mani sul pancione: “Ho necessità di andare a riposare. Avete altro da dirmi?”

Rodrigo strinse il morso, il gesto della figlia, così naturale e allo stesso tempo per lui inaccettabile, che gli ricordava la verità. La sua bambina era una donna, sarebbe stata madre – per la seconda volta – e avrebbe dato un figlio a un Aragona, a un bellimbusto nelle cui vene scorreva lo stesso sangue di quel re che osava minacciare Santa Madre Chiesa.

“Vattene.” ordinò il Borja, trattenendosi visibilmente da altri gesti, ben più violenti di una semplice occhiataccia.

Lucrecia fece la riverenza e poi, mentre era già alla porta, non resistette alla tentazione di voltarsi appena e soggiungere: “Per quanto riguarda la vostra richiesta che io torni a Roma con voi... Mi spiace deludervi, ma non rientrerà in città finché non accetterete il fatto che mio marito Alfonso sarà il padre di vostro nipote.”

Alessandro VI rimase in silenzio, mentre il suo più grande tormento lasciava la stanza senza voltarsi, senza dargli la minima speranza di recuperare un dialogo pacifico.

Lasciato solo con la tempesta della propria anima e il silenzio del suo cuore, il papa cominciò a rimuginare. Alfonso d'Aragona era al centro del suo pensiero, come una sorta di baricentro verso cui convergevano tutti i suoi sentimenti più oscuri.

Lucrecia lo amava. Non c'erano dubbi. Aspettare da lui un figlio l'aveva resa raggiante. Difenderlo la trasformava in una guerriera indomita. Ascoltarlo, quando la rintronava con le sue parole smielate, l'aveva resa debole. Non era più la Lucrecia che Rodrigo aveva amato così tanto, oh, così tanto da arrivare perfino a dannarsi l'anima, per quello che aveva immaginato, fatto e poi nascosto...

Non sarebbe andato all'inferno senza togliersi la soddisfazione di essere davvero l'unico uomo nella vita di sua figlia. Tutti gli altri erano solo nemici da distruggere e levare di mezzo.

Si sentiva un mostro, ma era necessario, se voleva riaverla. L'avrebbe fatta soffrire, ma contro la sua volontà. Fosse dipeso da lui, non sarebbe arrivato a tanto.

La colpa di tutto ricadeva su Alfonso. Era lui che gliela stava portando via per sempre. Non era innocuo e stupido come lo era stato Giovanni Sforza. Era come una volpe che aspettava un attimo di distrazione per colpire.

“A tempo debito, ci occuperemo anche di lui.” sussurrò piano Rodrigo, tra sé, come a volersi calmare con quella semplice promessa, l'indice che sfiorava il crocifisso d'oro che teneva al collo e le labbra sottili che si incurvavano in una smorfia di rabbia amara e incontrollabile.

 

 
 
   
 
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