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Autore: Saelde_und_Ehre    13/08/2019    6 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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XIII.
Noch so ein Sieg, und wir sind verloren.


La terra umida irradiava il suo sentore caratteristico, fresco e aromatico. Anche il sole, che aveva ripreso a splendere di un lume più tenue dopo un’intera notte di pioggia, accarezzava l’erba coi suoi tiepidi raggi e arrecava sollievo dopo il sangue e il sudore della lunga mattinata.
Friedrich von Kleist approfittò della momentanea pausa durante la marcia per guardarsi intorno: la maggior parte dei soldati della sua compagnia bivaccavano sul prato bagnato dal sole o al riparo delle prime propaggini del bosco, dove qualcuno ne stava approfittando per mangiare o per riposarsi col bagaglio ripiegato sotto la testa. Vide Kühn e Krause che giocavano insieme al cane-soldato, lanciandogli bastoncini e impartendogli comandi militari, udì la voce chioccia del maresciallo Eichmann che raccontava aneddoti a un gruppo di reclute e al suo naso giunse l’odore delle sigarette di Schneider, che sembrava averne una fornitura pressoché illimitata.
Tuttavia, c’era qualcosa che, ai suoi occhi, rendeva straniante quell’atmosfera all’apparenza familiare: dopo l’esperienza di Łowicz, gli effettivi della sua compagnia risultavano dimezzati, e quelli che non erano morti si trovavano in qualche ospedale delle retrovie o in un campo prigionieri. Come a volersi fare beffe di lui, un’armonica a bocca suonava le note di Drei Lilien.
Tre gigli, tre gigli crescevano sulla mia tomba, poi venne un cavaliere orgoglioso e li colse…
Alla sua mente si riaffacciò la vista dei tumuli anonimi e degli elmetti posti sulle croci di legno, che costellavano i cimiteri nella terra di nessuno. Aveva tributato ai nemici caduti gli stessi onori che tributava ai compatrioti, e gli ufficiali polacchi avevano fatto lo stesso coi morti della sua compagnia, in rispettoso silenzio, come se versare il proprio sangue per la Patria – qualunque essa fosse – fosse il sacrificio più nobile che un uomo potesse compiere.
Ma la sua manovra, anche se poteva ritenersi formalmente giusta dal punto di vista strategico, si era trasformata in una spietata lotta per la sopravvivenza, una vittoria di Pirro che lui percepiva come un fallimento personale e che sarebbe stata rimessa all’ineluttabile giudizio di un tribunale militare.
Tanto sangue versato inutilmente… per una mia iniziativa personale.
A quel pensiero, la sensazione del pugnale conficcato tra le scapole tornò a colpirlo con tutta la sua violenza.
La macchia rossa si allargava, rapida e inesorabile, come se impregnasse un mantello dal tessuto immacolato. E lui si ritrovava ferito, incapace di muoversi o di gettare via l’indumento che, privato del suo originario candore, gli gravava sulle spalle con consistenza di piombo.
Si guardò le mani e gli parve di vederle sporche dello stesso sangue, ma nero e denso come catrame, impossibile da lavare via.
Come una macchia indelebile sulla mia coscienza…
Sbatté le palpebre per cancellare quelle immagini, che lo tormentavano anche nei suoi incubi più oscuri, ma dovette lottare con tutto se stesso per imporsi l’autocontrollo.

Mentre vagava alla ricerca del suo amico Bentheim, il suo sguardo ricadde su due soldati che sostavano all’ombra di un albero: il primo dei due, un ragazzo biondo all’incirca della sua età, era seduto con la schiena appoggiata al tronco e accarezzava i capelli del più giovane, che sonnecchiava beato con la testa posata sul suo zaino. Per un istante si trovò a chiedersi quale fosse il loro legame – se quella connessione spirituale che stava alla base di ogni comunità maschile o qualcosa di più intimo ed esclusivo, come quello che c’era tra lui e Hans – ma scosse la testa e passò oltre, distogliendo lo sguardo.
Quella mattina si erano messi in marcia senza neanche salutarsi: per la prima volta dopo giorni passati a combattere insieme, si ritrovavano di nuovo separati, le uniche interazioni ridotte a scarne frasi di circostanza.
“Questa faccenda non riguarda soltanto te, che tu lo voglia o no.”
Le parole della sera precedente continuavano a rimbombargli nella testa come un’accusa implicita, che amplificava il suo senso di colpa all’idea di aver messo il compagno in una situazione così scomoda. Ma ciò che gli bruciava ancora di più era sapere che l’altro, anziché denunciarlo, lo aveva redarguito privatamente, ma poi, di fronte al colonnello Wolff…
“Dovresti smetterla di farmi domande di cui conosci già la risposta.”
Scacciò quell’ultimo pensiero con rabbia.

Friedrich camminava a testa bassa, fissando i suoi stivali che affondavano nel tappeto di foglie umide mentre s’inoltrava nel folto della macchia d’alberi. Le chiome spioventi delle conifere erano ancora verdi e solo pochi esili raggi di luce riuscivano a farsi strada tra i loro rami, mentre il fogliame decomposto si confondeva coi rametti e col fango del sottobosco.
Inspirò quell’odore familiare, che gli ricordava le lunghe passeggiate nei boschi del Brandeburgo, poi si voltò verso Konrad, che lo fissava con la fronte corrugata e gli occhi grigi ridotti a due fessure. “Adesso possiamo parlare liberamente, anche se abbiamo poco tempo,” gli comunicò.
“Dimmi cosa ti angustia.”
Von Kleist si fermò in una piccola radura di alberi picchiettati di muschio giallo. “Le solite… faccende di servizio,” disse, con un’alzata di spalle.
Bentheim annuì impercettibilmente, cogliendo al volo l’allusione. “Lui sta facendo soltanto il suo dovere.”
“Anch’io l’ho fatto, anche se per raggiungere il risultato sperato ho dovuto disobbedire,” ribatté Friedrich. Mise le mani nelle tasche e levò lo sguardo verso le cime degli alberi. “Dopotutto, che cos’è il dovere, se non una sorta di legge universale? Non avrei potuto fare altrimenti, neanche se lui me lo avesse proibito cento volte. Solo, non avrei mai pensato che…”
Strinse i denti, incapace di continuare la frase. Immaginò ancora il sangue nero che gli sporcava le mani, i lamenti dei feriti che squarciavano l’aria come lame. Aveva fatto la cosa giusta, ma come avrebbe potuto prevedere conseguenze collaterali di una tal portata? Perfino lui, che prima di ogni decisione considerava i suoi possibili sviluppi, si era lasciato cogliere alla sprovvista, troppo preso dall’urgenza di agire.
L’altro non replicò, ma il volto parzialmente celato sotto l’ombra del berretto mostrava un’espressione attenta. Lo stormire delle fronde e il cinguettare degli uccelli facevano da sottofondo al loro silenzio, in contrasto con le ferali visioni che velavano lo sguardo del capitano.
Infine, Friedrich proseguì: “Io mi metto sullo stesso piano degli altri ufficiali. Cerco di conquistarmi la fiducia dei soldati attraverso le azioni, di dimostrarmi degno del ruolo che ricopro. Se non mi fossi assunto personalmente quell’onere non avrei più avuto il coraggio di guardarlo in faccia… né di guardare in faccia i miei uomini.”
“Ed è giusto, visto che qui nella Wehrmacht sono i meriti militari e non l’appartenenza sociale a determinare il valore di un soldato. Tutti ti riconoscono i tuoi, però mi sembra che tu ci stia mettendo troppo zelo nel cercare di dimostrarli.”
“Non c’entra nulla la reputazione, Konrad.”
Bentheim sollevò un sopracciglio. “Il colonnello Wolff non è il tipo da passare sopra a certe cose, dovresti saperlo meglio di me… e lo stesso vale per Hans: non farà sconti solo perché sei tu. Buona fede o no, stavolta hai oltrepassato i limiti consentiti e, se la questione è in bilico tra encomio e corte marziale, spetterà a te fornire le prove per convincerli che non si poteva proprio fare diversamente.”
“Come se m’importasse dell’encomio,” sospirò von Kleist. “Rispettare le regole non avrebbe evitato il disastro.”
“Non tutte le regole sono giuste, ma c’è un motivo se vengono fissate.”
“Ah, da che pulpito!” Friedrich proruppe in una risata amara e priva di allegria. “Sai benissimo che anche tu avresti agito allo stesso modo, se…”
L’altro levò una mano, troncando a metà la frase. “Non lo metto in dubbio, Friedrich.” Si voltò verso un punto indefinito del bosco, come se stesse davvero cercando d’immaginare come si sarebbe comportato in una situazione simile, poi riprese a camminare a passo più spedito. “Tuttavia non sottovaluterei i consigli di un amico: ne va della tua stessa carriera militare.”

Mentre tornavano indietro, fu la voce di Reinhardt a richiamarli all’attenzione. “Von Kleist? Bentheim?”
Sentendosi chiamare, affrettarono entrambi il passo e lo raggiunsero alle spalle, i rametti che scricchiolavano sotto i loro piedi. L’Hauptsturmführer scattò sulla difensiva col piglio di una fiera, ma quando li riconobbe si sciolse in un tiepido sorriso.
“Ecco dove eravate!” disse sollecito, recuperata la calma. I due giovani spostarono lo sguardo da lui al bosco dietro di lui, accorgendosi che a separarli dal prato in cui sostavano i soldati c’erano ancora diversi filari di alberi. “Ero venuto a cercarvi: tra poco si riparte.”
Konrad annuì. “Sì, stavamo arrivando.”
“Nessun problema”, disse l’altro. “Abbiamo tutto il tempo per elaborare il piano d’azione.”
Friedrich rimase in silenzio, le braccia dietro la schiena. Continuava a camminare a qualche passo di distanza, senza nemmeno ascoltare le loro voci in sottofondo: era da quella mattina che coordinavano le azioni alla guida delle rispettive compagnie, mentre lui si era limitato a intervenire solo per dare consigli strategici e trasmettere gli ordini al suo reparto. Coi Panzer a supporto della fanteria, favorita anche dalla sintonia tra i due comandanti, l’avanzata era stata più rapida e aveva proseguito fino a mezzogiorno senza particolari intoppi.
Solo lui, privato della sua solita tempra, si era rassegnato a un ruolo di consulente e supervisore per rimuginare sulla situazione.
Ancora una volta, la voce di Reinhardt lo fece sussultare. “Friedrich, tutto bene?”
Il giovane sollevò la testa e notò che l’amico lo fissava con le sopracciglia aggrottate. Konrad alzò gli occhi al cielo, come se già si aspettasse la risposta.
“Sì, sì, stavo solo… pensando,” minimizzò.
“Sei preoccupato per la cosa dell’altro giorno.”
La frase aveva il tono di una constatazione, che strappò a Friedrich un sospiro. “Già.”
Sfruttando gli ultimi momenti di solitudine prima di riunirsi agli altri soldati, Reinhardt lo affiancò e abbassò la voce. “Posso dirti come la penso, Fritz?” Senza neanche attendere conferma da parte sua, fece una breve pausa e proseguì, in tono confidenziale: “Ti conosco dai tempi della scuola militare, e sono abbastanza sicuro di sapere cosa ti passa per la testa. Però ormai conosco bene anche lui: so che non potrebbe mai abbandonarti, né ti abbandoneremo io e Konrad. Se le tue azioni sono state obbligate dalle circostanze, quello che è accaduto dopo era al di fuori del controllo di chiunque.” Gli diede un colpetto amichevole sulla spalla. “Non tormentarti troppo, Fritz. Com’è che dite voi della Ostpreußen? Am Ende steht der Sieg.
Per quanto Friedrich non si sentisse di condividere il suo ottimismo, l’ardente convinzione nelle parole dell’amico lo spinse a forzare un sorriso. “Ve ne sono grato,” mormorò.
Tuttavia, levò lo sguardo verso le nuvole grigie che sporcavano l’azzurro del cielo, consapevole che non sarebbe stato affatto semplice.

Hans congedò il caporale Schmidt e si appoggiò contro il fianco della nuova Kübelwagen: faceva uno strano effetto vedere la carrozzeria intatta, senza neanche un graffio sui vetri o sulla vernice beige. Da quando la precedente era stata distrutta da un colpo di mortaio – lo stesso che lo aveva costretto ad attraversare la periferia di Łowicz a piedi – Schmidt non la lasciava mai incustodita, e si allontanava solo quando sapeva che lui era nei paraggi.
Il maggiore aspettò che l’autiere fosse a debita distanza, mentre i soldati sfruttavano la breve pausa per mangiare e riposarsi, poi si lasciò scappare un sospiro.
Anche se per esigenze di regolamento aveva dovuto rimproverarlo, sapeva che Friedrich aveva delle valide ragioni per spostare la compagnia altrove. Chiunque altro avrebbe preso quella risoluzione, qualunque comandante gliene avrebbe dato licenza… il problema, in quel caso, era che nessuno l’aveva fatto con lui. La giustizia militare era imparziale: anche se il capitano non aveva alcuna colpa per ciò che era accaduto dopo, le buone intenzioni non bastavano a scagionarlo. Forse, se gli avesse concesso un margine di autonomia… ma come avrebbe potuto anche solo ipotizzare una simile emergenza?
Dal colloquio col colonnello della sera precedente, aveva come l’impressione di trovarsi la spada di Damocle sospesa sulla testa, pronta a calargli sul collo non appena avrebbe commesso un passo falso: Friedrich rischiava la corte marziale, e lui non poteva fare nulla di lecito per impedirlo.
Non riusciva a togliersi dalla testa il momento in cui era tornato in sé e si era ritrovato di fronte il suo volto e quegli occhi di ghiaccio ardente, che lo fissavano carichi di apprensione. In quella sorta di torpore in cui era piombato, gli era sembrato di sentire il tocco dell’acciaio sulla pelle della gola e di udir riecheggiare un colpo di pistola: il capitano non aveva mai voluto dirgli nulla a riguardo, né si era voluto prendere i meriti per ciò che aveva fatto, ma lui era sicuro che avesse ucciso il suo carceriere per liberarlo.
Ciò che viene fatto per amore è sempre al di là del bene e del male…
Si chiese quanto ci fosse di vero in quelle parole. Era così anche in quel caso? E fino a che punto avrebbe potuto spingersi per proteggere Friedrich e ripristinare lo status quo?
“Signor maggiore.”
L’ufficiale alzò la testa, trovandosi di fronte il capitano Schwieger. Lo salutò con un cenno del capo e l’altro si appoggiò alla fiancata del veicolo, scrutandolo con aria preoccupata. “Mi consente di parlare francamente, signor maggiore?”
Bühler annuì, senza tradire alcuna emozione. Come in un rituale consolidato, tirò fuori dalla tasca il pacchetto delle sigarette e ne offrì una all’amico, che ne prese una e se l’accese schermando la fiamma con la mano. “Ho sentito quello che dicevano i soldati stamattina a colazione.”
“Dovresti smettere di dare peso ai pettegolezzi di caserma”, borbottò Hans a denti stretti, passando bruscamente al tu.
“E tu dovresti smettere di pensarci in continuazione,” replicò l’altro. “Se il colonnello ha deciso di rimandare la questione a campagna militare finita per non demoralizzare le truppe, ci sarà un motivo. E lo stesso vale per te: se i soldati ti vedono così sfiduciato, come pensi che reagiranno?”
Hans, lievemente imbarazzato da tanta premura, non disse nulla: anche se tra loro c’era solo un anno di differenza, a volte Schwieger si comportava quasi come un fratello maggiore con lui. Pensò che fosse sul punto di fare una qualche battuta, ma alla fine si limitò a rivolgergli uno sguardo comprensivo. “Dammi retta, smettila di pensarci. È normale che tu sia preoccupato per von Kleist, ma vedrai che, se ti concentrerai sul presente, le cose si sistemeranno prima ancora che tu possa rendertene conto.”

Nonostante i successi della giornata, che avevano ancora una volta spianato alle truppe tedesche l’avanzata verso Varsavia, il capitano von Kleist rientrò ai baraccamenti senza proferire parole che non fossero ordini o frasi di circostanza in direzione dei suoi soldati.
Nel campo l’atmosfera si era intiepidita rispetto agli entusiasmi dei primi giorni, ma intorno ai fuochi fluttuava ancora il calore del cameratismo, che si rafforzava nella consapevolezza di essere tutti uniti dagli stessi ideali – soldati e ufficiali, fanti della Wehrmacht e uomini delle Waffen-SS. Chi non chiacchierava con gli amici, vecchi o nuovi che fossero, cantava o si intratteneva con scherzi e facezie; solo in pochi rifuggivano la compagnia per ritirarsi in solitudine.
Vide Konrad e Reinhardt condividere una bottiglia di vino, soddisfatti non solo per la vittoria ma soprattutto per il fatto di avervi contribuito insieme, e decise di lasciarli soli per non inquinare col suo malumore uno dei pochi momenti che quei due giovani potevano trascorrere vicini.
Friedrich attese che gli venisse servita la cena e andò a sistemarsi su una panchina isolata, cercando di passare inosservato. Appoggiò la schiena al muro e si mise a mangiare in silenzio: non aveva stretto grandi amicizie da quando era partito per la guerra, preferendo stare per conto proprio o in compagnia di poche persone selezionate, ma quel giorno non voleva vedere neanche Hans. A dirla tutta, non gli interessava neanche sapere dove fosse.
Era così immerso nelle proprie meditazioni che non si accorse della presenza del sottotenente Kühn se non quando se lo trovò di fronte. Aggrottò leggermente le sopracciglia, ma il ragazzo per tutta risposta gli restituì un sorriso impacciato. “Signor capitano…”
“Kühn,” lo salutò Friedrich, “è per caso arrivata qualche comunicazione importante?”
Inizialmente pensò che volesse riferirgli qualcosa come “Il maggiore Bühler desidera parlarle” e non seppe se augurarselo o meno, ma l’altro scosse il capo e disse: “No, signor capitano. Io mi chiedevo…”
“Si sieda, Kühn.”
“Signore,” riprese l’altro, dopo una breve pausa, “mi chiedevo se ci fossero notizie degli altri comandanti di plotone.”
“Il sottotenente Hartmann riprenderà il servizio tra qualche giorno”, rispose Friedrich, guardando dritto di fronte a sé, “è perfettamente in grado di camminare e svolgere attività normali, ma i medici gli hanno raccomandato una settimana di riposo lontano dai campi di battaglia. Körner è in un ospedale delle retrovie: le sue condizioni sono al momento stabili e, non appena sarà trasportabile, verrà rimandato in Germania in convalescenza… così come il sergente Hoffmann e il capitano Fromm, che è arrivato a Berlino tre giorni fa. Quanto a Wessel, sta bene, ma ha ricevuto quattro giorni di licenza premio per la brillante azione sul campo di battaglia.”
Kühn annuì; un sorriso di sollievo gli scolpì due fossette sulle guance. “Il tenente Wessel ha saputo comandare egregiamente la compagnia durante la sua assenza, signore… ma anche lei…” Nell’udire quelle parole, von Kleist lo perforò da parte a parte con uno sguardo affilato, che provocò al ragazzo un brivido involontario. “Chiedo scusa, signor capitano,” si affrettò a dire, “non volevo essere inopportuno.”
“No, continui pure, sottotenente.”
L’altro sembrò ponderare con attenzione le parole da dire. “Intendevo dire che ha avuto una grande prontezza decisionale, signore,” asserì poi, con convinzione. “Ha evitato al nostro reggimento la disfatta totale e ha liberato il maggiore prima che fosse troppo tardi. È stato… efficiente. Gli uomini del mio plotone vedono in lei un esempio da seguire.”
Il capitano incassò quell’inconsapevole affondo in silenzio. Non poté fare a meno di chiedersi se il suo subalterno fosse davvero all’oscuro della decisione del colonnello: Wolff aveva fatto di tutto affinché la notizia non si diffondesse, per non infangare l’immagine del Reggimento né quella dei suoi ufficiali, ma sapeva per esperienza che era difficile che una questione privata rimanesse veramente tale per lunghi periodi di tempo. “Un buon ufficiale deve saper prendere decisioni e impartire ordini ma anche eseguirli, sottotenente,” disse infine, come se parlasse più a se stesso che al suo interlocutore. “Ed entrambe le cose richiedono uguale fermezza.”
In quel momento, il suo sguardo ricadde sulla figura di un giovane uomo dal passo marziale e l’incedere nervoso, che risaliva gli scalini in pietra per rientrare nell’edificio ospitante le stanze degli ufficiali superiori e dei comandanti di compagnia. Riconobbe subito i capelli castani che spuntavano da sotto il berretto e vide che anche Kühn si era voltato nella stessa direzione, ma il maggiore passò oltre e scomparve oltre l’ingresso senza neanche accorgersi della loro presenza.
Friedrich aspettò che se ne fosse andato, poi raccolse il piatto e si alzò, cercando di non apparire troppo brusco. “Ora, se mi vuole scusare, sottotenente, devo andare.”

Erano da poco passate le nove, ma il ticchettio dell’orologio appeso al muro assumeva i sinistri connotati del conto alla rovescia di una bomba in procinto di esplodere.
Come un lupo in gabbia, il capitano von Kleist misurava a grandi passi il perimetro della propria stanza, in preda a un’angosciosa inquietudine. Il ritmo cadenzato dei suoi stivali riecheggiava nel silenzio, sovrapponendosi a quello più lieve, ma ugualmente straniante, delle lancette dell’orologio a muro. Di tanto in tanto, come di riflesso, le sue mani sfioravano la fondina della pistola che gli pendeva dal cinturone, traendo conforto dal contatto col freddo metallo.
Interruppe di colpo il proprio frenetico passeggiare e andò ad affacciarsi alla finestra, volgendo lo sguardo sul piazzale deserto del campo. Un lampione tremolante spandeva il suo alone luminoso sul cemento bagnato, dall’oscurità riaffioravano le sagome dei blindati parcheggiati lungo il perimetro delle barricate di filo spinato. Poco distante, su una delle torri di guardia, due soldati col fucile in spalla parlottavano tra loro.
Era una notte fosca e senza stelle, rischiarata in lontananza dai bagliori di un temporale.
Sarebbe bastato poco per rompere il silenzio: il maggiore era a pochi passi da lì, oltre la porta chiusa della stanza di fronte alla sua, con solo un esile corridoio a separarli.
Se fosse stato un’altra persona, forse, avrebbe bussato e gli avrebbe chiesto udienza. Forse si sarebbero sfogati, si sarebbero fronteggiati, Hans avrebbe ribadito le intenzioni che celava tra le righe e avrebbero deciso di sopportare insieme i dardi scagliati dall’oltraggiosa sorte.
Morire, dormire. Forse sognare…
Sfiorò ancora una volta la fondina della pistola, con segreta voluttà. Era semplice, quasi consolatorio pensare che sarebbe bastato premere il grilletto e spararsi un colpo in testa per porre fine a tutti i suoi problemi: se ne sarebbe andato risparmiando a sé il disonore e al suo compagno la vergogna, ma ciò lo avrebbe reso un egoista e un codardo.
L’ennesimo tuono squarciò il silenzio e il capitano sobbalzò. Richiuse la finestra e rimase nella penombra, arretrando fino a crollare seduto sulla branda adagiata nell’angolo più remoto della stanza. Non aveva disfatto neanche il proprio bagaglio, sapendo che l’indomani mattina avrebbero di nuovo lasciato quel paesello per ripartire verso Varsavia.
Iniziò a frugare oziosamente nel baule dei suoi effetti personali fino a quando le sue dita non incontrarono la consistenza dura di un vecchio libro dalla copertina consunta: Nelle tempeste d’acciaio, di Ernst Jünger. Il titolo era in caratteri gotici, e un’illustrazione in bianco e nero ritraeva una concitata scena di battaglia.
Forse tra le pagine di quel libro avrebbe potuto ritrovare la determinazione e la voglia di combattere, ma la fotografia che gli scivolò addosso frusciando distrusse subito ogni vana speranza. Un cielo grigio, invernale; una terrazza sul Baltico, con sullo sfondo il mare spumeggiante e la nera sagoma di una nave che riemergeva dalla caligine. In primo piano, appoggiati alla balaustra, c’erano lui e Hans avvolti nei loro cappotti pesanti. Lui aveva i capelli scompigliati e in volto un’espressione seria, rivolta verso un punto indefinito di fronte a sé; sulle labbra di Hans, invece, aleggiava uno dei suoi vaghi sorrisi mentre contemplava le onde increspate dal vento, che s’infrangevano sciabordando sugli scogli: era la prima volta che il giovane svevo cresciuto tra foreste e colline vedeva il mare, e la sua selvaggia potenza lo aveva lasciato affascinato e incuriosito.
All’apparenza potevano sembrare due semplici amici, ma dalla sintonia perfetta che s’intuiva nel loro contegno, un occhio attento avrebbe potuto cogliere un legame più profondo.
Mentre la sua presa si faceva incerta, scossa da un leggero tremito, la rivoltò: sul retro, la calligrafia di Hans aveva vergato due versi di una canzone militare che in realtà voleva essere un messaggio di cui solo loro due conoscevano il reale significato.

“Wenn alle untreu werden, so bleiben wir noch treu.
Treu wie die deutschen Eichen, wie Mond und Sonnenschein.”

Quando la fedeltà degli altri viene meno, noi rimaniamo fedeli… fedeli come le querce tedesche, come la luna e la luce del sole.
Sospirò, facendo di nuovo sparire la fotografia tra le pagine del libro.
L’unica soluzione che gli restava, per rendere onore a quelle semplici parole, era imbracciare le armi e sfidare la sorte, o soccombere nel tentativo di sconfiggerla.

Dall’altra parte del corridoio, leggermente attutiti dalla consistenza della parete, Hans sentiva i passi nervosi di Friedrich riverberare sul pavimento.
Scostò il posacenere invaso dalle cicche e si affacciò alla finestra, respirando l’aria frizzante che recava con sé il sentore di pioggia emanato dalla terra. Una zaffata di umidità sembrò entrargli nelle ossa, facendolo rabbrividire fino alla radice dei capelli; tuttavia, il giovane non si mosse di un centimetro. Il bagliore di un lampo illuminò il cielo a giorno.
Non poteva fare finta di niente di fronte all’ineluttabile: se Friedrich fosse stato giudicato colpevole d’insubordinazione, avrebbe perso i gradi e la sua credibilità come ufficiale. E la cosa peggiore era che una sua eventuale deposizione, nel bene o nel male, avrebbe influito sul destino del capitano, costringendolo a una pena orrenda e degradante o salvando la sua reputazione sulla base di una bugia.
Troppi interessi contrastanti in gioco…
Che Friedrich avesse disatteso i suoi ordini, emergenza o non emergenza, era un dato di fatto. Se avesse intercesso per lui, mentendo alla corte per proteggerlo, si sarebbe reso colpevole di tradimento: un atto deprecabile, che avrebbe macchiato sia il suo onore che quello del suo compagno. Ma se avesse semplicemente lasciato che la giustizia facesse il suo corso, avrebbe rischiato di tradire il loro rapporto e la promessa di proteggersi a vicenda.
Qualunque cosa avesse deciso di fare, avrebbe comunque contemplato un tradimento.
Si sentiva come intrappolato in un tunnel senza via d’uscita.

Una sonata di Beethoven si spandeva tiepidamente per il salotto, mentre il caldo dell’estate saliva dalle finestre aperte. I vicoli di Potsdam apparivano immersi nel torpore per l’ora tarda; solo ogni tanto, al di sotto del suono cristallino del pianoforte, si udiva una finestra che si chiudeva, l’abbaiare di un cane o il miagolio di un gatto.
Hans si tolse la giubba dell’uniforme e si lasciò ricadere sulla poltrona, allungando le gambe. Chiuse gli occhi esausto, la testa appoggiata allo schienale, e si lasciò cullare dalla musica, nella speranza di trarne ristoro dopo l’estenuante giornata.
Gli faceva uno strano effetto pensare che, dopo la morte del suo superiore per un banale incidente, fosse stato proprio lui a ricevere i gradi di maggiore e l’incarico di condurre il battaglione in Polonia: i cambiamenti inaspettati lo avevano sempre messo a disagio, cozzando col suo bisogno di avere sempre ogni cosa sotto controllo.
Le note si acquietarono all’improvviso. Friedrich si alzò dal panchetto gli si avvicinò, sedendosi sul bracciolo della poltrona.
Hans levò lo sguardo su di lui, ma subito dopo lo distolse per fissarlo su uno dei quadri appesi al muro. “Perché hai smesso di suonare? Mi piace ascoltarti: mi aiuta a pensare.”
“Che c’è?” gli chiese Friedrich, a bassa voce; poi, visto che lui non rispondeva, fece un gesto di diniego e scosse la testa. “No, non c’è bisogno che tu me lo dica. So cos’è che ti preoccupa.”
“Non è niente”, rispose il giovane, asciutto, con un’alzata di spalle.
“Ricordi quello che ci eravamo detti tempo fa?” L’altro fece una pausa, aspettando che si volgesse verso di lui e lo guardasse in faccia. “In servizio e in contesti operativi i legami personali non avrebbero dovuto influenzare i nostri rapporti, ma una volta da soli avremmo potuto parlare liberamente.”
Ancora una volta, Hans sospirò. “Ci stiamo preparando da mesi per questa guerra lampo, avevo già dato e ricevuto tutte le disposizioni del caso.” Cercava sempre di non mostrare titubanza o preoccupazione di fronte ai suoi uomini, nonostante i sussurri diffidenti che aveva udito al circolo ufficiali: l’idea della partenza imminente era per lui come la vista del mare agitato, che lo attraeva e lo affascinava pur accendendo in lui la sorda inquietudine tipica del viandante di fronte all’ignoto. La nuova situazione, però, lo faceva sentire come un uomo solo, costretto a domare la devastante potenza delle onde col solo ausilio delle sue forze. “Dovrò soltanto abituarmi alle mie nuove… priorità.”
“Non mi sembra che tu abbia mai avuto problemi a farti rispettare.” Le labbra di Friedrich si piegarono in un sorrisetto allusivo. “Basta che ti comporti come hai sempre fatto.”
Egli rispose con una sorta di grugnito d’assenso, come a voler dichiarare concluso il discorso, ma l’altro gli sfiorò la guancia con una leggera carezza e aggiunse: “E poi siamo camerati. Se uno di noi dovesse cadere preda del dubbio o della stanchezza, ci sarà sempre l’altro a sostenerlo e a combattere accanto a lui.”
Hans si concesse un tiepido sorriso: quelle semplici parole erano riuscite a mettere a tacere le sue preoccupazioni.

Prima che potesse rivivere nella mente il seguito di quel ricordo, un tuono in lontananza lo fece sobbalzare come se avesse udito un colpo di mortaio a distanza ravvicinata.
Era l’ultima notte che avevano trascorso insieme, l’ultima notte prima che i preparativi per la partenza e la campagna militare li sottraessero dalla rassicurante monotonia della quotidianità.
Si mise in ascolto: in quell’ala dell’edificio regnava il silenzio; anche i passi di Friedrich si erano acquietati. Avevano trascorso lunghi periodi senza potersi neanche sfiorare, nutrendosi solo di sguardi e di ideali, ma ciò che gli pesava in quel momento era il non potergli parlare a viso aperto dei dilemmi che lo affliggevano – e che, probabilmente, affliggevano anche lui.
Il problema era sempre lo stesso: conciliare il suo ruolo di comandante e superiore coi dubbi inconfessabili che gli si agitavano nel profondo.
Si diceva che fosse proprio in guerra che emergeva la vera essenza di un uomo, e le allusioni di Schwieger di quella mattina avevano insinuato in lui il sospetto che qualcuno potesse aver intuito i sottintesi del loro rapporto.
Nonostante la sua natura eroica e solare, il loro era un legame che non poteva essere coltivato alla luce del sole. Era qualcosa che rendeva l’arte della guerra più nobile e la vita militare più degna di essere vissuta ma che, se scoperto, sarebbe stato condannato senza appello alla stregua di un vizio nefando. Qualcosa che poteva costare i gradi, la libertà personale e, quel ch’era peggio, tutto ciò per cui avevano lottato insieme per anni.
Nessuno doveva permettersi di dubitare, perché ciò avrebbe compromesso la situazione più di quanto già non fosse. Non solo per lui, ma anche per Friedrich, per i loro superiori e per ogni singolo uomo del battaglione.
Ma quel problema andava risolto in qualche modo: doveva riuscire ad evitare al capitano la disfatta e la corte marziale, e al tempo stesso onorare il suo voto di fedeltà al Reich e all’esercito.
A qualunque prezzo.

Dall’altra parte del corridoio, Friedrich tese ancora una volta l’orecchio, come sperando di cogliere un qualche movimento che segnalasse la presenza del compagno al di là della porta.
Tuttavia, nessuno dei due si mosse dalla propria stanza.

  
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