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Autore: Adeia Di Elferas    15/08/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Alessandro Sforza batteva in modo ritmico il tacco dello stivale in terra. Gli piaceva poco la locanda in cui aveva deciso di tenere quell'incontro, ma era l'unico posto che ritenesse davvero sicuro.

Conosceva l'oste e la strada era molto tranquilla. Da quando i francesi erano entrati a Milano, sembrava che nessuno più volesse fare quel tragitto.

Erano stati vaghi, nel darsi quell'appuntamento, ma il trentaquattrenne non vedeva l'ora che l'altro arrivasse. Ci aveva ragionato molto, ed era giunto alla conclusione di provare a contattare quel suo fratellastro solo da poco.

Accompagnare suo zio Ludovico, in fuga, verso Innsbruck gli aveva fatto capire che quello, per lui, non era più un compromesso accettabile. Era uno Sforza a tutti gli effetti e, benché avesse vissuto nell'ombra buona parte della sua vita, arrivando a mettersi a disposizione del Moro nella speranza di riavere una grande Milano di cui vantarsi, sentiva il sangue di suo padre e di suo nonno ribollire nelle vene e dunque non poteva accettare una resa come quella.

In tutta Italia, ormai, si parlava dei preparativi che la Tigre di Forlì stava mettendo a punto per resistere a un'eventuale – o, meglio, a una certa invasione francese – e Alessandro sentiva che fosse quello il suo posto.

Tuttavia, aveva ben poco da offrire e con sua sorella non aveva contatti da anni. Era abbastanza certo che nemmeno Galeazzo, fratello loro per parte di padre e figlio di Lucia Marliani, avesse mai più avuto a che fare con Caterina, ma si era convinto che se si fossero offerti in due, la Leonessa sarebbe stata più incline ad accettarli.

Finalmente Alessandro intravide qualcuno che poteva essere colui che cercava. Alto, dall'aspetto vagamente familiare, un giovane era appena entrato nell'osteria, accompagnato da un paio di uomini armati.

Abbastanza sicuro che si trattasse del Contino di Melzo, lo Sforza alzò una mano, per farsi notare e così il ventitreenne fece un cenno ai suoi di aspettare in disparte e si avvicinò al tavolo d'angolo del fratellastro.

“Alessandro?” chiese quello più giovane, con una leggera apprensione.

“Galeazzo?” rispose l'altro, con un sorriso, come a dire che non si stavano sbagliando.

Se il figlio di Lucia Marliani aveva un tratto molto più dolce, nel viso, rispetto al maggiore, Alessandro poteva scorgere comunque in lui una spiccata somiglianza con il loro padre. Anche se non ricordava molto il Duca, essendo morto quando lui era appena un ragazzino, osservare il profilo del fratellastro gli stava dando una piacevole, per quanto triste, stretta al cuore.

Di contro, Galeazzo, che del padre non servava assolutamente alcun ricordo, essendo nato dopo il suo assassinio, si sforzò di riconoscere nell'altro Sforza qualche tratto di se stesso, in modo da ricollegarlo meglio al proprio sangue.

“Hai capito perché ti ho chiamato qui?” domandò Alessandro, passando subito al tu, nel tentativo di instaurare fin da subito un rapporto amichevole, che andasse almeno in parte a supplire il silenzio di tutti quegli anni.

“Immagino sia per quello che sta facendo nostra sorella.” rispose prontamente il Contino di Melzo, che, malgrado l'isolamento forzato a cui era stato costretto fin dalla nascita, era sempre riuscito a tenersi informato su ciò che succedeva ai suoi consanguinei.

“Sì, è proprio di quello che ti voglio parlare. Siediti.” lo invitò, battendo la mano sulla panca accanto a sé.

“Vuoi chiederle di poter combattere per lei?” si informò il giovane, sedendosi rigidamente al suo fianco.

“Vedo che ci capiamo.” annuì Alessandro: “Il punto è: tu saresti disposto a venire con me a Forlì?”

Il contino di Melzo deglutì e poi, occhieggiando verso le due guardie che lo aspettavano all'ingresso, ribatté: “Chi va a Forlì per questa guerra, non ne torna.”

“Preferisco morire adesso come un guerriero, cercando di lavare così il disonore portato da nostro zio sul nome della nostra famiglia, che non morire da vecchio con la consapevolezza di essermi comportato da codardo.” decretò lo Sforza più vecchio.

Galeazzo sembrava troppo teso per accettare. Alessandro iniziava a credere di aver commesso un errore a chiamarlo e contare su di lui. Proprio quando stava per ritrattare, convinto di aver fatto un passo falso forse anche rischioso, il fratellastro scosse piano il capo.

“Hai proprio ragione – gli disse, con una fermezza che lo fece sembrare molto più vecchio della sua età – anche io sono figlio di nostro padre. Sarò con te.”

Colto dall'entusiasmo, lo Sforza maggiore diede una sonora pacca sulla schiena al fratello ed esclamò, euforico: “Sapevo che il sangue valeva qualcosa! Avanti, discutiamone e decidiamo cosa scrivere a nostra sorella.”

 

Bianca aveva appena lasciato la stanza di suo fratello Giovannino. Aveva dovuto aspettare parecchio, prima che il piccolo si addormentasse, ma l'aveva fatto volentieri, perché l'aveva visto troppo agitato e aveva paura che potesse essere il preludio di qualche nuovo malanno.

Invece, dopo averlo cullato a lungo tra le sue braccia ed essere riuscita a metterlo sul suo lettuccio senza che si risvegliasse, gli aveva toccato la fronte, trovandola fresca, e così si era rasserenata.

Non era felice solo perché la buona salute del piccolo Medici era una conditio sine qua non per far sì che sua madre, la Contessa, potesse dedicarsi agli affari di Stato senza avere altro per la mente, ma anche e soprattutto perché voleva molto bene al fratello e avrebbe sofferto troppo nel vederlo di nuovo in pericolo.

Era ormai tardi. Mentre attraversava con passo deciso il corridoio, diretta alla sua stanza, sentì battere le undici e mezza. Stava quasi per aprire la sua porta, quando si ricordò di aver lasciato uno dei suoi libri nelle cucine.

L'aveva con sé quando si era fermata lì per aiutare a spennare le galline, e poi si era completamente scordata di portarselo via. Non che non si fidasse delle sue amiche della servitù, anzi, ma temeva che dessero troppa poca importanza a un oggetto del genere, rischiando, per sbaglio o distrazione, di rovinarlo in qualche modo.

Così, invertendo repentinamente rotta, riprese a camminare. I suoi passi risuonavano ovattati nel corridoio deserto. L'unico rumore, a parte il costante bruciare delle torce a muro, era dato dalla pioggia fine che si stava ancora riversando su Forlì. Non c'era un clima temporalesco, ma comunque la Riario si sentiva fortunata a non dover passare la notte all'addiaccio.

Nell'andare verso le scale che l'avrebbero portata di sotto, la ragazza passò davanti allo studiolo del castellano. La porta non era del tutto chiusa, e dentro si scorgevano delle luci. Bianca si fermò d'istinto, quando sentì la voce preoccupata di sua madre dibattere con quella altrettanto tesa di Cesare Feo.

Impensierita dal modo concitato in cui stavano discutendo, si fermò, cercando di tenersi in una posizione che impedisse loro di accorgersi di lei.

“Non temete che venga vista come una mancanza di forza da parte vostra?” chiese il castellano, titubante.

“E che altro posso fare, secondo voi?” ribatté la Tigre, a voce più alta: “E poi Fortunago, per me, era già persa il giorno stesso in cui i francesi hanno messo piede nel Ducato.”

“Ma il territorio di Fortunago è vasto...” si ostinò Cesare, come se le sue parole potessero bastare a convincere la sua signora a mandare subito un contingente al nord, in una missione suicida che non avrebbe fatto altro che sguarnire Imola e Forlì: “Tutta la valle di Borgoratto, Staghiglione, Gravanago, Montepico, Rocca Susella..!”

“E che accidenti vorreste che facessi, io?!” sbottò la Leonessa, e dal rumore Bianca capì che aveva appena battuto un pugno sulla scrivania: “Credete che non mi faccia arrabbiare sapere che Fortunago ha giurato fedeltà a Bergonzo Botta?! Eppure non posso farci nulla! E non posso nemmeno stupirmene! Non li ho protetti, mai. Non ci sono mai stata per loro, perché mai avrebbero dovuto preferire una padrona che non hanno nemmeno mai visto a un uomo che ha promesso loro di salvarli dai francesi?!”

Seguì un pesante momento di silenzio, interrotto appena dai soliti rumori di sottofondo che, per quanto tenui, ebbero il potere di catturare così tanto l'attenzione della giovane Riario, da farla saltare sul posto, quando, senza preavviso, si trovò davanti sua madre.

Caterina, spalancando la porta, la guardò con occhi di fuoco e inveì anche contro di lei: “Entra! Se hai tanto voglia di ascoltare, entra e ascolta! Impara a origliare come si deve, che è da quando sei arrivata che ho capito che eri qui!”

La ragazza fece subito quello che le veniva detto, sperando così di placare almeno in parte la furia della madre, e solo quando si trovò nello studiolo, illuminato da un buon numero di candele di sego e invaso dall'odore pieno del vino nero che stava appoggiato in una brocca di metallo sulla scrivania, si rese conto che oltre alla Tigre e al castellano, erano presenti anche Luffo Numai, Giovanni da Casale e Galeazzo.

Proprio quest'ultimo, in un angolo abbastanza riparato della stanza, le fece appena un cenno, per invitarla a mettersi vicino a lui.

La Sforza, vedendo come la figlia si ritirava in buon ordine accanto al fratello, si pentì di averla aggredita a quel modo, e, per riparare almeno in parte alla sua mancanza di delicatezza, prese un calice di legno che non era ancora stato usato – forse, pensò la Riario nel notare quel dettaglio, a quella riunione avrebbe dovuto prendere parte anche un sesto uomo, magari il Governatore – e le versò due dita di vino.

Porgendoglielo, con fare brusco, le disse: “Bevi.”

Bianca la ringraziò con un sussurrò, non sapendo come rifiutare e, per dimostrare una certa buona volontà, ne sorbì subito un sorso. Non era mai stata una grande amante del vino e, anche adesso che avrebbe compiuto diciotto anni nel giro di poco più di un mese, sentiva di non esser nata per indulgere in quel genere di piacere.

Tuttavia, non appena deglutì, sentì un calore molto piacevole allo stomaco e, per quanto si trattasse di un vino molto forte, a cui non era affatto abituata, si trovò a pensare che non fosse affatto male.

Tornando a concentrarsi su Cesare, la Sforza riprese: “Fortunago era una perdita calcolata. E, dopotutto, mi pare chiaro che non salveremo nulla, di queste terre... Ci vorrebbe un miracolo. Si può solo fare del nostro meglio per resistere il più a lungo possibile.”

Il Feo sembrava più in difficoltà che mai. Era teso, stava sudando e i suoi occhi passavano senza tregua dalla sua signora a Numai, come a cercare in lui un appoggio che, però, non stava arrivando.

“Certo che – provò a dire, cautamente Luffo, cogliendo il disagio del castellano – fare quello che avete proposto prima... Si tratta di spostare qui alla rocca una quantità di uomini non indifferenti.”

Anche Pirovano si fece più attento. Bianca poteva scorgere sul suo bel viso dei pensieri che, però, andavano ben oltre l'aspetto logistico di quella situazione.

Galeazzo, accanto a lei, si mordeva il labbro e, tenendo in mano il proprio calice ancora pieno, era così assorto da non vedere nemmeno come invece la sorella avesse già trangugiato tutto il proprio vino, approfittando del senso di tiepido benessere che le stava dando.

Quei discorsi alla Riario non piacevano. La mettevano davanti a una realtà che non aveva fretta di affrontare, ma che sapeva essere ineluttabile. Quella guerra non sarebbe stata come tutte le altre. La paura che aveva provato quando i veneziani avevano minacciato direttamente Forlì era solo una pallida imitazione di quella che l'avrebbe colta quando fossero arrivati i francesi.

Aveva ancora troppo chiaro nella mente il racconto di quello che, anni prima, i francesi avevano fatto a Mordano, e sapeva che quella volta l'obbrobrio si sarebbe abbattuto direttamente su di loro.

“Appunto – stava dicendo il castellano, facendo di colpo piccato – una mola di soldati che non so come gestiremo! Si parla anche di duemila uomini..! Vi rendete conto che la rocca di Ravaldino non è...”

“Vi ho già detto una volta – lo interruppe Caterina, infastidita dal tono usato da Cesare, specie perché davanti a testimoni – che quando vi renderete conto di non essere in grado di svolgere al meglio il vostro compito, troverò un valido sostituto.”

Quella mezza minaccia tacitò all'istante il Feo che, alzando appena le mani, chinò il capo ed ebbe la buona creanza di non dire più nulla.

“E comunque – riprese la donna, rivolgendosi tanto al castellano, quanto a Numai – i soldati che sposteremo dal Quartiere Militare non verranno tutti alla rocca. Buona parte saranno distratti alla cittadella.”

Giovanni, sentendosi finalmente chiamato in causa in prima persona, convenne: “Più uomini avrà sotto il mio comando, più tempo potrò resistere quando attaccheranno il Paradiso.”

Siccome né il Consigliere, né il Feo sembravano aver più nulla da ridire, Caterina decise di chiudere quella riunione, che aveva avuto solo il risultato di irritarla. La notizia di aver perso una volta per tutte Fortunago non l'aveva sorpresa più di tanto, ma ciò che l'aveva intimamente ferita era stato venire a sapere che la popolazione aveva giurato fedeltà al Botta, di cui lei si fidava. Avrebbe accettato molto di più sapere che il suo feudo era stato preso con la forza e donato a un francese qualsiasi. Nella sua ottica, sarebbe stata una sconfitta molto più onorevole.

“Potete andare. Ci riaggiorneremo presto.” concluse, con un sospiro.

Cesare e Numai se ne andarono subito, mentre Pirovano rimase in disparte, come in attesa di restare solo con la sua amante. I due figli della Tigre, però, non accennavano a lasciare lo studiolo.

“Hai capito che cos'è successo?” chiese, a voce bassa, la Contessa, rivolgendosi alla figlia.

La Riario annuì, e poi, cedendo all'impulso di sincerarsi anche del proprio futuro, domandò: “Se i francesi dovessero arrivare...” usò il dubitativo solo per non spegnere l'esilissima fiammella di speranza che ancora alimentava nel profondo della sua anima: “E conquistare anche Faenza...”

La Leonessa capì cosa angustiava la ragazza, così l'anticipò, dicendo: “Il tuo matrimonio con Astorre è ancora valido, purtroppo. Possiamo solo sperare che re Luigi lo ammazzi, liberandoti di lui.”

“Altrimenti?” chiese, sempre più tesa Bianca.

“Altrimenti...” Caterina si guardò un momento in giro e poi, sussurrando appena, per far sì che nemmeno Galeazzo sentisse: “Altrimenti dovrai cercare di non metterti nei guai, perché se ti trovassi ad aspettare un figlio, stai certa che qualcuno lo vorrebbe far passare come figlio suo e allora saresti ancor più in pericolo di quanto non sei, e poi si dovrà aspettare e, finita la guerra, si troverà pur un modo per rendere invalido questo matrimonio.”

La giovane deglutì. Sapeva che quello che sua madre aveva appena detto era la semplice verità, ma c'era stato qualcosa, nel modo in cui aveva sibilato quelle frasi, che le aveva messo i brividi.

“Madre...” provò a quel punto a dire la ragazza, volendo cambiare argomento: “E di messer Tommaso non ci sono più notizie?”

Anche Galeazzo, che pur aveva già capito da tempo che dello zio di Bernardino si erano perse completamente le tracce, si mise in ascolto, come sperando di avere qualche buona notizia.

L'espressione della Tigre si fece dura e, ignorando Giovanni da Casale, che alle sue spalle cominciava a dare qualche segno di impazienza, ammise: “Non ne sappiamo nulla. Per come stanno andando le cose, è probabile che sia morto quando i francesi hanno preso il Bosco con la forza.”

Nessuno dei due Riario trovò le parole giuste da dire, soprattutto perché quell'affermazione era arrivata con un distacco che aveva sorpreso entrambi. Ricordavano molto bene quando Tommaso viveva con loro, sapevano quanto fosse stato importante per la loro madre e per la preservazione del loro Stato. Sentire ora la Contessa prendere in considerazione con tanta fredda disinvoltura l'ipotesi che il Feo fosse morto, aveva sorpreso in negativo entrambi.

In realtà, mentre esprimeva il fondato dubbio della morte di Tommaso, Caterina aveva sentito il cuore correrle nel petto, la bocca asciugarsi e un'opprimente voglia di piangere. Aveva tenuto, però, tutto sotto il proprio controllo, per non perdere l'aura di sicurezza che aveva deciso di ostentare.

Se avesse potuto, avrebbe preso il suo purosangue e sarebbe corsa subito al Bosco per cercare lei stessa tracce di suo cognato. Anche se negli ultimi anni si erano allontanati, lasciando che troppe cose rendessero la loro spaccatura insanabile, la Sforza non aveva mai smesso di tenere a Tommaso, e avrebbe voluto almeno potergli dare una sepoltura decente, se davvero aveva dovuto soccombere al peggio.

“Adesso è meglio che andiamo tutti a riposare.” fece la Tigre.

I due Riario non si opposero alla sua decisione, e non lo fece nemmeno Pirovano, al quale bastava potersi liberare dei figli della sua amante e passare il resto della notte da solo con lei.

“Fai sempre i tuoi esercizi, mi raccomando.” disse la Contessa a Galeazzo, prima di lasciarlo davanti alla porta della sua camera: “E prima di coricarti ripassa la composizione dei pezzi d'artiglieria di cui ti ho parlato oggi.”

Il ragazzino annuì e assicurò che avrebbe fatto tutto quanto e poi, salutando la madre e la sorella e concedendo un breve cenno a Giovanni da Casale, sparì nel suo alloggio.

Dopo qualche passo, Caterina fu sul punto di congedare anche Bianca, senonché la Riario si ricordò di nuovo del libro che doveva ancora andare a recuperare in cucina.

“Te lo vado a prendere io.” si offrì la Leonessa, che, in effetti, non aveva ancora voglia di chiudersi in stanza, essendoci il tangibile rischio di dover infine affrontare col milanese il discorso riguardo cosa avrebbero fatto una volta che lui si fosse trasferito stabilmente alla cittadella: “Tu vai pure a riposarti, te lo porto io.”

La giovane fu tentata di insistere e rifiutare l'offerta della madre, ma qualcosa le fece intendere che fosse meglio dire subito di sì.

Pirovano sembrava molto scocciato da quella decisione repentina della sua amante, tuttavia, non appena la Riario si ritirò, l'uomo guardò la Contessa e le chiese, semplicemente: “Ti aspetto sveglio?”

“Ci metterò dieci minuti.” fece subito lei, a mo' di scusa: “Aspettami sveglio.” soggiunse, dato che l'uomo la fissava con un sopracciglio alzato, apparentemente poco convinto che quella spedizione nelle cucine non avesse qualche doppio fine che a lui, al momento, sfuggiva.

 

Francesco Fortunati giunse le mani davanti a sé, in un gesto che quasi mimava la preghiera, e poi le lasciò cadere sulle gambe, con un piccolo tonfo.

Non riusciva a capire il senso di quel movimento di Paolo Vitelli, ma i fatti stavano comunque sotto ai suoi occhi. Sospirò, perdendosi con lo sguardo nella fiammella della candela che illuminava il foglio aperto davanti a sé.

Lui, misero piovano, non aveva mai creduto un giorno di trovarsi a perdere il sonno pensando a fatti di guerra e politica. Era sempre stato addentro alle vicende del suo tempo, quello sì, e la sua capacità di esaminarle in modo lucido gli aveva anche dato una certa autorevolezza, tra i suoi conoscenti, tuttavia, quella volta, sentiva il sangue rigirarsi nelle vene e scaldargli il collo come se tutta quella questione lo riguardasse in prima persona.

Con un tocco distratto, sfiorò le ultime due missive della Tigre, abbandonate alla sua destra. Ecco il motivo per cui gli interessava tanto analizzare e capire quello che succedeva sul fronte fiorentino.

Una donna. O meglio, la Contessa di Imola e Forlì. Non aveva mai creduto di potersi trovare debole, dinnanzi a quel genere di tentazione, ma era pur vero che la sua era solo profonda ammirazione, tuttalpiù condita da una sincera fiducia. Non aveva mai cercato di avvicinarla in altro, mai, nemmeno quando, forse, ne avrebbe avuto modo.

Aveva fatto una promessa a se stesso e aveva giurato a Dio di restare casto e di consacrare la propria vita alla propria fede. Non poteva concedersi il lusso di avere un'amante, e nemmeno un amore segreto. Per la Sforza il suo cuore batteva più rapido che per chiunque altro, ma tutto ciò che poteva fare per incanalare quel calore che lo pervadeva ogni volta che le pensava, era cercare di aiutarla.

Ecco perché sapere che Vitelli sarebbe stato molto presto a pranzo nella villa di Ranuccio da Marciano, proprio lì a Cascina, lo intimoriva. Si diceva che quello fosse un gesto di riconciliazione, che i due avessero già avuto modo di discutere e che volessero celebrare una ritrovata amicizia proprio lì, bevendo e mangiando gomito a gomito.

Di fatto, però, Francesco non poteva non vederci qualcosa di losco, e si sorprendeva del fatto che invece il condottiero non paresse per nulla impaurito dall'entrare nella tana del lupo e mangiare insieme le provviste del padrone di casa.

E in più, ma quelle erano solo voci, per il momento, aveva sentito dire che il papa, in quei giorni a Nepi, avesse deciso di gettare finalmente la maschera, chiedendo a suo figlio Cesare, che tutti ormai chiamavano il Valentino, italianizzando il suo titolo di Duca di Valentinois, di prendere l'esercito e conquistare la Romagna.

Fortunati chiuse un momento gli occhi, e, nel farlo, rivide subito davanti a sé il volto della Leonessa. Si chiese quanto lei già sapesse e quanto fosse prudente scrivere per lettera. Le ultime missive che la donna gli aveva scritto riguardavano quasi interamente la questione della tutela di Giovannino e il piovano cominciava a chiedersi se per caso quell'angoscia non fosse andata a oscurarle tutto il resto, rendendole difficile scorgere il vero pericolo.

Avrebbe tanto voluto poter correre da lei subito, anche a costo di viaggiare ininterrottamente fino a Forlì. Però, poi, che avrebbe fatto? La temeva ancora troppo, per avvicinarla. Anche se, dai toni che lei usava nei suoi messaggi, sembrava dimentica della colpa incancellabile di cui si era macchiato Francesco, lui era certo che, trovandoselo davanti, avrebbe ricordato tutto.

Per Fortunati era un tormento continuo, ricordarsi la sciagurata mattina in cui Ottaviano Manfredi era morto, sotto i colpi dei congiurati, proprio sotto ai suoi occhi, senza che potesse far nulla per aiutarlo. Anzi, senza che cercasse di far nulla, questa era la differenza. Agli occhi della Tigre, sicuramente, lui appariva come colpevole. Avrebbe perso la vita, dando man forte al faentino, ma di certo non l'onore. Era così che ragionava la Sforza.

Il piovano sospirò, poi, capendo dai suoni della notte che arrivavano dalla finestra un po' aperta che si era fatto molto tardi, l'uomo lasciò la scrivania, con un senso di freddo addosso che poco aveva a che vedere con il clima ancora molto mite di quel 28 settembre.

Andò all'inginocchiatoio, si fece il segno della croce e poi, le mani giunte e lo sguardo rivolto al crocifisso di legno appeso al muro, iniziò a invocare pietà per i suoi peccati, a chiedere consigli sul da farsi e a pregare con una solerzia non comune per la vita e la salvezza della sua signora.

 

Caterina era arrivata nelle cucine facendo solo una breve deviazione per i baraccamenti. Sapeva che lì avrebbe trovato il Capitano Mongardini, che quella notte era di riposo, e così ne approfittò per scambiare con lui qualche parola in merito a quello che era successo a Fortunago.

L'uomo ascoltò tutto senza fare commenti e solo alla fine fece un cenno con il capo e concordò con lei: “Sì, mia signora, credo anche io che si finirà a dover ammassare qui le truppe.”

Per la Tigre, la conferma di un uomo d'armi come Guglielmo valeva molto di più di tutte le perplessità di Numai e Cesare Feo. Anche se sapere che pure il Capitano trovava improbabile che Imola reggesse a lungo e che i cittadini di Forlì facessero quadrato attorno a lei un po' l'abbatteva, la Leonessa trovò confortante condividere quella visione, per quanto pessimista.

Con un sospiro pesante, lasciò Mongardini con un colpetto sulla spalla: “Tornate a dormire, e riposate, finché potete. Chi c'è di turno alle merlature stanotte?” chiese poi, per quanto in realtà lo sapesse benissimo.

“Cicognani.” rispose pronto Guglielmo.

La Sforza annuì e poi si congedò una volta per tutte. Dai baraccamenti andò nelle cucine e cercò per qualche minuto il libro che Bianca aveva dimenticato. Per trovarlo dovette chiedere numi a una delle sguattere che, malgrado l'ora tarda, si stava ancora affaccendando per ripulire il camino.

Si trattava delle satire di Giovenale. Una lettura che Caterina riteneva molto particolare, specie per sua figlia. Il modo in cui l'antico romano prendeva di mira le donne, specie quelle più emancipate e recalcitranti a seguire le etichette imposte dalla società, a volte dalla Contessa era stato visto come un affronto che sfiorava il personale.

Dunque si trovò a chiedersi, mentre risaliva le scale, se Bianca avesse iniziato quel tomo su consiglio di qualcuno, per curiosità puramente accademica, o se per qualche altro motivo più profondo. Ciò che la faceva propendere più di tutto per quest'ultima ipotesi era vedere come sua figlia avesse lasciato un segnalibro tra le pagine della satira più accesa e violenta, quella rivolta a Messalina che, secondo Giovanale era l'Augusta meretrix, che, dopo aver indugiato nei piaceri della carne tutta notte, tornava a casa lassata viris necdum satiata.

La donna stava ancora cercando le possibili sfaccettature di quella scelta, quando si trovò a pochi passi dalla stanza della figlia. Vide che la porta non era chiusa, ma appena accostata. I suoi occhi verdi si puntarono sulla sottile striscia di luce che ne usciva e poi le sue orecchie si fecero più attente ai suoni che arrivavano da oltre il legno.

Le fu subito chiaro che sua figlia non fosse sola. Tuttavia, la certezza che Bianca la stesse aspettando, la indusse a non andarsene subito. I suoni che le arrivavano, un po' mascherati dalla porta che li divideva, erano quelli inconfondibili di una serie di baci che, a intuito, le sembravano tutt'altro che casti.

Sentiva il respiro di Bianca, corto e rumoroso, tra un bacio e l'altro, e quello di un ragazzo. Fu sul punto di lasciare il libro in terra, vicino alla porta, ma poi sentì la figlia dire qualcosa.

“Basta...” aveva sussurrato, riprendendo fiato: “Sto aspettando mia madre, vattene.”

“Un momento... Lascia almeno che...” ribatté l'altro che, da quelle poche parole, la Tigre non riconobbe.

“Ti ho detto basta.” ribadì la Riario e, senza attendere altro, si avvicinò alla porta e la spalancò.

Trovandosi davanti la Contessa, la ragazza rimase ammutolita e così anche il giovane soldato che la Leonessa finalmente riconobbe come lo stesso che qualche tempo prima aveva scorto in fedele attesa di sua figlia al piano di sotto.

“Non volevo interrompervi, scusatemi.” disse, tutto sommato pacatamente la Sforza: “Ecco il tuo libro – soggiunse, porgendo le Satire di Giovenale a Bianca, per poi dirle, in un soffio che perfino la ragazza faticò a sentire – mi raccomando, stacci attenta. Prendi la pozione che ti ho dato, se non la stai già prendendo. Non fare sciocchezze.”

La figlia arrossì violentemente e fece per cominciare a dare delle spiegazioni, ma la donna scosse subito il capo e, consegnato il volumetto, proseguì per la sua strada senza voltarsi. Ebbe il coraggio di guardarsi alle spalle solo quando giunse in fondo al corridoio. La porta della stanza di Bianca era chiusa, ma non era riuscita a capire se il ragazzo fosse rimasto dentro o se ne fosse andato.

Sentiva un nodo in fondo allo stomaco che non sapeva come sciogliere. Invece di tornare in camera da Pirovano, preferì camminare ancora un po', per schiarirsi le idee. Lei per prima era felice che sua figlia si sentisse libera di far quel che voleva. Stavano rischiando tutti la vita e se si fosse presa qualche soddisfazione, sarebbe stato solo un bene. Stava però scappando dal matrimonio con Astorre, e intrattenersi con degli uomini poteva rivelarsi un errore fatale...

Caterina era ormai arrivata alle merlature. Si appoggiò alla pietra ancora calda e si mise a osservare Forlì che si stagliava davanti a lei come una coperta nera chiazzata da piccole luci brillanti.

Non volle lasciar scivolare lo sguardo sulla statua del suo secondo marito, ma, per riuscirci, dovette tornare a concentrarsi sui camminamenti. I soldati di ronda non erano molti, ma con il loro incessante andirivieni davano l'impressione di avere tutto il perimetro della rocca sotto il loro controllo.

Mentre osservava tutti gli uomini che le passavano davanti, la Tigre venne attratta da uno in particolare. Ormai il suo viso le era familiare e così i suoi modi, perciò quando Baccino da Cremona le passo accanto e le strizzò l'occhio, con un sorriso malizioso, non se ne curò più di tanto. Anzi, lo provocò, volutamente, continuando a fissarlo anche dopo che l'ebbe superata.

Per controllare se la donna lo stesse ancora rimirando, il giovane voltò la testa verso di lei troppe volte e per troppo tempo, finendo a inciampare e per poco non cadde. Aggrappato ancora alla parete ruvida, Baccino fece un sorriso un po' meno intraprendente in risposta alla risata secca della Leonessa e poi, vedendola tornare alle scale, si rimise in ordine e riprese a concentrarsi sull'orizzonte.

Mentre infine si arrendeva all'idea di tornare in stanza da Giovanni da Casale, la Contessa si chiese cosa sarebbe successo, non solo con il suo amante, ma anche nella sua anima, se quella notte, invece di seguire il buon senso e ritirarsi in buon ordine, accontentandosi del milanese, avesse ceduto ai suoi istinti, prendendosi anche il cremonese.

Mordendosi il labbro, le parole di Giovenale tornarono a rimorderle la coscienza, mentre ancora si ripeteva quei versi che capiva e odiava allo stesso modo, aprì la porta e vide Pirovano che l'aspettava, steso a letto, fremente e sollevato di vederla arrivare prima di quanto avesse sperato.

L'uomo la strinse subito a sé, senza fare domande, benché Caterina si fosse accorta del modo particolare in cui stava affondando il viso nei suoi capelli.

“...et lassata viris necdum satiata recessit, obscurisque genis turpis fumoque lucernae foeda lupanaris tulit ad pulvinar odoremo...” sospirò, quasi tra sé, rivedendo in quel gesto un modo sciocco e tuttavia di una certa efficacia per capire se fosse stata con un altro uomo, mentre Giovanni se ne stava lì in sua attesa.

“Come..?” chiese Pirovano, accigliandosi, come sempre insofferente al latino e alla sua impossibilità di comprenderlo.

“Lascia perdere.” soffiò lei, dandogli un bacio sul collo: “Ripensavo a dei versi che parlavano di Messalina.”

Benché non istruito, qualche nozione generale il milanese la conservava, specie risalente a quello che aveva potuto imparare stando alla corte del Moro, frequentata da intellettuali e letterati di ogni tipo. Quel nome non gli risultava nuovo e, infatti, mentre la sua amante cercava di distrarlo in altro modo, finalmente si ricordò.

“Ma Messalina non era quella che, pur essendo sposata con un imperatore, andava di notte nei bordelli per...” cominciò a dire, ma arrivò un altro bacio, questa volta sulle labbra, e molto profondo, a zittirlo.

“Ti ho detto di lasciar perdere.” ripeté la Contessa e, quella volta, Giovanni preferì seguire il consiglio, perché ogni parallelismo tra Messalina e la sua donna non faceva altro che spaventarlo.

 
 
   
 
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