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Autore: Adeia Di Elferas    18/08/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Paolo Vitelli spezzò il pane in silenzio. Guardò un momento quelli che stavano a tavola con lui e si sforzò di esibirsi in un sorriso abbastanza sicuro.

Si era reso conto troppo tardi dell'imprudenza che aveva compiuto. Accettare un invito a pranzo a cena di Ranuccio da Marciano non gli era parso qualcosa di pericoloso, ma, nel momento stesso in cui aveva varcato la soglia di quel palazzo e gli era stato chiesto di lasciare le armi, aveva subodorato qualcosa di sinistro.

Mentre raggiungeva il salone dove gli altri ospiti già l'attendevano, poi, si era rammaricato come non mai di non essersi portato appresso suo fratello Vitellozzo. L'aveva lasciato a Vicopisano, convinto che fosse molto più utile là, e scusando ufficialmente la sua assenza a quel ricevimento con una bruttissima influenza, ma doveva ammettere che si sarebbe sentito molto più al sicuro, se l'avesse avuto accanto.

Il suo seguito sarebbe stato, infatti, di ben misero aiuto, in caso di bisogno. A parte Antonio Tarlatini e Cherubino dal Borgo, che erano bravi a menar le mani se necessario, il maestro Antonio di Niccolò di Castiglion Fiorentino e il segretario Cerbone Cerboni sarebbero stati più un intralcio, che non un soccorso.

Era stato quindi con il cuore in gola e le mani un po' sudate che aveva preso posto a tavola, trovandosi seduto proprio accanto al Marciano, un po' troppo distante, per i suoi gusti, dagli uomini che aveva portato con sé.

Tuttavia, mentre fuori una leggera brezza spazzava Cascina, si poteva dire che quel convivio stesse procedendo senza grossi problemi.

Ranuccio non era un padrone di casa particolarmente affabile, ma era un atteggiamento comprensibile e scusabile, visti i continui attriti che lui e Paolo avevano avuto nel corso di quella lunga e strana campagna. Nemmeno la presenza di Jacopo Appiani aveva insospettito troppo il Vitelli. Gli era stato spiegato che la Signoria aveva ben pensato alle sue ragioni e aveva in effetti trovato eccessivo l'aver mandato due commissari per arrestarlo, così, invece di catturarlo in modo brutale, aveva deciso di sostituirlo con un altro comandante e basta.

“Quindi Firenze ha intenzione di attaccare di nuovo Pisa?” chiese, quasi con ingenuità, Cerboni, masticando rumorosamente la carne che gli era appena stata servita.

“Si deve fare quello che va fatto.” rispose, secco e indisponente, Jacopo Appiani.

Quel modo di esprimersi, così diverso da tono disteso tenuto fino a quel momento dal condottiero, fece rizzare i peli del collo a Vitelli. Fu un attimo. Bastò incrociare per un solo istante lo sguardo di quell'uomo per capire che qualcosa sarebbe successo, e che sarebbe successo subito.

Paolo fece appena in tempo ad alzarsi, facendo grattare un po' i piedi dello scranno contro il pavimento, che qualcuno – Ranuccio – lo afferrò per un braccio, trattenendolo. Nel giro di pochissimi istanti, non solo il Marciano, ma anche l'Appiani lo stavano tenendo con forza, storcendogli i polsi e i gomiti, facendolo gemere di dolore, arrivando perfino a dargli un forte pugno nello stomaco e, subito dopo, uno in pieno volto, facendogli quasi perdere i sensi.

Tra le lacrime di dolore che stavano oscurando la sua visuale, il Vitelli vide come tutti quelli che erano entrati con lui in quella sala come ospiti erano ora dei miseri prigionieri, imbrigliati nelle strette ferree dei soldati dei fiorentini, spuntati chissà da dove.

“Sei furbo – disse piano Ranuccio, dandogli uno strattone del tutto gratuito – ma non abbastanza.”

“Incatenateli tutti – ordinò con fermezza Jacopo, dando un pestone al piede del Vitelli, anche lui senza che ve ne fosse un reale motivo, al solo scopo di fargli male – e incappucciateli. Voglio essere in marcia tra meno di due ore.”

 

“Ce l'aspettavamo.” disse, fin troppo calma, Caterina, senza staccare gli occhi dalla lettera che stava scrivendo.

Giovanni tacque. Non riusciva a capire come potesse la sua amante prendere quella notizia senza nemmeno dimostrare un briciolo di stizza. Proprio lei, che era ritenuta una delle donne più colleriche al mondo...

La stanza della Tigre era tranquilla e per essere già sera, era anche più illuminata del dovuto. Era una cosa che Pirovano aveva cominciato a notare solo in quegli ultimi tempi. Era come se la sua amante, accendendo più candele del necessario, volesse scacciare dai propri appartamenti l'oscurità che cresceva nel suo animo.

Sul fatto che ci riuscisse, però, il milanese aveva davvero molti dubbi, dato che mai come in quel periodo l'aveva sentita lamentarsi e agitarsi nel sonno, specie verso mattino, arrivando perfino a gridare e svegliarsi tanto di soprassalto da balzare giù dal letto e – era successo solo una volta, ma per lui era stato sufficiente – impugnare la spada che giaceva accanto al mobile, brandendola verso il nulla.

“Sì, è vero, ce l'aspettavamo – fece eco lui, non accettando una simile arrendevolezza da parte della Sforza – ma i Pregadi hanno esagerato, questa volta.”

“E perché?” chiese lei, lasciando infine da parte la missiva destinata a Bartolomeo Nerli, uno dei pochi, sperava, che potesse accordarle un prestito senza proporre tassi di interesse da strozzino.

“Perché..!” pur volendo mantenere il controllo a tutti i costi, Giovanni stava rischiando di perdere le staffe: “Perché ci hanno tenuto sul filo per un sacco di tempo, per poi dirci di no!”

“Hai ragione, era meglio che ce lo dicessero subito.” convenne la Leonessa, alzandosi dalla scrivania e avvicinandosi al suo amante: “Ma il fatto che abbiano atteso così tanto ci fa capire una cosa importante.”

Questa volta Pirovano non disse nulla perché non capiva cosa intendesse la Contessa. Non era certo la prima volta che si sentiva uno sciocco, nel discutere con lei di diplomazia e sotterfugi, ma in quel frangente gli sembrava eccessivo voler trovare una spiegazione trascendentale a un semplice atto di aggressiva scortesia da parte del Doge.

“Hanno voluto prima informarsi meglio.” fece Caterina, rinunciando a estrapolare quella congettura dalla mente dell'uomo che aveva davanti: “In realtà nemmeno loro sanno di cosa siamo capaci. Alla fine hanno detto di no solo per colpa della figura da vile che sta facendo mio zio...”

“Oh, avanti!” esclamò allora Giovanni, sentendo che il discorso stava tornando su un piano per lui più conosciuto: “Quanti soldati potremo contare noi, quando arriveranno i francesi? Duemila? Duemilacinquecento? Tremila, se sommiamo tutte le reclute e le guardie? Come potremmo mai essere presi come una minaccia da chicchessia!”

“I francesi hanno molti più uomini di noi.” convenne la Tigre, con un'ostinazione che al milanese cominciava a risultare irritante: “Ma i nostri sono meglio preparati e...”

“Non fingere con me.” tagliò corto Pirovano, che non aveva alcuna voglia di sentirsi preso per il naso: “Piuttosto...”

I suoi occhi castani vagarono per un momento su tutti gli oggetti che ingombravano quella stanza. I suoi abiti erano ancora sparsi sull'inginocchiatoio, sul mobile e sulla cassapanca. Stava cercando di riordinare i bagagli da portare alla cittadella, ma più si sforzava di farlo, più sentiva crescere dentro di sé una riluttanza inaudita.

Aveva ormai perso la speranza di ottenere una reazione sanguigna della sua donna, nel parlarle di Venezia, e così pensò che fosse il caso di affrontare un altro argomento, che trovava entrambi molto suscettibili e vulnerabili.

“Piuttosto?” la incalzò lei, andando a recuperare nel mobiletto la sua crema per le mani.

“Piuttosto, hai pensato a come faremo, quando dovrò trasferirmi al Paradiso?” chiese lui, tutto d'un fiato, come se così facesse meno male.

La Leonessa si adombrò subito. Era una questione a cui non voleva pensare e sapere che aveva contribuito lei stessa a sollevarla la faceva solo stare peggio. D'altro canto, però, Giovanni era l'unico, a suo dire, che avesse le capacità per comandare la cittadella. Si trattava, ancora una volta, di sacrificare la propria vita privata in favore degli affari di Stato, ma non poteva far altrimenti.

“Come faremo..!” fece lei, tradendo, per la prima volta da che si erano chiusi in stanza, una profonda inquietudine: “Faremo in modo che... Chi è?” chiese, interrompendosi subito, sentendo qualcuno bussare alla porta.

Il castellano si annunciò, domandando cauto se potesse entrare. Gli anni gli avevano insegnato che entrare nelle stanze della sua padrona senza chiedere il permesso, specie se era in compagnia di un uomo, poteva non essere una buona idea.

“Che c'è?” lo incalzò Caterina, una volta che al Feo venne invitato a entrare.

“Non volevo disturbarvi – cominciò questi, dando una rapida occhiata a Pirovano, che se ne stava cupo in un angolo, in attesa che quella scocciatura vivente di Cesare se ne andasse – ma è successo un fatto che credo vogliate sapere subito.”

“E allora parlate.” lo esortò la Leonessa, esasperata dalle reticenze in cui, a tratti, si perdeva il castellano.

“Abbiamo avuto una segnalazione di un sospetto caso di peste – si affrettò a quel punto a spiegare il Feo – e ce ne siamo sorpresi, dato che l'epidemia si sta spegnendo. Messer Numai voleva mandare Tornielli a controllare, ma come sapete...”

“Ha la febbre, lo so.” fece la donna, che non voleva altro che l'altro si sbrigasse ad arrivare al punto.

“Ecco, allora abbiamo provato a convocare il Governatore. Dapprima si è negato, e poi non si è fatto trovare nel suo palazzo.” concluse infine il castellano, deglutendo: “Ora, io capisco ciò che ancora vi lega a lui, ma...”

“E va bene.” sbuffò la Leonessa, scuotendo il capo con rabbia, dando finalmente a Pirovano la reazione accesa che cercava da tutta la sera: “E va bene. Vado io a controllare questo dannato appestato.”

Il milanese, riconoscendo finalmente la donna che amava, si affrettò a infilarsi gli stivali, e, mentre lei prendeva un mantello con cappuccio per proteggersi dalla pioggia, chiese: “Dove si trova, costui?”

“Non sono affari tuoi.” lo zittì lei, ma non cercò in altro modo di impedire che la seguisse fuori, mentre Cesare spiegava con dovizia di particolari come raggiungere la casa del presunto malato.

“Ah, richiamate Numai, nel caso sia già tornato a casa...” aggiunse la Contessa, appena prima di arrivare al confine della rocca, per il Feo invalicabile: “E ditegli di preparare subito, assieme al mio segretario, i documenti necessari per sollevare in modo perpetuo dal suo incarico Simone Ridolfi.”

Lo zio di Giacomo fece un profondo inchino e, non senza una certa soddisfazione, dichiarò: “Sì, mia signora, lo faccio subito.”

Rimase qualche istante a guardare la Sforza che andava al ponte levatoio, affrontando il buio e la pioggerella spessa e fredda di quella notte. Pirovano era a un paio di passi da lei, quasi arrancando, come se, malgrado le sue gambe lunghe e muscolose, non sapesse – o forse non volesse – andare al suo ritmo.

Ridolfi era il marito di sua nipote, ma al castellano quel dettaglio, in quel momento, importava poco. Lucrezia con lui non era mai stata gentile, tanto meno affezionata. Si erano frequentati pochissimo e, da quel che sapeva, l'aveva sempre ritenuto un uomo di poca importanza.

Certo, per lei trovarsi un marito interdetto a vita dal ricoprire una carica come quella di Governatore non sarebbe stato facile, opportunista e arrivista com'era, ma alla fine avrebbe accettato anche quello.

“Così tu e il tuo marito fiorentino avrete modo di passere più tempo assieme...” borbottò tra sé il Feo, quasi divertito, mentre correva al piano di sopra nella speranza che Numai si fosse attardato nel suo studiolo, come preannunciato, in attesa di sapere come la Tigre avrebbe preso quella notizia.

 

Vitellozzo Vitelli si accigliò. Era molto tardi e quella richiesta gli suonava troppo strana. Il suo attendente non accennava ad andarsene, però, in attesa di una sua pronta risposta.

“Chi hai detto che c'è, con Braccio Martelli e Antonio Canigiani?” chiese il condottiero, prendendo tempo e cercando, intanto, di ragionare.

Il soldato cercò di ricordare al meglio i nomi che gli erano appena stati detti: “Piero Del Monte a Santa Maria e Pirro da Marciano.”

“Come mai Pirro da Marciano non è a Cascina con il fratello?” si informò Vitellozzo, vedendo sempre più ombre in quell'improvvisa visita al campo.

L'attendente fece spallucce e poi, schiarendosi la voce, chiese: “Cosa devo riferire?”

“Sono qui fuori?” il Vitelli cominciava ad agitarsi.

Era convinto che se fosse successo qualcosa a Cascina, suo fratello Paolo glielo avrebbe fatto sapere in modo tempestivo. Quattro uomini come quelli che si erano presentati lì a Vicopisano non si muovono certo, per di più in piena notte, solo per far due chiacchiere...

“No, sono al limitare del campo.” spiegò il giovane: “La ronda li ha fatti attendere lì.”

“E loro l'hanno fatto di buon grado?” le domande del condottiero si stavano facendo sempre più frettolose, la sua voce che scivolava dalle labbra quasi sdrucciolando, mentre lui cominciava a cercare gli abiti giusti nel suo bauletto: “Al diavolo...” borbottò, non trovando quel che cercava.

L'attendente restava immobile sotto la luce del torcione centrale, in attesa di ricevere ordini chiari, ma, vedendo il suo signore in difficoltà, si offrì subito: “Posso fare qualcosa per aiutarvi..?”

“Sì.” fece l'altro, desideroso di levarselo di torno e poter ragionare più freddamente: “Vai dai messi fiorentini e di' loro che sto arrivando e che li seguirò senza fare opposizione. Che mi aspettino là.”

“Li seguirete dove?” chiese il ragazzo, senza capire.

“Muoviti!” ringhiò a quel punto Vitellozzo.

Il soldato corse fuori e finalmente il Vitelli poté fermarsi un istante e riordinare in fretta le idee. Il suo padiglione era caldo e accogliente, quella sera, e gli dispiaceva come non mai doverlo lasciare.

Però, in palio c'era la vita e dunque faceva quel sacrificio senza troppa fatica.

Non sapeva cosa fosse successo a suo fratello Paolo, ma ormai poteva immaginarlo. Se non era già morto, lo sarebbe stato a breve. Era inutile cercare spiegazioni a quel gesto di Firenze. La lotta intestina alla Signoria era tale e tanto confusa che chiunque avrebbe potuto finirci in mezzo e perderci la vita.

Si assicurò un pugnale per gamba, dentro agli stivali, uno spadino sotto la cotta e la sovracotta e poi, evitando lo spadone solo per mantenere la sceneggiata che sperava di poter mettere in pratica, uscì dalla sua tenda. Trovò subito colui che cercava, il comandante delle sue lance spezzate, e gli disse in fretta poche parole.

Camminò tranquillo fino al limitare del campo, finché non vide, alla luce della pallida luna, i quattro fiorentini che l'aspettavano. Davanti a tutti gli altri, come fosse il reale capo di quella spedizione punitiva, stava Pirro da Marciano, con un sorrisetto malevolo a distorcergli i linearmente del viso già di per sé non bello.

Più si avvicinava, più capiva, dalla sicurezza ostentata dai messi della Repubblica, che non dovevano essere soli. Era pronto a scommettere che oltre la collina li attendesse un intero squadrone armato fino ai denti.

Poteva solo prendere tempo: “Ma come mai vi scomodate per un uomo come me, e a quest'ora, poi..!” esclamò, fingendosi molto amichevole, le mani che si sfregavano l'una con l'altra, come per riscaldarsi.

“Non vi interessa il perché. Dovete seguirci.” disse Pirro, gli occhi puntati su di lui, apparentemente disinteressato alle guardie che lo tenevano sottocchio.

“Fino a dove?” chiese Vitellozzo, nella speranza che le sue lance spezzate si stessero dando una mossa.

“Non fate finta di non saperlo.” fece a quel punto Braccio Martelli, facendo un passo avanti: “Vi si porta a Firenze, dove v'attende vostro fratello. Possibile che non v'abbia scritto! Lo hanno scortato alla Signoria per dargli gli onori che gli spettano e ora vuole che anche voi riceviate ciò che vi è dovuto!”

Il Vitelli, nel sentir far cenno a Paolo, dovette trattenere un moto di rabbia. Il modo in cui gliene stavano parlando gli fece capire che ormai era spacciato, già morto o meno, era perduto.

“Allora se vi devo seguire fino a Firenze, con sto freddo – si schermì il condottiero, stringendosi nelle spalle, recitando come meglio poteva – dovete aspettare che vada a prendermi una mantella, perché sapeva che ho avuto la febbre, e forse l'ho ancora...”

Presi un po' allo sprovvista dalla docilità che l'altro stava mostrando, e cominciando a credere che fosse malato davvero, dato che sosteneva di aver freddo in una sera tutt'altro che gelida, i fiorentini si scambiarono qualche occhiata, fino a che il loro portavoce Pirro, concesse: “E va bene, ma vi si aspetta qui tra dieci minuti.”

Vitellozzo ringraziò con un cenno della mano e si allontanò, avendo cura di non camminare troppo in fretta. La scusa che suo fratello si era inventato – una stupida influenza – si stava rivelando più provvidenziale del previsto. Fosse stato per lui, avrebbe finto una ricaduta del mal francese di cui soffriva, ma Paolo era stato lungimirante e aveva deciso che un malanno molto più vago sarebbe stato qualcosa di assai più versatile, in caso di bisogno.

Prese la direzione del suo padiglione, ma, appena intravide il luccicare delle armature che aspettava, fece un fischio e richiamò i suoi. Un fante gli portò con velocità il suo cavallo e il Vitelli montò in sella, gridando subito l'ordine di partire.

Antonio da Castello e Zito da Perugia, che stavano coordinando silenziosamente l'operazione, ribadirono la voce e così in un lampo centocinquanta cavalli e un centinaio di fanti sbucarono da ogni angolo e fecero quadrato attorno al Vitelli.

Martelli e Canigiani, che erano voltati di spalle, non si accorsero subito di quanto stava accadendo, mentre i loro due compari già stavano correndo via, per cercare riparo e soccorso, sperando, forse, di poter raggiungere l'altro lato della collina prima di essere travolti dai soldati che fiancheggiavano il Vitelli.

Vitellozzo, fatto forte dell'espressione terrorizzata – ben visibile anche con quel buio – che si dipinse sui volti di Braccio e Antonio non appena si resero conto del motivo della fuga degli altri due, diede di sprone al suo cavallo e, guidando senza indugio le sue lance spezzate.

Non sapeva dire dove fossero di preciso gli uomini dei fiorentini, e, avendo fatto i calcoli troppo frettolosamente, capì tardi di averli sbagliati.

“Forziamo il blocco!” gridò, mentre, nel buio, vedeva avanzare le guardie nemiche, che, per fortuna, erano poche e apparentemente poco motivate.

I suoi seguirono come un sol uomo il suo ordine e, accelerando progressivamente la corsa e il galoppo, infransero il muro umano che li attendeva, calpestando i nemici, senza il minimo problema, riuscendo a oltrepassarli senza – così sembrava – subire nemmeno una perdita.

“A Pisa!” gridò a quel punto il Vitelli, che, fino a quel momento, non aveva ancora pensato a dove riparare.

Mentre stringeva le cosce contro il suo cavallo e si aggrappava alle redini, l'aria fresca della notte che gli riempiva i polmoni, per la prima volta si trovò a pensare al fratello senza la fredda lucidità che il suo spirito di autoconservazione gli aveva donato fino a quel momento.

Se non l'avevano già ucciso a Cascina dove probabilmente l'avevano catturato qualche ora prima, di certo lo avrebbero fatto una volta che fosse arrivato a Firenze. Vitellozzo aveva chiara solo una cosa in mente, a quel punto: doveva trovare il modo per vendicarsi. Doveva scoprire esattamente chi aveva deciso di farlo arrestare e ammazzare. E poi, una volta che avesse saputo il nome di tutti i responsabili, la sua furia si sarebbe abbattuta su di loro come una tempesta e nessuno ne sarebbe uscito vivo.

Asciugandosi con rabbia una lacrima che gli stava annebbiando la vista, il Vitelli seguì gli altri cavalieri, che, tutt'attorno a lui, stavano imboccando la strada più rapida per tornare a Pisa.

Non ebbe la prontezza di chiedersi se i fanti li stessero ancora seguendo o se, per qualche motivo, fossero rimasti indietro a coprire loro le spalle da un eventuale inseguimento dei fiorentini. Gli importava solo arrivare subito a Pisa e cominciare a farla pagare a Firenze che, più di chiunque altro, aveva colpa in quello che stava capitando.

 

“Questa proprio non ci voleva...” disse piano Caterina, mentre osservava ancora da vicino – da troppo vicino, secondo Pirovano – le dita annerite dell'uomo che aveva davanti: “Beliardo tra quanto arriva?”

La fronte della donna era imperlata di sudore freddo, e la luce della candela, che si proiettava sulla gangrena pestifera del malato gettava sul suo viso delle ombre infauste e tetre.

“Dovrebbe essere qui tra pochi minuti...” constatò il Filippo Codiferro, figlio di Bartolomeo, che, saputo del fatto era subito accorso dal Quartiere Militare per dare una mano alla sua signora.

La casa dell'appestato, in effetti, non era lontano da quella zona della città ed era stato proprio quel dettaglio a mettere in allarme la Tigre più di qualunque altro. Il caso appariva abbastanza grave da farle capire che non si trattava di qualcosa di recente.

“Come mai non è stato scoperto prima?” chiese, seguendo quella linea di pensieri.

Giovanni da Casale se ne stava un po' in disparte, il braccio davanti al naso e alla bocca, come se bastasse per proteggerlo da un eventuale contagio. Anche Codiferro si teneva a debita distanza e lanciava di quando in quando, degli sguardi preoccupati alla Contessa, come se si stesse trattenendo a stento dall'indurla ad allontanarsi un po' dall'appestato.

“La segnalazione di un possibile caso l'avevano fatta da un pezzo...” spiegò a quel punto il soldato, che, comunque, parlava solo per sentito dire: “Ma il Governatore ha sempre tirato avanti e aspettato...”

“Come mai?” chiese Caterina, già abbastanza arrabbiata con Ridolfi da vedere quell'ennesima novità come una riconferma della giustezza della sua decisione di sollevarlo dal suo incarico.

“Forse non credeva che fosse peste...” provò a dire Filippo, che con i suoi pochi anni e i suoi occhi grandi sembrava un bambino spaventato, più che un uomo d'armi: “Non lo so...”

“Non importa.” tagliò corto la donna, mentre, finalmente, Beliardo varcava la soglia, portandosi apprezzo un ragazzetto che teneva in braccio un borsone dall'aria pesantissima.

“Che dobbiamo fare?” chiese il barbiere cerusico, strizzando gli occhi in quella penombra e arricciando il naso: “C'è roba da tagliare?”

Il malato, che pur era abbastanza estraniato dalla realtà per via della febbre alta, nel sentire quelle parole parve rinsavire di colpo e, per tenerlo fermo, sia la Leonessa sia Codiferro, istintivamente, gli misero le mani addosso per trattenerlo.

Rendendosi conto entrambi e a tempo del rischio che stavano correndo, mollarono la presa, e per fortuna il forlivese, già abbastanza provato da tutto quanto, perse conoscenza.

“Che diamine..!” sbottò la donna, guardandosi le dita, come se fossero qualcosa di estraneo al suo corpo.

“Mia signora...” fece Beliardo, assumendo un aria professionale che poco si addiceva al suo aspetto un po' trasandato e ai suoi occhi assonnati: “Andate subito a lavarvi con i vostri olii, qui ci penso io.”

“Fareste meglio a fare anche voi quello che dice il barbiere.” disse, con voce metallica, la Sforza, rivolgendosi a Codiferro.

Questi, ancora attonito per quello che era successo, annuì appena, ma le fu subito chiaro che non avesse idea di come fare.

“Giovanni – disse allora, prendendo rapidamente in mano la situazione – vai alla rocca, nel mio laboratorio, e prendi gli olii e i sali depurativi. Se non li riconosci, chiama mia figlia, lei sa quali sono. Poi raggiungici alla locanda qui accanto. Ci farò preparare in fretta un bagno. Non voglio rischiare di portare la peste in casa mia. Non ora.”

Pirovano non ebbe la prontezza di ribattere in alcun modo. L'indole da soldato integerrimo e solerte che lo dominava fin da quando era ragazzino l'aveva portato ad annuire all'istante, facendolo uscire da quella casa maleodorante quasi di corsa.

Solo mentre già vedeva in lontananza la statua di Giacomo Feo si permise di lasciarsi prendere da un leggero stato di panico, dovuto al rischio concreto che la sua amante si ammalasse di peste proprio quando l'epidemia andava spegnendosi, unito a una strana gelosia nel pensare alla moglie sola con Codiferro, intenta a farsi preparare un bagno in una locanda, senza che l'oste ne conoscesse il vero motivo.

Sapeva che il primo sentimento era fondato, mentre il secondo era qualcosa di sciocco, dettato solo dalla sua insicurezza. Però soffriva ugualmente per entrambi.

Non provò nemmeno ad andare da solo nella spelonca della Tigre. Non ci capiva nulla di pozioni e intrugli e così si mise a cercare Bianca. Non aveva una grande intesa, con lei, ma per un'emergenza del genere sarebbe stato disposto a collaborare perfino con il diavolo in persona.

La ragazza non era nella sua stanza, benché fosse davvero molto tardi. Provò allora a controllare nella camera di Giovannino, pensando che forse, dopo averlo messo a letto, fosse rimasta lì e si fosse addormentata per errore.

Siccome non la trovò nemmeno lì, fu tentato di chiederne notizie a tutti quelli che incontrava, ma temeva, a quel modo, di far nascere chiacchiere inopportune che, sicuramente, Caterina avrebbe sentito e disapprovato, dandogliene ogni colpa.

Tentò di ragionare freddamente e si ricordò di come la figlia della sua amante amasse mischiarsi al servidorame, passando ore intere nelle cucine e negli alloggi dei domestici. Con un sospiro pesante, l'uomo virò quindi con decisione verso le scale, diretto al piano di sotto.

La differenza di illuminazione, man mano che ci si avvicinava ai locali di servizio, era qualcosa a cui il milanese si scoprì molto insofferente. Gli sembrava di esser diventato cieco tutto di colpo, nel passare da una serie di ordinate torce a muro a un unico braciere a catena appeso nel mezzo del lungo corridoio.

Arrivato quasi in fondo, sentì delle voci e capì all'istante che una era proprio della Riario.

“No, non si è arrabbiata – stava dicendo la giovane, in un sussurro concitato – però non mi piace che lei ti trovi ancora nella mia stanza...”

“Che cosa dovevo fare? Aspettare che tu ti degnassi di venirmi di nuovo a cercare?” chiese l'altro di rimando: “Sarei diventato vecchio, a furia di aspettare..!”

“Non ho detto che hai fatto male, ma...” provò a difendersi Bianca.

“Ammettilo, ti ha fatto piacere trovarmi davanti alla porta della tua camera! Non mi sembra che avessi tanta voglia di scacciarmi...” continuò lui, imperterrito.

“Hai capito benissimo il mio discorso.” si irrigidì allora la Riario: “Non posso fare tutto quello che voglio. Mia madre mi dà molta libertà, ma non voglio che...”

“Ho bisogno di aiuto.” fece Pirovano, senza farsi problemi a interrompere quello che sembrava un mezzo litigio tra innamorati: “Vostra madre ha toccato un appestato e devo portarle subito i suoi rimedi, per lavarsi e disinfettarsi...”

Il volto della ragazza, illuminato malamente dalla luce tremula del piccolo braciere, venne attraversato nell'ordine dalla sorpresa per quell'arrivo inatteso, dall'irritazione per essere stata interrotta in qualcosa che, evidentemente, per lei era molto importante e, alla fine, dalla preoccupazione.

“Quando è successo?” chiese, cominciando già a muoversi, per raggiungere il laboratorio della madre.

“Pochi minuti fa – spiegò il milanese, ignorando completamente il giovane soldato che, dopo aver mosso appena un passo, aveva deciso che non fosse il caso di seguirli – e adesso aspetta in una locanda, perché non vuole rischiare di portare il morbo qui.”

La Riario annuì e, con un distacco che a Giovanni non sfuggì, ribatté: “Ha ragione. Ci mancherebbe solo quello.”

Da quel punto in poi, l'uomo poté solo filar dietro alla giovane, osservandola in silenzio mentre sceglieva accuratamente le boccette e le fiale da dargli e poi, una volta preso tutto il necessario, ripartire veloce come una saetta per portare tutto il necessario alla donna che amava.

 

 
 
   
 
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