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Autore: Mary P_Stark    20/08/2019    3 recensioni
Cosa succederebbe se gli dèi dell'Olimpo e gli eroi greci camminassero tra noi? Quali potrebbero essere le conseguenze, per noi e per loro? Atena, dea della Guerra, delle Arti e dell'Intelletto, incuriosita dal mondo moderno, ha deciso di vivere tra noi per conoscere le nuove genti che popolano la Terra e che, un tempo, lei governava assieme al Padre Zeus e gli Olimpici. In questa raccolta, verranno raccontate le avventure di Atena, degli dèi olimpici e degli eroi del mito greco, con i loro pregi, i loro difetti e le loro piccole stravaganze. (Naturalmente, i miti sono rivisitati e corretti)
Genere: Commedia, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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  1. Hermes
 
 
Aprile 2017
 
 
«…è tutta colpa tua. Se non fossi venuto, niente di tutto questo sarebbe mai successo… tu sia maledetto, Hermes!»

Risvegliandosi di colpo da un sonno irrequieto e dallo stesso disturbante sogno – o incubo, per meglio dire – che da decenni lo affliggeva, Hermes si passò una mano fiacca sul viso, imponendosi di aprire gli occhi.

La luce del sole lo ferì e, con uno schiocco di dita, le tende aperte nel suo attico si chiusero una dopo l’altra, conferendo a quel loft di stampo moderno un’ambientazione molto decadente.

Tutto assunse i toni del blu e dell’indaco e, mentre le ultime candele terminavano di sciogliersi su loro stesse, l’odore forte e acido di diversi corpi nudi e saturi di alcol gli ricordò le prodezze della notte precedente.

La festa che aveva organizzato era terminata come di consueto e, pur se era lieto che nessuno ci avesse lasciato le penne, durante quell’orgia sfrenata e priva di regole, non si sentiva affatto soddisfatto.

Niente sembrava dargli requie. Si stava spingendo sempre più in là, con i vizi e con le avventure, ma nulla pareva calmare l’irrequietezza e lo sconforto che lo accompagnavano da quel giorno.

Alzandosi lentamente dal divano in cui era affondato assieme a un paio di ragazze – no, un ragazzo e una ragazza, a ben vedere – Hermes si trascinò stancamente fino al bagno, aprì l’acqua della doccia e vi si infilò sotto.

Era stanco, stanco da impazzire, eppure sapeva di non poterlo davvero essere. Era un dio, immortale e indistruttibile, eppure il solo respirare gli costava fatica.

Avrebbe voluto trovare un angolino buio, rintanarsi lì e lasciarsi morire, ma sapeva che non sarebbe mai avvenuto.

A meno di non chiedere a Érebos – uno dei pochi conoscitori dell’arte di uccidere una divinità – non avrebbe mai conosciuto il sapore della morte, né la sensazione di liberazione che, secondo lui, doveva dare.

Migliaia, se non milioni di anime, aveva accompagnato nell’Oltretomba perché si perdessero nella Dimenticanza e, ogni volta che le aveva lasciate a Caronte, lui era stato tentato di prenderne il posto.

Da quel maledetto giorno aveva desiderato sparire, così che il dolore se ne andasse per sempre. Ciò ovviamente non era mai avvenuto, e così la ferita nel suo animo si era fatta strada aprendosi sempre più, allargandosi un centimetro alla volta, divorandolo come un cancro.

Questo lo aveva tenuto lontano da Miguel, quell’infausto giorno.

Troppo sbronzo per muoversi, stordito dalle droghe e dall’alcol, non aveva udito il suono dell’anima di Miguel che spezzava i suoi legami col mondo, e Thanatos lo aveva preceduto.

E dire che lui stesso si era premurato di sottolineare al dio della morte che, coloro i quali fossero stati legati ad Athena, sarebbero stati un suo onere, un suo fardello.

A ciò non si era attenuto perché troppo stordito, troppo perso nel suo personale incubo per sentire i richiami dell’anima pronta per la dipartita, così come quelli di Thanatos che lo richiamava ai suoi doveri di psicopompo.

Con ciò che in seguito era successo, era stato un bene che lui non si fosse presentato. Diversamente, Alekos non avrebbe potuto salvarsi e diventare grande, e quella sarebbe stata solo l’ennesima riprova della sua incapacità, del suo essere una creatura spregevole e inutile.

Mentre l’acqua ghiacciata ritemprava il suo corpo nudo e fiacco, ma non il suo animo disperato, Hermes mormorò torvo: «Dovevo morire io, quel giorno…»

***


Tutto sorridente e abbigliato con un completo in stile anni ’80, con tanto di camicia hawaiana, pantaloncini al ginocchio e infradito, Hermes fece il suo ingresso nella villetta di Artemide e Felipe.

«Ehilà, bella gente!» esclamò il dio, levando un braccio per salutare i presenti. «Dov’è la mia balenottera preferita?»

Un vaso di fiori volò a qualche centimetro dalla testa di Hermes mentre Artemide, chiaramente inviperita e rossa come un peperone in volto, gli urlava contro dalla cucina: «Razza di bastardo che non sei altro! Se mi chiami ancora balenottera, ti cavo gli occhi!»

«Siamo nervosetti, stamattina?» esalò vagamente sconvolto il dio, lanciando un’occhiata curiosa all’indirizzo di Felipe, sdraiato sul divano e con l’aria di aver bisogno di una tregua.

«Non ne hai idea» borbottò Felipe, passandosi un braccio sugli occhi pesti per poi sospirare.

«E’ inutile che mi prendiate in giro, voi due! Non siete voi a dover portare in grembo due gemelli, che pensano che la mia pancia sia l’equivalente di un pallone da calcio!» sbottò Artemide, infilando in bocca un gambo di sedano per azzannarlo con violenza.

Hermes deglutì a fatica di fronte alla dea adirata e, levando debolmente le mani come per scusarsi, mormorò: «Stai buona, Arty… il tuo Hermessuccio ti vuole tanto bene, e sono sicuro che anche il tuo Felipuccio te ne vuole tantissimo.»

«Stamattina ho i miei dubbi» brontolò dal divano Felipe, la voce stanca e roca.

Hermes lo guardò dubbioso per un attimo, prima di chiedere: «Come mai questo ripensamento un tantino tardivo?»

«Gli ho tirato una ginocchiata nelle palle» spiegò sinteticamente Artemide, afferrando un’altra gamba di sedano.

Hermes piegò la bocca in una smorfia al solo pensiero del dolore provato da Felipe e, fissando apertamente contrariato la dea, esalò: «Ma perché ti è saltato in mente di fargli uno sgarbo simile?»

«Come se fosse colpa mia…» brontolò per contro Artemide, indicandosi la pancia enorme. «…dillo alla Principessa Xena e a Buffy l’Ammazzavampiri qua dentro. Sono loro che hanno tentato di evirare il padre. Io sono innocente.»

La prima visita di controllo che Arty aveva svolto, sotto l’attenta supervisione di Demetra, aveva dato un responso inaspettato quanto sorprendente.

Artemide non solo aspettava una figlia… ma questa figlia aveva una gemella, perfettamente formata e di forza pari all’altra.

Se, da principio, la notizia aveva sconvolto un po’ i due genitori, in seguito la gioia per la novella aveva preso il posto della sorpresa e, sia nella famiglia Rodriguez che tra i fratelli e le sorelle di Arty, era scoppiato un applauso pieno di letizia.

Naturalmente, la notizia era rimbalzata fino al palazzo di Zeus e lì, il padre degli dèi, aveva segretamente festeggiato per la figlia, ben sapendo di non potersi congratulare direttamente con lei.

Parimenti, aveva iniziato a scrivere delle lettere ad Artemide e, sfruttando il suo titolo di ánghelos, aveva ufficialmente inviato Hermes al cospetto della dea silvana per chiederle di sotterrare l’ascia di guerra.

Arty, però, aveva rimandato al mittente ogni lettera e, per ogni rifiuto, Hermes era dovuto tornare con la coda tra le gambe al palazzo di Zeus, ricevendo come ricompensa i rimproveri del padre.

Tutto ciò era andato avanti per mesi finché, ormai sfiancato da quella tiritera, anche Hermes aveva gettato la spugna, lasciando l’ingrato compito a Iris.

«Ma perché le tue figlie avrebbero dovuto far del male al padre?» domandò Hermes, piuttosto confuso.

«Non l’hanno fatto di proposito, ma mi hanno fatto un male dell’anima, quando si sono spostate, e le sue palle erano sulla traiettoria di tiro delle mie ginocchia» si limitò a scrollare le spalle Artemide. «Non mi dirai che sei qui per mio padre… Iris è passata solo tre giorni fa con l’ennesima lettera!»

«Ehi, bal… tesorino bello, ti ho già detto che ho dato forfait mesi fa» sottolineò lui, correggendosi in tutta fretta per non rischiare, a sua volta, di rimetterci i sacri augelli.

«Meglio. Per me può anche mangiarsele, quelle lettere» brontolò la dea, afferrando una carota per poi sgranocchiarla furiosamente.

«Non sarebbe più semplice leggerne una e far smettere questo andirivieni alla dolce Iris? Temo che ormai sia allo stremo, la poveretta» le fece notare Hermes, sedendosi su uno degli alti sgabelli da cucina per poi rubarle un pezzetto di carota tagliata a tronchetto.

Artemide gli diede uno schiaffetto sulla mano ma Hermes non vi badò affatto e la dea, con uno sbuffo, borbottò: «Se cedo ora, si sentirà in dovere di venire qui, e io non lo voglio.»

«Non ti sentiresti meglio, se avessi con te almeno uno dei tuoi genitori?» le fece notare lui, ammiccando curioso.

«Che genitore è stato, per me o per Apollo? Era così terrorizzato da da sua moglie che ha lasciato nostra madre in balia del rifiuto delle genti, prima, e della furia di Pitone, dopo. Nessuno voleva aiutarla per paura della furia di Era! Ha partorito senza appoggio alcuno, e sua sorella Ortigia le ha solo fornito un luogo in cui fermarsi, ma non ha mosso un dito per starle accanto. Non fosse stato per la loro parentela, non le avrebbe mai permesso di partorire sulle coste della sua isola. Quindi, cosa gli devo?!»

«Beh, ecco…» tentennò lui, non sapendo che altro dire.

«Mia madre rimase con noi solo per poco tempo, e anche ciò che fece Apollo per vendicarla – uccidere Pitone – non le restituì alcuna fiducia in se stessa, né le fece tornare il desiderio di stare con noi… per lei, noi siamo lo specchio di nostro padre, e perciò siamo da evitare» proseguì irritata Artemide, servendosi un bicchiere d’acqua, che ingollò con vigore. «Perciò, come vedi, mio padre è un porco bastardo, e mia madre è chissà dove, dispersa nel mondo, perché è troppo pavida per riemergere e scoprire come sono diventati i suoi figli.»

«Nessuno sa dove sia?» domandò sorpreso Hermes.

«Macché. E non perché non ci abbiamo provato. Ho mandato i miei segugi in ogni angolo del globo, ma non è servito a nulla. So solo che non è morta, essendo una figlia di due titani, ma non è di grande conforto.»

Ciò detto, sospirò, poggiò il bicchiere sul piano cucina e, dopo aver recuperato una compressa fredda dal freezer, la portò a Felipe, che la accettò più che volentieri.

Sedendosi accanto a lui sul divano, gli carezzò spiacente i capelli, mormorando: «Sarà meglio che tu dorma nella stanza degli ospiti, Felipe. Non voglio farti veramente male, se dovesse capitarmi di stare ancora così.»

«Alla peggio, userò una brandina… ma non ti lascerò sola» sottolineò lui, scostando per un istante il braccio per guardarla e sorriderle.

Lei allora accennò un sorrisino e, nel rivolgersi a Hermes, domandò: «Sei venuto in visita di cortesia, o avevi un motivo in particolare?»

«Ovviamente, sono venuto per farmi tirare addosso un vaso da te» sottolineò Hermes, osservando i cocci in terra prima di schioccare un dito per ricomporre ogni cosa.

Artemide sorrise sghemba, replicando: «Mi hai chiamato balenottera…»

«Sì, lo so, me la sono cercata» scrollò le spalle lui, sistemando il vaso nuovamente integro. «Quel che volevo chiederti era, per l’appunto, di dare una tregua a Iris ma, dopo avermi ricordato ciò che successe a suo tempo, credo non te lo chiederò più. Hai tutte le ragioni per essere infuriata con papà.»

«Vorrei vedere…» mormorò la dea, massaggiandosi distrattamente la schiena con una mano, mentre con quella libera carezzava il viso di Felipe.

Hermes si sentì rimordere la coscienza al pensiero di tutto ciò che aveva fatto lui la scorsa notte, mentre la sorella aveva patito le pene dell’inferno a causa della gravidanza.

Ancora una volta, come sempre ormai, si sentì inadeguato al suo compito e niente affatto degno del suo ruolo di divinità ma, come si era ripromesso a suo tempo, nulla emerse, nulla venne detto.

Per le sorelle, lui doveva essere il solito rompiscatole un po’ caciarone e divertente. Non voleva che si prendessero carico anche dei suoi problemi.

Sia Artemide che Athena avevano già sofferto troppo, e non avevano di certo bisogno di sentire le sue lagnanze e i suoi pianti. Se li era cercati, perciò doveva soffrire in silenzio, senza far pesare nulla a nessuno.

Sistemando un cuscino dietro la schiena di Artemide, Hermes le baciò il capo e disse: «Così starai un po’ più comoda.»

Fatto ciò, estrasse dal suo zainetto una ciotola di legno di olivo e aggiunse: «E’ ambrosia. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere.»

Artemide gli sorrise grata, prese in mano la ciotola e, dopo averla stappata, lasciò che l’aroma speziato dell’ambrosia le inondasse le narici. Senza poterne fare a meno, infilò un dito nella sua densa consistenza e se la portò alle labbra, sospirando deliziata.

L’icore nel suo sangue prese a brillare come un piccolo incendio sottopelle e Felipe, curioso, domandò: «Io non posso assaggiare, vero?»

«No. E’ velenosa per i mortali ma, per dèi e semidèi, è come miele» gli spiegò Hermes. «Farà bene alle bambine e, forse, eviterà future evirazioni.»

«Ben venga, allora» asserì Felipe.

«Grazie, Hermes. Ne avevo davvero bisogno» mormorò la dea, tributandogli un dolce sorriso.

Il dio, però, non se ne sentì davvero degno e, schernendosi, replicò: «Guarda te se ci deve pensare uno scapestrato come me! Ricordati di chiederne un po’ alle tue ancelle, quando verranno per le abluzioni. L’ultimo mese dovresti mangiarla sempre.»

«Sei peggio di una chioccia» sottolineò Artemide, ridendo gaia.

Hermes rise di gusto e, nell’accomiatarsi, replicò: «Il mio animale è il gallo, non la gallina!»

«Sempre pennuto è!» lo rimbeccò Artemide prima di sentire la porta chiudersi.

Tornando seria, la dea guardò dubbiosa Felipe e domandò: «A te non è parso un po’ strano?»

«Lo conosco da poco, perciò non faccio testo, ma mi è sembrato un po’ solo» ammise Felipe.

«Forse, dovrei davvero sentire la Pizia. Chissà che lei non ne sappia un po’ di più… ma non mi va di andare fino a Delfi. Sono troppo stanca, anche solo per teleportarmi, e la Pizia non accetta richiesta via Skype» sospirò Artemide.

«Hermes mi sembra un tipo in gamba. Se avrà bisogno, chiederà alla sua famiglia, no?»

«Lo spero» mormorò lei, lanciando un’occhiata al vasetto di ambrosia.

***


Era davvero venuto solo per quello?

Gli mancava l’aria, e anche solo pensare di spostarsi dall’appoggio sicuro offerto dalla porta d’ingresso della villetta di Artemide, gli sembrava troppo.

Era uscito come un comune umano perché la sua mente era stata troppo confusa e sfiancata per svanire come sovente, e questo la diceva lunga sul suo attuale stato.

Ma cosa poteva farci?

Le droghe non funzionavano. Bere era diventato inutile. Il sesso sfrenato e le pratiche sadomaso non gli davano più nulla.

Ogni cosa, per quanto questa fosse illegale, sopra le righe, moralmente inaccettabile, era già sorpassata e inutile, per lui, ai fini pratici.

La sua mente, e quella voce, lo riportavano prepotenti a quel periodo tanto adorato, a quel tempo di goliardico amore e sfrenata dissolutezza, tramutatisi in un attimo nel suo incubo ricorrente.

Quando riuscì finalmente a riaprire gli occhi, dopo averli tenuti serrati per un tempo indefinito, Hermes li sgranò in preda al panico più nero quando, sulla veranda della villetta di Athena, egli vide la figura di Érebos.

Le braccia conserte e lo sguardo puntato su di lui, il dio Ctonio sembrava essere avvolto dal manto della notte, coi suoi lunghi e lisci capelli neri, il viso candido come la luna e l’abbigliamento total black.

Forse, si stava chiedendo cosa stesse combinando, spianato contro la porta della villetta di Artemide al pari di un poster.

Quando, però, vide la sua bocca muoversi, seppe con certezza che, non solo Érebos non si stava chiedendo il perché del suo comportamento, ma sapeva cosa lo stava arrovellando.

Nella sua mente, simile a un gong, la voce del dio disse stentorea: “Non puoi giocare con le carte del tuo destino ancora per molto, Hermes. Devi scegliere di farti aiutare, o anche un dio come te si perderà per sempre, e Atropo calerà la sua forbice, mandando me a compiere ciò che il Fato vorrà.”

Lui scosse il capo, a quelle parole dal chiaro sapore di una sentenza definitiva e, piegandosi sulle ginocchia, si strinse la testa tra le mani e pregò, agognò con tutto se stesso di sparire, di scappare dallo sguardo del dio Ctonio.

Questo, però, ovviamente non avvenne, tanto era il suo turbamento e la sua stanchezza mentale ed Érebos, mosso a pietà, schioccò le dita e lo condusse direttamente nel suo attico a Las Vegas.

Hermes fissò costernato quelle pareti a lui familiari, il profumo di patchouli bruciato negli incensieri che gli riempiva le narici, la frescura dei pavimenti di marmo bianco sotto le sue dita e, non riuscendo più a trattenersi, urlò.

Urlò fino a farsi dolere la gola, fino a tossire acidi e bile e, quando fu finalmente abbastanza stremato per crollare lungo riverso sul pavimento, gorgogliò: «Non ne posso più… basta…»
 
***

In uno sfarfallio di tenebra, Érebos riprese le sue sembianze dinanzi alla scalinata marmorea del tempio di Zeus e, senza attendere un attimo di più, percorse a due a due i gradini prima di lasciarsi alle spalle il pronao dagli alti colonnati.

A grandi passi, si diresse verso il luogo in cui la presenza del Padre degli dèi era più forte e, quando infine lo vide in compagnia della sorella Demetra, non se ne chiese i motivi.

Era in ansia per Artemide, ma non poteva avvicinarsi a lei a causa della lite avvenuta anni prima. Da quel giorno, i due non si erano più parlati, e nessun tentativo di venire a patti era servito.

Quando Zeus lo scorse, il volto ombroso e imperscrutabile, interruppe subito il dialogo con Demetra e, impallidendo leggermente, gorgogliò: «Artemide sta…»

Scuotendo recisamente il capo, il dio Ctonio asserì: «E’ ormai stanca, ma sta bene. Non sono qui per lei.»

«Volete che vi lasci soli?» domandò a quel punto Demetra, fissando dubbiosa l’alta divinità Ctonia. Nessuno poteva dirsi completamente a proprio agio, con le divinità Ctonie e, per quanto Érebos fosse un dio tranquillo e pacato, l’ansia nasceva spontanea in chi poco lo conosceva.

Érebos rifletté un attimo su come esprimersi, ma alla fine disse: «Avere un parere in più non guasta, soprattutto se a darlo è una persona di simile spessore.»

La dea sorrise appena a quel complimento inaspettato, annuendo grata.

Il dio Ctonio, allora, dichiarò torvo: «Hermes è al limite. Non ce la fa più. Potrebbe impazzire da un momento all’altro, e sappiamo bene cosa potrebbe fare una divinità fuori controllo, su un pianeta pieno di vita come la Terra.»

Zeus si adombrò in viso, a quelle parole, e replicò: «Pensavo che lasciargli fare quel che voleva, gli avrebbe permesso di dimenticare.»

«Con tutto il rispetto, Zeus, ma non sta dimenticando. Sta affogando nel senso di colpa e nell’inedia. Se fosse stato un comune umano, sarebbe ormai morto da tempo… e quando una divinità invoca la propria morte, non è mai un buon segno» ribatté Érebos con tono vagamente critico.

Zeus si accigliò nell’avvertire l’implicito rimprovero e, burbero, grugnì: «Che avrei dovuto fare, sentiamo? Legarlo a un palo e fustigarlo finché non avesse compreso che non era colpa sua?!»

«Se necessario, forse. Ma lasciarlo ai propri demoni ha prodotto altri incubi, altre increspature, altre crepe nel suo animo, e ora sono enormi!» si alterò il dio Ctonio, aggrottando la fronte. «Nemmeno gli Oneiroi riescono più a tenere sotto controllo il suo subconscio, e Hypnos ha già rinunciato da tempo a imporre su di lui il riposo per tentare di chetarlo.»

Zeus levò le sopracciglia, pieno di meraviglia, ma non disse nulla. Forse era davvero sorpreso che sia gli dèi minori dei sogni, che il dio del sonno, avessero fallito nel compito di chetare i demoni che arrovellavano Hermes.

«Cos’è successo, Zeus? Perché Hermes sta male?» domandò turbata Demetra.

Zeus sospirò, scosse il capo e dichiarò stancamente: «Sciocchezze umane, che però lui ha preso molto sul serio… e di cui porta ancora il peso, nonostante siano passati decenni da quando quell’incidente avvenne.»

«Sono morti diciassette ragazzi! Come puoi definirle sciocchezze?!» sbottò Érebos, sgranando gli occhi.

«Posso perché erano solo umani! Sono fallibili, sciocchi e fatui!» lo rimbeccò Zeus. «Nessuno ha ordinato loro di fare quel che hanno fatto, e Hermes è stato sciocco a pensare che, dar loro una mano a ottenere ciò che volevano, li avrebbe resi devoti e amorevoli. Gli umani non sanno provare vero amore o devozione!»

Érebos a quel punto lo fissò pieno di sarcasmo e asserì: «Disprezzi le creature che un tempo ti idolatravano? I miei complimenti. O forse il problema risiede altrove? Forse, non accetti che degli umani amino le tue figlie e i tuoi figli, e vengano corrisposti con altrettanta passione?»

Zeus si oscurò in volto, ma non parlò così il dio Ctonio, sprezzante, aggiunse: «Hermes potrà aver sbagliato a pensare che, dando loro ciò che desideravano, lo avrebbero amato spassionatamente, ma credere che il suo dolore sia effimero e inutile perché provato per dei mortali, rende te effimero e inutile.»

La furia di Zeus si incendiò in un attimo e, subitanea, una saetta comparve nel suo pugno, spaventando Demetra, che si scostò di alcuni passi in preda al panico.

Érebos, però, non si allontanò e anzi, si pose dinanzi alla dea per proteggerla e, al tempo stesso, sorrise sarcastico a Zeus per poi aggiungere: «Hai rotto i ponti con i tuoi figli perché non accetti che amino qualcun altro oltre te e, francamente, è quanto di più egoistico io abbia mai visto. Non sono tuoi schiavi, né tue pedine in un gioco senza fine. Sono liberi, e tu non vuoi accettarlo.»

«Sono nati da me!» tuonò Zeus, levando il braccio armato di saetta.

«E con questo? Pensi che questo ti dia il diritto di trattarli come preferisci, o di infischiartene quando non ne comprendi i patimenti? Apprezzai di vederti a disagio, di fronte al silenzio delle tue figlie, perché pensai che avessi compreso i tuoi errori… ma ora mi domando quanto di ciò che vidi fosse genuino …o legato a una reale comprensione dei fatti.»

«Stai sfidando la persona sbagliata, Érebos» gli ricordò Padre Tutto, furente.

«Ricorda, figlio di Crono… io ho poteri che tu neppure puoi immaginare, e che fanno impallidire i tuoi. Solo, non mi sembra giusto privare la mia amata del padre, e unicamente per un mio capriccio» sottolineò Érebos, raggelandolo con lo sguardo. «Per rispetto verso Athena, Artemide e Hermes, sono giunto qui per chiedere il tuo permesso di aiutare tuo figlio ma, stando a ciò che sento, non ritieni che il suo dolore sia maturato per le giuste motivazioni. E’ esatto ciò che dico?»

«Hermes ha sempre avuto troppo a cuore le sorti dei mortali» si lagnò Zeus, chetandosi leggermente.

«Chieditene i motivi. E’ uno psicopompo al pari dei miei figli Thanatos e Caronte e, a meno di non strappare loro il cuore dal petto, mi sembra ovvio che ne siano rimasti segnati, in un modo o nell’altro, nel corso dei millenni. Dubito che uno qualsiasi di noi, a loro posto, non si lascerebbe andare a un poco di calore umano, dopo tante anime condotte alle porte dell’Oltretomba, e oltre» sottolineò il dio Ctonio, scuro in viso.

La mano di Demetra sfiorò il braccio di Érebos per scostarlo e il dio, gentilmente, la lasciò passare perché la dea potesse affrontare il fratello.

Quest’ultimo la fissò adombrato, borbottando: «Hai delle lamentele anche tu, sorella?»

«Ti sei arroccato sull’Olimpo senza mai vivere pienamente le creature mortali che stanno sotto di esso, ma io credo sia stato un errore. Da quando mi sono convinta a entrare a far parte dell’OMS, ho imparato a conoscere meglio gli esseri umani e, se è pur vero che vi sono delle persone crudeli e indegne di vivere, per contro ve ne sono molte altre che invece sono meritevoli… e degne di essere aiutate, così come spalleggiate.»

Zeus sbuffò irritato, ma Demetra non si diede per vinta.

«Fratello, non so cosa sconvolse tanto il povero Hermes, ma credi a Érebos. Il dolore provato per le creature mortali non è inferiore a quello che potremmo provare per qualcuno di noi. Sanno farsi amare, e riamare con pienezza e abnegazione. E non credere che non sappia cosa voglia dire provare gelosia nei confronti di qualcuno, poiché io ne provo tuttora verso nostro fratello Ade per via di Persefone. Ma so anche che dobbiamo soprassedere, e accettare per buono ciò che ci viene dato… o tolto. Di fronte a certe cose, neppure noi possiamo nulla.»

«Quindi, dovrei accettare che Athena ami i genitori del suo marito morto più di me?!» ringhiò furioso Zeus, mettendo finalmente in luce il suo cruccio. «O che Artemide si appoggi a quei mortali come se non avesse una famiglia?»

Érebos, allora, disse con tono stanco: «Finché non accetterai di chiedere scusa alle tue figlie e conoscere Carlos e Anita, niente di quel che dirai potrà avere senso. Sono persone meritevoli, a cui voler bene. Non ti stupire se le tue figlie li amano. Chiediti piuttosto perché tu non riesci a ottenere lo stesso.»

Zeus digrignò i denti, a quelle parole ma, complice forse la presenza di Demetra, non replicò e, lasciata svanire la saetta, borbottò: «Fai quel che più credi giusto, per Hermes. Ma non ti lagnare con me se non otterrai nulla. Quel ragazzo è solo un bambino viziato.»

Il dio Ctonio preferì non replicare a quelle parole piene di fiele e, senza un saluto o una parola, se ne andò dal tempio di Zeus, seguito a pochi passi da Demetra.

Quando infine si ritrovarono nel piazzale antistante il tempio, la dea lo bloccò a un braccio, mormorando ansiosa: «Érebos, aspetta.»

La divinità Ctonia si volse a mezzo e, con un cenno del capo, disse: «Sappi che non mi scuserò con lui.»

«Neppure te lo chiederò. Mio fratello sa essere cieco e sordo, su alcune cose, ma posso assicurarti che ama le sue figlie e i suoi figli. Solo, non comprende alcune cose di loro» lo rassicurò Demetra.

«So benissimo che li ama, a modo suo, ma deve accettare che molti di loro hanno deciso di cambiare, di vivere una vita diversa da quella che hanno passato qui» replicò Érebos, abbracciando con lo sguardo la città olimpica e i suoi molteplici templi.

Demetra ne seguì l’occhiata, assentì e preferì non replicare. Pur essendo un luogo bellissimo, pieno di pace, armonia e perfezione, era altresì un luogo freddo e inospitale, e molti dei suoi abitanti si erano man mano discostati per discendere tra i terreni.

Lei stessa, per molti mesi l’anno – quando Persefone si trovava nell’Oltretomba – viveva tra Ginevra e Bruxelles, spendendo tutto il suo tempo in favore degli umani.

Come dare torto al dio Ctonio, quindi?

Ugualmente, però, disse: «Ti prego di credere che Zeus non è cattivo. E’ solo ancorato a un passato che non esiste più ed è difficile, per lui, accettarlo.»

«Non fatico a crederlo, Demetra, ma ugualmente sta rischiando di perdere l’affetto dei suoi figli, comportandosi così.»

«Lo so» assentì Demetra, spiacente. «Pensi sia il caso che avverta Maia? Ci stiamo preparando per assistere Artemide nel parto ma, se pensi che debba parlare al figlio, le accennerò qualcosa, perché credo che neppure lei sia al corrente dei disagi di Hermes.»

«Non voglio turbare Maia, perciò no, non dirglielo. Hermes impazzirebbe del tutto, se sapesse che sua madre è a conoscenza del suo personale fardello. Ci penserò io e, se potrò, lo salverò da se stesso» si limitò a dire il dio, scuotendo il capo.

«Mi atterrò al tuo dire, allora… ma sappi che avrai il mio appoggio, qualora ti servisse» dichiarò Demetra, sorridendogli grata.

Il dio Ctonio assentì e, in un battito di ciglia, se ne andò dall’Olimpo. Sarebbe stato difficile e oltremodo pericoloso mettere alle strette Hermes, ma non v’era più tempo. Atropo lo aveva avvertito; non gli avrebbe più concesso altre occasioni.

I poteri di Hermes erano minacciosamente vicini all’autodistruzione e, se ciò fosse successo, nessuna creatura vivente sarebbe più stata al sicuro.

A volte, amare richiedeva un prezzo molto alto da pagare, e Hermes lo aveva scoperto a proprie spese e nel modo più terribile. Soltanto, non aveva più trovato la via della sanità mentale, e ora aveva bisogno di una mano.

Érebos, però, non sapeva se lui l’avrebbe accettata e lui non voleva interpretare il ruolo del boia. Per nessun motivo al mondo.






N.d.A.: come avete potuto constatare, l'allegria e goliardia di Hermes sono una mera facciata per nascondere i tumulti - e i dubbi - interiori, nati decenni primi e mai del tutto sopiti. Questa sua debolezza protratta, però, lo sta conducendo pian piano verso un baratro senza fine e, poiché Erebos non desidera vederne l'annientamento - anche perché sarebbe deputato a eliminarlo lui stesso, in quanto divinità Ctonia, e quindi dai poteri superiori al Pantheon legato a Zeus - cerca di fargli capire quanto sia vicino a perdersi. Riuscirà, però, a capire, il nostro scapestrato dio psicopompo? O Erebos sarà costretto a un gesto terribile?
Da ultimo, Zeus muoverà mano per aiutare il figlio, o lascerà che le cose procedano senza un suo intervento diretto?

 
  
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