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Autore: Diana LaFenice    22/08/2019    0 recensioni
Sean Lestrange è un giovane pittore di sedici anni.
Mentre la maggior parte dei suoi coetanei preferisce il sole e il mare della Florida, lui preferisce la fantasia e le immagini che trasporta nella realtà tramite i pennelli. La sua natura profonda e riflessiva lo porta a essere evitato.
Per questo quando il padre gli comunica che andranno a vivere ad Hay River, lui accoglie la notizia con un misto di speranza e timore.
Hay River è il paese natio della sua famiglia. Situato tra i Grandi Laghi, fin da subito sembra di entrare in una leggenda. Il motivo del trasferimento è legato al lavoro del padre: deve catturare Terrence Himelich.
Nonostante il divieto di entrare nei boschi, Sean riuscirà a cogliere la bellezza di questi luoghi incontaminati e riportare in auge la leggenda locale della Foresta.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Settembre

Un pericoloso assassino era appena evaso dal carcere locale. Il suo nome era Terrence Himelich.

Il suo destino era di andare incontro alla sedia elettrica se non fosse diventato, una settimana prima, uccellin di bosco. Era stato condannato a morte dalla corte suprema ed era stato trasferito perché il carcere non aveva gli strumenti necessari per stroncare la sua miserevole vita. Nonostante il suo aspetto dimesso e anonimo impresso sulle foto segnaletiche, era un pazzo che amava appostarsi nei boschi e ammazzare ignari escursionisti, i cui corpi poi erano lasciati alla mercé dei predatori della foresta. Sembrava che uccidesse per il puro e semplice gusto di uccidere e apparteneva alla categoria degli assassini organizzati. C’era un certo metodo nelle sue azioni, ravvisabile anche dal modo in cui cancellava le proprie tracce.

Il primo omicidio era avvenuto nel Settantanove e da allora erano stati trovati circa centoventotto corpi, tra bambini, famiglie, anziani, coppiette e turisti. All’inizio pensavano che fosse un ex Berretto Verde impazzito come quello cinematografico. Tuttavia notando l’incostanza e la completa casualità con la quale sceglieva le sue vittime, i poliziotti si erano ricreduti e avevano preso il caso con la dovuta serietà.

Un conto è avere a che fare con un omicida, un altro è avere a che fare con un serial killer. Che razza di mostro può compiere azioni del genere? Il dato più inquietante, una volta osservato e studiato il suo modus operandi, era che era inafferrabile. Quasi come fosse un’entità incorporea delle leggende e delle storie dell’orrore.

All’inizio le autorità competenti non avevano allertato la popolazione sia perché non volevano sollevare il panico sia perché credevano di acciuffarlo a breve. Si sbagliavano. Terrence divenne il killer più famoso della regione e molti, tra investigatori, psicologi e, mindhunters, cacciatori di taglie, si misero sulle sue tracce. I mindhunters sono profiler che tracciano il profilo psicologico di un assassino.

Furono proprio questi ultimi a stabilirne il profilo psicologico. E si era venuti a fronte di una scoperta ancora più inquietante. Una rivelazione che molti, nella squadra, preferivano non nominare per il terrore. Un terrore che aleggiava su di loro come un’ombra pronta a calare su tutti quanti, con la stessa pesantezza di una cappa. E, che faceva voltare la testa verso le cime degli alberi delle foreste adiacenti, baciate dal sole.
Ma anche i più spietati assassini prima o poi commettono un errore. E Terrence lo commise; fu visto rubacchiare della frutta e della verdura di un orticello. L’eroe della situazione fu il proprietario, il quale in quel momento si era affacciato alla finestra. Avendolo riconosciuto, richiuse immediatamente la tenda e chiamò la polizia.  
Fu così che il tredici dicembre del Duemilasette riuscirono a catturarlo. Quando iniziarono i processi quale fu l’enorme sorpresa della procura e dei giurati nel vederselo davanti. Cioè, quello era l’assassino? Nessuno avrebbe mai indovinato la sua vera statura dalle foto trasmesse finora. Si aspettavano tutti un omino, non una stanga di un metro e novanta dalle mani rovinate e con cicatrici da taglio su polsi e braccia, che nuotava nell’ampia divisa arancione da carcerato!
E che adesso se ne stava seduto sul suo letto in cella. I gomiti sulle ginocchia. Molti avevano avvisato di stargli lontano, soprattutto perché il fisico allenato dagli anni passati nella boscaglia tradiva la sua reale forza. Forza che non traspariva di certo dal viso e dagli altrettanto anonimi spenti occhi acquosi che ogni tanto s’illuminavano di uno sguardo selvaggio e folle. Come se pensasse a qualcosa che lo mandasse su tutte le furie.
Quello sguardo era talmente simile a quello di una fiera che pareva quasi annunciare una trasformazione imminente di una qualche creatura rabbiosa. Per questo fu ribattezzato la Belva Umana.

 

A vederlo non poteva avere più di una trentina d’anni, anche se sapevano tutti che era nato nel Cinquantadue. Inizialmente le guardie pensarono fosse uno scherzo, ma poi, comparando il modus operandi con le armi che trovarono nel suo covo nella foresta, grazie ai segugi, si ricredettero. L’assassino di Hay River era lui.
Eppure, neanche i mindhunters riuscirono a carpirgli il vero motivo per cui uccideva. Neanche i poliziotti più violenti riuscirono a estorcergli niente.
L’unica persona che volle parlare e ottenne risposte dalla Belva Umana fu l’avvocato d’ufficio che fu assegnato a Terrence. E, tutto quello su cui concordarono fu la linea di difesa da seguire per ottenere, se non altro, l’ergastolo.
Più di questo non si ottenne. Neanche la psicologa forense ci riuscì. Con lei Terrence aprì bocca - gli occhi brillanti e le mani intrecciate sul tavolo, il busto sporto verso di lei -  e sorrise sinistro: «Psicoanalizzatemi pure, sottoponetemi a tutte le torture che volete, ma sappiate che ogni cosa che carpirete, non sarà mai la verità che tanto agognate».  
Quell’uomo - ammesso che si potesse ancora definire così - era un enigma. Ma se  pensava di appellarsi all’infermità mentale, gli psicologi e psichiatri glielo impedirono, in quanto concordanti tutti sulla sua lucidità mentale.
Le informazioni che avevano, erano voci di persone che lo avevano conosciuto. Lo descrivevano come un bambino solitario, triste, taciturno, vessato dai bulli a causa della allora bassa statura e del peso. Si era dovuto sobbarcare la famiglia alla tenera età di dieci anni a causa dei debiti di gioco della madre alcolizzata.
Spesso non avevano di che mangiare, per questo spesso cacciava e raccoglieva cibo nella foresta rischiando più volte di essere denunciato per bracconaggio. Ogni volta allontanandosi sempre più e soggiornandoci sempre più. Soprattutto quando la donna portava degli uomini a casa.
I genitori erano divorziati e troppo poveri perché gli comprassero un fucile e veri bossoli da cacciatore. Fondamentalmente era lui che provvedeva al fabbisogno famigliare perciò si era trovato qualche lavoretto e aveva studiato di notte finché non era riuscito nel suo intento. Riuscì a comprarsi un fucile con tanto di licenza e porto d’armi, s’intende. Ma non solo, con i soldi che mise da parte, riuscì a comprarsi una macchina e un fucile da caccia. Però non volle mai dire dove li avesse trovati, perciò le autorità sospettarono anche di furto, prostituzione e spaccio di sostanze illecite.
Ma di questa accusa non saltarono mai fuori delle prove. Perché la sua storia era analoga a molte altre che si potevano ravvisare nel suo paese natio. Cosa che gettò un’ulteriore ombra su quella cittadina all’apparenza così tranquilla.
Tutti i testimoni concordarono sul fatto che le sue uniche passioni erano la caccia e, che amasse il bosco che conosceva così bene. E, che, improvvisamente qualcosa dentro di lui era scattato e aveva iniziato ad appostarsi lungo i sentieri. Poco importava che fossero vecchi amici, fiamme, conoscenze o turisti, li uccideva tutti indiscriminatamente nei modi più creativi e organizzati. La sua arma preferita erano l’arco e le frecce. Nessuno seppe mai dove avesse imparato e da chi o perché le prediligesse sempre per il solito silenzio ostinato con cui rispondeva alle domande dell’accusa e della difesa, complicando il lavoro del suo stesso avvocato.  
A fronte di tutto ciò, Terrence Himelich, di anni quarantadue, fu condannato a morte. Ma anche così la sua nomea continuava a precederlo e a riempire di angoscia l’animo di ogni persona e a scatenare le più terribili fantasie che l’essere umano è in grado di concepire. Qualcosa faceva rizzare i peli sulla nuca e sulle braccia. L’istinto sussurrava di stare in guardia, che avrebbe cercato di fare qualcosa. Qualsiasi cosa, anche se non aveva complici e non era Arsenio Lupin. 

E quest’impressione non migliorava neanche se, a separarli c’era una solida parete di metallo e agenti armati fino ai denti seduti insieme a lui nel cellulare.

Ma anche così i due uomini alla guida e sul sedile del passeggero, sentivano il suo respiro sul collo e non vedevano l’ora che questo viaggio interminabile finisse.
Molto spesso gettavano delle occhiate oltre la grata alle loro spalle, ma vedevano soltanto il buio. Però lo sentivano: anche se ammanettato e seduto, sapevano che era desto e attento. In quel momento cominciò a piovere a dirotto e il poliziotto alla guida attivò i tergicristalli e accese gli abbaglianti: l’acqua era così fitta che la strada si vedeva a malapena. Sembrava che quella tempesta stesse aspettando loro per scatenarsi.
Nessuno dei due disse niente per un po’, poi, il conducente domandò al collega teso e seduto accanto a lui: «Perché non lo posi?» Riferendosi al fucile che quest’ultimo continuava a imbracciare.
«Ti dà fastidio?» Domandò l’altro guardandolo con l’aria di chio cade dalle nubi.

«Un po’, metti caso partisse un colpo.» la canna era rivolta verso di lui, tra le altre cose, però non gli mostrò i propri timori. Era più che sicuro che il loro detenuto avrebbe potuto approfittarsene. «Non partirà, tranquillo.» lo rassicurò l’altro battendo una mano sul fucile: aveva messo la sicura, ma in realtà non si ricordava neanche se l’aveva fatto o no. «È solo che non mi sento calmo a portare…Lui. Mi rasserena avere tra le mani un’arma.» Disse poi a mo’di spiegazione accennando con il capo alla piccola grata divisoria.

«Ti capisco. Nemmeno io mi sento a mio agio.» Rivelò il primo.

«Nessuno ci si sente. Che tempaccio, vero?» Domandò il secondo osservando l’acqua che cadeva sempre più velocemente e i fulmini che lampeggiavano qui e là col loro reboante scoppio che tante volte li terrorizzarono da bambini.

Il guidatore aumentò la velocità del tergicristallo e accese il riscaldamento: cominciava a fare freddo. E poi non gli dispiaceva fare un po’ di conversazione, avrebbe aiutato. «Sì, è davvero un brutto tempo». Anche perché avevano un brutto presentimento da quando avevano lasciato il carcere, ma a forza di ciarlare a vuoto degli ultimi risultati di football, si dimenticarono di tutto. A riportarli bruscamente alla realtà ci pensò qualcos’altro. Nessuno seppe mai se fu colpa di un animale, un fulmine, un sasso, uno scivolamento o uno strano gioco di luci. Fatto sta che sulla strada che avevano preso - una scorciatoia perché la via principale che costeggiava il fiume era stata chiusa causa possibile allagamento - accadde qualcosa. .

I sopravvissuti all’incidente ricordarono di aver sentito i due davanti urlare: «Ehi! E quello cos’è?»,  «Sterza! Sterza! Sterza!» Poi lo sbando.

 

Quella notte Hay River si destò per vedere il disastro: il fumo e il fuoco sovrastavano le cime degli alberi, e furono visti da tutti. Ma a causa del maltempo che andava peggiorando, i soccorsi non si mossero che dopo ore. Quando questi ultimi giunsero in prossimità del luogo dell’incidente, furono assaliti dalla puzza di carne umana bruciata e feriti e poi trovarono le macerie ancora incandescenti ma non più fiammeggianti, spente dalla pioggia, e i cadaveri ormai carbonizzati. La scientifica in seguito avrebbe rivelato la dinamica dell’incidente, mentre l’autopsia quel poco che restò dei cadaveri carbonizzati. L’autista aveva cercato di sterzare per evitare qualcosa, probabilmente un animale, ed erano finiti contro le rocce ed erano morti sul colpo; accartocciati tra le lamiere fiammeggianti dell’abitacolo. Inoltre si sarebbe scoperto che, poco prima dell’impatto, un colpo di fucile era partito accidentalmente e la pallottola si era conficcata nel cranio del conducente. L’altro invece era morto perché, non avendo allacciato la cintura di sicurezza, era decollato dal suo posto, aveva fracassato il parabrezza e si era schiantato la testa contro le rocce, spaccandosela come un’anguria. Per loro non ci fu più niente da fare.  

Quando ispezionarono il cellulare fracassato, nella speranza di riuscire a trovare anche il cadavere di Terrence, ebbero una malaugurata sorpresa. Le porte si erano spalancate nel momento stesso dell’impatto e il detenuto, sicuramente mezzo intontito e ferito dalla botta, ne aveva approfittato per darsela a gambe e rifugiarsi nel bosco. La caccia al mostro era ricominciata. I poliziotti, i rangers e le autorità competenti, per tutta quell’estate e quei mesi a venire, pattugliarono incessantemente e con ogni mezzo ogni immenso meandro e anfratto, aiutati dai turbolenti e insofferenti cittadini che si offrirono volontari. Nonostante lo zelo impiegato non trovarono nessuno, era come se fosse sparito nel nulla, o peggio, come se non fosse mai esistito.

Perciò fu proibito ai civili di inoltrarsi nella foresta oltre le montagne, ma poiché alcune uccisioni avvennero anche in città, furono istituiti una pattuglia di ronda notturna e un coprifuoco che, i giovani e anche i meno giovani - un po’selvatici e rudi - non esitavano a violare.  

 

***

 

Sean Lestrange amava la sua città natale più di ogni altra cosa al mondo, per questo lasciarla non gli piaceva. Suo padre, il tenente Dean Lestrange, era stato promosso ispettore e appena trasferito nella piovosa, umida, sperduta, cittadina di Hay River. Perché sì, la famiglia Lestrange, fiera discendente d’immigrati francesi, affondava le sue radici in quella terra. E finché erano piccoli, i genitori li portavano in vacanza ai Grandi Laghi.
L’Hay River da cui provenivano non era quella situata nella regione Yukon, bensì, un’omonima situata sulle sponde orientali dei Grandi Laghi Canadesi. Fin qui non ci sarebbe stato niente di male, a parer suo, se non fosse stato che avrebbe dovuto spostare l’orologio di cinque ore, comprare un sacco di vestiti invernali, adattarsi a un clima subpolare e all’idea che il paesino dove avrebbero vissuto era piuttosto lontano dai centri urbani. Che avrebbe potuto raggiungere solo prendendo il treno o altri mezzi a motore. Fortunatamente non era troppo distante da dei paesini più grandi attrezzati.

«Ma», aveva rilevato la madre, «lì ci sono la neve migliore e le migliori piste da sci.» Come se loro sapessero sciare. E come se importasse chissà quanto col caldo che faceva.  

Quando il capofamiglia aveva comunicato la notizia, i restanti membri avevano reagito in diversi modi. La madre con stupore e uno strano lucore accese il suo sguardo, i figli rispettivamente con scontento e indifferenza. Il maggiore, Erol, era scontento perché avrebbe dovuto lasciare le sue numerose spasimanti e la sua attuale, ignara fidanzata. Poco male, anche se le immaginava agli antipodi rispetto a quelle della Florida, probabilmente c’erano anche laggiù, quindi le mandò un sms per avvisarla che partiva e la lasciava. Digitò in fretta il messaggino sul suo Iphone di nuovissima generazione e poi, una volta inviato, sorrise come se si fosse tolto un gran peso dalle spalle. Dopodiché andò a preparare i bagagli al suono di: «Ragazze, aspettatemi che arrivo!»

Frenato solo dalla madre che sorridendo sotto i baffi gli ricordò che sarebbero dovuti andare a comprare i vestiti necessari.

Sean odiò la scelta del fratello che scomparve nella sua stanza. Secondo lui non doveva comportarsi così. Lui, al contrario di Erol, aveva reagito simulando indifferenza. In realtà gli dispiaceva moltissimo lasciare Miami. Era pur sempre la città in cui era nato e vissuto per sedici anni della sua

vita. Una parte di sè fu anche felice, perché avrebbe potuto conoscere della gente nuova, e magari, anche fare amicizia, poiché lì non ne aveva nemmeno una. Chissà, poteva essere stata una buona occasione per ricominciare daccapo in un posto isolato dove nessuno, o quasi, lo conosceva. Caso voleva, infatti, che avesse un’amica di chat proprio in quel paesino. Grazie a lei aveva potuto farsi un’idea più generale del posto. Certamente diverso rispetto a Miami, dove tutto non era così ostentato e appariscente. Dove le serie TV si occupavano soltanto di filmare il peggio della vita che si poteva condurre lì. A dirla tutta era nauseato, per questo si convinse che poteva essere l’occasione della sua vita.

Passò quell’inoperoso mese a casa tra shopping - i genitori, ritenendo che un mese di scuola non sarebbe servito a niente, dato l’imminente trasferimento, li avevano ritirati - e allenamenti a sorridere e a tenere una conversazione di fronte allo specchio, suscitando le risate di Erol che cercava di riprenderlo con il telefono ogni volta che passava dinanzi a camera sua. Così prese a esercitarsi sottovoce e a porta chiusa. Lui non ci trovava niente da ridere. A differenza del fratello maggiore - i cui amici gli avevano organizzato anche un party d’addio - Sean aveva soltanto la pittura, l’arte e qualche conoscente occasionale cui non era particolarmente legato. Eppure quando li avvisò che se ne andava, anche loro si mostrarono dispiaciuti e si raccomandarono di farsi sentire. Sean promise che l’avrebbe fatto, ma in cuor suo sapeva che quelle parole in realtà non significavano niente.

La notizia era arrivata solo venticinque giorni prima, inaspettata come una mazzata tra capo e collo. Eppure solo adesso che vedeva quanto la casa andava progressivamente trasferendosi negli scatoloni della ditta di traslochi, realizzava quanto poco fossero state importanti la sua permanenza e la sua vita. Per un attimo pensò che fosse ironico: si nasceva tutti da niente di meno che un’unica cellula e si finiva per stare in posti anche più piccoli che quelle scatole che stava aiutando a caricare. Eppure più che starci male si sentiva animato da una strana, nuova speranza che lo portò a ritrovarsi a pensare a quanto poco gli importasse di quella gente e di quel posto.

La mattina del trasloco, salì a bordo della macchina dei genitori e gettò un’ultima occhiata alla casa e alla città che conosceva così bene e che odiava. Adesso che sapeva che finalmente poteva abbandonare quel posto infernale, non gli sarebbe mancato per niente. Presero l’aereo per loYukon che li portò all’aeroporto più vicino al paesino e, una volta lì, noleggiarono un fuoristrada che li condusse ad Hay River. Che enorme cambiamento. Non c’era più quel clima afoso e umido cui erano avvezzi dalla Florida, non c’erano più le spiagge assolate e piene di turisti più o meno bronzei. E non c’erano più gli immensi palazzi di vetro che risplendevano come gemme al sole. Al loro posto c’era il freddo del clima subartico, con le montagne dalle cime innevate sebbene fosse ancora settembre, e le casette di legno dal tetto spiovente che ricordavano i paesi trentini e al contempo quelle vecchie città fantasma, risalenti ai tempi della corsa all’oro, di cui l’America era ricca.

I quattro Lestrange si erano fermati in un bar vicino l’aeroporto e si erano cambiati d’abito, a favore di quelli invernali e degli scarponi che avevano comprato in un negozio vicino, solo per essere sbeffeggiati dalla signora Lestrange. La quale cercava di trattenere le risate a stento. Divenne tutta rossa prima che il consorte decidesse, cercando di essere quieto, di chiedere spiegazioni. «Gli abiti che avete comprato, per le temperature di Hay River», disse «sono praticamente estivi.» Poi batté la mano sul tavolo a ripetizione, scuotendo il capo. Facendo così impallidire i tre, che parevano avessero sperato che il riscaldamento globale avesse reso lo Yukon un posto non troppo diverso dalle Bahamas. Quando il padre ci arrivò, s’irrigidì trattenendo il fiato. I due figli lo guardarono in cerca di spiegazioni ma l’uomo terminò il discorso con un: «Non fa niente, li compreremo laggiù».  

Il sedicenne lanciò parecchie occhiate apprensive alla madre Sarah. Quest’ultima aveva i capelli rossi, e gli occhi color cioccolato al latte, che lui stesso aveva ereditato, ed era cagionevole di salute. Forse temeva che il cambiamento di temperatura potesse averne compromesso la vitalità, ma fortunatamente, scoprì, non era stato così. Anzi, pareva rinata. E non era solo perché in quella cittadina c’era nata e cresciuta. 

Attraversarono la cittadina.

C’era un’unica arteria principale che proseguiva in linea retta, dalla quale si diramavano le altre viuzze labirintiche. Per di più sembrava anche abbastanza affollata per un paesino di boscaioli che diventava meta turistica solo d’estate e in pieno inverno ed era famosa per le piste da sci, gli hotel e i meravigliosi sentieri. Sean gettò un’occhiata al fratello e vide la sua smorfia comunicare la sua delusione di fronte allo squallore in cui erano piombati. Come diavolo faceva quel posto a essere vivo? A lui sembrava bell’e morto, eppure a Sean piacque subito. Non aveva mai disegnato un bosco. Chissà, avrebbe potuto trovare tanti altri nuovissimi soggetti per i suoi dipinti e disegni. E la cosa lo entusiasmava parecchio, al punto che non vedeva l’ora di cominciare.  Purtroppo però, avrebbe dovuto aspettare.

Non erano ancora giunti alla loro nuova casa e pioveva anche a dirotto. Guardò fuori del finestrino, oltre le gocce di pioggia che cadevano diagonali, cercando di indovinare dove si sarebbero fermati.

Non poteva indovinare che la casa dove avrebbero abitato di lì in poi, oltre che a confinare con la foresta, era anche la più grande, la più vecchia, e la più isolata del paesino di sessantamila persone scarse. Risaliva all’Ottocento, quello inglese, a giudicare dall’architettura ed era adorna di ringhiere superflue sui tetti che sicuramente i genitori avrebbero fatto togliere.

Erol - che aveva imprecato tra sé e sé tutto il tempo - batté due dita sul braccio del fratello e, con un gesto del capo si scostò la lunga falda dagli occhi grigi: «Ehi, secondo te se aspettiamo ancora un po’, pensi che Mary Poppins uscirà da quella porta?» La scatola e la valigia sottobraccio.

In effetti, sembrava saltata fuori dal film omonimo. O quantomeno pareva essere stata costruita in quel periodo. In quel momento una tegola cadde dal tetto e toccò terra con un tonfo che fece sobbalzare i Lestrange. «Cosa è stato?» Presero a dire i genitori, allarmati.

Erol andò a controllare e tornò dicendo: «Niente, solo una tegola».

«Una tegola? Oddio, vieni via da lì. Non sia mai che ti caschi la casa in testa.» Fece l’ispettore allarmato agitando un braccio per invitarlo a raggiungerlo. Il diciannovenne sbuffò roteando gli occhi per il suo atteggiamento, ma eseguì. Mentre la signora Lestrange rise e si fece coraggiosamente avanti verso la porta di casa: «Non essere sciocco, Dean. Non è così messa male in arnese». 

Nel frattempo Erol si era avvicinato al fratello, che ora sembrava guardare la casa per la catapecchia in rovina che realmente era, e gli aveva detto: «Allora, che ne pensi?»

«Che più che Mary Poppins mi ricorda un film horror».  

Poi la madre, sotto il portico, dove era stata coraggiosamente seguita dal marito, li chiamò. E i due si riscossero e li seguirono. Contrariamente alle rosee speranze della genitrice, la situazione era pure peggiore.

Sembrava che sarebbe stato necessario chiamare l’impresa di ristrutturazione, poiché, non aveva un’aria molto stabile come la facciata cercava di promettere. Il camion dei traslochi sarebbe arrivato tra pochi giorni, intanto la famigliola cominciò a scaricare la macchina.

 

***

 

Sarah si prese qualche minuto per osservare la vecchia villa e un sorriso pieno di nostalgia le curvò le labbra e gli inumidì gli occhi. Era a casa. Guardò il portico malandato e abbandonato e lo vide come vent’anni fa. Il prato curato dove una ragazzina con i capelli rossi tutta gomiti e ginocchi che riconobbe come sé stessa, e un ragazzo muscoloso giocavano come due bambini a rincorrersi sotto il sole estivo. «Ora ti prendo».

«Non ci riuscirai mai.» Il ragazzo curvò le labbra in un sorriso felino. Gliela lasciò vinta per un po’, ma poi accelerò il passo e al momento giusto allungò il braccio. La strinse a sé facendola ridere, poi le baciò il collo ripetutamente e raggiunto il suo orecchio, le disse: «Ti ho presa.» Mentre lei, ridendo, cercava fiaccamente di liberarsi.

Forse per l’intensità del ricordo, ma si domandò se la sua sé passata avesse potuto vederla in quel momento. Se avesse potuto prevedere cosa sarebbe successo di lì a poco. Eppure era proprio lì, in quello che lei aveva sempre chiamato il Giardino dei Cristalli, che tutto era cambiato. L’erba, gli alberi, le tegole, tutto, pareva avere una lucentezza cristallina ed era avvolto in quell’alone che soltanto il passato è in grado di donare agli eventi più belli. 

Il marito le cinse le spalle con un braccio e le stampò un bacio sulla tempia: «Contenta di essere tornata?» Le domandò, riportandola al presente. Lei batté le palpebre per liberarle dalle lacrime rimaste incastrate tra le sue ciglia e rispose, con voce commossa «Moltissimo.» Lo guardò e gli parve di vedere affiorare sotto il volto del suo uomo, il ragazzo del quale si era innamorata anni addietro.

Intanto che i due figli scaricavano la macchina dalle loro valigie. Nell’udire la madre parlare così, Erol inarcò un sopracciglio con fare ironico ma la donna non ci fece caso. Poi udirono la tegola cadere e Dean tornò a essere il solito apprensivo di sempre.   

I due ragazzi raggiunsero i due coniugi sotto il portico sgangherato e aprirono la porta su un ambiente dai mobili tarmati che puzzava di muffa e a tratti pericolante. La famigliola non si fece intimorire e prese possesso della casa. I due ragazzi cominciarono l’esplorazione dei piani superiori. La donna li lasciò scoprire l’esistenza delle quattro camere e impedì al marito di rovinare loro l’esplorazione. Mentre passato e presente danzavano assieme a lei. Ogni angolo, ogni trave, era intriso di un ricordo che sembrava aspettarla solo per avvicinarsi e darle il benvenuto, un’esplosione di colori non dissimile da un sogno. 

«Vieni, vieni!» Esclamò tutta contenta, animata da nuova energia, al marito prendendolo per mano come la ragazzina che fu. Lui alzò gli occhi dalle loro mani intrecciate ai suoi, stupito da quella vitalità. Si lasciò trascinare dentro mentre la mente della donna li riportava indietro nel tempo, quando erano solo due timidi adolescenti che si scambiarono il primo bacio. Riuscì a sentire il profumo della legna nel caminetto e della cera per pavimenti, l’odore delle scale, il colore lucido delle rifiniture in legno. Le piastrelle sempre pulite dalla cara Bessy, la domestica della nonna. Vedeva i quadri appesi ai loro sostegni.

Nonostante fosse passato un ventennio dalla morte della sua adorata nonna, non avrebbe mai pensato che il buon Dio avesse udito le sue preghiere. Era tornata a casa. Nel posto cui sentiva di appartenere.  

 

***

 

Erol osservò schifato la propria stanza. Era vecchia, polverosa e puzzolente. Inoltre alcune travi del soffitto erano mangiate dai tarli e la muffa aveva inglobato il muro. Si consolò pensando che sicuramente a Sean sarebbe andata peggio, e invece scoprì di avergli solo fatto un favore.

Perché nell’altra la luce entrava che era una meraviglia, e sarebbe stata anche migliore, una volta ripulita. Oh se avrebbe adorato quella camera. Come nelle altre stanze c’era già il letto con la testiera di ferro battuto, avrebbe soltanto dovuto rifarlo. E, dopo aver posato la valigia, essersi preso la briga di pulire, andò al ristorante più vicino col resto dei suoi parenti che si lagnarono delle loro sistemazioni tutto il tempo. Poi, verso le dieci di sera, se ne andò a dormire e il sogno che fece fu uno dei più belli che avesse mai fatto. Era immerso nel verde della foresta e camminava con sottobraccio una tela bianca e una scatola con i suoi attrezzi di pittore. Stava ritraendo una cinciallegra quando udì la voce femminile ridente che lo fece destare di scatto e percepì un profumo di fiori che lo lasciò interdetto, ma rendendosi conto che era solo un sogno, si riaddormentò.

La nuvolosa mattina seguente, i due ragazzi si svegliarono, si vestirono e fecero colazione a un bar coi loro genitori. Il bar in questione era fatto di legno e rassomigliava a un saloon dove i moderni cowboy armati di asce, motoseghe e cartelle piene di libri e quaderni si affollavano scambiandosi le ultime novità, usare il bagno, guardare la TV o bere un caffè.

Mamma si guardava costantemente intorno alla ricerca di vecchie conoscenze, e papà la guardava di sottecchi e ridacchiava: ai suoi occhi doveva appena essere ritornata ragazzina. Anche Erol si guardava attorno, ma più per setacciare il luogo, come un cacciatore alla ricerca di nuove prede, che altro. D’altro canto lui era fatto così; dategli un bar o un qualsiasi altro punto di riferimento, e lui ti saprà tracciare un percorso che si dirama per tutta la città, fino alle ragazze più belle del posto. Ma se la genitrice non trovò nessuna delle sue vecchie conoscenze, Erol ebbe più fortuna. Quella mattina che i due fratelli rimasero a casa a pulire assieme alla madre, ne approfittarono per completare il giro d’esplorazione. A Sean fece piacere aiutarla con le faccende di casa. E anche Erol si mostrò molto paziente e docile con lei. Le volevano entrambi un bene sincero.

In poche ore e una pausa per rifocillarsi, i tre Lestrange riuscirono a disfarsi dei mobili tarmati e marciti e della fastidiosa carta da parati. Ma per il resto, dovettero chiamare un’impresa di ristrutturazioni perché per l’impianto elettrico, le travi marce e tutte quelle zone pericolanti della casa, non c’era niente da fare. L’impianto idraulico andava miracolosamente bene, ma tutto il resto andava rifatto. Tempo poche ore che gli operai giunsero e cominciarono a lavorare, così i tre poterono riposarsi.  Anche Dean quando tornò verso le sette di sera la trovò una buona idea, anche se dispendiosa. Ma almeno, avrebbero potuto vivere in una casa decente. Anche se, come scoprirono in seguito, avrebbero dovuto fare i conti anche con i ratti che avevano preso possesso della cantina e della soffitta: perfetto, altri dollari buttati via nella derattizzazione. 

Per il momento avrebbero vissuto in un motel, anche se avevano lasciato i loro bagagli alla casa.

E così Dean vi fece un salto per recuperare le loro cose.

Mentre cenavano, Erol si accorse che Sean guardò con una punta di rammarico il paesaggio cittadino che si apriva oltre la finestra: avrebbe dovuto attendere un bel po’ prima di poter riprendere a disegnare. Il diciannovenne roteò gli occhi, infastidito. Ecco, adesso avrebbe cominciato una tirata perché papà non gli aveva portato i suoi attrezzi da pittore. Come se non bastasse, avrebbero dovuto attendere un po’ prima che la casa divenisse agevole. Il padre, notando l’angoscia del secondogenito, gli batté una mano sulla spalla e gli disse: «Non preoccuparti Sean, vedrai che presto potrai di nuovo scorrazzare con la tua moto.» E questo, inaspettatamente, riuscì a lenire parte della tensione del minore dei Lestrange.

Il ragazzo era attratto dalla velocità e si eccitava nell’udire il rombo del motore di una macchina o una moto da corsa; quindi una volta presa la patente suo padre l’aveva iscritto a un corso per imparare a guidare i motorini e, una volta superato anche l’ultimo esame, gli aveva regalato una bella moto nera e lucente, con la quale era solito spostarsi nella loro vecchia città. La sua moto gli mancava quasi allo stesso modo delle matite, dei pennelli e dei suoi fogli da disegno. Ma si consolò pensando che presto sarebbe arrivata anche quella, assieme ai loro mobili Ikea, ma forse, considerando le dimensioni della casa, avrebbero dovuto comprarne di nuovi.

«Non vedo l’ora.» Rispose al ricordo delle sue cavalcate per la città. Se il loro padre non fosse stato poliziotto, quasi sicuramente avrebbe violato con molto piacere le norme sulla velocità. Una volta l’aveva fatto, una sera d’estate di un anno fa, e si era divertito, eccome se si era divertito. E il maggiore lo sapeva bene dal momento che gli era sfrecciato davanti, non riconoscendolo e rischiando quasi di tamponarlo. Quasi poteva immaginare ciò che gli frullava nella testa in quel momento al riguardo. Chissà se la statale si prestava bene per le sue scorrazzate? E con questo, notò, che il ragazzo si era dimenticato i suoi crucci.

Chissà se anche a lui sarebbe bastato così poco per scordarsi di Miami?

Il peggio arrivò dopo la cena. Era disgustato. Quando aveva detto addio alla sua trombamica - povera ingenua cornuta, che tutti scambiavano per la sua ragazza - e ai suoi amici per Hay River, non si aspettava di certo di barattare la sua città natia per un posto così squallido. Cioè, credeva che Hay River fosse tipo le Hawaii, non la desolazione fatta paese. Nonostante che si trovasse proprio a due passi dal Parco Nazionale e riserva di Kluane e a qualche ora di macchina dalla catena montuosa del Saint Elias e dei Denali. Anche se per vedere quest’ultimo, avrebbero dovuto passare i confini con l’Alaska.

Nonostante il padre ripetesse da ore la storia di come quei falliti dei cercatori d’oro sbagliarono strada e si ritrovarono sulle sue rive con pochissimo oro ma mille altre risorse che si decisero a sfruttare. Infatti, sul territorio c’era una minima quantità di fossili - non roba famosa come nel Wyoming ma reperti risalenti all’Era Fanerozoica - apposta per aprire un piccolo museo e le montagne con le alture perfette per inaugurare piste da sci e sentieri. Che trasformarono la cittadina della vallata ormai quasi abbandonata, in un paradiso per le vacanze estive e invernali. Erol sbuffò e incrociò gli occhi. Poi mimò il gesto di portarsi una pistola alla tempia e premere il grilletto, strappando un risolino a Sean e alla madre, che curvò le labbra in un sorrisetto mentre li osservava dallo specchietto retrovisore. 

Interruppe il paterno soliloquio da guida turistica per domandargli se ci fosse un centro commerciale o qualche traccia di civiltà. Perché a sentire lui, sembrava di essere tornati indietro nel tempo fino al Far West. Non si sarebbe stupito se la gente se ne andava ancora in giro con gli speroni e se la facesse con le prostitute in qualche saloon infestato.

Il genitore sogghignò sotto i baffi «Mi dispiace deluderti ma…» non c’erano né il centro commerciale, né uno straccio di discoteca. Solo un patetico accenno di fast food a penosa emulazione di Mc Donald e Burger King cui era abituato e il benzinaio. Neanche una profumeria, al massimo un’erborista che vendeva prodotti naturali di tutti i tipi e un negozio di sassi dipinti. C’erano dei pub e dei caffè, un teatrino e degli alberghi, ma in architettura da corsa all’oro anche se alcuni poi erano stati rifatti in muratura in stile Art Nouveau. E come diavolo si divertiva la gente lì? Con le risse del sabato sera? Per non parlare del freddo. «Ma che diavolo.» Sibilò ficcandosi le mani sotto le ascelle e saltellando sul posto quando scesero dalla macchina.  

Aveva diciannove anni. Che cosa gliel’aveva fatto fare di abbandonare la calda e soleggiata Miami per quel posto freddo, tetro e deserto? E poi lui era un animale estivo oltre che un playboy. Ed era bello. A cosa era servita tutta quella cura di sé, quel perfezionamento delle sue arti da conquistatore, dello charme, se poi si ritrovava lì? Chi poteva rimorchiare lì? Le vecchie? Che schifo! La sola idea di baciare un’anziana signora gli faceva un ribrezzo senza precedenti. Cioè, ok che era di bocca buona, ma non si sarebbe mai azzardato ad andare con una dell’età di sua madre o di sua nonna!

A parte questo era maggiorenne, che diavolo. Avrebbe potuto restarsene là, ma anche se ci fosse rimasto come avrebbe potuto mantenersi? Avrebbe chiesto ospitalità ai suoi amici? Nah…Non sarebbe caduto così in basso. E poi non aveva nemmeno un lavoro. Oramai era lì e il danno era fatto, quindi non aveva altra scelta che trovarsi dei soldi, finire la scuola e mandare tutti in culo. E l’avrebbe fatto, oh sì che l’avrebbe fatto.

Già; la scuola. Forse aveva ancora una possibilità di divertirsi e diventare il numero uno.

 

***

 

Se i suoi figli erano amareggiati, lo stesso non si poteva dire di Dean. Aveva appena scoperto che la polizia locale collaborava a spalla a spalla con sceriffi un po’pazzi che, per far rispettare la legge, dovevano infrangerla. Un po’come in certi telefilm. Ma quella era Hay River: la giustizia erano abituati a farsela per conto suo. Per questo non gli andava giù che Terrence Himelich li menasse così per il naso.

Appena Dean lo seppe, rimase sconcertato. Quella centrale di polizia era un luogo in cui il lavoro era pieno di arretrati e che quella cittadina, non aveva nemmeno uno straccio di criminalità. Neanche un borseggiatore, al massimo qualche tarocco al mercatino locale. Gli omicidi erano già stati arrestati a suo tempo.

Solo allora comprese perché l’avessero spostato lì; era una testa calda che rompeva le scatole ai dirigenti e ai superiori. Accidenti, avrebbe dovuto pensarci prima, ma l’entusiasmo e le opportunità di vedere sua moglie migliorare, e suo figlio più piccolo farsi una vita sociale vera e smetterla di fare l’autistico l’avevano accecato. In realtà non lo era ma l’avevano portato tante volte in terapia per capire cosa lo bloccasse così tanto e perché alcune persone le evitasse come la peste. La risposta della dottoressa era stata che Sean era un bambino normalissimo e che amava osservare prima di fare qualcosa. Il ragazzino, già dalla tenera età dei cinque anni aveva imparato a osservare i gesti e i comportamenti delle persone. Come se leggesse i loro sentimenti e le vere intenzioni in anticipo e avesse deciso che buona parte di coloro che lo circondava fossero dei falsi che non meritavano neanche una briciola della sua attenzione.

«Allora perché non parla?»

Lo psicoterapeuta aveva risposto, dopo numerose, costose sedute: «Oh, parla. Eccome se parla. Solo che non lo fa con i segni convenzionali.» il poliziotto aveva fatto una faccia come a dire che non ci aveva capito un’acca. Allora l’analista gli aveva mostrato i disegni del piccolo. Sembrava di vedere uno stile picassiano ma i messaggi che lasciavano erano chiarissimi. Eppure Dean, uomo tutto di un pezzo, non li aveva compresi. Per lui erano solo i disegnini di un bambino. Perciò cercò ulteriori conferme con una domanda: «Non mi sta dicendo che ha qualche malattia mentale, vero?»

«Oh, no, stia tranquillo».

«Ma parla, con le parole, intendo?»

«Certo». 

«Allora perché non lo sento? È forse sordo?» Disse accennando al bambino chino sul basso tavolino intento a disegnare. Apparentemente scollegato dal resto del mondo.

«No, certo che no. Altrimenti gliel’avrebbero diagnosticato alla nascita o gliel’avrei detto subito dalla prima seduta.» rispose la dottoressa. Dean aveva emesso un lungo sospiro di sollievo ma ammise almeno a sé stesso che non stava capendo niente di ciò che gli veniva detto. Addirittura pensò da come lo guardava, di non esserle molto simpatico. Non ci poteva fare niente, lui non era simpatico quasi a nessuno. 

«Allora è colpa mia?» Aveva domandato. Perché a volte il bambino si ritraeva come se Dean gli avesse fatto del male e allora si rifugiava tra le braccia della mamma da dove continuava a guardarlo con quegli occhioni spaventati. La sua interlocutrice aveva asserito che era normale, che era solo una fase e sarebbe passata presto. Certo, ma allora perché lui non parlava? La povera donna fu costretta a spiegarglielo in soldoni: «Forse crede di avere di meglio da fare».

«E cosa? Disegnare?» I due si voltarono verso il bambino, ancora intento nella realizzazione della sua opera: «Così parrebbe».

Solo dopo saltò fuori che il piccolo non parlava con lui perché gli metteva paura. Paura... ma paura di che? Si domandò Dean. Eppure non era come quei genitori violenti che a volte capitavano in centrale. Aveva sempre fatto in modo di non spaventare suo figlio, e di evitare che giocasse con la sua pistola.          

Stava cominciando a prendere confidenza con il suo nuovo ruolo e il suo nuovo ufficio, quando venne a sapere di Terrence Himelich e che questi era ancora in libertà. Allora non aveva la più pallida idea di chi fossero finché non udì queste nuove e cristalline parole: «Il suo nuovo caso». Ascoltò tutto quello che poté su quel nome dai suoi colleghi. E a racconto finito pensò che in fondo in fondo, ritornare in quella cittadina non sarebbe stato così noioso.
Aveva fatto di tutto per uscire da lì e ora eccolo che doveva tornarci. Era rimasto scioccato. Hay River? Quella Hay River? Quella cittadina dove era nato e cresciuto che aveva lasciato vent’anni prima per non tornare mai più?

Meno male che sarebbero rimasti soltanto finché non avrebbero acciuffato quel malvivente.   

Quella notte, dopo che i ragazzi furono andati a dormire, decise di parlarne con Sarah, ma poi, quando incontrò i suoi felici occhi stanchi e sentì il suo ennesimo colpo di tosse, decise di tenere per sé le ultime scoperte, ripromettendosi di parlarne il giorno dopo a quattrocchi con Erol e Sean.

   
 
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