Disclaimer:
I personaggi di Lady
Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di
Ryoko Ikeda.
IX –
Aprile 1775 – Aprile 1779
Così
erano
andate le cose. Questa era stata la genesi del suo piano. Ma persino la
saggezza degli anziani non è infallibile, e il suo amore per
lei si era
dimostrato inossidabile pur nella
convinzione – e come poteva essere altrimenti ?
– di non essere
corrisposto.
Tredici
lunghi anni, tanto era durato l’inganno. Attuarlo era stato
relativamente
facile, seppure oltremisura doloroso. Era bastato assicurarsi che lui
la
vedesse mentre lei guardava l’altro ora rapita, ora sognante,
spesso
malinconica. L’aveva lasciato trarre le sue conclusioni. Lei
dal canto suo
metteva in scena una finzione per metà: tanto le sue
espressioni erano genuine
quanto lui ne travisava il significato. Si perché ora che la
forza dell’amore e
l’impeto della passione non le erano più
sconosciuti, guardava con sincero
trasporto gli occhi di colui che ne era tormentato capendo fin nel
midollo cosa
stesse provando. Non erano sguardi d’amore i suoi,
semplicemente manifestavano
una profonda empatia per quelle due anime che condividevano con lei e
Andrè un
destino tanto simile. E così la malinconia che talvolta
traspariva dagli occhi
di Fersen diventava anche un po' la sua. E la passione. E la tristezza.
Li
aveva osservati da vicino, aveva visto il loro legame crescere e
l’amore
divampare al punto da non poterlo più contenere, fino ad
obbligarli a
rispondere al richiamo della carne che reclama la carne. E loro avevano
obbedito. Avevano fatto una scelta diversa dalla sua. Giurerebbe
persino di
aver capito esattamente quando fosse successo, perché la
mattina seguente gli occhi
di entrambi brillavano di una luce nuova, che non gli aveva mai visto.
Paradossalmente
doveva essere avvenuto proprio la notte in cui aveva obbligato il conte
a
ballare con lei tutta sera, in alta uniforme, per dissipare i
pettegolezzi che
cominciavano pericolosamente a circolare a corte. In altre parole per
proteggerla. Era stata una sua idea. Aveva voluto mostrare a Fersen
quale
sarebbe stata la strada più saggia da percorrere, la stessa
che aveva imboccato
lei stessa, proteggere l’altro a costo della propria
infelicità.
Ma loro
avevano scelto altrimenti e lei ricorda di essersi sentita confusa.
Quale amore
poteva dirsi davvero tale se era disposto a mettere in pericolo
l’altro? Eppure
… aveva percepito un senso di ineluttabilità che
l’aveva fatta vacillare.
Quella sera, mentre volteggiavano nella sala delle grandi feste sotto
gli occhi
di tutta la nobiltà riunita, aveva visto da vicino il dolore
del conte nello
sforzo sovrumano di tenere gli occhi nei suoi, mentre avrebbe voluto
cercarne
altri per farle sapere che
lui era
ancora suo, che niente avrebbe potuto dividere due anime nate per
essere unite.
E quella
notte stessa deve averglielo dimostrato.
Oscar ne
rimase impressionata. Mise a lungo in discussione la bontà
della propria
scelta, arrivò quasi ad invidiare la pienezza della
felicità che leggeva sui
volti di entrambi, frutto di una complicità nuova,
un’intimità che lei aveva
invece voluto precludere a se stessa. Forse il rosso
poteva riuscire ad
ingannare il nero dopotutto.
Poi
arrivò
l’annuncio. Erano i primi di Aprile del 1779, e Fersen le
confidò che sarebbe
partito per l’America. Le disse che non poteva più
restare accanto alla sua
regina, che i pettegolezzi sussurrati, erano diventati cattiverie
dapprima
asserite e poi urlate ai quattro venti.
Si
sentì
investire da una tristezza infinita. Aveva sperato potesse esistere
un’altra
possibilità con un epilogo diverso, aveva sperato un giorno
di poter cambiare
strada, invece la sua si era rivelata alla fine l’unica
soluzione possibile e
anche Fersen aveva dovuto capitolare e adeguarsi.
Quella
sera chiese ad Andrè di portarla in qualche bettola di
Parigi a bere.
Lo voleva
vicino, ma si avvide subito dell’errore. L’equivoco
era prevedibile, gli occhi
mesti di lui erano quelli di chi si era trovato costretto contro la
propria
volontà a guardare impotente la propria donna soffrire per
non essere
corrisposta da un altro.
Bevve
quanto più poté per stordirsi, perché
la vista le si annebbiasse e non fosse
costretta a distinguere così nitidamente
l’espressione ferita di lui, le spalle
leggermente incurvate, gli occhi bassi sul calice mezzo vuoto.
Si diede
della stupida per l’errore grossolano. La rabbia che
sentì salire trovò facile
sfogo quando un avventore si lasciò andare a un commento di
troppo. Fu come un invito
a nozze, pugni e calci volarono insieme a seggiole e sgabelli. Ne
presero tante
e ne diedero altrettante, fino a ritrovarsi esanimi pancia a terra sul
pavimento di legno sporco e maleodorante.
Stava
imponendo a se stessa di rimettersi in piedi, quando si era sentita
sollevare
da braccia forti, quelle di lui di cui riconobbe il profumo, che la
prese in
braccio e se la strinse contro più che poteva. Le venne da
piangere, commossa
da quel gesto che diceva tutto il suo amore che nemmeno la presenza di
un altro
uomo nel suo cuore era riuscito a scalfire.
Finse di
essere addormentata e si accoccolò meglio contro il suo
petto forte, in ascolto
dei battiti del suo cuore contro la sua guancia. Non gli era
più stata così
vicina da allora. Poi lui si fermò di colpo e lei
pensò che fosse esausto e che
l’avrebbe svegliata per farla proseguire sulle sue gambe.
Invece furono le sue
labbra morbide quelle che sentì premere sulle sue in un
bacio casto, ma di una
tenerezza inaudita. Quanto avrebbe voluto rispondere a quel bacio e
allacciargli le braccia intorno al collo, invece fu come dirgli addio
una
seconda volta. Giunta a casa, nel suo letto, pianse per davvero. Pianse
per
lui, pianse per Fersen, per la regina e pianse per se stessa.