Disclaimer:
I personaggi di Lady Oscar
non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko
Ikeda.
XI
- 14 Luglio 1988
E’
ancora lì, accovacciata sul pavimento, la schiena appoggiata
alla parete
fredda. Non sa quanto tempo sia trascorso, le pare di aver passato in
rassegna
tutta la sua vita, la loro vita.
«Domattina
sarò fuori dalla tua vita come
desideri».
Già.
Ma cosa ne poteva sapere lui di cosa
desiderasse lei se aveva passato gli ultimi tredici anni a tenerlo
all’oscuro?
Dal giorno che aveva posato le proprie labbra sulle sue non aveva mai
più fatto
ciò che desiderava, solo ciò che a parer suo
andava fatto.
A
parer suo. Gli aveva tolto ogni possibilità di
scelta, libero arbitrio aveva detto Fersen. E forse aveva ragione.
Aveva
alterato la percezione della realtà di Andrè
operando come il più spietato dei
censori, come gli avesse fatto leggere un libro strappandone le pagine
salienti.
Tutto
ciò che aveva fatto l’aveva fatto per il
suo bene, ma il risultato non aveva nemmeno la parvenza della
felicità sul
volto di lui, distrutto da troppo dolore, da troppo amore.
Allunga
la mano a raccogliere il lembo strappato
della camicia rigirandoselo tra le dita.
E
se anche Fersen avesse avuto ragione, metterlo
in condizione di scegliere avrebbe voluto dire rivelargli di averlo
ingannato
per gli ultimi tredici anni della loro vita. Come avrebbe potuto
perdonarla?
No,
il perdono non era ciò a cui poteva ambire,
ma avrebbe quanto meno potuto mettere fine alle menzogne. Se ne sarebbe
andato
comunque, ma sarebbe stato più sopportabile che fosse per
l’inganno che aveva
perpetrato ai suoi danni piuttosto che lasciargli credere che lei fosse
di un
altro.
Si
risolve ad alzarsi dal pavimento, non si cura
di cambiarsi la camicia, infila la porta e si dirige verso la stanza di
lui, a
piedi scalzi, senza fare alcun rumore.
Rimane
ferma sulla soglia, il battente è solo
socchiuso e produce un leggero cigolio quando lei lo spinge per
entrarvi e per
chiuderselo poi alle spalle.
Impossibile
che lui non l’abbia sentito, eppure
rimane immobile. Ne scorge la figura stagliata contro la finestra che
filtra la
luce dell’alba, la fronte e i palmi aperti appoggiati contro
il vetro freddo,
la schiena nuda, leggermente protesa in avanti.
Sul
pavimento accanto al letto una borsa da
viaggio ancora semivuota.
Fa
un passo nella sua direzione.
«Cosa
ci fai qui? Cos’altro vuoi?». Ha capito che
è lei, non c’è nessun altro sveglio a
palazzo.
Nessuna
risposta. Un altro passo.
«Se
sei venuta ad accertarti che io mantenga la
parola puoi stare tranquilla. Me ne andrò tra un paio
d’ore, aspetto che mia
nonna si svegli per salutarla».
Ancora
nessuna risposta. Altri due passi.
«Parla
Oscar, dì quello che devi dire e lasciami
solo. Sono ancora ubriaco, sono stanco, ho una valigia da fare e sono
un po'
giù di corda, per usare un eufemismo».
Lei
fa un ultimo passo, poi l’abbraccia, preme
una guancia sulla sua schiena e le mani sul suo petto.
Lo
sente irrigidirsi, i muscoli contrarsi al suo
tocco.
«Ti
prego Oscar, non così. Ti prego, lasciami.
Non ce l’ho con te, non sono arrabbiato con te, non
è colpa tua se tu non
mi...».
«Ti
volevo anch’io. Ti volevo più di qualunque
cosa. Ci sei sempre stato solo tu. Lui non è mai stato nei
miei pensieri, né
nel mio cuore».
La
risposta di lui ha il tono di una supplica,
non c’è traccia della rabbia di prima. La voce
arrochita dalle emozioni di un
contatto che il suo corpo non può ignorare.
«Perché
mi dici queste cose? Non ti accorgi del
male che mi fai? Non sei credibile Oscar, non è quello che
ho visto io in
questi anni. So che mi vuoi bene, so che vorresti che io rimanessi, ma
non
posso più fingere di essere ciò che non sono.
L’amico che vorresti al tuo
fianco non c’è più da molti anni ormai.
Se mi tocchi così mi uccidi».
Lei
sta piangendo lacrime silenziose, le sente
bagnargli la schiena e pensa che è la prima volta che usa un
tono tanto dolce
con lui.
«Tu
hai visto ciò che io volevo farti vedere. Hai
passato una vita intera a proteggermi, per una volta ho voluto farlo
io, ma ho
sbagliato tutto».
Adesso
ha tutta la sua attenzione. Non capisce il
senso delle sue parole. Fa per girarsi, lei oppone resistenza, lo
stringe più
forte a sé ma lui non ha intenzione di continuare questa
conversazione dandole
le spalle. Le prende le mani ancora appoggiate al suo petto e scioglie
dolcemente l’abbraccio girandosi poi a fronteggiarla. Lei ha
portato le braccia
lungo i fianchi, ha ancora indosso la camicia strappata, il volto
è rigato di
lacrime e lui pensa di non averla mai vista tanto indifesa.
«Cosa
stai cercando di dirmi Oscar? Proteggermi
da cosa?».
Lei
allarga le braccia e lo guarda dritto negli
occhi.
«Da
me. Da noi. Ho dovuto farti credere di essere
innamorata di un altro».
Lui
comincia a capire. Serra i pugni lungo i
fianchi, ma si sforza di mantenere la voce calma.
«Perché?».
Lei
percepisce il cambiamento, è preparata.
«Era
pericoloso. E’ pericoloso. Troppo. Tua
nonna, la servitù intera, persino Hortence. I tuoi
sentimenti non sono un
segreto per nessuno qui a palazzo. Nessuno tranne mio padre. Ti amo
Andrè,
credo di averti sempre amato. Volevo solo proteggerti».
Lui
fatica a metabolizzare la portata di quella
rivelazione: lei lo ricambia da sempre, così dice, ma non si
è fatta scrupolo
di ingannarlo per anni. Per anni l’ha guardato spegnersi un
poco alla volta,
giorno dopo giorno, sotto il peso di un sentimento che aveva sempre
creduto a
senso unico.
Non
sa se ha più voglia di farci a pugni o farci
l’amore. No, vorrebbe schiaffeggiarla, decisamente. Ma non
alzerebbe mai un
dito su di lei, nemmeno sull’onda della rabbia che ora sente
montare dentro,
incontenibile.
Porta
un braccio al fianco di lei e, con un
movimento brusco, la scosta dalla traiettoria che lo porta oltre la
soglia
della stanza, prima con passi malfermi, poi correndo lungo il corridoio
e fuori
dalla porta di servizio che porta alle stalle.
Lei
non lo ferma, non fa una mossa. Sapeva che se
ne sarebbe andato comunque. Sapeva che aveva il diritto di farlo. Si
siede sul
letto quando capisce che le gambe non la reggono più e si
porta le mani al
viso. E’ uscito dalla sua vita solo da pochi istanti e il
vuoto che sente è già
incolmabile.
Si
scopre il viso e si guarda intorno nella
stanza come a voler imprimere nella mente ogni particolare di
quell’ambiente,
per tanti anni il loro rifugio, da oggi simulacro di ciò che
non è più.
Osserva
le tre mensole di legno stipate di libri,
ma non trova ciò che cerca, che era sicura di trovare. Poi
un altro particolare
nella stanza cattura la sua attenzione. La borsa da viaggio giace
ancora sul
pavimento, mezza vuota. Le si accovaccia accanto, solleva un lembo di
stoffa
bianca, una sua camicia. Prima di riporla se la porta al viso e ne
ispira
l’odore buono di lui. C’è anche una
scatola di legno intagliata, dentro i
risparmi di una vita. Infine lo vede: La Nouvelle
Héloise, accoccolato
sul fondo. Ne accarezza la copertina rigida e ne gira il risguardo,
dietro vi
trova esattamente ciò che si aspettava di trovare. Loro due
visti con gli occhi
di lui, bellissimi. La mano di lui là dove Hortence le aveva
raccontato, a
cingerle la vita.
Non
può essersene andato senza nulla. Forse non
tutto è perduto. Forse non è troppo tardi.
L’alba
sta lasciando spazio al giorno e lei si
accorge di indossare ancora la camicia strappata e di essere scalza.
Indossa
velocemente la camicia di Andrè che le va decisamente larga
e l’ampio scollo
lascia intravedere più di quanto la decenza comandi. Infila
il disegno nella
fusciacca dei pantaloni e si avvia verso l’uscita di servizio
che porta alle
stalle. E’ sicura che rimedierà un paio di stivali
che possano calzarle.
Solitamente lei e Andrè ne tengono in stalla un paio di
scorta per quando
tornano troppo inzaccherati per entrare a palazzo senza farsi sgridare
da
Nanny.
Impiega
più di quanto ci metterebbe lui a sellare
Caesar e posizionare i finimenti, poi lo sprona al galoppo e lo dirige
senza
esitazione verso un punto preciso, là dove tutto
è cominciato.