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Autore: CHAOSevangeline    25/08/2019    3 recensioni
{ Apollo/Giacinto | Questa storia partecipa alla "Challenge delle Parole Quasi Intraducibili" organizzata da Soly Dea sul forum di EFP. }
Apollo ha scoperto di recente che odia innamorarsi: troppi pensieri, troppe preoccupazioni, brutte esperiente e troppo dolore.
Ma non può impedire a un giovane principe spartano di fare colpo su di lui.
Un breve racconto su come tutto è cominciato.
E su come Apollo si è impegnato per farlo funzionare.
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"«Shhht!» proruppe Apollo, chinandosi a propria volta di fronte a Giacinto che ancora stava in ginocchio.
«Ma voi siete…»
Certo Apollo avrebbe voluto toccare Giacinto per la prima volta in modo un poco più romantico e non premendogli una mano sulle labbra.
Gli occhi verdi di Giacinto si spalancarono.
Oh dei, pensava forse volesse ucciderlo?
Perché questo pensava la gente di solito, no?
Apollo ritrasse la mano.
«Non ti voglio fare del male», esalò. «Solo… sono qui in incognito.»"
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Apollo, Artemide, Eros
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Piccola nota iniziale: diversamente dal mio solito questa minilong composta da due atti non è una AU.
Vuole raccontare in modo leggero come ho immaginato l'inizio della storia fra Apollo e Giacinto al tempo del mito. Non ci sono dunque richiami alla mia storia "A Giacinto", nella quale però ho definito i caratteri dei personaggi secondo una mia interpretazione.
Per chi vorrà leggere vi aspetto nelle note finali!
Edit: la storia è stata inizialmente postata nella sezione Epico. Essendo però basata sul mito e non trattandosi di una AU, ho pensato che questa fosse infine la sezione più adatta.
Buona lettura ~




Quando il sole si innamorò di un fiore
E di come Apollo si impegnò davvero, rendendola una tragedia greca



Atto I



Dei e amore, due parole che nella stessa frase non dovrebbero coesistere. Mai.
Due parole tanto legate quanto antitetiche.
Pochi sono i possibili esiti: morte e drammi, sangue e lacrime. Perché in fondo gli dei ameranno forse per capriccio, ma amano con la stessa intensità dei loro poteri: quella che può devastare il mondo. O incenerire un rivale sul posto, ad esempio.
Tutto dipende da quanto amore c’è in ballo e da quanto sadico è il dio in questione. Magari anche se al mattino s’è svegliato con il piede giusto: in questo caso potrebbe preferire un lavoretto rapido e pulito come un fulmine, una palla di fuoco, una freccia ben assestata per passare poi ad altre mansioni – quali è meglio non chiederlo per evitare d’insinuargli l’antipatico pungolo che suona nell’orecchio come un «ma davvero hai qualcosa da fare?» Questo, ecco, potrebbe essere ancor più rischioso di contendersi lo spasimante con un olimpico, di essere il rivale da incenerire.
Dei e amore nella stessa frase non s’accompagnano, anche, perché quand’è un umano ad essere coinvolto negli affari divini il suo destino quasi sempre è segnato: la gelosia di un dio lo ferirà, l’ira di un altro immortale lo renderà vittima di questioni che poco hanno a che fare con lui; antiche rivalità torneranno a galla, o ne nasceranno di nuove su misura per l’occasione.
C’è da chiedersi se siano gli dei ad essere masochisti nel non fermarsi, nel non spegnere il fuoco della passione, o gli umani troppo impavidi nell’accettare i loro sentimenti. Per i primi forse l’impressione è che tutto dipenda da loro e loro soltanto, che sia coinvolto solo il corpo e non il cuore, che la mente possa scacciare il proprio amato a comando dai pensieri. Per alcuni, forse, funziona perché la loro è solo bramosia, sete di conquista: l’amore di un mortale è solo l’ennesimo trofeo di un’impresa vinta, il suo corpo una terra conquistata e il suo cuore l’offerta più inestimabile che una divinità possa ricevere. Morto un amante se ne può scegliere un altro, è più importante punire chi l’ha sottratto per orgoglio che non il cuore ferito che spesso nemmeno è tale. Non c’è nemmeno da piangere, per alcuni.
Ma c’era anche chi avrebbe percorso il cammino dei mortali, se solo avesse potuto. Dei per cui l’amore non era un gioco, che si sarebbero offerti a propria volta accettando l’innamorato come unico tempio a cui fare ritorno.
Per questo Apollo odiava innamorarsi.
L’aveva scoperto di recente.
Parlava di innamorarsi davvero, lui, di sentire il cuore scoppiare nel petto. E gli era capitato rare volte, di essere mosso davvero dall’amore. Il sentimento, non l’Amore in persona, perché quel diavoletto che trovava più brutto di Phobos e Deimos messi insieme lo zampino nel suo cuore ce l’aveva già messo e anche piuttosto spesso.
Con i fluenti capelli d’oro abbandonati al vento, mentre tirava con l’arco, magari Apollo si accorgeva di un giovane, donna o uomo che fosse, e percepiva quella scomoda sensazione: quella che lo faceva sentire vulnerabile perché non si sarebbe fermata dinnanzi a nulla. Diventava la sua indiscussa padrona, quell’emozione, e più di ogni altra l’avrebbe reso a tutti gli effetti un dio: egoista e avido. Fin quando non avesse ottenuto ciò che voleva, Apollo avrebbe attraversato una serie di fasi capaci di amplificare o mettere in crisi il suo ego ben più vasto dell’intero creato – unità di misura scelta da lui stesso, a riprova di cotanta vastità.
Smetteva di essere padrone di se stesso.
Ecco perché odiava innamorarsi. Non tanto per gli effetti – credeva di essere troppo nel giusto per reputarsi una brutta persona –, ma per quella sensazione: perché se il proprio amore non fosse stato corrisposto, poco avrebbe potuto fare. E anche perché comunque non sarebbe andata a finire bene.
Un tempo non era tanto complicato. L’amore, lui, il mondo. Un tempo Apollo non aveva paura, o forse era solo troppo sconsiderato e incosciente per accorgersene.
E insieme era stato caparbio, insistente, lusinghevole. Accettava un no come risposta ma poi tornava alla carica solo per dimostrare che lui un buon partito poteva esserlo davvero. Se il suo cuore batteva per qualcuno voleva essere certo che prima che l’amato lo rifiutasse una volta e per sempre, lo sapesse. E se ancora avesse voluto rifiutarlo, allora Apollo si sarebbe ritirato lasciando che anche per giorni il sole s’eclissasse. Fino ad allora era solo riuscito a minacciare di farlo accadere perché Artemide l’aveva tirato per un orecchio prima che ci riuscisse, ma l’intenzione c’era.
Antipatico e sfiancante, forse, Apollo aveva compiuto i propri errori.
Ma l’amore come voleva darlo Apollo non era un male. L’amore di Apollo era un bagno di sole che non scottava, un abbraccio caldo. Dava alle persone di cui era innamorato più di quanto non avesse mai offerto a nessun’altro. Diventava altruista, quasi. Perdeva la dignità, questo di sicuro, perché smetteva presto di desiderare il «guardami come ti guardo io». In principio Apollo voleva che i propri amanti lo vedessero come facevano tutti: dio della musica e delle arti, della medicina e indiscusso signore della luce. Ciò implicava venerarlo e all’inizio ad Apollo piaceva, che i propri amanti si prostrassero, che lo idolatrassero quasi fosse superiore a Zeus stesso. Voleva essere l’unico dio della loro religione.
Poi aveva capito. Aveva capito cosa gli era sufficiente e, al contempo, cos’era tutto: essere visto.
Non voleva essere visto come un dio: voleva essere Apollo. Apollo e basta. Un… essere superiore, creatura, persona che talvolta avrebbe desiderato essere umana perché le cose andassero meglio. Avrebbe avuto una modesta casa in campagna, delle mucche e… no, i presupposti erano terribili e una simile vita sarebbe stata squallida: essere bello e incredibilmente bravo a suonare la lira non avrebbe posto rimedio a una condizione tanto orrenda. Ma forse, solo forse, con l’amore della sua vita accanto avrebbe vissuto il resto dei propri giorni in pace e felice anche così, puzzando di sudore per aver lavorato la terra tutto il giorno. Il suo innamorato sarebbe stato il suo dio e viceversa.
Si sarebbe curato di stipulare un contratto che, casomai le cose fossero andate male, lo facesse tornare in possesso dei propri poteri tutti per ardere vivo qualsivoglia disturbatore compiendo così la propria vendetta. Non sarebbe stato migliore di come lo rendeva la natura impostagli alla nascita, di divinità, ma se avesse perso uno scopo chi poteva biasimarlo?
Apollo non amava innamorarsi perché poi diventava così. Così violento – più del solito –, così drammatico – anche questo, più del solito.
Apollo aveva desiderato di dare amore così, in modo tanto intenso e passionale, una sola volta. Ma non aveva potuto farlo.
Le altre volte, quando aveva sbagliato – non che lo giustificasse –, non era amore. Nemmeno quando era stato solo generoso si era trattato di amore romantico: non gli costava nulla esserlo.
Dopo la sua prima disastrosa storia d’amore che storia non era stata, Apollo s’era ripromesso di non innamorarsi mai più: lei si era tramutata in albero prima che lui potesse anche solo sfoderare lo smagliante sorriso provato in riva a un lago – rimanendo modesto: mica voleva finirci annegato! – per convincerla a baciarlo.
Era un’edizione limitata, quel sorriso, ideato su misura per lei in modo da essere bellissimo ai suoi occhi. No, anzi, sfavillante. Ma niente.
Questo contava per Apollo, allora: che lo vedesse, che le sembrasse bellissimo. Che lo volesse quanto lui desiderava lei.
Invece gli erano rimaste solo corone d’alloro e brutti ricordi.
La gente le portava in suo onore, quelle corone d’alloro, ma per i motivi sbagliati; s’era inventato un nuovo modello di velo funebre e nessuno lo sapeva. Gli uomini ne adagiavano a bizzeffe sui suoi altari e ogni volta gridava dentro di sé, contorcendosi perché gli ricordavano la ninfa che era diventata un albero quando lui voleva solo chiederle di uscire.
Però non poteva radere al suolo i propri templi per dare alle persone un messaggio sì chiaro, ma un poco esagerato.
Dio della luce e della sfortuna in amore. Ecco cos’era.
Il timore di Apollo era che fosse lui, il problema. Che sarebbe stato lui la rovina dei propri amanti.
Perché era un dio. Perché era lui.
Perché era Apollo.
E forse non era destinato, più che ad amare, ad essere amato.


Quell’afoso pomeriggio estivo lo vedeva a Sparta.
Cosa ce l’avesse portato era un mistero.
Bugia.
Apollo sapeva perché era lì. Lo sapeva perché in quell’afoso pomeriggio lui era a Sparta e nel bel mezzo della fase quattro.
E la fase quattro non era una buona fase.
Anche perché era del tutto nuova.
Il primo passo, per Apollo, era rendersi conto di che cosa gli stesse succedendo. Guardava qualcuno un po’ di più, pensava di avvicinarlo. Se non era esattamente per un disinteressato «ehi ciao, Dioniso dà un baccanale tra qualche giorno, che ne dici di fare un salto per creare l’atmosfera e appartarci?» c’era già qualcosa da temere.
Apollo nella fase uno si rendeva conto che poteva esserci dell’interesse e, quando ancora poteva definirsi un baldo giovane – perché adesso preferiva l’appellativo di uomo vissuto –, passava alla fase due senza troppi problemi: «se mi piace perché no?» In parte sostenuto dal suddetto ego cosmico, in parte dal fatto che a differenza di un contadinotto qualunque lui poteva vantare il considerevole vantaggio di essere conosciuto da chiunque, si buttava: non vedeva perché sottrarsi. Non c’era il «mi piace ma non sa nemmeno che esisto», per lui.
Di solito si fermava qui, alla fase due. Se mi piaci ci provo e se va bene d’accordo, è un’avventura, ti mando Ermes con il buongiorno domani mattina. Se non ti piaccio invece mi ritiro a tenere il broncio.
Apollo tentava di essere meglio di suo padre, che si era rivelato un esempio che non voleva seguire. Non si imponeva come lui o sarebbe stato crudele di una crudeltà che non voleva gli appartenesse.
La fase tre, ecco, subentrava quando Apollo si era davvero preso una cotta. Era rara, fino ad allora verificatasi una sola volta e a causa di Eros, che non era riuscito a tenersi le frecce nella faretra. La fase tre cominciava quando il suo osservare l’umanità dall’Olimpo insieme alla gemella Artemide diveniva osservare un’unica persona, che poi diventava la persona.
Quella che voleva riempire d’amore, di luce, di calore. Quella per cui avrebbe ideato un sorriso migliore di quello che aveva creato già una volta in passato.
E gli stava accadendo allora.
E non riusciva a fermarsi.
Non parlava d’altro. Ad Artemide almeno, perché in quella gabbia di rancorosi, invidiosi e più egocentrici di lui non si sarebbe fidato nemmeno a dire quale città della Grecia avrebbe scelto come villeggiatura per un’ipotetica vacanza.
Perciò toccava alla gemella sopportare. I sospiri, i sorrisi inebetiti e i racconti su quella persona.
La persona, allora, era un fanciullo spartano. Un principe.
Giacinto.
Tre sillabe che Apollo si era dimostrato capace di ripetere allo sfinimento. E lo sfinimento è tanto, se si considera che quest’innamoramento in particolare l’aveva investito come si diceva che Ercole avesse investito un negozio di ceramiche[1] prima di diventare l’eroe che tutti conosciamo. Era una leggenda che si tramandava per ridere fra gli dei e di cui le fonti erano sconosciute persino a Zeus in persona, ma i sentimenti di Apollo non erano altrettanto impalpabili.
Apollo aveva visto Giacinto per la prima volta mentre stava con i fratelli nel cortile del suo palazzo. Gli occhi del dio volevano arrivare più lontano, ma avevano indugiato su Sparta come non gli accadeva mai di fare. Doveva essere destino.
Aveva visto quei ricci, quel sorriso che sbocciava dalle labbra carnose ed era rimasto imbambolato per dei minuti.
Artemide gli aveva schioccato le dita davanti e lui non s’era mosso perché la sua mente già immaginava di fargli aria per godersi la sua vista sensuale ma pura mentre riposava, d’imboccarlo d’uva e anche di sposarlo di fronte a tutta Sparta. E se qualcuno avesse avuto a che ridire li avrebbe investiti con il suo carro fiammeggiante. Stupidi umani.
Però ecco, poi Artemide l’aveva svegliato con un grazioso ceffone pensando il fratello si fosse rotto o che Zeus l’avesse fulminato e solo allora Apollo si era ripreso. Più o meno, perché la guancia che pulsava per la più che giusta preoccupazione incarnata della sorella nemmeno l’aveva sentita.
La schicchera di Artemide l’aveva fatto voltare in un’altra direzione. Apollo aveva sistemato le dita sulla propria guancia ed era tornato a guardare il palazzo di Giacinto, chiedendosi se lui l’avrebbe voluto.
E poi aveva iniziato.
A pensare a lui, a parlare di lui. Non faceva altro. Giorno e notte, anche quando avrebbe dovuto curarsi dei propri affari e lasciare che Artemide si occupasse dei suoi. La seguiva come un cagnolino e parlava, parlava.
«Giacinto è bravo!»
«Giacinto è bello!»
Giacinto sta facendo venire un esaurimento nervoso ad Artemide –, pensava la sorella, ma non lo diceva.
Per questo da qualche giorno le notti erano più lunghe: Apollo si dimenticava di lavorare, al mattino.
E quando non era con Artemide, Apollo era a Sparta.
Nascosto nell’ombra, insolitamente con il proprio aspetto, nel tentativo di far brillare un po’ meno la propria pelle ambrata di sole per sembrare il più possibile umano. Sembrava quasi visitare Sparta per comprendere se gli sarebbe piaciuto, ipoteticamente, vivere lì. In quella casetta con le mucche da pascolare e tante altre cose scomode che avrebbe dovuto accettare vivendo da umano, ma che immaginava sempre più spesso. Però Giacinto era un principe, quindi forse avrebbero avuto una bella vita… no, no il suo obiettivo non era diventare il re di qualcuno. Non perché ci fosse qualcosa di male, non perché volesse brillare più di Giacinto, ma perché non voleva essere una sanguisuga: mica voleva farsi mantenere a bei vestiti e lire d’oro. Già ce l’aveva una lira d’oro, poi.
A sua discolpa, dunque, non era andato a Sparta per vedere Giacinto. Quella volta. E nemmeno le altre. Non tutte almeno, anche perché Giacinto poteva pure sapere che esisteva un dio di nome Apollo, ma non del suo interesse nei propri confronti. E ad Apollo piaceva Giacinto perché non era presuntuoso: non avrebbe mai immaginato di essere amato da un dio.
Però a Sparta Apollo pensava meglio, gli era vicino, perciò perché non concedersi del sollievo?
Peccato fosse in piena fase quattro, quella nuova. Cioè in panico. Il peso della corona d’alloro sulla testa gli ricordava le sfortune passate facendogli pendere il capo verso terra.
Artemide lo aveva gentilmente invitato – scoccando una freccia che si era piantata in mezzo ai suoi piedi – ad andarsene a frignare da un’altra parte. Perché anche questo aveva iniziato a fare Apollo: oltre a lamentarsi e a puntare i piedi come un bimbo capriccioso per il desiderio di qualcosa che lui stesso si stava negando, aveva iniziato a piagnucolare. A mettersi in discussione. Aveva addirittura chiesto ad Artemide se fosse brutto quanto o più di Efesto. E siccome Artemide voleva essere una brava sorella maggiore e desiderava il bene di Apollo forse più di lui, aveva scelto la terapia d’urto: fosse mai che a Sparta parlasse con quel Giacinto, gli strappasse qualche parola dolce o un bacio e si placasse rendendosi conto che tutte le sue preoccupazioni erano prive di fondamento. Speranza utopica e anche irrealistica: Artemide sapeva che l’amore tra dei e umani generava giuste preoccupazioni, sapeva che quelle trovate dal fratello, in parte, potevano essere buone scuse – per un altezzoso come lui – per negarsi anche solo di provare ad avvicinare il principe spartano. Ma Apollo non poteva smettere di vivere per paura e non solo perché sarebbe stata la cacciatrice degli dei a doverlo sopportare: Artemide non lo aveva mai visto con gli occhi lucidi al solo pensiero di essersi innamorato. Non l’aveva mai visto rannicchiato nel cuore della notte per timore di essere ferito ancora.
Che fosse spaventato all’idea di far del male a quel nuovo ragazzo di cui si era invaghito solo per la propria natura?
Sparta doveva essere la sua panacea, quel giorno.
Ma una volta lì Apollo aveva compreso che era una giornata no; la sua pelle si era spenta come non mai senza che nemmeno si stesse impegnando nel renderla tanto sbiadita. Un paesano avrebbe potuto scambiarlo per un blocco di marmo e nemmeno in onore degli dei: quelli erano colorati di tinte sgargianti.
No, sconsolato e abbandonato sulla panca com’era Apollo, bianco gesso, sarebbe parso dello stesso materiale della sua seduta o addirittura un abitante malaticcio a cui non avvicinarsi.
Artemide gli aveva chiesto con gentilezza di andarsene a pensare a Giacinto da un’altra parte, non vietato di invocare Ermes per chiedergli di raggiungere la gemella e trascinarla da lui perché aveva bisogno di un abbraccio. A ben pensarci forse avrebbe dovuto chiederlo proprio a Ermes quell’abbraccio: era molto più probabile che l’ottenesse; Artemide magari l’avrebbe colpito con l’arco o l’intera faretra.
Non con una freccia, l’avrebbe proprio percosso. Sulla testa, di solito era lì che lo colpiva perché «tanto non c’è niente da danneggiare». E forse era ciò che gli serviva per riprendersi: una doccia ghiacciata un poco violenta, ma magari efficace.
Artemide diceva che era stato investito da quell’innamoramento come quel famoso negozio di ceramiche, quello che aveva erroneamente falciato Ercole. Fin lì ad Apollo poteva stare bene. Ma se come quel negozio fosse andato in pezzi? Non voleva. Non poteva sopportarlo.
Apollo voleva amare Giacinto ed essere possibilmente ricambiato, vivere felice per gli anni che al ragazzo erano concessi e poi fare in modo che vivesse in eterno, in qualche modo. Magari avrebbe chiesto una grazia a suo padre.
«Signore, vi sentite bene?»
Quello dell’incarnato di Apollo fu un riflesso atavico: da pelle abbronzata ma smunta per le pene dell’amore ad ambra luminosa. Inconsciamente seppe d’avere un motivo per essere felice e i suoi pori sprizzarono sole all’unisono. Il ragazzo che l’aveva avvicinato, perché era un ragazzo, avrebbe potuto rimanerne abbagliato.
Apollo alzò il capo, gli occhi azzurro cielo guizzanti e sorpresi. Forse terrorizzati.
Mai si era fatto vedere in quel modo da un umano: furioso di certo, sbigottito forse. Ma mai, mai sgomento.
Giacinto era di fronte a lui, nel proprio chitone bianco che lasciava scoperte le spalle. I ricci d’ebano intorno al viso e gli occhi verdi a scrutarlo.
Era con quella stoffa che vestivano i principi? Inaccettabile. Apollo avrebbe voluto donargli rotoli e rotoli dei più pregiati broccati per vederglieli indossare, su quella pelle lattea che gridava quanto poco spesso gli fosse concesso uscire. Da quando l’aveva notato Apollo era stato attento; sapeva che quelle belle spalle candide si sarebbero tinte di rosso per un’insolazione, per questo si era curato che il ragazzo ricevesse tutta la luce di cui aveva bisogno, ma senza che questa lo ferisse in alcun modo.
Quanto Ermes fosse insolitamente lento e se Artemide sarebbe giunta per una faretrata in testa o per un abbraccio, divennero questioni di poco conto con l’arrivo del ragazzo.
Apollo vide il principe sgranare gli occhi.
«Febo Apollo!» esclamò il giovane, facendo un passo indietro. «Signore, è un onore!»
Il suo ginocchio raspò contro il terreno e Apollo si sentì in colpa.
Ricordò quando ad Artemide aveva detto che più che essere venerato da Giacinto avrebbe preferito essere lui stesso a venerarlo, deliziarlo con le proprie canzoni, con poesie; insegnargli i trucchi dell’atletica in cui già era bravo, ma che faceva temere ad Apollo si spezzasse come un giunco. Artemide si era trattenuta dal mimare un conato di vomito un poco per tutta quella dolcezza, un poco perché lei i gusti di Apollo non voleva conoscerli. Il fratello l’aveva vista e fulminata, ma poi la ragazza aveva sorriso sotto i baffi perché era bello vedere Apollo tanto attento a qualcuno che non fosse lui stesso. O lei. O pochi altri dei che stavano sulla punta delle dita di una mano.
Apollo realizzò che per una volta non gli piaceva troppo l’idea di essere riconosciuto; non voleva che una folla si radunasse loro intorno, che lo costringesse a mostrarsi solenne, severo e grave come tutte le cose imperiture e divine. Le persone si inchinavano dinnanzi a lui non per un timore reverenziale dettato dalle sue gesta: le persone si prostravano per il terrore dovuto alla paura d’avergli fatto un torto e, da un lato, come biasimarli? Apollo si faceva vedere più in quel di Atene che non in prossimità di Sparta. Era più facile credere che qualcosa non andasse, che sperare in una sua grazia.
Avere una schiera di persone che volevano il dio Apollo in tutta la sua magnificenza, però, l’avrebbe costretto a comportarsi da Apollo. Distaccato, freddo. Non voleva che Giacinto lo vedesse così.
Non che le sue efferatezze non facessero parte di lui solo perché non voleva fosse così; era ancora un po’ troppo crudele e un po’ troppo narcisista, tanto da odiare definirsi tale servendosi di una parola che derivava sempre dal nome dell’idiota che si era annegato specchiandosi. Apollo aveva compiuto i propri sbagli e i propri crimini, sempre che così potessero essere definiti se azioni di un dio. Probabilmente non sarebbe stato in grado di promettere di non agire in tal modo nella maniera più assoluta, di non macchiarsi più le mani di sangue.
Ma, ecco, il dio della luce avrebbe preferito che Giacinto conoscesse l’Apollo che scrutava l’orizzonte dal Parnaso[2] e vedeva ben oltre l’occhio umano, beandosi della sua bellezza mentre si lamentava con Artemide del timore d’essere troppo bruttino per la propria cotta. Avrebbe voluto che Giacinto se ne stesse con lui sull’erba di quella montagna a chiacchierare, non che lo immaginasse come un crudele seminatore di morte.
Sarebbe stato disposto a seguire il consiglio di Dioniso di contare fino a dieci per mantenere il controllo e non uccidere più nessuno per impressionare Giacinto, anche se Dioniso adottava quella tecnica solo perché voleva gustarsi una morte degli avversari più lenta e dolorosa. Era più sadico di lui.
Si sarebbe potuto dire che per Giacinto, Apollo avrebbe voluto essere migliore. Umano. E accettare le regole del mondo terreno.
Quel che venne dopo fu troppo buffo per i pensieri solenni del dio.
«Shhht!» proruppe Apollo, chinandosi a propria volta di fronte a Giacinto che ancora stava in ginocchio. «Non serve, alzati in piedi.»
«Ma voi siete…»
Certo Apollo avrebbe voluto toccare Giacinto per la prima volta in modo un poco più romantico e non premendogli una mano sulle labbra come faceva con quel chiacchierone di Ermes quando stava per rivelare un pettegolezzo senza rendersi conto che era l’unico a conoscerlo e che dunque si trattava di una confidenza fatta a lui e lui soltanto.
Gli occhi verdi di Giacinto si spalancarono.
Oh dei, pensava forse volesse ucciderlo?
Perché questo pensava la gente di solito, no?
Apollo ritrasse la mano.
«Non ti voglio fare del male», esalò. «Solo… sono qui in incognito.»
Giacinto gli parve meno rigido, anche se potendo osservare la totalità del suo viso e le sue labbra schiuse, Apollo si rese conto che la sua era solo sorpresa e non paura.
«Oh», fece solo Giacinto.
In incognito, ma con il proprio aspetto?
Era sospetto.
Giacinto s’alzò in piedi; non era abituato a essere riverente, ma in lui non c’era nemmeno altezzosità.
Si era creata una bizzarra situazione per cui Apollo era ancora su un ginocchio e Giacinto invece in piedi di fronte a lui. Era minuto e Apollo gli raggiungeva il petto con il viso pur rimanendo a terra.
Bene, ora lo stava venerando proprio come voleva.
«Non l’avevo pensato: dopotutto non punite chi non lo merita e io non credo d’avervi fatto alcun torto.» Gli regalo un sorriso, puro e smagliante. Poi esitò. «Non l’ho fatto, vero?»
Apollo avrebbe avuto vita difficile anche solo con quelle parole cariche di tutta l’innocenza propria di Giacinto.
Ma quel sorriso. Dei, quel sorriso gli trapassò il cuore da parte a parte. Avvertì un tuffo tanto imponente, una vertigine così vorticosa da credere di avere una voragine nel petto. Che cos’erano le frecce di Eros in confronto? Una carezza.
No, meglio non pensare a lui. Per scaramanzia.
Apollo fece per alzarsi.
Ma Giacinto l’aveva reso debole e aveva le ginocchia sciolte come burro al sole. Forse perché effettivamente Giacinto era così bello che dallo stesso cratere rimasto al centro del suo petto stava iniziando a divampare una fiamma. Metaforicamente, o l’intera Sparta sarebbe stata liquefatta per la stessa sorte delle giunture delle sue ginocchia.
Certo era che Giacinto non si aspettava di incontrare Apollo proprio quel giorno, in quella via defilata di Sparta dove nemmeno lui avrebbe dovuto essere. Non si sarebbe aspettato di incontrarlo mai nella vita. E certo non si sarebbe aspettato di vedere una divinità barcollante che si portava una mano alla testa con aria teatrale, come aveva visto fare a qualche nobildonna della sua corte che per avere tutte le attenzioni per sé fingeva uno svenimento.
Fu istintivo per Giacinto avvicinarsi, sorreggerlo per quel che poteva fare, minuto com’era. Si infilò sotto il suo braccio e gli portò una mano sul petto e l’altra sul fianco.
Apollo il capogiro l’aveva sentito davvero, uno svenimento no. Però pensò che per avere le attenzioni di Giacinto l’avrebbe finto anche a costo di buttarsi a terra. Sull’Olimpo per prenderlo in giro gli avevano dato un nuovo epiteto e il suo nome dunque suonava come «Apollo il drammatico». Non era mica lui il più drammatico! Ma almeno che se lo sentisse ripetere da una vita per qualcosa.
Le dita del principe indugiavano sui suoi muscoli involontariamente – o forse no – e Apollo dovette trattenere un sorriso soddisfatto mentre la sua mente immaginava di ridere in faccia a Eros che lo rendeva anche solo inguardabile dai propri passati amori.
«Vi sentite bene?» chiese allarmato Giacinto.
Apollo annuì.
Era il fiero dio del sole, della medicina, della musica e di mille altre cose troppo interessanti per sembrare una mezza calzetta. Anche se forse a Giacinto avrebbe fatto piacere scoprire che quella reazione era per lui e saperlo così più umano. E anche se ad Apollo non sarebbe dispiaciuto continuare a rimanere in quel modo con lui.
Però non poteva spaventarlo, stavolta per davvero, dicendogli tutta la verità; perché si fosse sentito tanto debole. Dunque raffazzonò una scusa.
Sciocca, proprio come Artemide si riferiva a lui nove volte su dieci.
«… Sai, il caldo.»
Giacinto aggrottò le sopracciglia.
«Il caldo?»
Apollo, dio della luce. Quello che sarebbe stato probabile sorprendere intento ad abbronzarsi sulle rive di Delfi senza un solo filo di stoffa a coprirlo né un accenno di bruciatura dopo ore di esposizione.
Giacinto era innocente a tratti, ma era sveglio; non di certo qualcuno che Artemide avrebbe chiamato idiota come faceva con il fratello gemello. Nemmeno Apollo se lo meritava sempre e comunque, ma lei amava riferirglisi così perché tanto, qualcosa per guadagnarsi quel soprannome, presto o tardi lo avrebbe fatto.
Ad Apollo bastò gettare negli occhi di Giacinto un’occhiata per capire che non l’aveva ingannato, ma le cose volsero ugualmente a suo favore.
«Venite, c’è un giardino non molto lontano. Staremo al fresco e non correremo il rischio che qualcuno vi veda.»
Apollo seguì Giacinto, sempre reggendosi a lui.
La possibilità che Apollo barcollasse ancora era una scusa che stavano usando entrambi per rimanere più vicini.
 
[1] Senza Hercules forse avrei impiegato di più per capire che la mitologia mi interessava, quindi ho pensato di fargli un piccolo tributo. Per quanto poco accurato sia in termini mitologici, mi sembrava un’idea simpatica.
[2] Monte che torreggiava su Delfi. Una delle dimore delle Muse e su cui si dicesse che anche Apollo passasse volentieri il proprio tempo.



Questa è la prima storia che ho scritto dopo la sessione estiva, dunque revisionarla per poterla finalmente pubblicare ha quel sapore di libertà che ho provato potendo aprire Word per qualcosa che non fossero gli appunti da studiare.
Prima di tutto: grazie a chiunque sia giunto fino a qui!
Volevo davvero tornare nella sezione scrivendo di Apollo e di Giacinto, perché non me li tolgo dalla testa in nessun modo e ho scritto su di loro più di quanto non si veda su EFP.
L'appena concluso è il primo di due atti sulla nascita di questa storia, molto meno allegra di quanto non abbia tentato di farla sembrare. Ma insomma, bisogna prendere le cose con leggerezza e spero davvero di avervi strappato un sorriso.
La storia è già finita, devo solo revisionare la seconda parte, ma vorrei aspettare di avere qualche parere prima di pubblicare perciò fatemi sapere cosa ne pensate!
Nell'attesa del secondo atto, se vi andasse di leggere qualcosa in più su Apollo e Giacinto vi lascio il link alla mia Modern!AU che riprende il mito classico, ma in versione appunto più moderna.
Come dicevo nelle note introduttive è grazie a questa storia che mi sono tanto legata a loro e l'interpretazione di Apollo e Giacinto qui, così come quella di Artemide, riprende alla fine la caratterizzazione adottata per quella mini-long.
Un piccolo appunto: quando parlo di Apollo ai tempi del mito non intendo affatto farlo passare per un santo. Salvo alcuni miti dalle molteplici versioni che lo vedono assumere un ruolo di vittima o di carnefice, è stata una divinità molto crudele. Come ho detto però è una mia interpretazione e non posso non sperare che abbia tentato di rimettersi in carreggiata, o che non sia stato tanto pessimo.
Una piccola dedica a Rika. Si subisce sempre i miei scleri su di loro, si esalta con me e mi ha dato una ragione per sentirli più vivi di quanto non credessi di poterli rendere. Grazie <3
Che dire? Ci sentiamo con il prossimo atto!
Alla prossima ~
   
 
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