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Autore: Adeia Di Elferas    25/08/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Evidentemente, pur essendo una delle locande più pulite di questa città, chiedere due tinozze per il bagno è troppo...” stava borbottando Caterina, mentre Giovanni da Casale, arrivato da poco con gli olii e le essenze scelti da Bianca, l'aiutava a spogliarsi.

Il milanese non diceva nulla, ma anche lui avrebbe preferito sapere l'oste più solerte di quanto non si stesse dimostrando.

Filippo Codiferro aspettava nella stanza accanto il suo turno, avendo dato la precedenza, ovviamente alla sua signora, e Pirovano proprio non riusciva a digerire il fatto – di per sé del tutto innocuo – che il soldato avrebbe usato la stessa acqua del bagno della sua amante.

“Avanti passami quegli olii e facciamola finita...” disse a un certo punto la Sforza, immergendosi fino al collo e soffiando, come se trovasse quella precauzione eccessiva: “Ho passato un sacco di tempo in mezzo agli appestati e non ho mai preso nulla. Non vedo perché stavolta dovrebbe fare qualche differenza... Sembra che anche la peste abbia paura di me.”

Giovanni, ancora una volta, restò in silenzio, concentrato sui proprio pensieri e poco attento a ciò che la Tigre diceva.

“Metti i miei vestiti ancora un po' più vicini al fuoco...” fece la Leonessa, che aveva scelto quella stanza proprio per via del suo grande camino.

L'aveva fatto accendere, tra mille malumori del locandiere, che vedeva in quel gesto solo uno spreco di legno, e aveva deciso di sanificare i vestiti con il fumo. Non era facile, così al chiuso, ma si riteneva così tranquilla di non essere infetta, da poter sopportare anche una certa noncuranza nel mettere in atto i suoi stessi ritrovati igienizzanti.

Tuttavia, già che c'era, preferiva che i suoi abiti si trovassero un po' di più nella scia giusta, così aveva dato l'ultimo ordine, anche se Pirovano sembrava non averla nemmeno sentita.

Le stava passando lentamente un telo intriso di essenze sulla schiena, assorto e taciturno, e così alla Contessa fu necessario fare qualcosa per ridestarlo e fargli fare quel che voleva.

Voltandosi verso di lui e guardandolo accigliata, sottrasse le proprie spalle al suo tocco: “Allora, vuoi fare quello che ti ho detto?”

“Come..?” fece infine il milanese, rendendosi conto di non aver seguito nemmeno per un istante il filo delle parole che uscivano dalle labbra della sua amante.

Caterina, ostentando una pazienza che in realtà non aveva, gli ripeté quello che voleva che facesse e poi, mentre l'uomo, con lentezza esasperante, le risistemava gli abiti vicino alla fiamma, fu costretta a soggiungere: “Stai attento a non farli bruciare! Vuoi che torni nuda a Ravaldino?”

“Be', tanto la maggior parte degli uomini del Quartiere Militare non vedrebbero nulla che non abbiano già visto, no?” ribatté lui, aspro, senza volerlo davvero, come se il veleno che stava macerando dentro di lui avesse finalmente trovato la via di scivolare fuori.

La Sforza non aveva alcuna voglia di cominciare a litigare, perciò puntò su una battuta al fine di spiazzarlo e farlo tacere di nuovo: “Se è per questo – disse quindi – non solo sarebbero cose già vista da mezzo Quartiere Militare, ma anche da mezza città, quando mi sono sollevata le gonne davanti a tutti, undici anni fa.”

Giovanni non parve cogliere l'ironia di quell'affermazione, al contrario, si rabbuiò ancora di più, tenendole le spalle, fingendo di ravvivare le fiamme, che già ardevano fin troppo alte davanti ai suoi occhi.

“Si può sapere che hai?” chiese a quel punto la donna, trovando il silenzio del suo amante molto irritante.

Pirovano, in tutta risposta, scosse appena il capo e ancora una volta non disse assolutamente nulla.

“Voglio sapere che ti prende.” insistette lei, questa volta con maggior fermezza, arrivando anche ad alzarsi dall'acqua.

Ormai poteva ritenere il bagno concluso. Le sarebbe piaciuto capire e sapere di più su come la peste si diffondeva e su come difendersi. Quelle abluzioni, per quanto secondo lei importanti, dopo aver toccato un appestato, potevano non essere sufficienti, o, magari, essere addirittura del tutto inutili. Se avesse potuto scoprire la via di trasmissione della morte nera, avrebbe saputo come fermarla...

“Stavo pensando... A noi.” disse piano il milanese, convincendosi a rompere il silenzio.

La Tigre si lasciò avvolgere dal telo che lui le stava porgendo e, strizzandosi i capelli come meglio riusciva, si morse le labbra e domandò: “A noi... Che cosa di preciso?”

“Che cosa siamo e cosa stiamo facendo.” rispose lui, tornando verso il camino per recuperare gli abiti della sua donna.

“Mi sembrava che ne avessimo già parlato e che avessimo trovato un accordo...” fece lei, perplessa, e un po' spaventata.

Detestava avere accanto uomini indecisi. Aveva dovuto sopportare per anni Girolamo e poi, anche con Giacomo, da quel punto di vista la situazione era migliorata molto poco. Giovanni Medici, lui sì che si era sempre dimostrato un uomo deciso e sicuro di sé...

“Io non riesco a non essere geloso.” disse lui, con una semplicità disarmante, la voce che si incrinava quasi sul finale, come se quella verità lo facesse soffrire in modo insopportabile: “Ci ho provato, ma non ci riesco.”

Caterina fece un sospiro. Se quello che il suo amante stava dicendo era vero, allora doveva essere lei a fare il cuore duro. Non voleva accanto un uomo geloso, specie se si trattava solo di un amante favorito. Aveva cercato fin dall'inizio di stringere con lui dei patti molto chiari e vederlo incapace di rispettarli era una delusione.

A quel punto la Sforza pensava che, per evitarsi delle catene, doversi separare forzatamente sarebbe stato solo un bene. Se fino a poco prima sapere che a breve Pirovano si sarebbe trasferito alla cittadella la metteva solo in ansia, dopo quell'affermazione le dava una sorta di strano sollievo.

Forse sarebbe stato difficile far accettare quella nuova condizione a Giovanni, ma la Contessa doveva provare e pensava che quello fosse il momento migliore.

Stava già per cominciare il suo discorso, quando si sentì battere con insistenza alla porta e la voce di Codiferro esclamare, tra l'impaziente e il forzatamente rispettoso: “Mia signora! Io aspetto qui fuori... Ditemi voi quando sarà il mio turno!”

La Sforza gettò gli occhi al cielo. Filippo si era dimostrato fin da subito molto più provato di lei, alla prospettiva di poter essere stato contagiato e, a sua differenza, sembrava nutrire una fiducia incrollabile verso gli olii e le essenze con cui gli era stato ordinato di lavarsi.

“Un momento!” ringhiò la Leonessa e poi, rivolgendosi a Pirovano, aggiunse: “Avanti, prendi i miei abiti e usciamo di qui...”

“Vestiti, prima.” ribatté il milanese, con il tono di chi dà un ordine che non si possa contravvenire.

“Codiferro sta aspettando anche da troppo. Mi vesto in un'altra stanza.” fece invece lei, più per ripicca che non perché trovasse una buona idea uscire da quella camera con addosso solo un telo da bagno.

Giovanni non volle replicare, convinto che, in quel momento, qualsiasi frase storta sarebbe stata sufficiente per aizzare entrambi abbastanza da far cominciare un litigio.

Senza degnare di uno sguardo Filippo, la Tigre e il suo amante andarono nell'anticamera stretta e scura e, mentre il soldato raggiungeva l'agognata tinozza, la donna diede voce all'oste, che arrivò di sopra in un lampo.

“Mi serve una stanza, la più pulita che avete.” fece Caterina, ignorando lo sguardo tutt'altro che discreto del locandiere, che cercava di scorgere quanto più poteva, oltre il telo bagnato.

“Certo, mia signora...” fece questi, forzandosi a smettere di guardare, le guance rosse e le labbra che si sollevavano in un involontario sorriso: “Da questa parte.”

Pirovano teneva tra le braccia l'abito dell'amante e avrebbe dato qualsiasi cosa, pur di poter subito passare a fil di spada colui che gli camminava davanti. Non riusciva più a capire se fosse lui a essere troppo suscettibile oppure se davvero la maggior parte degli uomini vedessero nella Leonessa di Romagna solo una bella donna su cui fare le più varie fantasie.

Mentre l'oste apriva loro la porta di una stanzetta abbastanza ordinata, il milanese si chiese con un velo di vergogna se anche lui, nel caso non fosse mai diventato l'amante preferito della Contessa, avrebbe fatto esattamente come tutti gli altri, accontentandosi di qualche sguardo malizioso e di un po' di immaginazione.

Il locandiere si affaccendò, accendendo con cura quante più candele di sego trovava, in modo da contrastare il buio spesso della notte, e arrivò anche a chiedere se, per caso, i due volessero una brocca di vino o qualcosa da mangiare. Quando si sentì dire di no da entrambi e all'unisono, si ritirò in buon ordine senza domandare altro.

Quando furono finalmente soli, la Sforza si sedette sul letto, che cigolò un po' sotto il suo peso. Si prese una ciocca di capelli bianchi tra le mani e iniziò ad asciugarla con metodo in un angolo del telo.

“Ormai è tempo che ti trasferisci al Paradiso.” disse lei, senza guardare Giovanni, né tradire alcuna emozione.

“Lo so.” fece lui, che, invece, non riusciva a nascondere la propria agitazione.

Aveva posato i vestiti dell'amante sul letto accanto a lei, e poi si era messo a camminare nervosamente per la stanza. Caterina lo lasciava fare, ma più lo vedeva passare davanti a lei con passo svelto e ossessivo, più vi rivedeva Giacomo e le sue dimostrazioni di debolezza.

Chiuse un momento gli occhi e poi, con un sospiro pesante, riprese: “Io non potrò venire da te tutte le notti, così come tu non potrai tornare alla rocca.”

Pirovano si fermò, le mani allacciate dietro la schiena e il viso grigio che, illuminato dalle poche candele presenti, sembrava deformato dall'incredulità: “E allora come credi di fare?” chiese: “Vuoi che ci alterniamo? Che ogni tanto venga io da te e...”

“No.” fece lei, secca, smettendo di asciugarsi i capelli e fissandolo.

“E allora che vuoi fare? Dovremmo non vederci più e basta?” fece lui, allargando le braccia, dimostrandosi ormai più furente che non deluso.

“Non ho detto questo...” disse lei, più cauta, alzandosi e fronteggiandolo: “Se vogliamo dividere il letto, lo possiamo fare anche senza poi passare assieme il resto della notte.”

“Non sarò facile, però.” si trovò a valutare lui, che, davanti al tono dell'amante non trovava più la forza di ribattere o arrabbiarsi: “Io sarò impegnato tutto il giorno e tu pure...”

“Magari riusciremo a vederci meno spesso di quanto stiamo facendo ora, ma capisci che le cose non stanno andando bene.” Caterina avrebbe voluto essere molto più categorica e ferma, ma trovarsi vicino Giovanni le rendeva difficile quello che fino a poco prima le sembrava facilissimo: “E io mi fido solo di te, per guidare la cittadella.”

Pirovano sollevò gli occhi al cielo, come se quell'intrusione nella loro vita privata da parte degli affari di Stato fosse solo un'ulteriore riprova di quanto fosse complicato andare d'accordo con la Contessa.

“Quando mi manderai al Paradiso?” chiese, comunque, lui, assumendo il tono da soldato diligente che aveva ogniqualvolta si accingeva a ricevere un ordine importante.

“Tra qualche giorno. Prima voglio sistemare la questione di Ridolfi e quella di Naldi.” spiegò lei, facendo mezzo passo indietro e allungando già una mano verso il suo abito, come a dire che era pronta per andarsene: “E poi Flavio non ha ancora detto nulla su come stiano andando i suoi colloqui con re Luigi. Voglio...”

La voce le morì nella gola, quando sentì le braccia forti e decise del suo amante cingerle i fianchi e le labbra di lui cercare il suo collo. Per qualche istante lasciò che lui la stringesse e la baciasse, senza fare o dire nulla, godendosi quel calore che di lì a poco avrebbe potuto assaporare molto più di rado.

Giovanni la fece girare, all'interno del suo abbraccio, fino a fronteggiarla. Il telo umido tra loro gli faceva quasi piacere e il profumo della pelle della sua donna lo inebriava come un calice di vino molto forte. Voleva sentire meglio il suo calore, il fremito dei suoi muscoli sotto il suo tocco e così cercò di far scivolare via la stoffa che ancora la copriva, ma, con sorpresa, trovò una resistenza serrata.

“No. Non qui.” disse piano lei, scostandosi e cominciando davvero a rivestirsi: “Questa stanza dovrebbe essere sicura e libera dal rischio della peste, ma non ne sappiamo abbastanza, per essere tranquilli.”

“E allora dove andiamo? Torniamo a Ravaldino?” chiese, senza entusiasmo, Pirovano, che sapeva quanto a quell'ora la rocca già pullulasse di soldati intenti a prepararsi per la giornata.

Anche la Tigre stava facendo un calcolo analogo. Non aveva voglia di affrontare gli sguardi dei suoi uomini, anche se non c'era nulla di male, nell'uscita notturna in cui Giovanni l'aveva accompagnata.

Si trovò a pensare a quanto sarebbe stato bello prendere a nolo due cavalli e andare nei boschi, fino alla casina. Poteva già immaginarsi con il suo amante nel piccolo letto che troneggiava nel mezzo del suo casino di caccia, stretti l'uno all'altra, avvolti dalle tenebre ancora fitte, mentre aspettavano un mattino uggioso e che, forse, avrebbe portato altra pioggia.

Poi, però, abbandonò la prospettiva. La Casina era stata solo sua e del suo ultimo marito. Aveva deciso già da tempo che non avrebbe portato lì mai nessun altro uomo, specie per fare certe cose.

“Andiamo alla cittadella.” decretò alla fine, sentendo, intanto, la notte passata in bianco pesare un po' sulle sue spalle stanche: “Voglio vedere il tuo nuovo alloggio.”

Il milanese colse il tacito invito che quella proposta sottendeva e, ben felice di assecondare la richiesta dell'amante, soggiunse, mentre l'aiutava ad annodare i lacci del vestito: “Buona idea. E magari la mia nuova stanza ti piacerà così tanto che potresti rivalutare l'idea di passarci qualche notte...”

 

Paolo Vitelli non aveva alcuna intenzione di ribellarsi. Era stanco, abbattuto e voleva solo essere lasciato in pace. Il viaggio che da Cascina l'aveva portato a Firenze era stato quanto di più penoso potesse esserci e l'unico desiderio che aveva in quel momento era avere qualche attimo di solitudine per riflettere.

Ciò che più lo angosciava mentre varcava le porte della città era chiedersi cosa ne sarebbe stato di suo fratello Vitellozzo. Sapeva che sarebbero andati a cercare anche lui e lo conosceva anche troppo bene per non sapere che avrebbe opposto resistenza, cercando di scappare. Durante una fuga, l'esito dello scontro è sempre molto incerto...

“Mi porterete in cima alla torre? Verrò messo in isolamento.” ebbe la forza di domandare, quando capì che la triste carovana che stava scortando lui e gli altri prigionieri era diretta verso il palazzo della Signoria.

I due che lo tenevano per le braccia non gli risposero, ma Jacopo Appiani, che camminava svelto davanti a lui, parve trarre un perverso piacere nello scoppiare a ridere ed esclamare: “Ah! Ti piacerebbe!”

Paolo preferì non chiedersi cosa intendesse dire il suo nemico e continuò a mettere un piede davanti all'altro in silenzio.

“Vedrai, quando sarà il momento, quanto gente ci sarà in questa piazza...” fece Jacopo, quando arrivarono davanti al palazzo: “Ma per il momento, avrai di meglio a cui pensare.”

Il Vitelli, ancora una volta, non disse nulla, limitandosi a constatare come le campane del Duomo, che non era molto lontano da loro, stessero battendo le tre di notte. Per non cedere alla paura – che veniva alimentata di continuo dai pianti e dagli scongiuri degli altri che erano stati catturati assieme a lui – il condottiero cercò di ricordare che giorno fosse. Quando arrivò a ricostruire che era già il primo ottobre e che si trattava di un martedì, i suoi aguzzini lo stavano già trascinando dentro al palazzo.

Lo portarono in una cella molto più grande di quella che si era aspettato di vedersi riservare. Per un momento credette che fosse perché anche gli altri sarebbero rimasti con lui, ma, dopo un breve momento di smarrimento, comprese invece di essere da solo.

L'Appiani lo teneva d'occhio, le braccia allacciate dietro la schiena, come chi attende qualcosa di interessante, mentre i due soldati che lo trattenevano guardavano fissi davanti a loro, nel buio appena rischiarato da un'unica piccola torcia.

Dei rumori sinistri ravvivarono l'attenzione del Vitelli. Erano dei passi e dei suoni metallici. Non capì di cosa si trattasse finché non vide arrivare due biechi figuri con un armamentario che lasciava poco a sperare.

“Undici tratti di corda.” decise Jacopo, senza ragionarci sopra troppo: “Se sopravvive, passate ai ferri e da lì la frusta.”

Nell'udire quelle parole, i due aguzzini annuirono, mentre Vitelli perse la testa. Non aveva immaginato, fino a quel momento, a cosa stesse andando realmente incontro. Si era atteso l'isolamento, il processo, il pubblico ludibrio, magari anche l'esilio o una condanna esemplare. Ma la tortura no. Si era creduto un uomo troppo importante, di rango troppo alto, di nome troppo noto per...

Cogliendo di sorpresa i due soldati che lo tenevano fermo, si divincolò dalla loro presa, ma, resi istintivo e illogico dal terrore, invece di provare a scappare, indietreggiò. Andò a cozzare contro qualcosa e, inorridendo, si accorse che il legno duro contro cui aveva sbattuto era quello di una carrucola, la carrucola con cui l'avrebbero torturato...

“Legatelo.” ordinò l'Appiani e poi, voltando le spalle a quella scena, che riteneva deleteria, perché veder piangere un uomo della risma di Paolo Vitelli non era affatto un bello spettacolo, lasciò detto a uno dei soldati: “Vado a occuparmi degli altri. Voi fate venire uno scrivano, che prenda nota delle sue confessioni.”

 

Caterina era seduta alla sua scrivania. Era ormai quasi mezzogiorno e stava pensando che fosse il caso di andare a mangiare qualcosa.

Quella mattina lei e Pirovano erano tornati alla rocca quando il sole era spuntato già da almeno un'ora. Non era piovuto, a differenza di quello che ci si aspettava da un cielo così grigio e, anzi, quel primo ottobre era cominciato con temperature ben sopra quelle di stagione.

Dividendosi non appena avevano varcato l'ingresso di Ravaldino, la Contessa e il milanese si erano subito dedicati agli impegni della giornata e la donna, alla fine, si era ritrovata nella sua stanza a leggere un po' di corrispondenza e riflettere.

Avrebbe dovuto occuparsi subito di Simone Ridolfi. Immaginava che il Governatore avesse già ricevuto la notizia che lei aveva deciso di destituirlo, ma chiaramente sarebbe stato necessario incontrarlo, per rendere definitiva la cosa.

Era tanti i crucci che rimescolavano lo stomaco della Sforza, tuttavia non riusciva a smettere di ripensare a come lei e Giovanni si erano amati, quella notte, una volta arrivati alla cittadella. Quella che tutti ormai chiamavano per estensione semplicemente Paradiso era ancora quasi deserta, tranquilla ai limiti dello spettrale. Nessuno di loro due, però, aveva trovato inquietante quel silenzio, anzi, era stato per loro un incentivo a non darsi freni.

Lasciarsi prendere a quel modo dall'istinto, che l'aveva guidata in modo cieco, aveva portato a un certo punto la Tigre a estraniarsi del tutto dalla realtà, arrivando a non sapere più chi era l'uomo a cui si aggrappava, intrappolata in una gabbia mentale che la illudeva di avere ancora tra le braccia il suo Giacomo.

Era da parecchio che non le capitava più, e ricordava anche troppo bene il profondo smarrimento che la colpiva, quando le succedeva mentre giaceva con il Medici. Perciò, scoprirsi invece del tutto a proprio agio nel lasciarsi trascinare così dalla propria coscienza mentre era assieme a Pirovano l'aveva fatta vergognare un po'.

Ad aggravare la situazione c'era il fatto che il milanese pareva non essersi accorto nemmeno per un istante dello stato alterato della sua amante.

Con un sospiro, mettendo da parte la lettera che aveva appena finito di rivedere, la Leonessa si sfiorò il nodo nuziale e deglutì un paio di volte.

Quando sentì bussare, per poco non saltò sulla sedia. Senza chiedere chi fosse, andò ad aprire, convintissima di trovarsi davanti il castellano.

“Un messaggio per voi – disse Luffo Numai, la cui presenza aveva sorpreso un po' la Contessa – da Milano.”

La donna lo ringraziò e poi, rompendo già il sigillo con cui Federico Flavio aveva chiuso il messaggio, gli disse: “Più tardi voglio parlarvi. Devo incontrare Ridolfi e forse dovreste esserci anche voi.”

Il Consigliere parve perplesso, ma ribatté: “Se la credete una buona idea, ci sarò.”

Ancora sulla porta, mentre il forlivese si allontanava, Caterina cominciò a leggere le parole di Flavio. Prima di tutto notò la data: 26 settembre. Per arrivare, quella missiva ci aveva messo decisamente troppo. Quel ritardo era uno dei tanti segni preoccupanti che arrivavano da fuori le mura.

Appoggiandosi allo stipite della porta, la Leonessa scorse in fretta le parole del suo ambasciatore e capì all'istante che quella spedizione si stava rivelando quanto più inutile possibile. Federico le assicurava di aver riferito al re di Francia esattamente quel che lei aveva chiesto di dire, ma l'avvisava anche, con toni per altro molto allarmati, della rapidità con cui i francesi sembravano in grado di avanzare, suggerendo come, a suo parere, a breve sarebbe andato ben oltre i confini lombardi.

Cercando di ragionare in fretta su come muoversi, la donna venne distratta da alcune voci che arrivavano dal cortile d'addestramento. Un paio delle finestre del corridoio che vi si affacciavano era rimaste aperte e lasciavano entrare quelli che sembravano rimproveri.

Incuriosita, riconoscendo i toni di Cesare Feo, la Sforza ripiegò un momento la lettera, ripromettendosi di tornarci sopra più tardi, e andò a controllare cosa stesse capitando.

Appena si affacciò, notò il castellano che teneva per un braccio Bernardino, il quale, con il viso arrossato e le gambe un po' piegate, nel tentativo di forzare il blocco e scappare, continuava a scuotere la testa, come a negare le accuse che gli venivano mosse.

“Che cosa succede?!” chiese, a quel punto, la Contessa, sporgendosi un po', rinunciando a capirne di più solo dalle grida del castellano.

“Nulla, mia signora!” cercò di minimizzare subito Cesare, guardando verso l'alto, ma stando ben attento a non mollare la presa sul figlio del nipote: “Nulla davvero!”

“Non è vero. Questa peste – si intromise invece Baccino, uscendo dal porticato per farsi vedere – si era introdotto di nascosto nella sala delle armi e stava cercando di portar via una spada.”

“State zitto!” lo riprese il castellano, a denti stretti, gli occhi sgranati: “Voi non sapete..!”

“Quello è mio figlio, credevo lo sapeste.” disse, composta, la Sforza, restando al davanzale, gli occhi verdi che si piantavano sul cremonese.

Questi, che non si era ancora dato pena di conoscere i volti di tutti i figli della Tigre, credendo che bastasse aver presente quelli dei maggiori, schiuse le labbra, ma non disse altro.

“Cosa volevi farci, con una spada?” chiese allora la Leonessa, rivolgendosi, stavolta, al bambino.

Bernardino, dopo uno sguardo di sfida al prozio, si lasciò trasportare da un moto d'orgoglio e rispose: “Per difendere l'onore di mio padre!”

Quello sforzo sarebbe risultato anche nobile e ammirevole, se non fosse stato per la voce incrinata del piccolo e per l'inconsistenza del suo proposito.

“E in che modo intendevi farlo?” lo incalzò Caterina, non riuscendo ad arrabbiarsi del tutto, ma ben decisa a sedare altre eventuali iniziative simili: “Dandola in testa ai tuoi amici?”

“Non ai miei amici.” fece Bernardino, cominciando, forse, a cogliere l'inutilità del suo gesto: “Ma a quelli che l'offendono...”

Forse, pensò la Contessa, sarebbe stato opportuno scendere nel cortile, prendere il figlio con sé e passare un po' di tempo con lui. Forse sarebbe stato il caso di discutere insieme di alcune cose, di cercare di diradare un po' la confusione – legittima – che il piccolo Feo a tratti dimostrava di avere riguardo la morte e il ricordo del padre.

Ma la donna sapeva di non esserne in grado. Era già abbastanza difficile, per lei, convivere con il passato da sola, senza doverne parlare con qualcuno, specie con un figlio che le ricordava, grazie alla sua innata bellezza e ai tratti così familiari del suo viso, il suo amore più grande e la sua tragica fine.

“So che sei mio figlio, ma non devi risolvere tutto con la violenza.” concluse, infine, preferendo trattare la questione, ancora una volta, nel modo più impersonale possibile.

Bernardino si accigliò, ma smise comunque di cercare di scappare da Cesare. Il castellano, allora, allentò la presa, senza lasciarlo andare andare del tutto.

“Promettimi che non prenderai mai più armi senza dirlo.” fece Caterina, seria.

“Lo prometto.” rispose il bambino e poi, appena la madre diede ordine al castellano di lasciarlo andare, scappò via.

“Che intendevate fare, per punirlo?” chiese la Contessa.

Il Feo borbottò qualcosa e poi, allargando un po' le braccia, ammise: “Non lo so.”

“Dovreste avere più polso, coi vostri figli.” commentò Baccino, sporgendo un po' in fuori le labbra e fissandola, impudico come sempre: “Da quello che ho sentito dire, questo non è l'unico che preferisce alzar le mani, piuttosto che...”

“Non sono affari vostri, quello che fanno i miei figli.” tagliò corto la Leonessa e si ritirò, chiudendo la finestra e restando un momento immobile nel mezzo del corridoio.

C'era stato uno scambio di battute, tra lei e Giovanni da Casale, quella notte, che non le era piaciuto affatto e quello che stava iniziando a dire Bartolomeo da Cremona gliel'aveva ricordato in modo troppo spiccato.

Quando erano ancora alla cittadella, sotto le coperte scure del nuovo letto di Pirovano, il milanese le aveva detto che l'amava. Non era la prima volta, e nemmeno la volta in cui l'aveva espresso con maggior sentimento, ma per qualche motivo la Sforza si era agitata.

“Io ho fatto cose orribili.” aveva detto, scostandosi appena da lui: “Quando è morto Manfredi, ho fatto a pezzi un uomo.”

Giovanni, che aveva saputo di quella storia, ma che aveva sempre cercato in parte di non pensarci e, in parte, addirittura di non crederci, aveva scosso subito il capo, assicurando: “Ti amo lo stesso.”

“Come si può amare qualcuno capace di una cosa del genere?” aveva allora chiesto lei.

Pirovano, in un primo momento, non aveva saputo come rispondere, ma poi aveva fatto una mezza risata e aveva esclamato: “Non ne ho idea...” per poi farsi più serio e continuare: “Tu come fai ad amare ancora i tuoi figli, sapendoli capaci di quello che ti hanno fatto?”

Era stata allora Caterina a chiudere in fretta il discorso, cominciando deliberatamente a parlare d'altro, ma l'ombra che quell'ultima insinuazione aveva gettato su di loro li aveva accompagnati fino al rientro alla rocca.

Con il cuore che ricominciava a battere veloce nel suo petto, la Contessa tentò di mettere da parte tutto quanto e, tenendo stretta in mano la lettera di Federico Flavio, cominciò a camminare a passi svelti.

Arrivò nella sala dei banchetti e mangiò in fretta qualcosa. Doveva ancora sistemare un sacco di cose, tra cui decidere della partenza di Naldi e incontrare Ridolfi e, fondamentalmente, non aveva voglia di far nulla.

Stava per decidersi a lasciare la tavola, quando l'Oliva entrò nella sala, e si diresse senza indugio verso di lei: “Ci sono delle novità, mia signora.”

“Dalle nostre spie?” chiese lei, sentendolo parlare a voce bassa.

“Sì.” confermò lui: “Volete andare nello studiolo o..?”

“Ditemi quello che dovete dirmi e basta.” lo incitò lei, soprattutto perché a parte un paio di soldati, non c'era nessuno.

“Secondo le nostre spie, il papa ha spiccato l'ordine per suo figlio. Vuole che il re di Francia gli dia quindicimila uomini per scendere in Romagna.” fece in fretta il notaio, occhieggiando a destra e sinistra, come se temesse che qualche orecchio indiscreto potesse sentire e spifferare tutto a chissà chi.

Caterina, che pure s'aspettava di ricevere presto quella notizia, ebbe bisogno di un momento. La bocca le si era asciugata e la mano che stringeva ancora la missiva di Flavio tremava appena.

“Sappiamo da dove comincerebbe la sua campagna?” chiese, imponendosi di restare lucida.

“Da Imola.” rispose senza indugio l'Oliva: “Sembra che il papa sia convinto che decapitando il nostro Stato, nessuno oserebbe opporsi più a lui.”

In un momento diverso, la Leonessa si sarebbe sentita orgogliosa dell'importanza che, implicitamente, Rodrigo Borja le stava dando. Era la nemica che temeva di più e quella, a quanto pareva, che secondo lui era vista come un punto di riferimento dagli altri signori di Romagna.

E invece, in quel frangente, in mezzo alla sala dei banchetti quasi deserta, sotto gli occhi preoccupati del notaio, la Tigre si sentiva solo una donna morta.

“Va bene... Va bene...” sussurrò, quasi a voler prendere tempo anche con se stessa: “Tanto non partiranno prima che tra qualche giorno... Quindicimila uomini non si spostano facilmente... Noi...”

L'Oliva, nel vederla così confusa, ebbe un momento di panico. Abituato com'era a non vederla cedere dinnanzi a nulla, iniziava a credere di averle appena dato la notizia peggiore che potesse mai darle.

“Dite quello che avete detto a me anche a Numai e ai membri del mio Consiglio Ristretto. Domani mattina convocherò un Consiglio di Guerra. Anzi, convocatelo per vece mia. Domattina all'alba.” le parole si inseguivano sulle labbra della Sforza come a volersi mangiare l'una con l'altra, tanto che il notaio faceva fatica a seguirne il senso: “E poi... E poi voglio che convochiate qui Ridolfi, entro stasera... Anzi, facciamo per... Non so per che ora... Per le ventitrè. Nello studiolo del castellano.”

“Per le ventitrè?” domandò, un po' accigliato, l'Oliva, che, pur conoscendo la proverbiale insonnia della sua signora, non trovava che quello fosse un orario convenzionale, per un incontro ufficiale.

“Sì, prima ho da fare.” lo liquidò lei e poi, oltrepassandolo: “Se qualcuno mi cerca, che mi cerchi pure, fino a stasera non sarò di ritorno. Ho bisogno di pensare.”

Nella testa della Leonessa, ormai, c'era posto solo per il suo purosangue nero, i boschi che circondavano la Casina e qualche preda da mettere sul fuoco ancora calda di vita. Se fosse rimasta a Ravaldino, la sua mente non avrebbe fatto altro che incartarsi e partorire idee zoppe o claudicanti.

Doveva svuotare la testa, respirare e ragionare. E per farlo, doveva andare a caccia.

“Dove sta andando la Contessa così di fretta?” chiese il castellano Feo, entrando nella sala dei banchetti proprio un attimo dopo che lei ne era uscita.

L'Oliva, senza aver paura di sbagliare, sospirò e rispose: “Nei boschi.”

 
 
   
 
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