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Autore: Mary P_Stark    27/08/2019    2 recensioni
Cosa succederebbe se gli dèi dell'Olimpo e gli eroi greci camminassero tra noi? Quali potrebbero essere le conseguenze, per noi e per loro? Atena, dea della Guerra, delle Arti e dell'Intelletto, incuriosita dal mondo moderno, ha deciso di vivere tra noi per conoscere le nuove genti che popolano la Terra e che, un tempo, lei governava assieme al Padre Zeus e gli Olimpici. In questa raccolta, verranno raccontate le avventure di Atena, degli dèi olimpici e degli eroi del mito greco, con i loro pregi, i loro difetti e le loro piccole stravaganze. (Naturalmente, i miti sono rivisitati e corretti)
Genere: Commedia, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Erano settimane che cercava in giro per il mondo, tra vallate e pendii, campagne e città, ma nulla era valso allo scopo. Gli rimaneva solo quell’ultima carta da giocare, dopodiché avrebbe dovuto darsi per vinto. Ancora una volta.

Non aveva realmente sperato di riuscire in quell’impresa, però si era sentito in dovere di tentare. Non c’era stato per Athena, e ancora ne portava i segni sul cuore, perciò aveva desiderato fare qualcosa di buono almeno per Artemide.

La sua impresa, però, era diventata difficile fin dai suoi primi tentativi di ricerca e, nel corso dei giorni, il tutto era diventato ancor più complicato e impraticabile.

Quando, perciò, mise piede nel tempio di Ares, Hermes pregò con tutto se stesso che la sua idea funzionasse, permettendogli di sentirsi un po’ meno sporco, un po’ meno inutile.

Lasciatosi alle spalle peristasi e pronao, il dio si avviò con passo leggero sul pavimento marmoreo fino a raggiungere la camera interna del tempio, il naos, dove era solito intrattenersi Ares con i suoi compagni di bevute.

Quel giorno, a giudicare dai rumori che udiva provenire dal naos, doveva essere in corso una partita a qualche videogioco di guerra, o qualcosa di simile.

Non appena varcò l’arco di colonne interne, però, Hermes si rese conto che non era affatto così.

Ares era sdraiato sulla sua ottomana preferita, un cesto di frutti succosi posizionato dinanzi a lui, e stava osservando su uno schermo gigante quella che sembrava essere una guerra sanguinosa e spietata.

Accanto a lui, seduti a terra a gambe intrecciate, Bia e Cratos – due dei suoi luogotenenti – osservavano a loro volta quel macabro spettacolo senza perdersi un solo fotogramma.

Schiarendosi la voce dopo alcuni attimi di esitazione, indeciso se interrompere o meno la visione di quel disgustoso spettacolo, Hermes attirò così l’attenzione del padrone di casa.

Questi, volgendo il capo a mezzo, levò un sopracciglio con evidente sorpresa quando scorse Hermes e, levato un braccio a mo’ di saluto, domandò: «Ehi, Hermes! Che ci fai qui? Sei venuto in veste ufficiale, o è una visita di cortesia?»

«Assolutamente di cortesia, fratello» dichiarò Hermes, avvicinandosi.

Il rumore della battaglia divenne più forte man mano che si avvicinava e Ares, nell’abbassare un po’ il volume, sottolineò: «Voglio subito precisare che non l’ho causata io. Al tempo d’oggi, gli uomini riescono a fare cose inenarrabili anche senza che io sussurri niente al loro orecchio. Hanno imparato bene e, devo dire, hanno così tanta fantasia e perversione da sorprendermi, a volte.»

Hermes accennò un sorrisino di circostanza – che gli piacesse o meno quell’aspetto di Ares, lui sapeva bene quanto amasse il sangue e la violenza – e chiosò: «Oh, sanno certamente renderti onore.»

«Sicuramente» assentì Ares prima di gettare le gambe fuori dall’ottomana, levarsi in piedi e guardare i suoi due aiutanti di campo. «Rimanete pure qui a divertirvi. Io devo conferire con mio fratello.»

I due fratelli seduti a terra assentirono grati e, patatine alla mano, proseguirono nella visione delle immagini riguardanti la terrificante guerra in Siria, mentre Ares e Hermes si portavano nell’opistodomo, sicuramente più tranquillo e adatto per parlare.

Non appena raggiunsero quel luogo fresco e ben lontano dai rumori fastidiosi provenienti dal televisore a schermo piatto, Ares intrecciò le braccia nerborute sul torace e domandò: «Allora? Di cosa avevi bisogno, fratellino?»

«Puoi prestarmi i tuoi avvoltoi?» chiese di getto Hermes, sorprendendolo non poco.

Sbattendo le palpebre con evidente sorpresa, Ares replicò: «Potrei anche farlo… ma perché?»

«E’ noto a tutti che hanno una vista eccelsa e grande intelligenza, e credo sia il sistema più veloce per trovare… beh, una persona che nessuno sa dove si trovi» gli spiegò sommariamente Hermes, non sapendo quanto dire.

Ares, però, non si lasciò abbindolare dalle sue scarne parole e, accigliandosi, replicò: «Potresti chiedere a nostro padre di prestarti le sue aquile. Anche loro sono uccelli dall’indubbia bravura. Ma non lo farai… perché?»

Da quando in qua Ares si soffermava a pensare alle cose che gli venivano dette? O a cavillare sui particolari? Lui agiva a testa bassa, come un toro alla carica. Non badava a cose del genere!

Hermes si lagnò mentalmente per quel fastidioso contrattempo e, burbero, ammise: «Non voglio chiedere un favore a nostro padre.»

«Sei in rotta anche tu con papino Zeus? Non bastavano Arty e Athena?» ironizzò a quel punto Ares. «La nostra quasi mamma come sta, tra l’altro? Non mi azzardo più a chiamare, da quando mi ha detto cose inenarrabili al telefono.»

«E’ un tantino nervosa e stanca. Pare che le gemelle siano molto forti, e la disturbano più del sopportabile» gli spiegò succintamente Hermes, prima di ammettere: «Pensavo che, se fossi riuscito a trovare Latona, Artemide si sarebbe sentita meglio. Avere la propria madre al fianco non dovrebbe dare conforto, in momenti come questo?»

«Non posso parlare per esperienza personale, visto che avere Era al fianco è come essere punti da uno scorpione sul culo, …» chiosò Ares, scrollando le spalle con noncuranza. «…ma forse hai ragione. Vorrei però ricordarti una cosa, fratellino.»

«E cioè?»

«Se un dio non vuole essere trovato, non potrai fare nulla per sovvertire questo fatto. Latona è una titanide, perciò ha abbastanza potere per nascondersi agli occhi di tutti e, se in questi secoli si è celata alla vista delle divinità, avrà avuto le sue brave ragioni, perciò sarà quasi impossibile trovarla» sottolineò Ares, accigliandosi.

«Tenterò ugualmente» liquidò la questione Hermes, compiendo un gesto ampio e secco del braccio.

Ares allora scrollò le spalle, schioccò le dita e, nel breve decorrere di qualche attimo, una decina di avvoltoi comparvero nell’opistodomo, scrutando dall’alto i due dèi con i loro occhietti attenti e voraci.

Hermes li fissò vagamente ansioso, pur sapendo che non gli avrebbero fatto alcun male e Ares, nel ghignare brevemente, asserì: «Un po’ meglio, vero, rispetto ai tuoi galletti?»

«Fanno sicuramente più paura» gorgogliò Hermes, turbato.

Ares rise brevemente, prima di guardare i suoi animali sacri e dire: «Cercate la titanide Latona e portatele i miei ossequi. Ditele che il dio Hermes desidera conferire con lei, se non è troppo disturbo.»

Gli avvoltoi assentirono con le loro testoline piumate prima di involarsi come uno stormo compatto e uscire dal tempio e Hermes, nell’osservarli, si chiese se avrebbero avuto successo.

«C’è altro che posso fare, fratellino?» domandò Ares, dandogli una pacca sulla spalla.

Lui scosse il capo, pur desiderando affondare nel forte abbraccio del dio suo fratello per qualche attimo di conforto. Ugualmente, non lo fece e, scostandosi, lo ringraziò con un sorriso e se ne andò come era venuto, con passo pesante e sconfortato.

Ares lo fissò dubbioso per diversi attimi, ma alla fine tornò dai suoi luogotenenti per continuare la visione della guerra siriana. Se Hermes voleva altro da lui, glielo avrebbe detto in seguito, quando fosse stato pronto.
 
***

Athena aveva sempre saputo che, molto di ciò che realmente Érebos rappresentava, veniva gelosamente celato dentro l’animo del dio e, spesso, si era chiesta quanta – della sua oscurità primigenia – avesse un’accezione negativa.

Lei lo amava, e ne era riamata con passione e devozione, ma non nascondeva a se stessa quanto, a volte, avrebbe desiderato conoscere tutto di lui, indipendentemente da quanto oscure potessero essere le conseguenze.

Sapeva che lui era padrone dell’oscurità, e sapeva altresì che questa energia inglobava sia gli stati fisici che metapsichici di ciò che apparteneva alla notte.  La stessa Nyx, sorella di Érebos e madre di molti dei loro figli, aveva parti di sé che era meglio non conoscere approfonditamente, eppure loro erano grandi amiche e Athena le voleva bene come a una sorella.

Quando, perciò, la dea entrò nello studio di Érebos, che il dio aveva ricreato in una delle stanze della villetta dove abitava con lei, non si stupì più di tanto nel vederlo circondato da un’oscurità senza fondo e senza forma.

Ciò che la turbò fu però scorgere sul volto bellissimo del dio i semi del dubbio e della preoccupazione e, dopo essersi richiusa la porta alle spalle, mormorò: «Ti senti bene?»

Érebos non cancellò l’oscurità come soleva fare in sua presenza ma vi rimase immerso e, nello scuotere il capo, disse: «Devo prepararmi per una cosa. Ma sto bene.»

Sorpresa che il dio non avesse nascosto quel suo lato più oscuro – era sempre restio a mostrarglielo, perciò era lieta che lui non avesse interrotto ciò che stava facendo – Athena si avvicinò dubbiosa e domandò: «Niente che io debba sapere?»

«Non riguarda me, né te, perciò dovrebbe parlartene il diretto interessato e, se ancora non l’ha fatto, io non tradirò il suo silenzio. Puoi accettarlo, amore mio?» mormorò il dio Ctonio, sorridendole spiacente.

Lei accennò un sorriso, annuendo, e replicò: «Mi fido del tuo giudizio. Ma sei certo che questo qualcosa non ti danneggerà? Sembri così turbato!»

Érebos assentì, ma ammise: «Non sarà pericoloso tanto per me, ma per chi dovrà affrontare ciò che sto preparando.»

«Ed è necessario?» chiese turbata la dea, osservando l’oscurità sfrigolante. Avvertiva senza problemi il potere primigenio proveniente da quella massa turbinante e priva di corporeità e, pur se divinità, ne ebbe paura.

Chi mai avrebbe potuto affrontare – e sopportare – una simile energia?

«Per la sua salvezza mentale, sì» annuì roco Érebos, sorprendendo non poco Athena.

Il potere del dio Ctonio era così enorme che solo entità Ctonie avrebbero potuto sopportarne il peso… chiunque altro, ne sarebbe rimasto schiacciato.

Sgranando di colpo gli occhi, la dea della guerra mormorò: «E’… si tratta di Hermes, vero?»

La divinità Ctonia assentì con un sorriso triste, asserendo: «La tua sensibilità ti precede, cara, ma Hermes non è ancora pronto per parlarne con voi… la sua mente sta vagando in un mondo che lo tiene distante dai suoi affetti, e solo io posso riportarlo indietro. Sempre se lo vorrà, ovviamente.»
Impallidendo leggermente, Athena si portò una mano al cuore ed esalò: «Se un dio impazzisse, potrebbe…»

«Distruggere ogni cosa, sì» annuì suo malgrado Érebos, e l’Universo oscuro in cui era immerso brillò per un attimo, come a dare enfasi al suo dire. «Il mio compito sarà quello dell’avvocato della difesa, ma anche dell’accusa e, se ciò che avverrà nel mio regno non lo porterà alla ragione, dovrò anche esserne il boia. Atropo si arrabbierà perché te l’ho detto e, soprattutto, perché mi sono impicciato nei suoi affari, ma ormai le cose si sono spinte così avanti che nessuno potrà fare nulla per interromperle.»

Athena assentì suo malgrado e, in barba ai timori di Érebos, si avvicinò a lui, lo baciò dolcemente sulle labbra fredde – forse specchio di ciò in cui era immerso – e mormorò: «So che non potresti mai fare coscientemente del male a qualcuno. Spero solo che Hermes ti ascolti, anche se avrei preferito che si rivolgesse a noi per qualsiasi cosa.»

«Tu stessa rifiutasti l’aiuto dei tuoi fratelli, quando morì Miguel, perciò puoi comprendere il suo sbandamento e la sua paura» le rammentò la divinità. «Contrariamente a lui, però, tu non ti perdesti nell’autocommiserazione e nell’autodistruzione, e non rischiasti mai di perdere te stessa. Lui, invece, è a un passo dal perdere il controllo di sé, con tutto ciò che questo comporta.»

Athena annuì spaventata, sapendo bene cosa non le stesse dicendo Érebos. La follia, la distruzione, un evento estintivo che neppure le Moire avrebbero potuto controllare.

«Lo riporterò da voi. Te lo prometto» le sorrise il dio Ctonio, immergendosi completamente nella nube oscura da lui creata e che, all’apparenza, conteneva l’universo stesso.

La dea non poté che assentire e, dopo essere uscita dallo studio, si appoggiò contro la porta e sospirò, domandandosi cosa avesse turbato così tanto Hermes da spingerlo a perdersi a quel modo.

Il suo dolce e scapestrato fratellino era la quintessenza dell’irrequietezza e della dissolutezza, ma sapeva anche essere tenero e affettuoso.

Cos’aveva dunque convinto Hermes di non essere degno di poter parlare con loro, di non poter aprire loro il cuore? Cosa c’era, nel passato di Hermes, da sconvolgerlo tanto?

E da quanto andava avanti questa caduta nell’abisso?
 
***

Il giardino in cui si tessevano i destini del mondo era piacevole alla vista e all’olfatto, deliziato da aromi di rose, erbe officinali e agrumi.

Camminando a passo tranquillo lungo la passeggiata in selciato che attraversava quel magnifico giardino sempreverde, Érebos si chiese come avrebbero preso, le sue figlie, quell’intervento a gamba tesa.

Sapeva bene di non avere il diritto – almeno, non fino a quel momento – di interporsi nel destino di Hermes, ma lo inorridiva il pensiero di non fare nulla per lui e per il suo destino.

Sicuramente, Lachesi e Atropo avrebbero avuto da ridire e se la sarebbero presa con lui a suon di strepiti, ma il dio Ctonio conosceva bene le sue figlie, e sapeva come affrontarle.

Inoltre, prima di poter fare qualsiasi cosa, doveva parlare con Cloto, e conoscere esattamente ciò che era avvenuto quel fatidico giorno. Senza conoscere per intero il passato di Hermes, non avrebbe potuto muoversi per migliorarne il futuro. Sapere solo delle morti che lo avevano sconvolto, non lo aiutava a capire il quadro d’insieme. Doveva conoscere ogni cosa.

Forse, facendo appello al buon cuore di Cloto, anche le sue due sorelle maggiori si sarebbero dimostrate più disposte ad ascoltare le sue istanze.

Procedendo fino a raggiungere un tempietto dagli alti colonnati, Érebos sorrise un poco nell’udire il suono inconfondibile di musica da camera.

Le Moire adoravano Bach, perciò capitava spesso che, quella parte del giardino ove si trovava il loro tempio, fosse allietata dalle magistrali note del musicista tedesco.

Immaginando fosse un buon segno – erano solite rimanere nel silenzio più assoluto, quando litigavano – Érebos si spinse quindi a entrare nel tempio e, dopo un cenno di saluto alle loro ancelle, fece la sua apparizione nel naos.

Cloto fu la prima a interrompere il suo movimento sul telaio, ma solo per alcuni istanti. Sorridendo al padre, accennò un movimento del capo a mo’ di saluto dopodiché tornò a tessere il filo che Lachesi, con attenzione, le stava porgendo con mani esperte.

Atropo, di nero vestita e con un’elaborata acconciatura a trine di trecce sul capo, stava lucidando la sua cesoia e, con tono beffardo, chiosò: «Paparino è arrivato, Lacey… che dici, ci litighiamo un po’, o andiamo subito al punto?»

Attenta al suo filo, Lachesi sollevò un poco un sopracciglio, replicando sarcastica: «Dopo quello che ha fatto per Achille, dovremmo arrabbiarci un po’ con lui, ma non mi va di mettere il broncio proprio oggi. Afrodite ci ha acconciato così bene i capelli che voglio godermi il suo trattamento di bellezza fino in fondo.»

Cloto sorrise divertita ma non disse niente, limitandosi a fare spallucce di fronte all’espressione confusa del padre.

«Ah… i capelli vi stanno molto bene, ragazze» esordì Érebos, ammirando con effettivo sbalordimento le elaborate acconciature delle figlie. Afrodite aveva davvero buon gusto, e aveva saputo sottolineare la bellezza di ciascuna delle Moire nel modo più raffinato.

«Grazie, padre» cinguettarono in coro le tre sorelle.

Il dio Ctonio, a quel punto, prese per sé una sedia, vi si accomodò e dichiarò dubbioso: «Perché ho l’impressione che sappiate esattamente il motivo per cui io mi trovo qui?»

Lachesi ammiccò all’indirizzo del filo che Cloto stava tessendo ed Érebos, nel notare il colore peculiare del filato – dorato e di una purezza soprannaturale – borbottò: «E’ il destino di Hermes, giusto?»

«Sapevamo già che saresti giunto qui» intervenne a quel punto Atropo, poggiando la sua cesoia su un tavolino ricolmo di attrezzi da taglio, prima di fissare burbera il padre e aggiungere: «Davvero ci hai preso per delle sprovvedute, o delle novelline? E dire che sai benissimo che mestiere facciamo!»

«Chiedo venia» mormorò il padre, reclinando colpevole il capo corvino. «Ergo, posso sapere come andarono davvero le cose? Conosco parte dei fatti, ma non come si svolsero per intero.»

Atropo lo fissò con aria di superiorità e celiò: «Ovvio che tu non lo sappia. L’oscurità non può giungere ovunque. Né può leggere nel passato delle genti, o nei loro cuori.»

Érebos sollevò un sopracciglio con evidente sarcasmo e, rivolgendosi alla figlia maggiore, replicò: «Stai gongolando, Atropo?»

«Un pochino, padre. Solo un pochino. E’ piacevole sapere che, anche un dio potente come te, possiede dei limiti» sorrise dolcemente la dea, scrollando le spalle.

«Tutti noi abbiamo dei limiti, o potremmo peccare di alterigia e causare danni al Creato» sottolineò il dio, senza alcun problema. «Quindi, sapevate che sarei venuto qui. E sapevate che avrei chiesto di Hermes. Potete dunque rispondere alle mie domande?»

Fu Lachesi a rispondere.

«Come qualsiasi filato divino, anche quello di Hermes non ha fine apparente ma, come potrai notare, Cloto ha difficoltà a tesserlo perché è sfilacciato.»

Cloto assentì alle parole della sorella, e proseguì dicendo: «Sappiamo che solo la tua mano potrà rendere di nuovo lineare il filo ma, per farlo, debbo raccontarti ciò che avvenne nella sua prima parte, quella che ho già intessuto.»

«Immagino che, se ciò che vedrò – e farò – non sarà sufficiente, il filato si spezzerà» ipotizzò Érebos, accigliandosi.

Atropo, però, scosse il capo e, seria in viso così come preoccupata, tese al padre una cesoia dalle lame dorate e replicò: «Tu solo hai il potere di tagliare questo filato. Potrei chiederlo a mamma, ma credo che tu abbia molto a cuore Hermes, e preferisca avere su di te questo fardello. Essendo uno psicopompo come Thanatos, Hermes ha molto in comune con le tenebre di cui tu sei signore e padrone, e puoi comprendere meglio di chiunque altro i suoi sbandamenti emotivi.»

Érebos assentì con vigore, sapendo bene di questo legame tra lui e il giovane dio. Pur se, per la maggiore, Hermes era stato impiegato come un ánghelos, un messaggero degli dèi, il suo ruolo di psicopompo non era inferiore a quello di Thanatos, e questo creava un legame a doppio filo tra di loro.

Forse, anche per questo aveva così a cuore le sorti di quello scapestrato ragazzo.

Afferrata la cesoia, il dio Ctonio assentì e mormorò: «Raccontami tutto, Cloto. Ho bisogno di sapere, per aiutarlo.»

«Lo farò. Nessuna di noi vuole che Hermes muoia» assentì la figlia, continuando a tessere il filato sdrucito del dio, stando ben attenta a non rovinarlo ulteriormente con il suo tocco.
 
***

Allontanatasi dallo studio di Érebos, Athena si domandò pensierosa cosa potesse essere successo di così grave da turbare Hermes al punto di portarlo all’autodistruzione.

Nulla, però, le giunse alla mente e, tra sé, si diede della sciocca per non essersi accorta del dolore del fratello. Era stata così presa dai suoi patimenti personali, da non rendersi conto che Hermes stava vivendo un inferno forse pari – o superiore – al suo.

Hermes si era sempre comportato come un ragazzo allegro e sbruffone ma, a ben vedere, negli ultimi anni si era avvicinato molto a lei e ad Artemide, cambiando radicalmente le sue abitudini giornaliere per stare con loro.

Se, a caldo, aveva attribuito quell’andirivieni come a un nuovo sollazzo del fratello e al desiderio di conoscere meglio Alekos, le parole di Érebos mettevano ora sotto tutt’altra luce quel comportamento.

Cosa aveva nascosto loro di così tremendo da non poter essere detto a voce alta?

«Cosa ti sta succedendo, fratellino?» mormorò Athena, massaggiandosi pensosa il mento.

«Mamma, cosa c’è?» domandò Alekos, sorprendendola nel corridoio.

La dea si riscosse dall’immobilità che l’aveva bloccata nel bel mezzo del corridoio – attirando così l’attenzione del figlio – e, sorridendogli, scosse il capo e replicò: «Non è successo n…»

Athena non terminò mai la frase.

L’urlo mentale di Artemide la sconvolse a tal punto da toglierle il fiato di bocca e, prima di poter dire altro, prese per mano il figlio e si materializzò nella villa accanto, preoccupata e in allerta.

Piegata accanto a Felipe, che la sosteneva a fatica, Artemide urlò una seconda volta e Athena, accorrendole al fianco, le avvolse un braccio attorno alla vita per poi domandare: «Hai già chiamato Demetra?»

Lei scosse il capo e la sorella, determinata, chiuse gli occhi per concentrarsi sulla ricerca mentale della dea, prima di dire: “Demetra. Ci siamo. Venite alla svelta. Le bambine sembrano voler uscire a qualsiasi costo, e non credo che Artemide gradirebbe molto essere sventrata viva. Xena e Buffy sembrano davvero inviperite.”

“Arriviamo” si limitò a dire la dea. “Ma veramente vuole chiamarle così?”

“Sarebbero nomi ideali…” chiosò Athena, interrompendo il contatto.

L’attimo seguente, Demetra e la pleiade Maia, madre di Hermes, apparvero in uno scintillio d’argento nel salone della villetta di Artemide e Felipe, sospirando di sollievo, disse: «Le acque si sono rotte circa due minuti fa e, da quel momento, sono cominciati i dolori atroci. Non riesce quasi a respirare.»

«Stanno premendo sui polmoni, quelle discole» dichiarò lesta Maia, indirizzando Artemide, Athena e Felipe verso la camera da letto.

Demetra, da parte sua, si rivolse a un preoccupato Alekos e disse: «Nei prossimi minuti giungeranno anche le ancelle di Artemide. Mandale in camera da noi. Nel frattempo, dai fuoco ai rami di lavanda che ti ho fatto vedere nei giorni scorsi e poi accendi la musica di Bach che ho lasciato nello stereo.»

«Va bene. Farò così» assentì Alekos, più che mai teso. «Zia Artemide rischia di morire?»

Demetra lo rassicurò con un abbraccio e scosse il capo, replicando: «Non morirà nessuno, oggi, te lo prometto, a costo di prendere a calci sia Hermes che Thanatos, se dovessero presentarsi alla porta. Il problema è che quelle due monelle hanno preso dalla madre, e sono assai vispe.»

Alekos riuscì a raffazzonare un sorriso di assenso e Demetra, dopo un attimo, si diresse verso la sua paziente mentre il ragazzo si apprestava a fare quanto richiesto.
 
***

L’istante in cui Athena confermò a Hermes l’inizio del travaglio di Artemide fu, per il dio, il momento più brutto della sua vita.

Aveva fallito. Ancora una volta.

Nonostante l’utilizzo degli avvoltoi di Ares, Hermes non era riuscito a trovare neppure una minima traccia che potesse condurlo al nascondiglio in cui si era rintanata Latona. Si era nascosta così bene da essersi resa invisibile a chiunque, dèi compresi.

Non era riuscito in una cosa all’apparenza così semplice come trovare qualcuno, neppure con l’ausilio di un potere divino quale avevano gli avvoltoi di Ares.

Era così incapace da non essere in grado di fare neppure questo.

Lasciando che gli avvoltoi tornassero al mittente, Hermes maledisse il giorno stesso in cui aveva deciso di lasciarsi andare all’amore e, smaterializzandosi, si ritrovò dinanzi un pallido e preoccupato Alekos.

Il ragazzo, nel vederlo, esalò spaventato: «Non vuoi portare via…»

Hermes lo interruppe subito, scuotendo il capo, e mormorò stanco: «No, non sono qui per portare via le bambine. Volevo solo scusarmi con mia sorella.»

Ciò detto – e lasciando interdetto un preoccupato Alekos – Hermes si diresse con passo strascicato fino alla stanza della partoriente e lì, scrutando la scena con occhi spenti, avanzò fino a raggiungere Artemide.

Nessuno lo intralciò; ognuno dei presenti aveva i propri compiti e nessuno di questi comprendeva il fermare uno sciocco così, inginocchiatosi che fu accanto al letto, Hermes mormorò: «Ho fallito, sorella. Perdonami.»

Artemide lo fissò stranita e vagamente spiritata, replicando tra una contrazione e l’altra: «Ti sei rincitrullito di colpo, Hermes? Cosa avresti fallito, scusa?»

Afferrandole la mano libera, l’altra era saldamente trattenuta da quelle di Felipe, Hermes replicò: «Desideravo condurre qui tua madre perché potessi trarre conforto da lei, ma non sono riuscito a trovarla.»

Sia Artemide che Athena sgranarono gli occhi, a quell’ammissione e Maia, nell’osservare turbata il figlio, asserì: «Tesoro, nessuno di noi sa dove ella sia. Non devi darti colpe che non hai.»

«Ugualmente, sono stato manchevole. Ancora una volta non sono stato degno dell’amore delle mie sorelle» replicò il dio, fissando spiacente la madre prima di tornare a rivolgersi alla sorella.

Sorridendole contrito, baciò il dorso della mano di Artemide, si rimise in piedi e si scostò dal letto, mentre la dea silvana lo seguiva con lo sguardo, allungandosi come poté verso di lui.

Troppo impegnata a estrarre la prima neonata, Demetra non poté dire né fare nulla ma, memore delle parole di Érebos, scrutò turbata Hermes, temendo per lui. Il tono della sua voce non preannunciava nulla di buono.

L’urlo di dolore di Artemide distrasse tutti il tempo sufficiente a permettere a Hermes di teleportarsi lontano dalla stanza della sorella e, quando Athena si rese conto di esserselo lasciato sfuggire, si domandò terrorizzata cosa sarebbe successo a quel punto.

Nessuna delle dee presenti osò parlare, perciò fu Felipe a esalare turbato: «Ma che gli è preso?»

Artemide lanciò un’occhiata terrorizzata ad Athena, che assentì turbata suo malgrado e, non potendo esimersi dall’urlare – complice l’ennesima contrazione – la dea gridò: «Riportatemi mio fratello!»
 
***

Ogni cosa era avvolta dall’oscurità, ma dubitava fortemente che fosse a causa delle tende tirate e delle luci spente nel suo attico. Neppure la notte più buia era così uniformemente scura e vuota.

No, non si trovava nel suo attico, dove aveva cercato di arrivare dopo essersi smaterializzato dalla casa di Artemide.

Il punto era un altro: dove si trovava?

Sembrava di essere immersi in un vuoto cosmico, ma non v’era il conforto della luce delle stelle o della bellezza delle galassie e delle nebulose.

Un immenso e uniforme mantello nero lo avvolgeva, deprivandolo di qualsiasi senso.

Per qualche istante, Hermes lo trovò persino piacevole – forse, lì non avrebbe sentito più dolore – ma, nel breve decorrere di alcuni minuti, il panico e l’angoscia tornarono a ghermirlo, facendolo rabbrividire.

Fu in quel momento che una luce accecante lo portò a socchiudere gli occhi e proteggersi il viso con le braccia, mentre dall’intenso bagliore la figura di un uomo emergeva dal nulla per raggiungerlo.

«E’ giunto il tempo, Hermes» tuonò la voce stentorea di Érebos, colmandolo di sorpresa e terrore.

Mentre il bagliore si affievoliva, Hermes poté finalmente scorgere il dio Ctonio nella sua forma primigenia e, se prima aveva provato paura, ora urlò.

Pur se bellissimo come sempre, Érebos appariva terrificante. Immerso nel suo potere sconfinato e primigenio, era la creatura più potente e terribile che lui avesse mai visto durante la sua lunghissima esistenza.

Persino i poteri del padre, al confronto, impallidivano.

Le lunghe chiome corvine del dio erano agitate da un vento che Hermes non poteva percepire, così come le sue vesti lunghe e scure, ondeggianti come mare in tempesta, sembravano scosse da potenze a lui precluse.

Le vestigia del dio riflettevano l’immensità del cosmo e il turbinio di galassie e buchi neri, contenendoli in uno spazio in cui, a rigor di logica, non avrebbero potuto essere trattenuti. Era questo ciò che Érebos teneva celato al mondo, ciò che lui controllava e teneva celato dietro un sorriso o una stretta di mano.

L’immensità di tutto ciò che apparteneva all’oscurità. Né buona né cattiva, soltanto… infinita.

«E’ tempo che tu scelga, Hermes, poiché l’icore nel tuo sangue non è più sotto controllo e rischia di implodere su se stesso, con le conseguenze che tu ben sai» disse ancora il dio Ctonio.

Attorno a Hermes, come in un cinema tridimensionale, immagini di distruzione, morte e disastri naturali si intervallarono a velocità sempre maggiore finché, in un’unica esplosione di luce, tutto tornò nero e privo di forma.

Crollando in ginocchio, il corpo scosso dai brividi e gli occhi sgranati per l’orrore, Hermes gorgogliò: «Ho cercato… ho tentato con tutto me stesso… ma non riesco a dimenticare il mio fallimento, la mia stupidità. Sono morti per causa mia…»

«Perciò lascerai che tutto venga distrutto perché non accetti di aver commesso un errore?» lo rabberciò atono la divinità, fissandolo dall’alto della sua statura divenuta incredibile.

Hermes si sentì piccolo e inerme di fronte a quell’impressionante sfoggio di potere primigenio e, reclinando il capo, mormorò: «Sono debole. Non li ho salvati.»

«Perciò lascerai che tutto venga distrutto perché non accetti di aver commesso un errore?» domandò ancora Érebos, con lo stesso tono e lo stesso sguardo freddo posato sul dio.

«Uccidimi, ti prego… non voglio far morire nessun altro» singhiozzò Hermes, rattrappendosi su se stesso.

«Perciò lascerai che le tue sorelle e i tuoi fratelli piangano per la tua sorte?» chiese a quel punto la divinità.

Hermes sgranò gli occhi, a quell’accenno e, come in precedenza, le immagini di Artemide, Athena, Alekos, Ares, Apollo, sua madre Maia, si intervallarono a scene colme di dolore, frustrazione e morte.

Hermes si strinse le mani sul viso, scosse il capo e cominciò a mugolare frasi sconclusionate, ma Érebos lo interruppe, domandando ancora: «Lascerai che il rimorso ti corroda? Che corroda tutto e tutti?»

«Ma li ho uccisi!» gridò a quel punto Hermes, le mani strette a pugno e il volto trasfigurato dal risentimento e dalla pena.

Érebos allora chiuse gli occhi, sospirò stancamente e, prima che Hermes potesse dire altro, il vuoto lo risucchiò.

E cadde.








N.d.A. Hermes si trova davvero a un bivio ed Erebos, suo malgrado, sarà colui che dovrà giudicarlo e, nell'eventualità più terribile, eliminarlo. Cosa sarà davvero successo a quei diciassette ragazzi? E perché Hermes è convinto di averli uccisi tutti, e di sua mano? Lo scopriremo nel prossimo capitolo, promesso!
 
  
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