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Autore: Saelde_und_Ehre    31/08/2019    6 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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XIV.
Denn die Sehnsucht nach Dir hält mich gefangen…
(parte prima)

 
 

Potsdam, dicembre 1936 – tre anni prima

Una candida coltre di neve incappucciava i tetti della città, che il sole del tardo pomeriggio tingeva di riflessi dorati. L’imponente castello si ergeva sullo sfondo, a guardia della collina irta di abeti immobili e silenziosi, simili a soldati vestiti di gelo. Limpido come una lastra di cristallo, il fiume Neckar rifletteva i profili degli edifici e le arcate dell’antico ponte in pietra.
Oltrepassata la grande porta, il centro storico di Heidelberg lo accolse coi profumi provenienti dalle taverne e il vociare dei bambini che giocavano a lanciarsi palle di neve. Aveva preso l’abitudine di attardarsi in giro per quelle strade ogni volta che smontava dal turno di servizio: da quando aveva lasciato la casa dei suoi nonni, viveva in una misera stanza in affitto e non avrebbe trovato nessuno a rimproverarlo per aver rincasato tardi.
Mentre era assorto nei propri pensieri, i suoi passi lo guidarono fino a una delle strette viuzze che conducevano al castello, dove i lampioni compensavano la luce ormai esigua.
Si fermò di fronte a una vetrina incastonata nella facciata di un vecchio palazzo del Settecento, dietro la quale s’intravedevano tele di paesaggi, castelli e rovine di templi antichi, ritratti di eroi e soldati. Tutto sembrava tendere verso un’instancabile ricerca dell’ideale, ma si riduceva infine a un simulacro di una gloria ormai perduta.
Gli tornarono in mente le disquisizioni fatte ai tempi del ginnasio sulla bellezza, soppiantata dall’arte degenerata e dalle mode imperanti, come se anch’esse fossero frutto dello spirito dei tempi. Era finita l’epoca degli eroi e degli ideali; adesso era l’epoca della disillusione, delle macerie, della prosaica rassegnazione.
Anche se si era spesso fermato ad ammirare quelle opere, chiedendosi chi ne fosse l’artefice, non si era mai arrischiato all’interno della bottega. Cercò di sbirciare oltre il vetro, ma nella sua trasparenza vide riflessa la faccia sbarbata di un ragazzo in uniforme, che si dissolse in un soffio nella nebbia prodotta dalla condensa del suo fiato: era anche quel pensiero che lo aveva spinto a diventare un soldato e combattere per la Germania, perché era convinto che per ricostruire il futuro non bisognasse rinnegare il passato, ma migliorare ciò che c’era di buono e impegnarsi per cambiare ciò che non funzionava più.
Come a voler soddisfare la sua curiosità, sulla soglia si affacciò un giovane uomo biondo che gli parve l’incarnazione di Apollo. “Il signor tenente desidera?”

Hans si risvegliò con un sussulto, ritrovandosi disteso sul divano con una coperta di lana addosso e i piedi penzoloni fuori dal bracciolo. Gli ci volle qualche secondo per fare mente locale e rendersi conto che si trovava lì perché aveva ceduto il letto a sua zia, venuta a trovarlo la sera precedente. Si tirò a sedere con un grugnito, lasciando che la coperta gli scivolasse giù dalle gambe: era da anni che aveva deciso di tagliare i ponti col passato, da anni che questo aveva smesso di tormentarlo, e non riusciva a spiegarsi il perché di quel sogno.
Sospirò, passandosi le mani sulle guance lisce. L’odore del caffè proveniente dalla cucina, il ticchettio dell’orologio a cucù e le braci morenti che sfrigolavano nel caminetto ebbero il potere di farlo tornare alla realtà. Era nel suo salotto di Potsdam e, anche se le finestre erano ancora chiuse, dagli spiragli che filtravano dalle imposte poteva distinguere la sagoma della sua poltrona rivestita di stoffa consunta, la libreria ingombra di volumi e il focolare in mattoni rossi, sul quale era appeso un quadro con una veduta del suo borgo natio, circondato dal verde della Foresta Nera.
Si alzò per andare a mettere un altro ciocco nel fuoco, e rimase come ipnotizzato a fissarlo mentre una voce nella testa gli ripeteva che era meglio ricacciare certi ricordi nell’unico luogo in cui sarebbero dovuti stare: il nero pozzo dell’oblio. Bruciarli, come il legno che ardeva divorato dalle fiamme, crepitando mentre riprendevano a danzargli intorno.
“Hansi, sei sveglio?” cinguettò la voce di sua zia Hedwig, distogliendolo da certi pensieri. “Ti ho preparato la colazione!”
“Mi preparo e arrivo, zia,” rispose il giovane.

“Non mi aspettavo che venissi a trovarmi, zia,” ammise Hans sulla soglia della cucina, scusandosi implicitamente del disordine che aveva lasciato in casa. “Sono sempre in caserma e…”
La donna, che stava asciugando le stoviglie, si voltò con lo strofinaccio in mano e gli rivolse un sorriso accorato, per poi rispondergli in dialetto del Baden: “Lo so, caro, lo so. Siediti, ti ho fatto il caffè e la torta che ti piace.”
Con un gesto degno di un cerimoniale, indicò una Foresta Nera poggiata al centro del tavolo, rivestita di panna montata e decorata con scaglie di cioccolato e succose ciliegie rosse. Hans riconobbe il dolce tipico delle sue terre e, complice l’acquolina in bocca, decise di mettere per un attimo da parte i turbamenti del risveglio.
“Grazie, zia… ma non dovevi…”
“Siediti e mangia.”
Mentre il giovane faceva colazione in silenzio, gustandosi il pan di Spagna al cioccolato, la zia Hedwig continuava ad affaccendarsi per la cucina con la lunga gonna nera e il grembiule azzurro che le ondeggiavano intorno alle caviglie, le maniche dello scialle rimboccate fino al gomito, e gli raccontava pettegolezzi della loro cittadina d’origine. Qualche ciuffo ribelle le sfuggiva dalla crocchia di capelli arrotolata sulla testa, di un castano chiaro ormai sbiadito dall’età. “Dovresti vedere tuo nipote Willi!” esclamò poi all’improvviso. “È uguale a te quando avevi la sua età, dice sempre che vuole diventare come lo zio capitano…”
Hans aggrottò le sopracciglia a quell’allusione, e gli fu inevitabile chiedersi se la donna sapesse che lui e sua sorella non si sentivano da più di un anno. Ma prima che potesse ricominciare a rivangare sul passato, lei aveva già cambiato discorso. “Ma tu sei cresciuto ancora, caro… sei più alto di tuo zio Georg!”
“Tra un mese compio venticinque anni, ho già smesso di crescere da un po’,” rispose il giovane senza distogliere lo sguardo dal cibo, in dialetto altrettanto stretto. Credeva di aver quasi dimenticato come si parlasse, ma era bastata quella breve conversazione per fargli tornare la memoria.
La zia Hedwig sospirò. “Come passa il tempo… ti ricordo quando eri bambino e adesso sei un uomo fatto e finito… ma insomma,” fece un gesto che voleva abbracciare l’intero cucinotto, dalla stufa accesa alla piccola credenza accanto alla finestra, dove l’unico tocco di colore era dato dalle tende blu, “questa casa è vuota, quand’è che trovi una brava ragazza e ti sistemi?”
Al giovane andò quasi di traverso la seconda fetta di dolce. “Non ho tempo per queste cose… e sto bene da solo,” bofonchiò a denti stretti, pensando che se i suoi parenti, religiosi com’erano, avessero scoperto perché non si era mai fidanzato, probabilmente la sua scelta di abbandonare l’università per arruolarsi nell’esercito sarebbe diventata la più blanda delle loro preoccupazioni.
La donna scosse la testa, le mani puntate sui fianchi. “Sei proprio come tuo zio Georg… a sessant’anni è ancora scapolo…”
“Io non bevo così tanto,” obiettò Hans in tono neutro, “e peso almeno cinquanta chili in meno.”
“Esagerato!” Lo scappellotto arrivò senza preavviso, costringendolo ad agguantare la tazzina vuota del caffè per non farla cadere. “Un giorno o l’altro te la annodo quella linguaccia, giovanotto impertinente! Se è per questo, non vai nemmeno in chiesa la domenica. Da quanto tempo è che non ci vai?”
Egli represse un ghigno divertito, ma si trattenne dal fare dell’altro sarcasmo. Guardò l’orologio e si alzò, indossando il cappotto e il berretto da ufficiale appesi all’ingresso. “Grazie per la visita, zia… ma adesso devo davvero andare. Ci vediamo stasera.”
Anche se gli rimaneva ancora un largo margine d’anticipo, si affrettò a uscire per evitare altre domande personali.
“Copriti bene che fa freddo, capitano,” lo raggiunse la voce della zia, quando ormai aveva imboccato le scale del condominio.

Hans uscì fuori sfidando le raffiche di vento misto a nevischio per raggiungere la prima stazione del tram. Aveva nevicato tutta la notte e i marciapiedi erano ricoperti da cumuli di neve che un uomo e una donna, usciti di prima mattina, avevano già cominciato a spalare.
Gli abitanti di quella via lo conoscevano solo come ‘il capitano’ e si toglievano il cappello per salutarlo quando passava; egli ricambiava con un cenno distratto del capo o della mano e proseguiva, con gli stivali che affondavano nel friabile strato ghiacciato.
Il cielo era scuro, velato dalla luminescenza elettrica dell’ora blu: un’ora incerta, sospesa, quando i fantasmi della notte erano ancora visibili e la luce del sole un miraggio in bilico dietro la linea di un orizzonte remoto.
Ripensò al sogno che aveva fatto, alla fugace illusione che esso gli aveva riportato alla mente. La consapevolezza era arrivata durante l’ultimo anno di ginnasio, ma solo dopo quell’incontro si era concretizzata: gli ideali condivisi, l’affinità e il tempo passato insieme lo avevano indotto ad abbassare la guardia e a lasciarsi andare, per la prima ed unica volta. Credeva di aver trovato il compagno della vita e invece si era reso conto di essere soltanto inciampato nella propria ingenuità: quando era stato trasferito a Potsdam, aveva passato interi mesi ad attendere notizie dell’altro, solo per realizzare dopo molto tempo di essere stato semplicemente dimenticato.
C’erano voluti dei mesi per conquistarsi la sua fiducia di ragazzo schivo e solitario, e relativamente poco per lasciare che tutto crollasse su se stesso. L’altro gli aveva dato speranze, ma poi gliele aveva distrutte, accartocciate, come faceva coi bozzetti che non gli piacevano più.
Dopo quella volta, Hans si era ripromesso di non lasciarsi più distrarre da certe cose – almeno finché non aveva incontrato il tenente von Kleist. Era rimasto subito colpito dalla sua condotta cavalleresca e dagli ideali – da lui condivisi – che lo animavano, e i pomeriggi trascorsi insieme non avevano fatto altro che rafforzare quelle impressioni. Tuttavia, una parte di lui temeva che anch’egli potesse nascondere del marcio sotto la patina aurea, che volesse ingannarlo con belle parole per dare sfogo a pulsioni che di nobile non avevano nulla.
Lui non avrebbe avuto problemi a controllarsi: era ormai abituato a stringere i denti e resistere fino a quando l’attrazione non sarebbe diventata un impulso tutto sommato trascurabile. Ma dopo ciò che era successo tra loro su quel prato, non poteva più avere l’arroganza di pensare che la questione riguardasse soltanto lui, né poteva ridurre ciò che provava per Friedrich a un volgare interesse fisico.

Il tenente von Kleist, le mani dietro la schiena, era in piedi di fronte al tavolino che gli ufficiali della compagnia usavano per le sessioni di Kriegsspiel, e appariva immerso in pensieri che lo alienavano dalla realtà circostante. Non visto, il capitano rimase fermo sulla soglia, a indugiare sulla sua figura che si stagliava come un’ombra scura contro i finestroni alti e stretti: la luce argentata, proveniente da fuori, giocava coi suoi capelli biondi accendendoli di riflessi luminosi, mentre l’uniforme gli calzava addosso come un guanto, esaltando il vigore marziale e la grazia del cavallerizzo che contraddistinguevano il suo portamento.
Stroncando sul nascere pensieri che non avrebbe dovuto neanche formulare, serrò il pugno e bussò contro lo stipite in modo insolitamente brusco.
Il tenente, con un sussulto, si ricompose e scattò sull’attenti. “Signor capitano.”
“Comodo, von Kleist,” disse Bühler, con un gesto sbrigativo. A grandi passi si avvicinò al tavolino, osservò la mappa dispiegata su di esso e, sforzandosi di apparire impassibile, indicò un percorso che vi era stato tracciato. “Mi prepari un ruolino di marcia per una compagnia di fanteria, tenendo conto della conformazione del terreno e dei tempi necessari per giungere alla meta. Nel frattempo andrò a parlare col maggiore von Eltz: ne riparleremo al mio ritorno.”
“Certamente, signore,” rispose von Kleist in tono neutro, ostentando altrettanto distacco.

Il suo superiore lo congedò prima del tempo sperato. Bühler cercò di prendere tempo, vagando per i corridoi illuminati di raggi argentei e osservando la coltre di neve che ammantava il piazzale, su cui la bandiera di guerra del Reich spiccava come una macchia di sangue. Quando finalmente giunse alla sala delle esercitazioni tattiche, il tenente era di nuovo affacciato alla finestra a guardare i fiocchi che volteggiavano pigri nell’aria.
Quella volta, von Kleist si accorse subito di lui. Si voltò nella sua direzione e gli porse il foglio compilato con la sua grafia fitta. “A lei, signor capitano.”
Hans lo prese tra le mani sentendo su di sé lo sguardo del giovane, nel quale non lesse alcun desiderio di accattivarsi la sua simpatia, né una velata insolenza, ma solo quel familiare guizzo di sfida che aveva imparato a conoscere fin dai tempi della simulazione sul campo. Era come se lo esortasse a considerarlo come un pari – cosa che, suo malgrado, lui aveva già cominciato a fare: solo i gradi militari gli imponevano il rispetto di un certo protocollo, ma era mera formalità, una facciata dall’intonaco friabile.
“Molto bene, von Kleist…” iniziò, ma dovette sgranare gli occhi esterrefatto quando, scorrendo nella lettura, si rese conto che l’elenco dei compiti era identico a come lo avrebbe compilato lui. “Molto bene, tenente,” ripeté, recuperando la compostezza, poi strinse le labbra e glielo restituì come se fosse una busta contenente rivelazioni imbarazzanti. “Adesso venga con me.”

Sarebbe un ottimo ufficiale, se solo riuscisse a incanalare le sue energie in modo meno dispersivo, rifletté Hans mentre il rumore dei loro passi risuonava amplificato nel silenzio dei corridoi a volta, attento a non incrociare lo sguardo del tenente.
Se avessero unito le loro forze e le loro menti, se avessero combattuto insieme come avevano fatto a quell’esercitazione, quel sodalizio avrebbe permesso a entrambi di migliorare come soldati. C’erano affinità, una sintonia perfetta, un legame affettivo che si era evoluto al di là di ogni convenienza materiale.
Se fosse dipeso solo da lui, forse anche il sentimento che provava si sarebbe potuto trasformare in una sincera e profonda amicizia, di quelle da onorare fino alla morte. Quell’unione che non giungeva a compimento nel corpo ma nell’anima, trasformando gli impulsi omoerotici in collaborazione per un fine superiore: l’amore per la comunità che ricercava appartenenza e non un legame esclusivo.
Se solo fosse riuscito a ignorare i sentimenti dell’altro, se solo fosse riuscito a dimenticare ciò che era successo tra loro, si sarebbe volentieri preso l’impegno di indirizzarlo in tal senso.
Tuttavia, così saldo nei propri propositi quando si trattava di prendere una decisione strategica, si chiese se mai sarebbe riuscito a trovare dentro di sé la fermezza necessaria per una simile risoluzione.

La tenuta di caccia del Principe von Bentheim und Steinfurt era circondata da ettari di bosco che si estendevano selvaggi a perdita d’occhio, una bianca distesa su cui le sagome degli alberi spiccavano come pilastri silenti. Mentre percorrevano il lungo viale che conduceva alla villa, Reinhardt lasciava vagare lo sguardo fuori dal finestrino: sotto la luce del sole di mezzogiorno, la neve assumeva una trasparenza cristallina, ancora immacolata nonostante fosse già vecchia di qualche giorno. All’improvviso intravide una figura che correva agile tra gli alberi – un capriolo? – per poi scomparire nuovamente tra le ombre grigie.
Non sapeva più da quanto tempo la Mercedes nera stesse attraversando la tenuta quando finalmente intravide, tra gli spiragli lasciati dai tronchi fitti, la mole incombente della villa. Riconobbe la facciata dipinta di bianco e crema, costellata di ampie e regolari finestre, e il tetto rosso, una macchia di colore nel candore onnipresente.
Quando arrivarono, trovarono solo la pace del silenzio ad accoglierli. Scesero dalla macchina, raccolsero i bagagli e si avviarono indisturbati su per la scalinata che conduceva all’ingresso.
“Non c’è nessuno?” chiese Reinhardt, quando si trovavano ormai all’interno dell’androne. La sua voce rimbombò tra le alte pareti affrescate con stucchi colorati e scene d’ispirazione mitologica, mentre i passi riecheggiavano sui pavimenti di marmo. Nessun altro rumore, nessun segno della presenza di altre persone.
“I miei non ci vengono mai quando sanno che ci sono io con gli amici,” rispose Konrad.
Reinhardt rammentò di aver intravisto il padre del giovane, un vecchio generale di brigata in pensione, soltanto un paio di volte da lontano; la madre, invece, l’aveva vista solo in qualche fotografia del decennio precedente, sempre impeccabile nei suoi eleganti abiti di sartoria. Konrad non ne parlava quasi mai, nemmeno con lui, e le poche volte che lo faceva le sue parole erano intrise di un rispettoso e formale distacco: quando gli aveva rivelato la verità sulle sue origini si conoscevano già da tempo, ma egli non si era mai lasciato intimorire e ciò non gli aveva impedito di muovere un ulteriore passo verso di lui, andando oltre le consuetudini sociali e i titoli nobiliari.
Una stretta leggera sul braccio lo distolse dalle sue considerazioni. “Aspettami qui, vado ad avvertire i domestici che siamo arrivati.”
Aveva da poco finito di parlare quando un uomo con una redingote nera si fece avanti accogliendo con deferenza il signor principe e il suo ospite.
Reinhardt rimase da solo mentre l’altro si allontanava per dare alcune istruzioni al domestico, e senza quasi accorgersene i suoi passi lo guidarono fino alla porta laterale, leggermente socchiusa, che conduceva alla sala comune. Al centro troneggiava un enorme camino monumentale, ancora spento, di fronte al quale erano sistemati i divanetti rivestiti di stoffe damascate su cui spesso si sedevano per bere e conversare. Alle pareti erano appese corna di cervo e quadri che ritraevano scene bucoliche o venatorie, e le loro tonalità naturali si armonizzavano con gli arredi in legno, rendendo l’ambiente sobrio e accogliente.
Era già stato lì altre volte, e ogni volta che ci metteva piede gli ritornavano alla mente ricordi che lo facevano sentire a casa.
“Andiamo?”
Al suono di quella voce, Reinhardt si voltò e si trovò di fronte Konrad, che gli rivolse un sorriso indulgente. “Andiamo,” ripeté.
Anche se conosceva ormai a memoria la strada, lasciò che il compagno lo guidasse su per la scala e poi lungo i corridoi illuminati dalla luce chiara proveniente da fuori, fino alla stanza più remota.
Posarono i bagagli e, senza neanche disfarli, richiusero la porta con impazienza e si unirono in un lungo bacio. Non avevano bisogno di parole per esprimere ciò che provavano, per comprendere che era giunto il loro momento. Arretrarono verso il letto e crollarono avvinghiati sulle coltri pregiate, assecondando l’eccitazione che cresceva come un mare in tempesta. Anche se faceva freddo, la vicinanza dei loro corpi bastò a riscaldarli.
Reinhardt si ritrovò disteso sulla schiena, il compagno che incombeva su di lui e lo fissava con occhi accesi, che in quella luce brillavano come scaglie d’argento. Allungò una mano e gliela passò tra i capelli corvini, leggermente arruffati dalla foga, scendendo poi ad accarezzargli la guancia liscia. L’altro emise un sospiro.
“Non ce la facevo più,” mormorò. “Da quanto tempo era che non…”
Konrad non gli diede il tempo di finire la frase. “Abbiamo ancora un po’ di tempo prima di iniziare a preparare per la serata,” sussurrò, con le labbra che sfioravano le sue. “Quando arriveranno gli altri, saremo già lì ad aspettarli.”

Reinhardt appoggiò i gomiti alla balaustra, lasciando che un refolo d’aria frizzante gli scompigliasse i capelli, e si affacciò: alla sommità della terrazza panoramica, proprio sotto il tetto della villa, si poteva spaziare con la vista per un’ampia porzione di parco. Per lui, che viveva in un quartiere periferico di Berlino, quel luogo era un angolo di pace inviolata; perfino la neve, che in città tendeva a trasformarsi presto in mota ghiacciata sotto le ruote dei veicoli e le scarpe dei passanti, aveva un aspetto più puro.
“Ci sarà da spalarne un po’, prima che arrivino gli altri…” disse Konrad, indicando le dune ghiacciate che nascondevano il piazzale alla vista.
“E da raccogliere la legna per il camino.” A quelle parole, Reinhardt strinse le braccia intorno al petto. “Stasera farà molto freddo.”
“Mancano giusto un paio d’ore al calar del sole, ci conviene andare subito.”

Trascorsero il resto del pomeriggio a spalare la neve e a spaccare la legna per i giorni successivi, felici soltanto di godere della reciproca presenza.
Reinhardt levò lo sguardo verso il cielo che iniziava a scurirsi. “Abbiamo finito prima del tempo,” constatò con un sorriso. Contro lo sfondo bianco del paesaggio, i suoi capelli apparivano più luminosi e i suoi occhi sembravano due zaffiri trasparenti.
Mentre lo guardava, Konrad rifletté che il loro rapporto, anche nella sua accezione più segreta, non era che la naturale evoluzione dell’amicizia e del cameratismo che li legavano fin dai tempi della scuola militare: collaboravano per un fine condiviso, si sostenevano l’un l’altro e traevano piacere dalle attività più semplici, senza curarsi delle convenzioni.
Soddisfatti del loro lavoro, portarono dentro alcune ceste di legna e accesero il camino della sala comune. Ormai, fuori era buio pesto, ma la luce soffusa prodotta dal fuoco era sufficiente a illuminare l’angolo in cui si erano fermati a riposarsi, pensando a tutto ciò che avrebbero potuto fare insieme nei giorni successivi.
Ora che quel rifugio era tutto per loro, non avevano più da preoccuparsi di niente, né sentivano l’esigenza di rinfocolare costantemente la fiamma della passione.

“Ah, quello che io so, tutti lo possono sapere –
ma il mio cuore lo possiedo io solo!”

Seduto su uno dei divanetti rococò della sala di lettura, un vecchio libro aperto sulle ginocchia, Friedrich von Kleist guardava i fiocchi di nevischio che danzavano pigri fuori dalla finestra, avvolgendo le querce del parco in una sorta di velo evanescente. L’atmosfera era eterea, e il silenzio che regnava nelle stanze della villa accentuava quell’impressione di pace. Solo il ticchettare dell’antico orologio a pendolo gli ricordava che il tempo continuava a scorrere, inesorabile, incurante dei suoi sogni in bilico ai confini della realtà, delle leggi imperscrutabili che la governavano e dei sentimenti che poteva riversare solo nella lettura. Più si concentrava su quel suono meccanico, più si sentiva inquieto, quasi rimpiangendo i giorni in cui il servizio militare e la possibilità di uscire fuori a cavalcare tenevano occupata la sua mente.
Il pensiero che Konrad lo avrebbe presto ospitato per qualche giorno nella sua tenuta, per una battuta di caccia tra amici, era l’unica cosa in grado di rasserenarlo.

Un leggero bussare alla porta annunciò la comparsa di un domestico. “Signor conte, suo fratello Manfred è appena arrivato.”
Friedrich si riscosse di colpo dalla sua malinconia. “Grazie, Johann. Il tempo di prepararmi e lo raggiungo subito…”
Non ebbe ancora finito di parlare che una seconda figura si materializzò alle spalle dell’uomo, scambiò con lui un paio di brevi frasi e lo congedò con un gesto sbrigativo.
Quando Johann se ne fu andato, Manfred chiuse la porta della sala mentre il fratello si alzava per accoglierlo coi soliti convenevoli.
Tra i fratelli von Kleist, erano loro i mezzani: Jürgen si avvicinava alla trentina e Siegfried era ancora adolescente. Gemelli, nati a poca distanza l’uno dall’altro, erano simili in tutto e per tutto – stessa altezza, stessa corporatura, stessi lineamenti – anche se i capelli biondi di Manfred erano di una tonalità più calda e gli occhi di un azzurro più profondo.
La mantella blu scura che l’aviatore indossava era leggermente spruzzata di fiocchi di neve, fermata sul davanti da una catenella e da due bottoni con una testa d’aquila; sulla spalla era ricamata l’aquila della Luftwaffe, che in volo ghermiva una svastica tra gli artigli. Si avvicinò con disinvoltura al divano e sbirciò il libro che Friedrich aveva abbandonato per andarlo a salutare. “I dolori del giovane Werther…” Alzò gli occhi su di lui e non poté trattenere un ghigno sardonico: il berretto da ufficiale, tenuto con negligenza sulle ventitré, accentuava il luccichio impertinente nel suo sguardo. “Turbamenti sentimentali in vista?”
Friedrich, punto sul vivo, si schermì. “Non mi aspettavo che arrivassi proprio adesso, ma stavo per venire ad accoglierti nel salotto verde,” si difese, cambiando discorso. “Vorrai cambiarti, disfare i bagagli e…”
“E raccontarti quello che è successo in Spagna,” completò l’altro, dimenticando la curiosità che lo aveva assalito poco prima. “Mentre tu vorrai sicuramente… parlarmi della tua ultima gara di completo, del nuovo comandante di compagnia a cui mi accennasti, e delle pene che ti affliggono.”
“Certo.” Il giovane ignorò volutamente l’ultima allusione, che per lui era un tutt’uno con la seconda. “Faccio portare un caffè, dei biscotti, qualcosa da bere?”
“Quello che offre la casa”, rispose Manfred con una scrollata di spalle.

Una ventina di minuti dopo erano seduti sulle poltroncine di velluto verde smeraldo del salotto, le cui pareti erano dipinte di una tonalità pastello stesso colore. Friedrich, le gambe accavallate e un bicchiere di liquore alle erbe tra le mani, osservava i quadri a tema bucolico appesi alle pareti, ascoltando i racconti del fratello.
“Mi hanno confermato la prima vittoria aerea sopra i cieli di Madrid,” stava dicendo Manfred.
Egli accennò un leggero sorriso: nella sua uniforme blu, con le mostrine gialle su cui erano ricamati due rametti di quercia e un gabbiano, simbolo del suo grado, suo fratello sembrava un araldo del rinnovamento tanto a lungo auspicato. “Prima o poi diventerai un asso, ne sono sicuro.”
“È difficile descrivere le meraviglie del cielo a chi non ha mai provato l’ebbrezza del volo,” divagò l’altro, con aria trasognata, “ma da quelle altezze è come guardare il mondo da un’altra prospettiva. Mentre sei lassù, puoi cogliere i riflessi del mare e dominare dall’alto le cime innevate delle montagne… è qualcosa di indescrivibile. Ma credimi, niente è come vedere le nuvole che ti fluttuano intorno, così vicine da poterle toccare…” Fece una breve pausa, gli occhi socchiusi come se stesse cercando di imprimere nella memoria quelle sensazioni. “E quando c’è da combattere, ti tornano in mente storie di antichi cavalieri: sfrecciare alla ricerca di un avversario, lanciarsi in picchiata, impegnarlo in un duello… vista da lassù, perfino la paura della morte diventa qualcosa di effimero.”
Friedrich rimase a lungo in silenzio: non poteva negare di essere sempre stato affascinato dai racconti di volo, dallo spirito che animava gli aviatori ormai assurti, nell’immaginario collettivo, al rango di figure leggendarie… era come una pulsione che conduceva verso altezze ineffabili, come i pionieri, i profeti, gli intellettuali e le aquile solitarie che sfidavano le vette più alte, involandosi fino a toccare le nuvole nel totale sprezzo della morte. Anche lui si premurava di consacrare la sua vita a quegli slanci, senza chiedere in cambio nulla per sé se non la loro realizzazione. Tuttavia, per quanto la metafora del volo risuonasse coi suoi ideali, si sentiva come un profano, un laico a cui la conoscenza di certi misteri era preclusa: il pensiero di pilotare un aeroplano, di librarsi nel vuoto gli aveva sempre trasmesso una sorda inquietudine, come se ogni ascesa dovesse portare con sé il timore dello schianto.
Manfred, invece, avrebbe potuto parlarne per ore sapendo che lui non si sarebbe mai annoiato ad ascoltarlo, lieto di condividere con lui parte del suo mondo, che fin dai tempi della fanciullezza aveva portato le loro strade a un bivio. Continuò fino a quando Johann non tornò a bussare alla porta, annunciando che la vettura era pronta per la partenza.

Quando i due fratelli arrivarono alla tenuta di caccia, oltre a Konrad e Reinhardt, trovarono ad aspettarli anche Paul von Seydlitz e Werner von Tannenberg. Erano tutti e quattro nella sala comune, seduti a chiacchierare sui divanetti di fronte al camino.
“Waidmanns Heil!” esclamarono, in segno di saluto.
“Alexander non c’è?” chiese Manfred, guardandosi intorno in cerca del sottotenente von Falkenstein-Kurzbach.
“Non è ancora arrivato,” rispose Konrad, con un’alzata di spalle. “Manca solo lui… ovviamente.”
Werner, seduto vicino al fuoco, allungò le gambe e ridacchiò. “Quando lui arriverà in orario, sarà solo perché non si è accorto che le lancette del suo orologio vanno un’ora avanti.”
Von Seydlitz si levò in piedi con un movimento elegante e indicò la bottiglia custodita dentro il secchio del ghiaccio. Quella sera si era presentato con l’uniforme da ussaro nero appartenuta a suo nonno, con tanto di guanti bianchi e berretto di pelliccia ornato dal simbolo della testa di morto. “Vorrà dire che, se tarderà come di suo solito, ci gusteremo questo champagne senza di lui…”
“Fa’ poco lo spiritoso, Paul”, lo rimbeccò una voce proveniente dall’ingresso. Tutti si voltarono in quella direzione e il nuovo arrivato, un ragazzo biondo, non molto alto, li raggiunse al tavolino.
L’altro lo squadrò con sussiego e sollevò la bottiglia. “Adesso che il nostro barone ci degna della sua presenza…”

Trascorsero la serata tra bevute, risate e chiacchiere, mentre il fuoco scoppiettava allegro nel camino. Manfred raccontava aneddoti della guerra civile spagnola, gli altri condividevano impressioni sulla vita militare che tutti, più o meno consapevolmente, avevano scelto fin dai tempi del collegio; né mancavano le facezie, dettate dalla familiarità instauratasi tra loro in lunghi anni di conoscenza, le canzoni e i giochi di società.
Friedrich, invece, non riusciva a lasciarsi trascinare dall’allegria dei suoi compagni, neanche dopo il terzo bicchiere. Sentiva von Seydlitz che decantava le gesta del nonno con l’enfasi di un antico poeta di corte e von Falkenstein che in sottofondo strimpellava una melodia popolare alla chitarra, ma quei suoni continuavano a giungergli ovattati e distorti.
Mentre fissava come ipnotizzato le fiamme che si contorcevano pigre divorando il legno impregnato di resina, continuava a crogiolarsi, come in un ciclo ripetitivo, nel pensiero dell’imminente battuta di caccia: il senso di comunione con la natura, l’ebbrezza venatoria, mentre il vento freddo gli soffiava tra i capelli e gli scarponi affondavano nella neve…
“Friedrich, sei dei nostri?”
Il giovane alzò la testa e si trovò di fronte Reinhardt, che con un cenno del capo gli indicò il tavolino alle sue spalle, dove von Seydlitz stava versando da bere nel bicchiere di Werner e von Falkenstein stava mescolando un mazzo di carte. Subito dopo, anche Konrad li raggiunse. “Facciamo una partita a Skat: si gioca a perdere…”
“… e vediamo di far perdere Paul!” esclamò di rimando von Falkenstein.
A quelle parole, Konrad scosse la testa con indulgenza e Reinhardt si voltò verso di lui ridendo. “Un motivo in più per unirsi…” sentenziò il primo, a bassa voce.
Friedrich, suo malgrado, non poté fare a meno di stirare le labbra in un pallido sorriso. “Se c’è da far perdere mio cugino, nessuno può farlo meglio di me!”

Friedrich scese dal letto nella camera degli ospiti e rabbrividì leggermente per il freddo. Era notte fonda, e la luce della luna disegnava un fascio argentato sul tappeto orientale e sulla parete, illuminando lo specchio e una poltroncina chiara con cuscino abbinato. A parte il sommesso ticchettare dell’orologio, il resto della magione era completamente immerso nel silenzio.
Il giovane indossò la sua vestaglia di seta scura e si avvicinò alla finestra, lasciando spaziare lo sguardo attraverso il parco innevato, lambito dai raggi lunari. Da distanze siderali, le stelle punteggiavano il cielo come piccoli brillanti: un eterno attimo di pace, in cui il tempo perdeva consistenza e l’uomo rimaneva solo dinanzi alla contemplazione dell’Assoluto. Si augurò che il clima si mantenesse sereno anche nei giorni successivi, in modo da non dover rimandare la battuta di caccia.
Quella sera, lui e i suoi amici si erano trattenuti fino a tardi a giocare a carte, una delle poche volte che la disciplina militare cedeva il passo agli svaghi. Alla fine, dovette ammettere, si era divertito: aveva rivisto suo fratello dopo molti mesi, si trovava in un ambiente familiare e disteso insieme ai suoi amici più stretti…
Tranne uno.
Sussultò quando si rese conto che, mentre formulava quel pensiero, gli era involontariamente balenata l’immagine di Hans. Strinse i denti, cercando invano di scacciarla.
Lui… si sarebbe sentito sicuramente a disagio.
Lui era ombroso, inespugnabile come un bastione in pietra e altrettanto solido, un saggio comandante che in rari momenti sfoderava la sua segreta indole da lanzichenecco. Lo rivide dare alla compagnia l’ordine di attaccare, brandire un fucile a salve e piombargli addosso con la velocità di un felino per spingerlo in copertura: aveva fatto tutto ciò senza dire una parola a riguardo, come se i proiettili che gli avevano sfiorato la spalla mentre lo proteggeva fossero un dettaglio trascurabile.
Fermo e saldo, ma al contempo sfuggente… entrambe le nature coesistevano in lui, e Friedrich realizzò che era stato proprio quello ad affascinarlo: se si fosse mostrato più condiscendente, se si fosse svelato fin da subito, non avrebbe mai attirato la sua attenzione.
Tuttavia, non se la sentiva neanche di biasimarlo per aver fatto dietrofront, pur non riuscendo del tutto a nascondergli ciò che solo loro due sapevano. Avere una relazione con un superiore era qualcosa di impraticabile, che avrebbe rischiato di creare situazioni imbarazzanti anche all’interno della stessa compagnia.
Forse avrebbe potuto dimenticare ciò che era successo e mettere da parte il desiderio di un legame esclusivo, ma senza rinunciare al cameratismo – lasciare che il Bund, quello destinato a rimanere un segreto inconfessabile, si traducesse in una disinteressata amicizia.
Dopotutto, non era la prima volta che decideva di lasciar perdere un amore non ricambiato: quella persona, a distanza di anni, era ancora un suo carissimo amico, e non aveva mai saputo nulla dei suoi tormenti. Con lui, però, la situazione era diversa, e ciò che più lo allontanava da quella risoluzione era sapere che l’altro provava gli stessi sentimenti.
Con un sospiro arretrò verso il letto e, liberatosi della vestaglia, si lasciò nuovamente scivolare sotto le coperte: avrebbe provato a concentrarsi solo sull’attimo presente e sui giorni a venire, come gli aveva consigliato Reinhardt, senza preoccuparsi di ciò che avrebbe fatto dopo. Ma sapeva già che gli ci sarebbe voluto del tempo prima che gli occhi gli si chiudessero, permettendo alla mente di abbandonarsi al riposo tanto agognato.

Le trame ghiacciate avevano reso gli alberi simili a solide statue di cristallo, intorno alle quali le sagome dei battitori e degli esploratori si aggiravano alla ricerca di tracce della preda. I cacciatori prestavano attenzione a ogni singolo segnale, coi fucili in spalla e i binocoli appesi al collo, un bastone per sondare il terreno: avevano iniziato la loro ricerca all’alba, dividendosi in due gruppi, ma molto probabilmente avrebbero continuato fino al calar del sole. Ogni tanto qualche ramo spezzato, sommerso da un sottile strato di neve, crepitava sotto i loro passi; il fiato caldo si condensava in piccole nuvolette di vapore. In lontananza si udiva il placido gorgogliare di un ruscello intrappolato sotto il ghiaccio, lo stridio di un rapace o il fruscio furtivo di fronde smosse; tutto il resto era silenzio immacolato.
Friedrich respirò l’aria fredda e l’odore pungente delle conifere: la bellezza selvaggia, incontaminata, della natura, era come un balsamo che lo fece sentire rinvigorito.
Nessuno di loro – neppure Manfred, che di solito era uno dei più loquaci – proferiva parola, per non perdere la concentrazione o spaventare le bestie. Avvolto nel suo cappotto pesante, l’aviatore camminava col cappello ben calcato in testa e le braccia strette intorno al petto.
Leggermente più avanti c’erano Konrad e Reinhardt: il primo, appostato dietro un cespuglio rinsecchito, stava scrutando la boscaglia attraverso le lenti del binocolo, mentre l’altro seguiva attentamente i movimenti di uno dei segugi e li riferiva all’amico. Anche se nel loro gruppo era l’unico a non vantare ascendenze nobili, in ossequio allo spirito venatorio, che si diceva accomunasse tutti gli uomini liberi senza alcuna differenza di ceto o professione, il tenente Greifenberg appariva perfettamente a suo agio insieme a loro.
“Ci siamo quasi”, dichiarò Friedrich a bassa voce, rivolto al fratello. Manfred von Kleist si limitò ad annuire, la bocca chiusa per non battere i denti, poi si coprì la parte inferiore del volto con la sua spessa sciarpa di lana e si avvicinò a Konrad.
“Il cane ha trovato qualcosa: il cervo è passato da qui”, confermò Reinhardt, passando in testa al gruppo, “mettiamoci sulle sue tracce.”

Il suono di un corno segnalò l’avvistamento del cervo. I segugi squarciarono la tensione con latrati selvaggi, i quattro giovani prepararono binocoli e fucili e si sistemarono in attesa, chi dietro un albero e chi semplicemente acquattato tra le frasche, ognuno desideroso di rivendicare l’abbattimento. Sfruttando la protezione di una grossa quercia, Reinhardt aguzzò la vista: in quel punto, la vegetazione di conifere era fitta e il terreno irregolare impediva di muoversi agevolmente tra rami caduti e buche insidiose nascoste sotto la neve.
“Eccolo,” disse Konrad in un sussurro.
Quando il cervo apparve, incorniciato da uno spiraglio tra i rami spioventi degli abeti di una radura, entrambi rimasero impressionati: così vicino da poter essere visto a occhio nudo, era una creatura maestosa, con due enormi impalcature di corna e un fitto mantello screziato di grigio. I suoi occhi attenti perlustrarono la boscaglia e passarono oltre, ma qualcosa nel suo incedere lasciava intuire che avesse fiutato il pericolo.
Reinhardt attese che fosse a tiro, prese la mira trattenendo il respiro e i colpi di due fucili – il suo e, forse, quello di Friedrich – riecheggiarono quasi all’unisono.
La bestia, messa in allarme da quei rumori, si guardò intorno spaventata e scomparve di gran corsa nel reticolo di alberi, emettendo cupi bramiti.
Fu proprio l’ufficiale delle Waffen-SS il primo a riemergere dal suo nascondiglio, esortando il compagno a seguirlo. “Lo abbiamo preso.”
Si incamminarono verso la radura, di tanto in tanto sollevando il binocolo per vedere se riuscivano a scorgere l’animale. Trovarono i due fratelli von Kleist che stavano già perlustrando la zona, mentre i segugi annusavano le tracce di sangue che spiccavano come petali sul candore della neve. “È fuggito,” spiegò Friedrich con un’alzata di spalle, per poi chinarsi a studiare le vestigia impresse per terra. “È probabile che sia andato a morire da qualche parte…”
Non sapendo a chi appartenesse la pallottola decisiva, Reinhardt gli riservò l’onore di segnare l’Anschuss: Friedrich spezzò un lungo ramo di abete rosso e lo conficcò nella neve, nel punto esatto in cui l’animale era stato colpito. “Facciamo così,” concluse poi, voltandosi di nuovo verso di lui, “adesso, il primo di noi due che lo vede avrà il diritto di finirlo o di reclamare l’abbattimento.”

La ricerca era ricominciata da poco quando i latrati dei segugi irruppero nella quiete carica di tensione. Una secca detonazione rimbombò nell’aria tersa e i corni li avvertirono che il cervo era morto. Presto, a quel suono trionfale si susseguirono vari echi che rimbalzarono contro i tronchi degli alberi, dando l’impressione di pervadere l’intera foresta.
Friedrich e Manfred, che teneva ancora le mani avvolte in pesanti guanti di lana, giunsero sul posto pochi istanti dopo. Vicino a un torrente esiguo, soffocato da un argine di neve e lastre di ghiaccio, il cervo giaceva col fianco esposto, gli imponenti palchi di corna come la corona di un re caduto. La musica argentina dell’acqua faceva da contraltare al raccoglimento dell’atmosfera.
Reinhardt poggiò il fucile accanto alla carcassa e Konrad si avvicinò per aiutarlo a praticarle la tradizionale incisione sul petto. Friedrich e suo fratello si mantennero a qualche passo di distanza, per non disturbarli mentre insieme celebravano quell’antichissimo rituale: in quel momento, gli sembrarono più vicini che mai.
Da uno degli abeti che costeggiavano il rivolo d’acqua, i due giovani staccarono tre fronde: la prima fu deposta nel foro d’entrata del proiettile; le altre furono intinte nel sangue dell’animale e Konrad depose la propria sul lato sinistro del berretto del compagno, per onorare l’abbattimento.
“Waidmannsheil,” esclamò poi, porgendogli la mano destra.
“Waidmannsdank!” rispose Reinhardt, mentre la stringeva con forza e gli sistemava il rametto sul lato destro del cappello.
Un quarto rametto fu offerto al cervo sacrificato come simbolico ultimo boccone e un brindisi con un goccio di Schnaps accompagnò il saluto dei cacciatori.
E mentre il cielo freddo s’infiammava delle prime, calde luci del tramonto, tra gli alberi si propagò il suono che annunciava la fine e il successo della battuta di caccia.

  
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