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Autore: DianaSpensierata    01/09/2019    1 recensioni
"Mi mancava non sapere che cosa dire, mi mancava essere spiazzata dal suo irresistibile modo di fare, mi mancava il suo sguardo che sapeva e il suo sorriso che non necessitava parole, mi mancava avere qualcuno con cui poter parlare a quel modo. Mi mancava lui, in tutto il suo complicato e affascinante essere, a volte così forte che non riuscivo nemmeno a darmi della stupida."
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jackson Family, Martin Bashir, Michael Jackson, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 7. You are not alone
 
 

– Sei pronto, tesoro? – urlai al di sopra della mia spalla, mentre litigavo con la serratura della macchina.
– Arrivo! – Ronan corse fuori di casa, vestito di una t-shirt e un paio di jeans.
– Ron, per favore, mettiti qualcosa sopra, ti scongiuro –.
– Ma ho caldo! –
Che strano, mi dissi. Aveva passato la mattinata a saltellare e gridare per casa tutto emozionato. – Ma dopo ti verrà freddo, perchè è il 23 dicembre, tesoro. –
Piuttosto controvoglia, rientrò e si vestì, ma una volta uscito aveva già recuperato il suo buonumore. Si infilò nell’auto che finalmente ero riuscita ad aprire (giustamente, visto che per un quarto d’ora avevo provato a farlo con le chiavi di casa…), e dopo aver fatto un riepilogo mentale di ciò che avevo preso per Ron, chiusi la porta d’ingresso e mi sistemai al posto di guida, accompagnata dal continuo chiacchiericcio di mio figlio.
Ad un tratto, dopo qualche minuto che eravamo partiti, questo si interruppe. – Mamma? –
– Dimmi, tesoro –.
– Sei triste? –
La domanda non mi stupì particolarmente. – Perché me lo chiedi? –
– Così – ovviò.
La verità è che aveva buonissimi motivi per chiedermelo. Per giorni ero stata taciturna, chiusa, pensierosa, e anche un po’ più distante da lui. Ne ero dispiaciuta, ma non mi riusciva di fingermi allegra, quando avevo mille pensieri per la testa.
Il primo, e quello che mi bruciava di più, riguardava la nuova compagna di Tom. Mi faceva stare male lasciare mio figlio a una donna su cui non avevo nessuna informazione, a parte le cattiverie immaginarie che avevo raccolto nei miei pensieri di quelle settimane. Temevo che si sarebbero trovati a disagio, ma forse ancora di più che potesse avvenire il contrario. E se lei avesse cercato di prendere il mio posto e farsi bella agli occhi di Tom avvicinandosi a mio figlio? E se Ron ci fosse cascato? Avevo molta stima di mio figlio e della sua sensibilità, ma queste erano dinamiche che andavano al di là dei miei semplici andamenti d’umore, al di là di quei pochi e scarni rapporti che poteva osservare nel mio mondo.
A proposito di rapporti…
Un altro pensiero che mi tormentava era, lo ammetto, Michael. Perché era sparito. Letteralmente. Non l’avevo più incontrato al parco, né si era fatto sentire, né mi aveva fatto la sorpresa promessa. E, odiavo ammetterlo, ma mi stava mancando terribilmente.
Mi mancava non sapere che cosa dire, mi mancava essere spiazzata dal suo irresistibile modo di fare, mi mancava il suo sguardo che sapeva e il suo sorriso che non necessitava parole, mi mancava avere qualcuno con cui poter parlare a quel modo. Mi mancava lui, in tutto il suo complicato e affascinante essere, a volte così forte che non riuscivo nemmeno a darmi della stupida.
Il ripensarci mi fece venire un groppo in gola, di nuovo troppo intenso da poter essere sminuito. – Ho solo un po’… di nostalgia, diciamo –.
– Di cosa? –
– Beh, innanzitutto sarà il primo Natale che passiamo distanti…–
– Non è vero. Ti ho detto che ti chiamerò e staremo al telefono a parlare tutto il giorno! –
Scoppiai a ridere. – Non vedi mai tuo padre, Ron. È giusto che tu stia con lui tutto il tempo che puoi. Ma anche se è giusto, non vuol dire che non mi mancherai. –
– Anche tu mi mancherai, mamma – disse sinceramente, facendomi sorridere. – E l’altra cosa? –
– Scusami? –
– Hai detto che “innanzitutto”…? – mi guardò come a chiedere conferma se aveva detto la parola correttamente; al mio cenno di assenso proseguì – avrai nostalgia di me. E di cosa? –
Mi morsi il labbro. Oh, al diavolo, Ronan era il mio unico confidente in quel momento, e se non ne avessi parlato con nessuno sarei andata fuori di testa. – Credo di avere un po’ di nostalgia della famiglia Jackson – ammisi.
– Anche io! Magari quando torno li andiamo a trovare, no? –
Sorrisi. – Non è così facile, Ron. Michael ha molti impegni e non è semplice mettersi in contatto con lui. So che sta lavorando a una specie di film, quindi non me la sento di disturbare – senza contare il fatto che io il suo numero non lo avevo (né mai mi sarei sognata di chiederlo), e che ricordavo solo vagamente dove abitava. Comunque ovviamente non mi sarei mai permessa di fare un’improvvisata a casa del Re del Pop (sì, una parte di me lo vedeva ancora così, che ci posso fare) solo perché mi andava e avevo il cuoricino debole. Ero un’adulta, cristo santo.
– Anche Paris sta facendo il film? –
– Non credo…–
– Allora io potrei comunque giocare con lei, vero? –
Sorrisi di nuovo. – Credo di sì. Ce ne occuperemo quando torni. Ma ora – soggiunsi, guardandolo con aria furba, – mettiamo su un bel cd di canzoni natalizie e entriamo nello spirito. –
Così facemmo; cantammo insieme per tutto il viaggio fino a San Francisco; mentre io, nel mio cuore, non avrei voluto che sentire la sua musica.
 
Vedere Ronan correre incontro a suo padre, felice, mi fece dimenticare ogni sciocco risentimento o timore. Che si riaffacciò però dopo pochi secondi, travestito da ventenne bionda fasciata di rosso dal berretto ai tacchi. Che comunque la lasciavano più bassa di me, cosa che cercai di sottolineare alzando il mento quando Tom ci presentò. Dunque lei era Alice.
Non entrai nemmeno in casa. Tutti e tre insistettero più volte, ma non cedetti. Volevo andarmene e dedicarmi al mio solitario e triste Natale. Scambiai due parole con la ragazza (che constatai essere anche molto gentile e spiritosa, accidenti… beh, non potevo essere certo io a negare che il mio ex avesse buon gusto), presi qualche accordo con Tom, e lo lasciai insieme a mio figlio e a una manciata di raccomandazioni superflue. Sapevo che sarebbero stati bene.
Lasciai San Francisco così come l’avevo raggiunta, sovrappensiero e piuttosto mogia, mentre case e vite che, almeno viste da fuori, sembravano così… piene, mi scorrevano davanti agli occhi. D’altronde lo si dice spesso, è più facile sentirsi soli in mezzo al mondo, che quando lo si è veramente. Certo le cose non mi sembrarono tanto diverse mentre, rientrata a casa a tarda sera e ordinata una pizza, le lancette si avvicinavano pericolosamente a una vigilia che per la prima volta avrei passato da sola. Non ho mai avuto un grande talento nel distrarmi dai pensieri negativi, non sono esattamente il tipo di persona che sorride come se niente fosse quando dentro ha solo un fumo grigio. Mi piace pensare che sono semplicemente sincera con me stessa, ma questa è già una prima bugia: sono solo un’infantile vittima, ecco.
Nonostante questa consapevolezza decisi di cedere e di lasciare a Michael il compito di convincermi che sola non ero, attraverso lo stereo di un salotto che tuttavia non era mai stato così freddo, così vuoto. Piansi nel rendermi conto che non mi mancava mio figlio: mi mancava un amico.
 
La sera successiva trascorse più o meno allo stesso modo. Qualche fetta di pizza, qualche lacrima, qualche nota, come in una sorta di triste deja vù. Più la voce di Michael mi cantava che non ero sola, più mi ci sentivo, perché non lo stava cantando per me, non era lì. Non era stato lì per settimane.
Sapevo che era strano. Mi conoscevo e conoscevo molto bene il mio lato melodrammatico, eppure in quell’atteggiamento, in quei pensieri ma soprattutto in quelle emozioni c’era un qualcosa di diverso. Non era una nostalgia che mi ero cercata per il masochista desiderio di farmi un bel pianto, no, era lei che era venuta a scovarmi, fino nell’angolo più buio della mia casa, anche nei giorni in cui avevo provato a pensare, fare altro. La vita era continuata, senza dubbio; eppure qualcosa di me si era congelato, immobile all’istante in cui avevo salutato Michael per l’ultima volta. Lo ripeto, avrei voluto darmi dell’idiota, lo facevo sempre in quelle situazioni per sdrammatizzare: ma non ci riuscivo. Quello che sentivo era troppo forte.
Mi riscossero alcuni colpi alla porta. Una rapida seppur inutile occhiata allo specchio, mi strinsi nel cardigan e aprii. Non c’era nessuno, e stavo già per darmi della pazza allucinata (quello lo facevo sempre senza alcuna fatica) quando qualcosa attirò la mia attenzione. Un piccolo e morbido involto, ai miei piedi. Incerta, lo raccolsi, e dopo che il mio tatto ebbe assicurato che non si trattava di nulla di pericoloso, né di vivo, né che avrebbe dovuto esserlo (avevo ben troppa familiarità con la cinematografia horror e thriller…) lo portai in casa. Mi risistemai sul divano e iniziai a svolgermelo in grembo. Un accappatoio blu chiaro (ancora oggi, non ho proprio capito come avesse potuto indovinare il mio colore preferito), con un piccolo set da nottata fuori (spazzolino, dentifricio, sapone) nella grande tasca. E un biglietto.
Questi sono per la prossima volta… no, non mi sono dimenticato di quella promessa”.
Lo strinsi al petto con un sorriso. Non ero sola…






Angolo autrice:
Sembra impossibile riprendere in mano una storia dopo oltre tre anni, vero? Credevo non sarebbe mai successo, eppure ieri qualcosa mi ha detto di farlo. Così ho recuperato il file e sono tornata ad innamorarmi di Michael e Claire...spero sarà così anche per voi, lettori vecchi e nuovi. The show must go on! Un abbraccio a tutti coloro che sono rimasti fedeli a questa pagina ed hanno continuato a pubblicare, tornerò presto a leggere anche le vostre di storie, promesso.
   
 
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