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Autore: Adeia Di Elferas    02/09/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Ercole guardò con aria infastidita il figlio che al suo fianco teneva gli occhi bassi sulle proprie mani, come a controllare per l'ennesima volta la condizione pietosa delle sue piaghe.

Era un vero peccato che il mal francese di cui soffriva Alfonso avesse deciso di avere un acuzie proprio in quei giorni, ma ormai l'Este aveva deciso di andare a Pavia dal re di Francia, e così avrebbe fatto.

Il viaggio sul Po si stava dimostrando molto più impervio del previsto. Anche se il cielo grigio non aveva mai lasciato cadere nemmeno un goccio di pioggia, il vento che aveva spirato in più occasioni li aveva rallentati. Ormai erano quasi a destinazione, eppure Ercole aveva ancora paura che potesse capitare qualcosa di catastrofico.

“Smettila di fissarti le mani.” disse, a denti stretti, quando si rese conto di essere ormai quasi in vista della delegazione che li stava attendendo sulla riva pavese: “Infilati i guanti e basta.”

Alfonso, che aveva seguito il padre di malavoglia, altrettanto malvolentieri fece quello che gli veniva detto e poi, con un'espressione contrariata che nulla e nessuno sembrava capace di togliergli dal volto, si mise a osservare l'orizzonte.

Il Duca di Ferrara dovette fare del suo meglio per riuscire a ignorarlo e non farsi rovinare completamente l'umore da lui. I capelli grigi smossi dal vento freddo che spirava sul fiume, l'Este strinse gli occhi fino a riconoscere le prime bandiere francesi. Fece allora un cenno ai suoi, chiedendo loro di mettersi in formazione.

Quando l'imbarcazione arrivò davanti al re di Francia, l'effetto fu sorprendente. Ercole aveva dispiegato ben trecento cavalieri scelti, facendoli vestire tutti quanti da soldati francesi. La ricchezza degli abiti che indossavano e dei finimenti dei cavalli era ineguagliabile e perfino Alfonso, che pure se ne stava un po' curvo, riottoso a ogni forma di etichetta, sembrava degno delle imprese dei grandi guerrieri del passato.

“Mi raccomando – disse, tra i denti, il Duca, appena prima che fossero abbastanza vicini alla riva per sbarcare – se una di queste notti vengo a sapere che sei andato in giro a cercare una di quelle donne vecchie e grasse con cui ti rintani quando sei a casa..!”

Il figlio colse benissimo l'avvertimento e, evitando di ribattere troppo a tono, rispose alla minaccia con un gelido: “Non voglio recar disturbo al re di Francia facendomi uccidere da mio padre mentre sono in visita da lui.”

Tramontana, così anche Alfonso, nella sua mente, chiamava il padre, gli scoccò un'occhiataccia tremenda, ma ormai era tardi per accendere una discussione. Stirando le labbra nel miglior sorriso che gli riuscì, il Duca di Ferrara diede ordine di far accostare la barca e, mentre i tamburini del re di Francia rullavano in suo onore, Ercole sollevò una mano per salutare Luigi, l'uomo da cui poteva dipendere la sua stessa vita.

 

Il Consiglio di Guerra era stato lunghissimo e difficile. Poter dare un nome molto preciso al nemico e poter cominciare a fare qualche stima sulle tempistiche dell'attacco si erano rivelati due punti di svolta notevoli, nell'impostazione della discussione.

Caterina aveva cercato di gestire come meglio poteva gli animi spesso troppo agitati dei suoi Capitani, ma non aveva potuto impedire qualche mezza zuffa. Aveva lasciato che le diatribe nascessero e si spegnessero da sole e aveva provato a cogliere il buono in ogni intervento di ciascun presente.

Di fatto, però, i suoi quadri di comando parevano spaccati in due tronconi. Se da una parte alcuni invocavano un accentramento a Forlì delle forze fin dal primo momento, dall'altra c'era una nutrita schiera di uomini convinta che fosse necessario rafforzare Imola e usarla come ammortizzatore, andando a infrangere – e magari, ottimisticamente, spegnere – l'onda d'urto francese.

“Certo – aveva detto a un certo punto la Tigre, prendendo la parola subito dopo Rossetti, che aveva sottolineato l'importanza di non perdere Imola troppo rapidamente – è una possibilità che potrei prendere in considerazione se avessi tutti gli uomini che voglio...”

Lasciando momentaneamente in sospeso la scelta di una linea difensiva univoca, il discorso si era spostato su Naldi e sulla sua carica di castellano della rocca di Imola. Il condottiero sarebbe partito a giorni, ed era quindi fondamentalmente potergli dare indicazioni più che precise, in modo da dare immediatamente il corretto assetto ai suoi soldati.

Di fatto, però, si era lasciato in sospeso anche quell'argomento e la riunione era stata sciolta quando ormai si stava avvicinando la sera.

Presi com'erano dalle contingenze del momento, i presenti non avevano fatto nemmeno una breve pausa per pranzare, e così, a quell'ora, si erano ritrovati tutti affamati e stanchi.

“Stamattina ho visto partire Marulli...” fece Luffo Numai, avvicinandosi a Caterina, mentre lasciavano la Sala della Guerra per andare a cenare.

“L'ho mandato a Milano.” disse subito lei, sperando di scansare le domande del Consigliere.

Per quel giorno, non ne poteva più di parlare. Voleva solo mettere qualcosa nello stomaco e poi andare a riposare. Era stata una giornata sfiancante, passata tutta all'interno della stessa stanza e la Tigre non credeva di poter reggere oltre.

Si guardò un momento alle spalle, per vedere se Galeazzo la stesse ancora seguendo. Quella mattina, quando il Consiglio si era radunato, si era presentato anche Bernardino, ma poi, dopo circa un paio d'ore, se n'era andato, annoiato e forse anche un po' innervosito dalla sua incapacità di seguire appieno i discorsi degli altri. La Sforza l'aveva lasciato andare, senza provare a fermarlo, e da allora il ragazzino non era più ricomparso.

Anche Bianca aveva fatto un'apparizione di qualche ora, nel primo pomeriggio, approfittandone per ragguagliarla su cosa avesse fatto quel giorno Giovannino. Nel sentirla parlare del piccolo, la Leonessa aveva avuto un moto di ribellione verso i propri doveri, tentata di chiudere prima del dovuto la riunione e dedicarsi per un po' al suo ultimogenito. In fondo, sapeva che il loro tempo sarebbe stato ancora poco, e le sembrava uno spreco, non passare quella breve parentesi con lui.

Però quel giorno aveva rinunciato anche a tenerselo in braccio durante il Consiglio, come invece a volte faceva. Voleva essere del tutto lucida e presente a se stessa, e temeva che quel bambino sarebbe stato una fonte di distrazione. Non poteva stare così tante ore senza dormire, mangiare o essere cambiato, e quindi era stato più prudente lasciarlo alle cure della balia e della sorella.

Siccome Luffo Numai non aveva più aggiunto nulla riguardo Marulli, prendendo la scarna spiegazione della sua signora come bastevole, Caterina si sentì libera di avvicinarsi a un altro interlocutore.

Sempre tenendo d'occhio Galeazzo – che le sembrava abbastanza spaventato, come se tutto quello a cui aveva assistito quel giorno non avesse fatto altro che confermare i suoi dubbi più atroci – la Contessa affiancò Pirovano.

Il milanese era stato zitto praticamente per tutto il Consiglio, intervenendo solo quando uno dei Capitani aveva chiesto come mai il Governatore Ridolfi non fosse presente.

“Perché non è più Governatore.” aveva ribattuto, secco: “E anzi, vi dico che di Governatore di Forlì non ce ne sarà un altro.”

A quel punto la Sforza aveva dovuto spiegare la sua decisione, alludendo al fatto che preferiva tenere gli oneri di quella carica per sé, come aveva già fatto in passato in momenti particolarmente complicati.

“Cosa pensi di fare?” chiese Pirovano, in un soffio appena udibile, quando se la trovò accanto.

Anche se non aveva alcuna voglia di parlarne, la Contessa si costrinse a non chiudere frettolosamente il dialogo, al solo scopo di non urtarsi con il suo amante: “Non lo so, ci devo pensare, ma dubito di essere in grado di difendere l'intero Stato da oltre quindicimila soldati francesi.”

“Questo lo sapevo anche io.” ribatté lui, andando deciso verso le scale, seguendo il piccolo corteo di Consiglieri che, come loro, accorrevano al desco della cena: “Ma c'è modo e modo di perdere una guerra.”

“Sì, però...” stava cominciando a dire la Leonessa, quando, andando controcorrente, una delle guardie giunse in cima alle scale, richiamando la sua attenzione.

“Mia signora...” le disse, quasi senza fiato: “Mia signora... Scipione Riario chiede di potervi parlare.”

“Dov'è?” chiese subito Caterina, bloccandosi.

Galeazzo, alle sue spalle, nel sentire il nome di quel fratellastro che non aveva mai conosciuto, fece altrettanto. Solo Pirovano sembrava ignaro del peso che quel nome si portava appresso.

“Qui, alle porte della rocca. Chiede se può vedervi subito.” spiegò il soldato.

Ormai il gruppetto di fedelissimi della Tigre era sparito al piano di sotto e il silenzio che si era lasciato alle spalle sembrava rimbombare nelle orecchie della Sforza come l'eco di un cannone da guerra.

Non aveva mai voluto avere contatti con Scipione Riario, tanto meno con gli altri figli che il suo primo marito aveva minuziosamente sparso per mezza Italia. Gli aveva sempre accordato un vitalizio, però, più per pietà che non per altro. Sapeva che dopo la morte di Giacomo Feo era andato a vivere fuori dalla città, probabilmente per paura di essere in qualche modo messo in collegamento con la congiura e punito senza motivo. Da un lato, la Tigre aveva apprezzato quella sua prudenza.

“E che vuole?” chiese la donna, riuscendo a stento a trovare la voce per parlare.

Quella visita era un fulmine a ciel sereno. Il solo ricordarsi dell'esistenza di quel ragazzo era per lei un tormento. Era come trovarsi immersa in una tinozza colma di acqua gelata e ripiombare nei ricordi di un passato che avrebbe voluto poter cancellare.

“Non lo so, ma vuole vedervi.” insistette il soldato.

“Vuoi che ci sia anche io?” chiese Giovanni da Casale, intuendo dal pallore della sua amante quanto quell'incontro l'atterrisse.

“No.” rispose subito lei: “Voi – disse, indicando anche il figlio – andate a mangiare. Dite ad Argentina di portarmi qualcosa in stanza. Cenerò più tardi.”

Pirovano dovette suo malgrado ubbidire e anche Galeazzo, che pure sarebbe stato molto curioso di vedere il fratellastro e sentirne le richieste, annuì e non fece storie.

“Andiamo.” sussurrò la Contessa, anticipando la guardia giù dalla scale e dirigendosi rapida verso il cortiletto d'ingresso.

Non ebbe alcuna fatica a individuare il suo ospite. Malgrado i capelli portati abbastanza corti e un'espressione fiera che era stata del tutto estranea a Girolamo, Scipione ne era un ritratto più che fedele. Assomigliava, quindi, in modo impressionante anche a Ottaviano, pur avendo, al suo contrario, un fisico perfetto, slanciato e dai muscoli guizzanti.

Cominciava a imbrunire e, per guardarlo meglio, la Leonessa gli fece segno di avvicinarsi, in modo da averlo sotto la luce di una torcia.

“Che cosa devi dirmi?” gli chiese, senza giri di parole, dandogli del tu non per spregio, ma perché, inconsciamente, la sua somiglianza con Ottaviano e con Girolamo gliel'avevano fatto sentire molto più familiare di quanto si sarebbe aspettata.

“Vorrei discutere con voi in privato – disse il giovane, con voce profonda e decisa – perché voglio mettermi al vostro servizio, alla difesa di questa città.”

La Contessa rimase in silenzio per qualche lunghissimo secondo e poi, squadrando le sue spalle larghe e il fodero vuoto – era stato sicuramente disarmato al suo ingresso a Ravaldino, come da prassi – al suo fianco, concesse: “Possiamo parlarne. Seguimi.” e, facendogli un cenno con il capo, si incamminò verso lo studiolo del castellano, convinta che, come sempre, quello fosse il posto migliore per un colloquio confidenziale.

La notte precedente, passata del tutto insonne, le iniziava a pesare un po' e, non sapendo quanto si sarebbe protratto quello strano incontro, Caterina preferì premunirsi con qualche bene di conforto.

Mentre attraversava il corridoio a passo svelto, tallonata da Scipione, bloccò un servo che passava e ordinò: “Dite ad Argentina di portarmi la cena nello studiolo e non in camera. E che porti due calici, per il vino.”

 

“Smettetela di dire che non dovrei arrabbiarmi!” la voce di Cesare Broja era tanto alta che, di certo, anche chi non era nella stanza poteva sentire le sue parole: “Mio padre mi manda in Romagna a combattere contro una donna! Quanto in basso devo ancora scendere, per espiare le mie colpe?!”

Il servo personale del figlio del papa agguantò al volo il cinturone che l'uomo si era tolto e aveva gettato di lato con un gesto stizzito. Altri due domestici, in silenzio vicino all'ingresso, si erano scambiati un'occhiata nervosa.

Quella giornata era stata tremenda, per il Duca di Valentinois e avrebbe tanto voluto potersi ritirare in santa pace e stemperare la tensione a modo suo. Invece l'ordine di suo padre era stato appena riconfermato nella persona di Achille Tiberti, un condottiero che aveva deciso di passare dalla parte del papa e che ora era arrivato al cospetto di Cesare per dimostrargli il proprio rispetto e per riferire le ultime decisioni di Alessandro VI.

Il cesenate era dinnanzi a lui, la testa appena piegata di lato e le labbra strette in una linea severa e contrita. Per quello che lo riguardava, il giovane Borja gli sembrava solo un ragazzino viziato. Gli avevano detto che nell'ultimo periodo, specie prima di partire dalla Francia, Cesare si era impegnato molto, prendendo lezioni avanzate di spada e studiando come un matto i modi migliori per farsi accettare dalle truppe e per poter comandare davvero in quella che si preannunciava come una campagna trionfale.

Tiberti, che era riuscito a strappare una condotta abbastanza vantaggiosa – cento balestrieri a cavallo e cento provvigionati – si era offerto come esperto dell'organizzazione delle difese della Sforza, essendo stato per anni uno dei suoi uomini di fiducia.

Però il figlio del Santo Padre sembrava non voler apprezzare quell'aiuto, anzi, parlava della Tigre di Forlì come di uno scherzo di cattivo gusto, come se suo padre avesse deciso di mandarlo innanzi tutto contro di lei per puro spregio.

“Una donna! Cosa crede, mio padre? Che solo Juan fosse capace di tenere in mano una spada? Che vuole che faccia? Che l'afferri per le gonne e le tagli la gola mentre piange disperata?” continuava il ventiquattrenne, sempre più furibondo, le guance che, sotto la rada barba scura e le cicatrici lasciate dal suo male, diventavano via via più rosse: “Se avessi paura di una donna, io..!”

“La Contessa Sforza è una donna, certo – lo interruppe a quel punto Tiberti, stanco di sentire le vuote invettive del suo nuovo signore – ma è pericolosa e violentissima. Ha saputo fare cose orribili, malgrado la sua stupefacente bellezza. La vipera dei Visconti assieme alla rosa d'oro dei Riario è un'immagine che la rappresenta benissimo.”

Cesare strinse un po' gli occhi, guardando Achille come se lo vedesse per la prima volta in assoluto, e gli chiese: “Credete che una donna, per quanto violenta come dite voi, possa dimostrarsi per me un problema? Sapete con chi state parlando?”

“Io so solo che ho conosciuto bene la Leonessa di Romagna e vi posso dire che è peggio lei di tutti gli altri messi insieme.” fece piano Tiberti, chinando un po' il capo, rammaricandosi di non essersene stato solo zitto.

“Che cos'ha di così speciale questa donna? Da quello che so la sua unica qualità è quella di portarsi a letto tutto quello che respira.” commentò, acido, il Borja, emettendo poi una risata latrante e cercando l'appoggio dei servi presenti che, però, ricambiarono con un misero sorriso e basta.

Achille scosse appena la testa e poi disse, piano: “Non fate l'errore di sottovalutarla o la vostra campagna potrebbe finire ancor prima di cominciare.”

Il tono un po' mesto del soldato fece drizzare le orecchie al figlio del papa. Più di ogni altra cosa detta quel giorno, quella frase quasi soffiata risuonò nelle sue orecchie come una pesantissima minaccia.

“Io parto con oltre quindicimila soldati, affiancato da comandanti come l'Aubigny e Don Giuliano di Ligny. Abbiamo armi moderne e uomini che non si fermano davanti a nulla.” fece presente il Valentino, muovendo un paio di passi verso il suo interlocutore: “Lei che cos'ha? Qualche contadino a cui ha tolto la zappa e dato la spada? Un amante che ha vinto qualche giostra mentre era qui a Milano? Se pensate che abbia qualche possibilità di mettermi in difficoltà, allora siete solo uno sciocco e avreste fatto meglio a non chiedere una condotta a mio padre.”

“Pensatela come volete – tagliò corto Tiberti, convinto che sarebbe stata l'esperienza a scottare a sufficienza il giovane uomo che aveva davanti – vi dico solo che, se fossi in voi, sarei più cauto in questo genere di valutazioni.”

Il Borja, per nulla abituato a trovare qualcuno che si azzardasse a tenergli testa, rimase in silenzio qualche minuto, fissandolo con un'espressione indecifrabile dipinta in volto. Alla fine sollevò una mano e l'agitò in aria, come a dichiarare chiusa la questione.

“Adesso devo andare – disse, lisciandosi il giubbetto e avvicinandosi alla porta – i grandi comandanti del passato si mescolavano alle loro truppe, per farsi accettare e stimare, quindi mi vedo costretto a mescolarmi con i miei soldati...”

“Non è condividendo i bagordi con la truppa che si diventa dei capi stimati.” lo mise in guardia Achille, sempre più sicuro di aver a che fare con qualcuno che non aveva la più misera idea di cosa fosse la guerra.

“Juan era solo un bambino che giocava a fare il soldato – lo incalzò il Valentino, iniziando a perdersi di nuovo nei propri rancori, più che concentrarsi sul presente – io, invece, sono un uomo e diventerò il conquistatore che mio padre non è mai riuscito a essere. Quindi smettetela subito di parlarmi con quel tono paternalistico. Non ho bisogno dei vostri insegnamenti. So bene io, che si deve fare!”

Il cesenate, cogliendo l'ineluttabilità della testardaggine del suo signore, non ribatté oltre, esibendosi in un inchino e guardandolo mentre usciva con un passo che di marziale aveva davvero molto poco.

'Non fosse che ormai la mia vita è legata a voi Borja – si trovò a pensare Tiberti – vorrei che la Tigre ti corresse incontro in battaglia e ti staccasse quella testa vuota dal collo...'

 

“E perché vorresti farlo?” chiese Caterina, il calice mezzo pieno in mano e gli occhi puntati in quelli di Scipione Riario.

“Perché ritengo sia la cosa giusta da fare.” spiegò lui, sistemandosi un po' sulla sedia e facendosi ancora più serio: “Mi avete mantenuto per anni. È tempo che mi sdebiti per la vostra generosità.”

“Questo è un ragionamento che ti fa onore.” ammise la donna, pensando che fosse davvero un motivo di merito, quel pensiero e che altri, come Ottaviano, non sarebbero mai stati sfiorati da una simile idea.

Scipione era seduto davanti a lei, ritto come un fuso. Aveva accettato con piacere un calice di vino, ma non era andato oltre. Aveva rifiutato il cibo e aveva mantenuto un atteggiamento molto orgoglioso e fermo per tutto il tempo.

Anche se forse si trattava di un paragone insensato, la Tigre aveva passato buona parte del loro incontro a confrontarlo con Ottaviano. Il ragazzo che le stava davanti era più giovane del suo primogenito, eppure nel suo modo di porsi e di esprimersi c'era molta più maturità di quanto suo figlio non avesse mai dimostrato in vent'anni di vita.

La somiglianza nei tratti del viso tra i due era sfolgorante, ma gli occhi castani del Riario che la Sforza stava osservando in quel momento erano privi della patina inespressiva e torbida che oscurava quelli di Ottaviano.

“Perché te ne sei andato da Forlì, quando hanno ucciso il Barone Feo?” chiese a quel punto la Contessa, che in cuor suo era già abbastanza convinta di accettare la proposta fatta dal giovane.

Scipione le si offriva come soldato. Non aveva null'altro da darle, se non la propria vita e alla Leonessa questa prospettiva non dispiaceva affatto. Da un lato aveva provato una sorta di innata fiducia verso Scipione e, dall'altro, le dava uno strano piacere pensare che il sangue di Girolamo sarebbe in qualche modo stato versato per ripagarla in parte di tanti torti subiti.

“Quando ho capito che messer Ottaviano e messer Cesare erano coinvolti in quello che era successo – spiegò lui, con semplicità – ho temuto che avreste potuto dubitare anche di me, o, se non altro, che avreste voluto rifarvi su di me per il cognome che porto.”

“Eri solo un ragazzino, all'epoca...” soppesò Caterina, mettendo sotto i denti un pezzetto di formaggio: “Chi ti ha consigliato di fare così?”

“Nessuno mi ha consigliato.” mise in chiaro lui: “Ho trovato qualcuno che mi ospitasse, offrendomi come bracciante, e poi, quando ho capito che non mi avreste tolto il vitalizio che mi passavate, ho continuato a mantenermi per conto mio.”

Quanto ci fosse di vero e oggettivo in quel racconto, la Contessa non poteva saperlo. Comunque fosse andata, le sembrava che il Riario parlasse a ragion veduta e che sapesse il fatto suo. Aveva imparato a cavarsela presto, ed era sveglio, due qualità che potevano tornare molto utili, in un soldato.

“Come te la cavi con la spada?” chiese la Sforza, decidendo di non parlare più del passato.

“Mi esercito da anni.” spiegò lui: “Altrimenti non avrei osato venire a chiedervi l'onore di combattere per voi.”

Alzandosi tanto di scatto da cogliere di sorpresa il suo interlocutore, la Leonessa lasciò la scrivania e andò un momento alla finestra. Schiuse il vetro e vide che, malgrado il cielo fosse scuro e non si vedesse la luna, il tempo sembrava reggere.

“Non piove.” constatò, e poi propose: “Fammi vedere come te la cavi con le armi. Se ti troverò all'altezza, ti arruolerai nel mio esercito.”

Scipione non se lo fece ripetere e la seguì subito fuori dallo studiolo. Arrivarono nella sala delle armi, che era a quell'ora completamente deserta e buia. La Tigre scelse con cura due spade dalla portata simili per entrambi e poi gli fece segno di uscire in cortile.

Il Riario avrebbe voluto far notare che, per una prova del genere, delle armi spuntate e senza filo sarebbero state più adatte, ma evitò, per non sembrare un codardo.

“Avanti.” ordinò lei e, dando il primo affondo, diede inizio a uno scontro che si fece man mano più audace e complicato.

Se Caterina combatteva come se avesse voluto davvero uccidere, l'altro faceva del suo meglio per stare attento, per paura di ferirla o di restare ferito. Nessuno dei sue si accorse che il cozzare delle lame aveva attirato l'attenzione di alcuni curiosi che, un po' dalle finestre e un po' da sotto il porticato, si erano messi a osservare quel duello notturno.

La Contessa non stava premendo troppo. Faceva solo in modo di mettere in difficoltà il figlio del suo primo marito, per poi lasciarlo respirare e saggiarne gli attacchi. Non era uno spadaccino memorabile, ma sapeva il fatto suo e non si tirava indietro.

Quando fu soddisfatta della prova fornita, chiuse il combattimento in modo poco elegante, ma molto efficace, facendo inciampare il suo sfidante e disarmandolo con un calcio.

Scipione, rimasto a terra, sollevò appena le mani, vedendo la punta della spada della Sforza posata sul suo petto, all'altezza del cuore. Per un momento fu certo che la donna che troneggiava su di lui non si sarebbe fermata, prendendo lì, sul suolo terroso del cortile, la sua vita.

Sapeva da anni che genere di uomo fosse stato suo padre e aveva sentito dire di tutto, riguardo ai tormenti che aveva dato alla Contessa. Sapeva di somigliare molto al defunto Conte e temeva che quel fatto gli potesse costare molto caro.

Prima di andare alla rocca a offrirsi come aiuto in vista dell'imminente guerra, aveva pensato a lungo ai possibili risvolti di quella sua iniziativa. Tra essi c'era anche proprio quello di morire per mano della Leonessa.

“Alzati.” disse Caterina, distogliendo di colpo la spada e porgendogli una mano per aiutarlo a rimettersi in piedi: “Domattina presentati qui alla rocca e chiedi del Capitano Mongardini. Sarà lui a occuparsi del suo arruolamento e a spiegarti quali saranno le tue mansioni.”

Il Riario ringraziò, sentitamente e poi, inginocchiandosi in terra, promise: “Non vi pentirete di avermi accettato al vostro servizio.”

“Me lo auguro.” sussurrò la Sforza, a voce tanto bassa che nemmeno Scipione la sentì.

Una volta che il giovane si fu rialzato, la donna gli ordinò di andare a riporre le spade laddove erano state prese e poi, guardandosi finalmente attorno, si accorse della schiera di curiosi che si erano assiepati per godersi quell'inatteso spettacolo.

“Non c'è più nulla da vedere!” disse, scorgendo, a una delle finestre, la figlia Bianca, assieme a Galeazzo: “Tornate alle vostre occupazioni!”

Come un sol uomo, tutti i presenti si allontanarono, temendo una punizione da parte della loro signora, nel caso in cui non avessero eseguito l'ordine abbastanza in fretta. L'unica figura scura che era rimasta, dietro una delle colonne, attirò l'attenzione della Contessa.

Le bastò poco per capire di chi si trattasse. Con passo deciso, gli andò incontro, avendo la sensazione che lui fosse indeciso se andarsene o meno. Forse perché preso troppo alla sprovvista, Ottaviano non si mosse, aspettando che la madre gli arrivasse a un passo di distanza.

“Chi è?” chiese il giovane, indicando la sala delle armi in cui era sparito il misterioso sfidante della Tigre.

“Tuo fratello Scipione.” spiegò lei, senza guardarlo, provando un senso di repulsione più forte del solito nel vedere il suo corpo sformato e il suo viso macerato dai vizi: “Ha qualche anno meno di te, ma, a tua differenza, è un uomo.”

Il Riario schiuse un momento le labbra, ma non trovò nulla da dire. Avrebbe voluto potersi mostrare diverso, agli occhi della madre, assumersi le responsabilità che il suo ruolo di Conte gli imponeva. E invece rimase zitto, nel suo angolo, appoggiato alla colonna, senza avere il coraggio nemmeno di sollevare lo sguardo in cerca di quello della Contessa.

“Adesso sparisci.” ordinò lei.

Quando Scipione tornò dall'armeria, la donna lo scortò di nuovo fino all'uscita, ricordandogli di ripresentarsi all'alba, per regolarizzare la sua posizione.

Con l'umore appena più sollevato del solito, la Tigre si diresse a quel punto verso la propria stanza, pensando che fosse il caso, quella volta per davvero, di concedersi un po' di riposo. Per quanto avesse un'alta opinione delle capacità del proprio fisico, doveva ammettere che era da incoscienti passare due notti di fila in bianco.

Trovò Pirovano che l'aspettava alzato, ancora vestito. Aveva le braccia incrociate sul petto e la fissava in silenzio.

Mentre lei cominciava a spogliarsi, l'uomo le chiese: “Chi era quello?”

“Un figlio che il mio primo marito aveva avuto da una poveraccia, qui a Forlì...” spiegò subito lei, capendo, senza bisogno di far domande, che il suo amante era geloso di quello che riteneva, e non a torto, un giovane attraente e abile con la spada: “Quindi non devi vederlo come una minaccia, per te. Non mi porterei in camera un figlio di Girolamo nemmeno se mi pagassero per farlo.”

Giovanni voleva sentirsene convinto, ma faticava a crederle, dimostrando la sua incertezza con l'espressione cupa del suo viso.

La Sforza non gli diede peso. Se il suo amante avesse realmente saputo com'era stato il suo matrimonio con il Riario, non avrebbe nutrito il ben che minimo dubbio sulla credibilità della sua affermazione. Però non aveva alcuna voglia di ripercorrere ancora una volta il passato, tanto meno per un motivo così stupido.

“Mentre eri impegnata con lui – disse Pirovano, prendendo dalla tasca del giubbetto una lettera e porgendogliela – è arrivata questa. Numai l'ha data a me, per non venire a disturbarti.”

Caterina lo ringraziò e, quando vide la biscia sforzesca come sigillo, aprì subito il messaggio. Lesse in fretta quanto le era stato scritto, trovando la firma in calce una vera sorpresa.

“Chi ti scrive?” chiese Giovanni, quasi più per far conversazione che non perché gli importasse, intento com'era ancora a crogiolarsi nella gelosia.

“Mio fratello Alessandro.” rispose lei, mettendosi a sedere sul letto, ripercorrendo le ultime frasi della missiva: “Dice che lui, e i nostri fratellastri, Galeazzo e Francesco, sono disponibili a raggiungermi qui a Forlì, se non ho nulla da obiettare, per combattere al mio fianco.”

Pirovano, che aveva conosciuto un po' sia Alessandro sia Galeazzo, mentre era nel milanese al servizio del Moro, si accigliò e domandò: “Davvero? E porterebbero con loro dei soldati?”

“Sembra di no, ma anche tre uomini ci servono, in questo momento.” fece subito la donna, mettendosi alla scrivania per buttar giù subito una risposta: “E poi hanno il mio stesso sangue.”

“Due di loro l'hanno solo per metà.” le ricordò Giovanni.

“Per me non fa differenza. Men che meno adesso.” lo mise a tacere lei e così al milanese non rrestò che aspettare pazientemente che la sua amante finisse di vergare il suo messaggio.

Caterina ci mise un bel po', prima di chiudere la lettera e, quando lo fece, gliela porse.

“Dato che sei ancora vestito – gli disse – portala tu a una staffetta. Dille di partire immediatamente.” e gli spiegò dove dovesse farla andare.

Pirovano avrebbe tanto voluto ribellarsi. Non era un suo servo, in fondo, ma non lo fece. Come sempre, quanto era lei a chiedergli qualcosa, finiva a cedere senza neppure provare a rifiutarsi.

Trovò uno dei messaggeri migliori a disposizione della Tigre e gli consegnò la missiva, facendo presente quanto fosse importante che arrivasse il prima possibile.

Quando tornò in stanza, trovò la Contessa già stesa a letto e addormentata. Per esser già scivolata nel sonno, doveva essere veramente stanca.

Anche se inizialmente i suoi piani erano stati altri, il milanese accettò con stoica buonagrazia quel risvolto della serata e, con cautela, si svestì e si infilò sotto le coperte al suo fianco. Per quanto fosse stato attento a far piano, la svegliò ugualmente.

“Credi che anche altri verranno a offrirsi per combattere per noi?” chiese la Sforza, la voce un po' impastata per il sonno, mentre Pirovano, accontentandosi delle briciole, la stringeva a sé, annusando il suo odore e godendosi il calore del suo corpo.

“A combattere per te, non per noi.” puntualizzò lui, ma poi, più morbido, soggiunse: “Chiunque abbia un minimo di senso dell'onore preferirebbe morire al tuo fianco che al fianco del re di Francia.”

Non fu sicuro che la Leonessa avesse sentito la sua ultima frase, perché sentiva il suo respiro più profondo e regolare, segno, forse, che stesse già dormendo. Non gliene importava. Sospirò e si lasciò cullare dalla sensazione ormai familiare eppure sempre incredibile, di poterla stringere a sé, condividendo con lei momenti, come quello, molto più intimi di qualsiasi altro.

Con un sospiro leggero, il milanese chiuse gli occhi, lasciando fuori dalla sua mente, almeno per qualche ora, tutti i problemi e i dubbi che l'avevano tormentato per tutto il giorno. Anzi, si sentiva l'uomo più fortunato del mondo per il semplice fatto di essere vivo e di avere accanto a sé la Tigre più feroce d'Italia, che tra le sue braccia sapeva tornare a essere solo una donna, mansueta e dolce come una madre e passionale ed esigente come la migliore delle amanti.

 
 
   
 
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