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Autore: Adeia Di Elferas    04/09/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Pandolfo Malatesta si morse l'unghia del pollice, continuando a guardare di sottecchi il suo cancelliere. Da quando era tornato a Rimini, sembrava che nulla stesse filando per il verso giusto.

Prima di tutto, i notabili della città sembravano non riconoscerlo più come signore di quelle terre e, anche se non avevano ufficialmente sollevato una guerra contro di lui, avevano fatto in modo di intimidirlo a sufficienza da convincerlo a non uscire troppo spesso dal suo palazzo.

Secondariamente sua moglie Violante si dichiarava di nuovo incinta, sostenendo che il figlio che portava in grembo fosse stato concepito poco prima che il marito partisse per la guerra. Con quella scusa, lo stava rifiutando di continuo, portandolo a un livello di frustrazione che nemmeno la ricerca di qualche donna a buon prezzo bastava a lenire.

Infine, e quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare un vaso già ricolmo, quella mattina era arrivata la notifica della richiesta ufficiale del papa, che voleva da lui il pagamento del censo arretrato, pena la decadenza dei suoi feudi.

Di per sé non sarebbe stata una cosa grave, dato che il Pandolfaccio, fin da quando era ancora sotto l'ala protettrice della madre, aveva sempre cercato di far tenere i conti molto in ordine, temendo la natura infida dei pontefici che si erano susseguiti sul trono di Pietro.

Il vero problema stava nel fatto che Alessandro VI sembrava ben deciso a considerare fuorilegge il Malatesta senza nemmeno provare ad appurare la sua reale posizione. Infatti, dopo nemmeno un'ora dall'arrivo della notifica del richiamo, era arrivata una squilla papale con una bolla ufficiale con cui si dichiarava Pandolfo decaduto come signore di Rimini.

“Questa cosa non si deve sapere.” disse in fretta il ventiquattrenne, dopo averci ragionato sopra per un po': “Non si deve e basta. I riminesi non aspettano altro che una novità del genere per insorgere e mettere a ferro e fuoco il mio palazzo.”

“Ma la squilla ha parlato in piazza...” fece notare il cancelliere.

Il suo signore scosse il capo, facendo ondeggiare i lunghi capelli neri e unti e poi, arricciando il naso affilato, ribatté: “C'è pieno di pazzi, in giro. Fatelo passare per uno di loro e poi dategli il foglio di via. Faremo come se non fosse successo nulla.”

L'altro tergiversò, non trovando la linea scelta dal Malatesta molto efficace. Avrebbe voluto fargli notare che, forse, sarebbe stato più prudente iniziare a organizzare una difesa, o almeno cercare un appoggio più netto da parte di Venezia.

Tutti sapevano che i francesi non si sarebbero fermati a Milano e che il figlio del papa era con loro.

Quella bolla andava solo a confermare i sospetti di tutti. Il Santo Padre stava togliendo sulla carta i feudi ai signori di Romagna per poi poter più facilmente appropriarsene con le armi.

“Non abbiamo altro da dire.” concluse, all'improvviso, Pandolfo: “Fate allontanare il messo papale e poi invitate tutti alla calma.”

Mentre il cancelliere annuiva, molto incerto, il Malatesta lasciò la sala e andò a cercare sua moglie.

Non gli importava se lei non lo voleva vedere. C'erano tante cose da decidere. Non era stupido come certi lo credevano, non era vero che l'unica cosa che era in grado di fare era tenere in mano una spada.

Aveva capito benissimo che la loro era una situazione senza via d'uscita e sapeva anche che la maggior parte dei signori di Romagna era nelle sue condizioni. Lui poteva solo sperare che Venezia si dimostrasse decisa nel tenerlo come un suo protettorato, per evitare che il papa si infilasse su quel lato di costa. Insomma, al Pandolfaccio sarebbe andato bene anche un ruolo da cuscino tra due contendenti: gli bastava salvarsi la pelle.

Trovò Violante, finalmente, in biblioteca, seduta alla scrivania. Era concentrata, ma si accorse subito di lui. Non lo degnò nemmeno di uno sguardo, ma dal modo in cui si era accigliata era chiaro quanto fosse infastidita dalla sua presenza.

“A chi scrivi?” chiese l'uomo, restando in piedi alle sue spalle.

“A dei nostri conoscenti a Venezia.” rispose lei: “Ho sentito anche io quel che ha detto la squilla papale. Dobbiamo avere un posto dove scappare, se ce ne sarà bisogno.”

“Il figlio del Borja piomberà su di noi prima che...” cominciò a dire il Malatesta, sfogando la propria paura con un tono di voce alto e aggressivo, che, però, la moglie stemperò subito.

“Tu non sei ritenuto un pericolo, dal papa.” tagliò corto: “E sei un protetto del Doge. Stai tranquillo che prima di infastidire noi, Cesare Borja marcerà su Imola e Forlì, su Faenza, e magari anche su qualche altra città...”

Il signore di Rimini rimase in silenzio. Quella prospettiva per lui era qualcosa di abbastanza inatteso. In effetti, la Tigre di Forlì si stava preparando a un'invasione da mesi, o almeno così si diceva in giro. Evidentemente pensava anche lei di essere la prima della lista...

“Limitati a non fare disastri con l'ambasciatore di Venezia.” concluse Violante, riprendendo a scrivere: “Al resto ci penso io.”

 

La lettera di Piero Landriani arrivata quella mattina era stata il nulla osta che Caterina aspettava ormai da giorni. Il fratello la metteva al corrente del fatto che Gian Piero rinunciava di buon grado alla sua carica di castellano della rocca di Imola e che, anzi, si era preso un po' di tempo, prima di esprimere la sua disponibilità a essere sostituito, solo al fine di sistemare al meglio ogni cosa, in modo di non lasciare alcun guaio al suo successore.

Poco dopo era arrivata anche la missiva proprio di Gian Piero, che ringraziava molto la Sforza per quello che aveva fatto per lui negli anni, permettendogli di ricoprire un ruolo importante e stimato, soffermandosi, sul finale, sull'importanza che aveva per lui il legame che li univa in modo indissolubile.

Anche se Lucrezia era morta, diceva, nessuno avrebbe potuto cancellare quel filo che li congiungeva e che li rendeva, in ogni caso, parenti.

L'uomo poi avvisava che sarebbe passato da Forlì nel giro di un paio di settimane e poi avrebbe fatto visita al figlio, a Forlimpopoli, per poi, però, tornare a Imola. Anche se, spiegava, sapeva di non essere più in grado di dare fisicamente il suo apporto alla resistenza, era convinto di poter fungere da mediatore con la popolazione, o, in caso di bisogno, con il nemico.

Caterina non aveva nulla da ridire, su quel punto, anche se era certissima che Piero avrebbe fatto di tutto per convincere il padre ad andarsene dalla Romagna, per mettersi il più al sicuro possibile. Se fosse rimasto, comunque, la Tigre sarebbe stata felice di saperlo ancora dalla sua parte.

Così, subito dopo aver risposto alla lettera del Landriani, la donna aveva fatto chiamare Naldi e gli aveva dato ordine di prepararsi a partire. I centottanta uomini che avrebbe portato con sé – di cui una decina erano addirittura suoi parenti – erano pronti da un pezzo, e l'unica cosa che al condottiero sembrava pesare era dover dire addio alla moglie e alle figlie.

“Tratterete Dianora come una persona di famiglia?” aveva chiesto Dionigi, appena prima di lasciare lo studiolo del castellano, scuro in viso al pensiero del distacco che si accingeva ad affrontare.

“Farò tutto quello che posso per non farle correre pericoli inutili.” era stata la perifrasi con cui rispose la Leonessa.

“E le mie figlie..?” la voce del comandante sembrava non riuscire a concludere una domanda che sarebbe stata più lunga e articolata, ma la Sforza aveva compreso ugualmente.

“Farò sì che siano protette come se fossero figlie mie.” aveva assicurato, sperando con tutta se stessa di poter tener fede alla propria promessa.

Naldi era parso abbastanza convinto e da allora la Tigre non l'aveva incrociato più.

Ora lo osservava dall'alto delle merlature mentre, accompagnato dal rullare dei tamburi e da una folta folla di forlivesi, usciva dalla rocca, con al seguito i suoi uomini, diretto verso la cittadella. Si era deciso di far fare a quel corteo l'intero giro delle strade principali della città, perché Caterina voleva che i suoi sudditi vedessero coi loro occhi le truppe ben equipaggiate, ben vestite e ben ordinate. Quello spettacolo avrebbe infuso in loro un po' di sicurezza e fiducia, due ingredienti indispensabili in quel momento.

Mentre osservava il condottiero farsi sempre più lontano, le scappò l'occhio su tre figure che, assieme ad altre, stavano appena davanti alla rocca, all'altezza della statua di Giacomo Feo. Erano la moglie di Dionigi e le due figlie. Piangevano tutte e tre, agitando con insistenza la mano, come convinte che l'uomo riuscisse ancora a scorgerle.

Distogliendo lo sguardo a fatica, la Leonessa lasciò le merlature e andò svelta lerso le scale che portavano di sotto. Stava quasi per scendere il primo gradino, quando il Capitano Bezzi, che era di ronda, attirò la sua attenzione, indicandole qualcosa in direzione della Porta cittadina.

La Contessa tornò subito sul camminamento e strizzò gli occhi contro la luce opalescente di quel pomeriggio d'ottobre. Era sicuramente un messaggero, e portava le insegne papali.

“Quella squilla va intercettata e fermata, prima che vada in piazza a dire chissà che.” fece con decisione la Sforza, rivolgendosi al Capitano: “Andate subito alla porta, prendetela in consegna e portatemela qui. Lo vedrò nello studiolo.”

“Ma, mia signora, è contro la legge fare quello che...” iniziò a dire Bezzi, indeciso.

“Qui dentro la legge sono io.” rimbeccò Caterina, cominciando a scendere di sotto: “Quindi vedete di muovervi! Se dalle labbra di quel papalino uscirà anche solo una parola, sarete voi il diretto responsabile!”

“Che succede?” Giovanni da Casale, che stava attraversando il cortiletto d'ingresso, quando vide la sua amante arrivare come una furia, si accigliò e cercò di frenarla.

“E tu cosa ci fai ancora qui?” ringhiò invece lei, di rimando: “Ti avevo detto di cominciare a portare le tue cose alla cittadella, dato che questa è l'ultima notte che passerai qui alla rocca.”

Pirovano, che in effetti stava passando una giornata d'inferno, al pensiero che presto lui e la Contessa si sarebbero divisi – anche se non del tutto – sollevò le spalle e rispose: “Lo sai che ho pochissime cose... Le ho già sistemate tutte.”

“E allora vieni con me nello studiolo del castellano. Dobbiamo sentire cos'ha da dire uno dei tirapiedi di Rodrigo Borja.” fece in fretta Caterina e il milanese la seguì subito.

 

“Sapete cosa significa, vero, se ci dovessero catturare?” chiese Vitellozzo Vitelli, massaggiandosi assorto le nocche della mano.

Oliverotto da Fermo, un occhio ancora pesto e il labbro gonfio a testimoniare la recente cattura da parte dei fiorentini, annuì e ribadì: “Non mi interessa di morire. Voglio solo che paghino per l'affronto che hanno fatto a me e anche a vostro fratello.”

L'altro annuì in silenzio. L'uomo che aveva davanti si era presentato quel pomeriggio a Pisa, da solo, stanco e affamato e gli aveva raccontato con precisione quanto era accaduto a Firenze pochi giorni prima.

Per primo gli aveva portato la notizia certa della morte di Paolo, narrando anche dell'esposizione della testa mozzata alla popolazione, e dell'incarcerazione pure di Cerbone e di Antonio da Castello.

Aveva insistito sul fatto che, a parer suo, il fatto che la moglie del Vitelli fosse Girolama Orsini, sorellastra di Alfonsina, moglie di Piero il Fatuo, in qualche modo avesse avuto il suo peso, ma Vitellozzo non aveva voglia di sentire quel genere di spiegazioni. Per lui, quale che fosse il motivo che aveva portato la Signoria a uccidere suo fratello, non c'erano scuse.

Oliverotto aveva anche raccontato rocambolescamente come fosse stato lui stesso arrestato e trascinato a Firenze e di come, per puro caso, i Provveditori di Fermo fossero arrivati in tempo in città per chiedere che venisse rilasciato e dichiarato del tutto estraneo ai fatti.

“Quindi confermate di volermi seguire nella campagna che intraprenderò?” chiese Vitellozzo, che trovava sempre utile un alleato in più, specie se mosso da una forza travolgente come quella della rabbia e del desiderio di vendetta.

“Sì.” confermò ancora una volta Oliverotto.

“E allora verrete con me a discutere ancora, domani, con i pisani.” decretò il Vitelli, dando una pacca sulla spalla al suo nuovo amico: “Loro vogliono che vada a Ripafratta e da lì in Val di Serchio, ma io vorrei andare subito su Livorno.”

“Quello che deciderete, io farò.” fece l'altro, chinando il capo con fare ossequioso.

Vitellozzo parve soddisfatto da tutta quella disponibilità e così, battendo le mani l'una nell'altra, concluse: “Godetevi un po' Pisa, ora! E poi andate a riposare. Dovremo essere ben svegli e riposati, per affrontare domani quelle lingue velenose che governano su questa città!”

 

“Lo sapevi già!” esclamò, ormai abbastanza esasperato, Giovanni da Casale: “Prima di tutto non è la prima bolla che scrive in cui ti solleva dalla tua carica e poi...”

“E poi! E poi!” la voce della Tigre riuscì a coprire del tutto quella dell'amante: “Ma ti rendi conto di quello che ha fatto? Ha mandato una squilla nella mia città! A gridare a tutti che non sono più a capo del mio Stato! Si sente già il padrone!”

Pirovano e la Sforza erano usciti un momento dallo studiolo del castellano, lasciando il messo papalino con due guardie, affinché non scappasse. All'inizio la Contessa non aveva alcuna intenzione di prendersi quella che aveva definito 'una pausa per riflettere', ma aveva dovuto allontanarsi per un attimo dal romano, per non mostrare la sua debolezza.

Il messaggio che il papa avrebbe voluto far risuonare per le strade e le piazze di Forlì non era una novità, certo, ma i modi in cui si era permesso di provare a farlo, per Caterina erano peggio di una dichiarazione di guerra.

“Vuole sollevare il popolo contro di me.” riprese, appena più calma, anche per paura che dall'interno dello studiolo, comunque, si sentissero le sue parole.

“E ce l'avrebbe fatta? Con un semplice strillone?” domandò Giovanni, ma non in modo retorico.

Voleva davvero capire quanto fosse fragile il consenso popolare che la sua amante era riuscita a racimolare negli anni. Sull'esercito non aveva dubbi: tutti i soldati con cui gli era capitato di aver a che fare si sarebbero gettati nel fuoco, per lei, senza pensarci un secondo. Per il resto dei forlivesi, invece, la questione gli risultava più nebulosa.

“Non lo escluderei.” rispose la Tigre, amara: “Li ho curati dalla peste, anche questa volta, li ho salvati dai veneziani e prima ancora da Carlo VIII, ma si sa com'è fatta la gente. Basta un soffio di vento e cambia direzione.”

“L'esercito, però, ti resterebbe fedele – tentò di rabbonirla il milanese, vedendo come i toni della sua donna si stessero normalizzando – e l'esercito è una grande fetta della popolazione delle tue terre.”

La Leonessa espirò con forza. Non avrebbe voluto perdere a quel modo la pazienza, né mostrare le proprie paure, neppure a Pirovano. E invece non c'era riuscita.

La stanchezza dovuta quelle infinite settimane d'attesa si stava accumulando senza sosta e la Contessa temeva sempre di più il momento in cui non fosse più riuscita a farvi fronte come voleva.

“Va bene...” sussurrò, tra sé, come se stesse prendendo un accordo segreto con una parte della sua anima: “E va bene...”

Rientrò nello studiolo senza che il suo amante potesse capire in anticipo le sue intenzioni e, quando si trovò davanti la squilla papale, si morse il labbro, prima di decretarne il destino.

“Portatelo in cella. Che non ne esca più.” disse, rivolgendosi alle due guardie.

I due soldati dovettero agguantare con maggior forza il prigioniero, perché il ragazzo si era messo a strillare e dimenarsi, invocando pietà, ricordando che un messaggero non aveva colpe e che lui aveva solo eseguito degli ordini.

“Se dovesse provare a riferire il suo messaggio a qualcuno, mentre sarà in cella, che gli sia tagliata la lingua. Se dovesse in qualche modo insistere, che venga ucciso.” concluse la Sforza, con voce abbastanza ferma e alta da sovrastare le implorazioni del romano.

Mentre le guardie trascinavano via la squilla, che tentava inutilmente di piantare i piedi a terra, le lacrime di panico che gli rigavano il volto e le urla trasformate ormai in guaiti disarticolati, Pirovano si chinò appena verso Caterina e le chiese: “Sei sicura di poterlo fare?”

La Tigre registrò con una vaga soddisfazione il fatto che il suo amante sembrasse più incerto sulla liceità del suo atto che non sulla sua rilevanza morale. Da un lato, per lei, vederlo capace di esser tanto distaccato era un vero traguardo. Aveva bisogno di un uomo che l'appoggiasse senza giudicarla, in momenti gravi come quello, e Giovanni sembrava quello giusto.

“Ovviamente non lo posso fare.” rispose, deglutendo e cercando con lui un breve contatto fisico, allungando una mano per sfiorarlo, nel tentativo di calmarsi: “Ma il papa non lo scoprirà subito. E quando lo farà, saremo già in guerra, quindi non cambierà nulla, dal punto di vista pratico.”

Il milanese annuì, non proprio convinto, ma convenne, sforzandosi di suonare conciliante: “Hai ragione. Un motivo in più o uno in meno per essere in contrasto non cambierà assolutamente nulla.”

 

Bianca aveva visto trascinare via il messo papale, con il volto trasfigurato dalla paura e le gambe molli, che strusciavano passivamente in terra.

Conosceva abbastanza bene uno dei due soldati che teneva per le braccia il prigioniero e così, mossa da una curiosità molto particolare, seguì da una certa distanza lo strano trio fino all'imboccatura dei sotterranei, restando poi in zona, in attesa che il suo amico riemergesse dal buio delle carceri.

Puntualmente, dopo quasi mezz'ora, il soldato riapparve e, trovandosi dinnanzi la giovane Riario, si rianimò subito. Il suo volto, ingrigito e mesto per colpa del compito che aveva appena dovuto portare a termine, si colorì all'istante e le sue labbra si aprirono in un caldo sorriso.

L'altra guardia, di una decina d'anni più vecchia, passò loro accanto, salutando frettolosamente e così i due poterono restare un momento soli.

“Che ha fatto quell'uomo? Perché mia madre l'ha voluto rinchiudere?” chiese Bianca, con apprensione.

Il soldato, che aveva suo malgrado assistito a tutto l'interrogatorio e aveva sentito parola per parola quanto la squilla aveva riferito di dover ripetere all'intera popolazione, rispose senza reticenze sia alle prime due domande della ragazza, sia a tutte quelle che erano seguite.

“Grazie.” fece alla fine la giovane, dandogli un leggero bacio sulla guancia, a mo' di ricompensa e poi aggiunse: “Se scopri altro, ti prego, fammelo sapere.”

Il ragazzo annuì e, con un'espressione abbastanza trionfale, la salutò e si allontanò.

La Riario si passò distrattamente la punta delle dita sulle labbra. Quel soldato non era tra quelli con cui a volte si era intrattenuta, scambiandosi baci ed effusioni. Non le era mai piaciuto molto, se non come amico. Giocavano ai dadi, a volte chiacchieravano, e anche se le era chiaro da un po' che lui avrebbe voluto andare oltre, lei non l'aveva mai illuso più di tanto.

Quel bacio sulla guancia, all'improvviso, le sembrò solo un inganno. Si era sentita sporca nel momento stesso in cui aveva sfiorato la pelle un po' ispida di barba del giovane. Non voleva usare l'ascendente che ormai aveva capito di avere sugli uomini per trarne dei vantaggi, eppure, senza rendersene conto, è quello che aveva appena fatto.

Assorta, non solo in questo genere di pensieri, ma anche nel ricordo di quanto la guardia le aveva riferito, la Riario cominciò a camminare, vagando per la rocca senza una meta precisa.

Era pieno pomeriggio e Ravaldino era più viva che mai, perché la partenza di Naldi aveva scosso molto gli animi dei presenti. Quella mossa era stata vista un po' come l'inizio della vera allerta, come se dislocare Dionigi e gli uomini che l'avevano seguito equivalesse a dichiarare la guerra iniziata.

“Che stai guardando?” chiese Bianca, quando, attraversando il corridoio del primo piano, vide Ottaviano appoggiato al davanzale di una delle finestre.

Non era stata tanto la sua presenza in sé a incuriosirla, quanto l'espressione furente che aveva in viso. Non lo vedeva così da anni.

“Niente.” disse secco lui, staccandosi immediatamente dalla finestra e fronteggiandola.

Aveva gli occhi cerchiati di scuro e le mani strette a pugno lungo i fianchi. I suoi abiti erano sgualciti, per quanto sempre di finissima foggia, e i suoi capelli non erano stati pettinati. La mollezza della sua figura, poi, disarmonica e sfatta, faceva il resto.

Rinunciando ad avere altre spiegazioni da lui, la ragazza si affacciò un momento per capire cosa stesse facendo arrabbiare così tanto suo fratello.

Non appena diede uno sguardo al cortile d'addestramento, cominciò a comprendere. Assieme a una dozzina di altri soldati, c'erano Galeazzo e Bernardino che si davano da fare con la spada. Il primo menava colpi a destra e a sinistra, guadagnandosi di continuo gli apprezzamenti del maestro d'armi, mentre il secondo, compatibilmente anche con la sua età, faceva esercizio in solitudine, provando le figure di base della scherma, raggranellando, di quando in quando, un'occhiata di approvazione da parte dei presenti.

Oltre a loro, però, c'erano altre due figure che secondo Bianca potevano aver avuto un forte peso sul malumore di Ottaviano. Il primo era indubbiamente Scipione Riario, il loro fratellastro, che si stava mettendo in mostra come un pavone, facendo vedere a tutti quanto fosse atletico e prestante.

E l'altro, ma per scorgerlo la giovane ci aveva messo un po', era Baccino da Cremona. Era accanto alla loro madre, in un punto d'ombra, non lontano dal palo per i cavalli. I due stavano parlando fittamente ed era difficile intuire di cosa. Quale che fosse l'argomento, comunque, la Tigre non riusciva a evitare di lanciare sguardi inequivocabili al soldato.

La Riario strinse le labbra. Anche lei credeva che quel cremonese fosse attraente. Con le dovute differenze, la sua sfacciataggine, poi, le ricordava un po' Ottaviano Manfredi. Aveva un bel fisico, era giovane e sapeva proporsi in modo interessante.

Tuttavia trovava che quelli non fossero motivi sufficienti, nemmeno per sua madre, per dare quel genere di spettacolo. Perché così come se ne stava accorgendo lei, di certo se n'era accorto Ottaviano e probabilmente se ne sarebbe accorto anche Giovanni da Casale.

E infatti, come se l'avesse evocato, proprio in quel mentre nel cortile fece capolino Pirovano. Si avvicinò con passo svelto alla Contessa e, ignorando in modo anche troppo palese Baccino, le chiese di seguirlo e la portò via.

“Perché non sei andato anche tu ad allenarti con loro?” chiese Bianca, tornando a rivolgersi al fratello, che era lì in attesa di sentire i suoi commenti sulla scena che si stava consumando fuori.

“Perché tanto non mi vogliono.” rispose lui, secco.

La Riario sospirò e poi, dopo una piccola indecisione, gli riferì quanto aveva appena saputo riguardo la squilla papale portata in cella.

Ottaviano ascoltava in silenzio, il volto già pallido di natura che si faceva ancor più terreo. I suoi occhi vagarono senza meta per un po', finendo per piantarsi in quelli della sorella. Il modo disperato in cui la fissava, le fece tornare in mente il loro padre, quando, nei suoi momenti peggiori, si aggirava come uno spettro per gli stanzoni del loro palazzo, senza scopo né meta.

“Allora stanno arrivando davvero...” sussurrò il ventenne, un tremito fine e irrefrenabile che gli scuoteva le mani.

“Sì, ma ce la caveremo.” tentò di rincuorarlo Bianca, rendendosi conto troppo tardi di non aver fatto una mossa saggia nel metterlo a parte di quanto accaduto: “Nostra madre sta pensando a tutto e ci sta preparando una via per scappare e noi...”

“Tu non sai che significa, avere fame!” fece lui, con una logica che la ragazza capì solo in un secondo momento: “Quelli ci prenderanno e ci sbatteranno in cella e ci faranno morire di fame! Io ho avuto fame per un anno e non voglio averla mai più!”

L'accenno al lungo isolamento a cui la Contessa l'aveva costretto, dopo la morte di Giacomo, non fece né caldo né freddo alla sorella. Alla Riario faceva un po' paura scoprirsi tanto fredda nei confronti di Ottaviano, ma vederlo tanto scombussolato e fragile glielo faceva solo odiare di più.

“Quando hai così tanta fame, ci sono momenti che ti mangeresti una mano, se potessi!” continuò lui: “Quando non hai...”

La voce gli morì in gola, nel sentire dei passi alle sua spalle. Vedendo come Bianca aveva chinato un po' il capo, in segno di rispetto, il giovane deglutì e si voltò, trovandosi davanti sua madre, seguita a breve distanza da Pirovano.

“Sempre a lamentarti, tu.” fece la donna, che, tuttavia, non aveva colto il contenuto della sua sfuriata.

Il Riario deglutì, incapace di ribattere e, dopo aver dedicato ugualmente uno sguardo di biasimo a Giovanni da Casale, borbottò: “Perdonatemi.” e si allontanò, le lunghe gambe che lo portavano via il più rapidamente possibile.

“Stai bene?” chiese Caterina, rivolgendosi alla figlia, che, a differenza del fratello, non accennava a togliersi di torno.

“Ho saputo della squilla papale.” disse la ragazza, non potendo trattenersi: “Cosa farete, adesso?”

La Leonessa deglutì e poi, scuotendo appena il capo, le disse: “Tra poco inizia un Consiglio di Guerra. Vieni anche tu. Sentirai con le tue orecchie. Tra poco ci raggiungerà anche tuo fratello Galeazzo.”

La Riario fece un sospiro teso e poi, accodandosi alla madre e a Pirovano, li seguì fin nella Sala della Guerra dove, in effetti, c'erano già Luffo Numai e l'Oliva e altri uomini di fiducia della Tigre.

   
 
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