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Autore: Adeia Di Elferas    06/09/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il Consiglio di Guerra si stava rivelando molto più teso di quanto Caterina non avesse previsto.

Prima di tutto, la notizia del messaggio portato dalla squilla papale si era espansa già a macchia d'olio, difficile dire come mai, ma verosimilmente ampliata dalle voci che arrivavano dalle terre vicine in cui, esattamente come lì a Forlì, Alessandro VI aveva mandato dei propri inviati per far leggere nelle piazze la sua nuova bolla.

In secondo luogo gli uomini di fiducia della Tigre si stavano spaccando sempre di più in due correnti contrapposte, la prima che voleva rafforzare unicamente Forlì, accentrando il più possibile le difese e le scorte alimentari, la seconda, che, invece, confidava molto in Dionigi Naldi e Giovanni Corradini e che, quindi, avrebbero voluto sapere Imola molto più coperta.

Per tutta la discussione, che era andata avanti fino a sera tardi, la Sforza aveva tenuto d'occhio non solo le reazioni dei suoi Capitani, ma anche e soprattutto quelle dei suoi figli. Galeazzo, che ormai da un po' bazzicava quel tipo di riunioni, sembrava spaventato, ma abbastanza padrone di sé da non lasciar trasparire troppo la sua agitazione. Bianca, invece, via via che sentiva discutere dei possibili scenari cui stavano andando incontro, invece che impaurita appariva arrabbiata.

Un altro dei presenti a cui la Contessa fece particolarmente cosa fu Cesare Feo. Più l'uomo capiva che la linea di rafforzare Forlì a discapito di Imola prendeva piede, più si faceva titubante e agitato.

Già una volta la Leonessa gli aveva fatto presente di riferirle chiaramente se mai si fosse trovato nella condizione di non essere più in grado di gestire Ravaldino e forse, aveva pensato la donna, nel vederlo boccheggiare ben più di una volta, quando il Capitano Bezzi o il Capitano Mongardini gli avevano chiesto ragione di questo o quel dettaglio logistico, nell'eventualità di prendere alla rocca oltre duemila soldati, quel momento era arrivato.

“Il Cagnaccio – disse a un certo punto il Capitano Rossetti, pensoso – ha fatto sapere che vuole mettersi al vostro servizio.”

“Giovanni Sassatelli?” domandò la Tigre, che, come tutti, conosceva quel nome soprattutto per via di un curioso aneddoto.

Il Cagnaccio, infatti, era un epiteto che l'imolese si era guadagnato dopo aver partecipato a una disfida tra sette cavalieri stranieri e sette italiani. Rimasto l'unico in vita sulla lizza della sua parte, aveva ucciso tutti i nemici rimasti, arrivando a strappare dal petto dell'ultimo il cuore, al solo fine di morderlo.

“Lui, mia signora.” annuì con un po' di incertezza il Capitano: “Mi ha fatto sapere che desidera mettersi al vostro servizio anche per lavare l'onta del suo parente, Pensiero.”

L'incidente legato a Pensiero Sassatelli alla Sforza sembrava una questione di un secolo addietro, tanto stupida da non valer certo una simile rivalsa. Tuttavia sentiva di aver bisogno di uomini come il Cagnaccio.

“Ditegli che per me va bene. Lo potrei impiegare a Imola. Uno come lui potrebbe mettersi al comando dagli incursori.” rispose a quel punto la Contessa, chiedendosi in quanti altri si sarebbero proposti per morire sotto il suo stendardo.

“Ma il Cagnaccio non ha nemmeno vent'anni!” provò a opporsi Luffo Numai, che non vedeva di buon occhio le cariche altisonanti in mano a quelli che considerava ragazzini.

“E allora?” rimbeccò all'istante la Leonessa: “Trovatemi altri ragazzi della sua età capaci di addentare un cuore umano ancora caldo e darò a loro il medesimo risalto.”

Bianca, sentendo quelle parole, spalancò gli occhi, cercando le iridi verdi della madre, come a voler scoprire se avesse detto il vero. Caterina se ne accorse, ma ignorò quella tacita richiesta, continuando a rivolgersi ai suoi Consiglieri.

Il dibattito proseguì ancora per un po'. Giovanni da Casale sembrava tra i più impazienti a finire il prima possibile la riunione e la Sforza sapeva il perché. Avevano deciso che quella sarebbe stata la sua ultima notte a Ravaldino e, probabilmente, l'uomo stava vivendo quel Consiglio di Guerra come una colossale perdita di tempo a suo discapito.

Siccome ormai la notte era al mezzo, Caterina decise di accontentare il suo amante e dichiarò chiusi i lavori, rinviando al giorno seguente le decisioni che ancora andavano prese.

“Mia signora, quando dovremo pagare la prossima rata per la custodia di Giovannino a vostro cognato Lorenzo?” le chiese Luffo Numai, a voce bassa, mentre tutti si apprestavano ad andarsene.

“Non è il caso di pensarci ora.” tagliò corto la Sforza: “Loro devono ancora dirmi quando e se intendono rinnovare la condotta di Ottaviano... Scusatemi.” fece poi, scansandolo e andando verso Bianca, che stava raggiungendo la porta assieme a Galeazzo.

“Hai capito tutto quello di cui si è parlato stasera?” le chiese, deglutendo.

La ragazza, sul cui bel viso ancora si vedeva la traccia della rabbia che l'aveva attraversata per tutto il tempo, fece segno di sì.

“E..?” la incalzò la madre.

“E trovò che tutti quanti si stiano prendendo gioco di noi, approfittando solo del fatto che il nostro è uno Stato piccolo e che abbiamo pochi uomini.” rispose lei, sintetizzando ciò che l'aveva indispettita di più, nell'essere messa al corrente del quadro politico italiano del momento.

“Infatti è così.” fece piano la Tigre, lanciando un breve sguardo anche a Galeazzo, che se ne stava lì accanto in silenzio.

“Forse avreste dovuto cercare di farmi sposare qualcuno di importante, che poi sarebbe stato costretto a correre in vostro soccorso.” soppesò la Riario, parlandone con freddezza, come se la cosa la sfiorasse appena.

“Non sarebbe servito a nulla.” la contraddisse la Contessa, seppur non del tutto sicura delle proprie parole: “Ti avrebbero portata via da me, saresti stata una sposa bambina e poi, al momento del bisogno, si sarebbero dimenticati del tuo cognome.”

Bianca, inaspettatamente, apparve rincuorata. Era come se quella stringata panoramica fatta dalla madre le avesse tolto un dubbio atroce. Era come se l'avesse sollevata da una responsabilità che non sentiva più di avere.

“Adesso andate a riposare. Abbiamo fatto tardi. E non abbiate paura. Sto cercando di fare il possibile, per mettervi al sicuro.” sussurrò in fretta Caterina, vedendo Giovanni da Casale che le arrivava alle spalle: “E tu comincia a prendere la pozione che ti ho dato. Non si sa mai.”

La Riario annuì, ignorando lo sguardo interrogativo di Galeazzo e poi, prendendo il fratello per un braccio, lo portò via, salutando in fretta la madre: “Passate una santa notte.”

“Allora, possiamo andare, adesso?” chiese Pirovano, ormai al suo fianco.

La donna fece un cenno d'assenso con il capo, ma poi, scorgendo il castellano, che stava spegnendo un po' di candele, tenendo tra le braccia gli appunti presi durante il Consiglio, disse al suo amante di aspettarla un momento.

“Cesare.” gli disse, facendolo voltare verso di lei: “Ricordate quello che mi avete promesso?”

L'uomo chinò il capo: “Sì, mia signora.”

“Mi raccomando, cercate di usare il buon senso. Pensateci, prima che sia tardi.” lo mise in guardia lei.

“Ecco, mia signora...” fece a quel punto il castellano, incoraggiato da quell'invito: “Io per il momento riesco a gestire Ravaldino, ma quando inizieranno ad arrivare tutti quei soldati... Credo che altri sarebbero più bravi di me.”

“Avete già in mente qualcuno?” chiese Caterina, una spina nel cuore al pensiero che presto lo zio del suo Giacomo non sarebbe più stato il punto di riferimento di quella rocca.

“Ecco...” Cesare deglutì.

In quei giorni ci aveva ragionato sopra molto, e con coscienza, e aveva capito che in pochi sarebbero stati in grado di fare un buon servigio alla sua signora. Uno, però, su tutti, gli pareva il migliore, benché fosse a Forlì da molto meno tempo di tutti gli altri.

“Bernardino da Cremona.” disse, infine: “Lui mi sembra molto adatto.”

Sentir nominare l'amico di Baccino mise la Sforza un po' in difficoltà. Giusto quel giorno si era soffermata con il cremonese per chiedergli come mai lui e i suoi concittadini si fossero presentati lì da lei e offerti come soldati. Baccino le aveva risposto in modo esaustivo, spiegandole quanto fosse ammirata e conosciuta ovunque, dagli uomini d'armi, ma poi aveva aggiunto che lui si era convinto soprattutto per via delle voci riguardo la sua straordinaria bellezza e la sua voracità in fatto di amanti.

“Bernardino da Cremona.” ripeté lei, come ad assicurarsi di aver capito bene.

“Sì, mia signora. È un uomo molto serio, sa farsi ubbidire ed è bravo sia con i numeri che con le armi.” confermò il castellano.

“Ci penserò.” concesse la Contessa, senza sbilanciarsi oltre.

Cesare Feo, notando come Pirovano stesse mutamente richiamando a sé la propria amante, decise a quel punto di farsi da parte, augurandole una buona nottata e assicurandole una volta di più che, in ogni caso, sarebbe sempre rimasto un suo fedelissimo servo.

Appena arrivati in camera, Giovanni cercò all'istante di reclamare la sua donna per sé. Caterina, però, lo respinse in modo abbastanza deciso, muovendo poi un passo verso la scrivania.

L'uomo, spazientito e stanco, la prese per un braccio e le chiese, esasperato: “Che c'è, adesso?”

“Devo scrivere a Corradini.” rispose lei, liberandosi con uno strattone e mettendosi subito seduta, la penna già in mano e una pagina intonsa davanti a sé.

“Per la storia del Cagnaccio?” chiese allora Pirovano, un po' smorzato nelle sue mire, ma non ancora domo: “Non è una cosa che può aspettare domattina?”

“Non sta a te deciderlo.” chiuse la questione la donna e, ignorando il milanese, che si era messo a misurare la stanza ad ampi e nervosissimi passi, cominciò a scrivere.

Ci mise volutamente più del solito, rileggendo alcune parti e aspettando con pazienza che asciugasse la ceralacca del sigillo. Appurato di aver sistemato il messaggio al meglio, lo prese, si scusò con Pirovano e uscì per andare a consegnarlo a una staffetta che partisse subito per Imola.

Se mentre scendeva al piano di sotto la Tigre provava ancora irritazione per il comportamento del suo amante, che riteneva abbastanza infantile, già lungo la via del ritorno anche lei sentì crescere dentro di sé una frenesia tutta particolare. Quella sarebbe stata l'ultima notte – forse per sempre – in cui loro due avrebbero diviso la stanza.

Anche se avevano già deciso di incontrarsi tutte le volte che potevano, la sensazione di pace che le dava poter dormire tra le sue braccia e risvegliarsi al suo fianco sarebbe diventata solo un ricordo.

Sapeva che era meglio così. Stava già lasciando che Giovanni la condizionasse troppo e, in più, era uno dei pochissimi di cui si sarebbe fidata come guida della cittadella. Ciò non toglieva che soffrisse per la rinuncia che si accingeva a fare.

Appena aprì la porta, dunque, nel trovarsi davanti il milanese che l'aspettava già con le braccia aperte, Caterina non si fece altre domande, né lotto più con il proprio orgoglio, lasciando che quella notte per lei parlasse solo il suo corpo, prendendosi il meglio che il suo giovane amante poteva darle.

Erano ancora intenti a rigirarsi tra le lenzuola, dandosi l'assedio a vicenda, quando un lampo illuminò per un istante la camera, seguito poi dal rombo di un tuono e dallo scroscio della pioggia.

L'odore umido e pieno di quell'acquazzone entrava dalla finestra come un aroma primordiale, qualcosa che entrò loro fin nelle ossa, portandoli al livello più basico dei loro istinti. Nel modo in cui la Sforza si imponeva a tratti su Pirovano c'era la possessività che la donna aveva saputo dimostrare fin dal loro primo incontro, e, dall'altra parte, il milanese l'assaporava con un impeto che ben si accompagnava alla sua fisicità prorompente.

La Contessa saggiava di continuo i muscoli forti ed evidenti di Giovanni, cercando di imprimersi nella memoria ogni lembo della sua pelle, mentre lui si perdeva nei suoi fianchi morbidi e nel suo seno generoso. Le loro labbra si scontravano di continuo e i loro respiri si fondevano assieme a quello della notte, lasciandosi infine con un sospiro che riecheggiava nelle loro orecchie come una dichiarazione di pace.

Col petto che si alzava e si abbassava ancora rapido, la Leonessa strinse a sé il suo uomo, il volto di lui premuto contro il suo collo, e, carezzandogli lentamente la testa, gli sussurrò: “Io sarò sempre qui.”

Quella rassicurazione, che arrivava in risposta al modo disperato in cui l'aveva amata fino alla fine, quasi fosse certo che quella sarebbe stata l'ultima volta, fu come una stilettata nel cuore di Pirovano.

“Lo so.” disse, in un soffio, il suo fiato caldo che solleticava la pelle sudata della Tigre: “Ma io non potrò più passare ogni notte nel tuo letto...”

“Ce lo siamo già detti.” ribatté lei, la mano che dalla nuca dell'uomo scendeva fino alle spalle e alla schiena: “Un modo lo troveremo.”

Sollevando lo sguardo, il viso in parte coperto dai capelli bianchi di lei, Giovanni tentò di sorridere e poi, protendendosi fino a baciarla ancora una volta, concesse: “Mi fido di te.” e poi soggiunse, stringendosi di più a lei: “Ti amo.”

 

L'ingresso trionfale del re a Milano, fissato per quel 6 ottobre, aveva una valenza prettamente didascalica. Si era fatto in modo che tutti i milanesi fossero presenti e assiepati lungo la via che il sovrano avrebbe percorso e la studiata disposizione dei nuovi vassalli di Luigi XII doveva rendere chiaro a chi di dovere i nuovi equilibri che la Francia desiderava nel nord Italia.

Ad affiancare il re c'erano il comandante Aubigny, splendido nella sua armatura scintillante, e Gian Giacomo da Trivulzio. Proprio quest'ultimo si era da poco ricoperto di onori, riuscendo, in pochissimo tempo e senza alcuno spreco né di uomini né di artiglieria, a far aprire le porte cittadine a Tirano, difesa da cinquecento fanti tedeschi, e inviare quattro insegne di fanti svizzeri e grigioni verso Bormio, che, vistasi perduta, si era consegnata spontaneamente, ottenendo, in cambio di quella solerzia, l'esenzione dai dazi per cinquecento carri di vino e il dimezzamento del censo dovuto per dieci anni. Si era poi occupato di Chiavenna, lasciando ai Balbiano alcuni piccoli paesi limitrofi di sua proprietà – e per lui del tutto sacrificabili – arrivando così a consegnare l'intera Valtellina a Luigi.

Proprio per via dei suoi trionfi e in riconoscimento al fatto che era stato lui il primo a riuscire a entrare a Milano, sarebbe stato proprio lui a consegnare formalmente le chiavi della città al francese.

Il re, in segno di riconoscenza, ma anche come ulteriore riconferma della fiducia nutrita per quel comandante, gli aveva già offerto il titolo di Governatore di Milano e Gian Giacomo, pur con una prima titubanza, aveva accettato.

Luigi XII procedeva al riparo di uno spesso baldacchino. Anche se quel 6 ottobre non c'era molto sole quel giorno, né pioveva, il sovrano aveva ritenuto opportuno avere quella copertura. Non sopportava di essere colpito dai petali di fiori secchi che venivano gettati dalle finestre, né desiderava essere a portata di mano, quando gli straccioni cui passavano accanto si protendevano per chiedere elemosine o tocchi taumaturgici.

Al suo fianco, sotto al baldacchino, stava, impettito come un principe, stava Francesco Gonzaga. Il Marchese di Mantova aveva fatto formalmente atto di sottomissione il giorno prima, e il re gli aveva accordato una condotta di cinquanta lance, ma, soprattutto, il collare dell'Ordine di San Michele e una pensione di dodicimila ducati.

Euforico, Francesco aveva subito scritto alla moglie Isabella, pregandola di far portare a Milano all'istante dieci destrieri turchi e dieci cavalli da guerra.

Ondeggiando appena assieme al palanchino su cui si trovava, il Marchese si mise a osservare in silenzio tutti quelli che li affiancavano nel corteo. Avrebbe voluto anche guardarsi alle spalle, ma mettersi a girare la testa a destra e a manca sarebbe stato visto come un segno di scarso rispetto nei confronti del re.

Benché non li potesse vedere, sapeva che dietro di loro c'erano anche Alessandro e Annibale Bentivoglio. A lui stavano abbastanza simpatici, ma credeva che stessero sfruttando molto male quell'occasione per farsi belli agli occhi di Luigi XII.

Il più giovane rifiutava ogni volta, categoricamente, di unirsi a lui in cerca di compagnia femminile, borbottando ogni volta qualcosa che aveva a che fare con la moglie, e così l'approccio più facile con il francese – ovvero le cameratesche chiacchiere tra uomini intenti a scegliere una donna per la notte – restavano appannaggio esclusivo del Gonzaga, che faceva tesoro di ogni singola occasione di rendersi amico il sovrano.

Il più vecchio, invece, sarebbe stato anche più conciliante, ma aveva una rigidità d'animo tale da renderlo un po' antipatico al re, che, in effetti, non aveva ancora deciso di concedergli una condotta.

O, almeno, di questo si illudeva Annibale. Francesco sapeva già da un paio di giorni che una condotta per il giovane Bentivoglio non sarebbe mai arrivata, ma ben si guardava dal rivelare la verità al bolognese.

Assorto, il Marchese non stava ascoltando le parole che ora Luigi scambiava con uno dei suoi comandanti, che aveva affiancato il proprio cavallo al palanchino.

Il mantovano era troppo preso dal chiedersi se il nuovo ambasciatore della Sforza di Forlì – un bizantino dalla cadenza fiorentina che aveva rimpiazzato all'improvviso Federico Flavio – stesse seguendo il corteo trionfale o avesse preferito attendere direttamente al palazzo di Porta Giovia, quando sentì per caso Luigi nominare Isabella d'Aragona.

Curioso, dato che comunque quella donna era cugina di sua moglie, si fece più attento. Il monarca stava rinverdendo al suo sottoposto i dettagli riguardanti la traduzione di Francesco dal castello di Pavia alla sua nuova dimora.

Siccome il re si era accorto del fatto che anche il Gonzaga fosse in ascolto e, guardandolo di striscio, aveva incrociato il suo sguardo, il Marchese si sentì in dovere di dire qualcosa: “Siete stato molto magnanimo a voler prendere il giovane Francesco come vostro pupillo. Sua madre, madonna Isabella, ne deve essere entusiasta.”

Il francese, che pur non amava affatto quando qualcuno gli si rivolgeva senza chiederne il permesso, tanto meno se lo faceva in lingua italiana, fece un sorriso molto tirato e, guardando Francesco come se avesse davanti qualcuno di non molto sveglio, annuì: “Un bravo re sa esserlo anche in queste decisioni.”

Quella frase, detta con il ruvido accento d'Oltralpe del sovrano, fece correre un brivido lungo la schiena del mantovano che, senza osar più dire altro, si rimise buono ad aspettare che il corteo giungesse a destinazione.

 

“Non vi aspettavo qui prima di qualche giorno, una settimana almeno...” disse Caterina, versando da bere a Gian Piero Landriani.

L'uomo le fece segno che il vino che gli aveva già servito era più che sufficiente e poi sollevò un po' le spalle: “La squilla del papa è arrivata anche a Imola. Quando ho sentito quel che ha detto, ho pensato che fosse il caso di accelerare i tempi.”

La Sforza fece un cenno di approvazione, ma non disse nulla, sorbendo in silenzio un po' di vino e passando in rassegna il vedovo di sua madre.

Era molto cambiato, dall'ultima volta in cui l'aveva visto. I suoi capelli bianchi si erano fatti un po' più radi, i suoi occhi più spenti e il modo in cui si muoveva tradiva non solo la sua età rispettabile, ma anche e soprattutto le proteste di un fisico che non era mai stato adatto ai grandi sforzi né a lunghe prove di resistenza.

Aveva deciso di incontrare l'ex castellano della rocca di Imola nella sua stanza, evitando lo studiolo di Cesare Feo. Considerava Gian Piero un membro della sua famiglia, per quanto di fatto lo conoscesse abbastanza poco, e quindi trovava più appropriato un ambiente meno formale.

In più, da quando Pirovano si era trasferito in pianta stabile alla cittadella, Caterina stava lentamente cercando di riappropriarsi della sua camera da letto. Gli oggetti del suo amante avevano lasciato qualche punto vuoto, facendo risaltare ancora di più ciò che Giovanni Medici aveva lasciato. La Sforza non intendeva togliere nulla di ciò che era appartenuto al suo terzo marito, ma si rendeva conto che agli occhi di un estraneo potesse sembrare che ci fosse ancora un uomo a dividere con lei quotidianamente quell'ambiente.

Anche il Landriani, quando era entrato, si era guardato attorno un po' incuriosito, ma senza osare far domande. Era stata la Leonessa a rispondere preventivamente, spiegando che le cose del fiorentino sarebbero rimaste lì finché lei avesse avuto fiato in corpo, benché suo cognato Lorenzo avesse insistito tanto per riavere gli effetti personali del fratello.

“Lo capisco.” aveva commentato a voce bassa Gian Piero: “Ho fatto lo stesso identico ragionamento con gli oggetti di vostra madre. Quando ho lasciato la rocca di Imola, su tre bauli, due erano di cose sue...”

Nel sentir evocare il ricordo di sua madre Lucrezia, la Contessa aveva subito cambiato argomento, mettendosi a parlare dei risvolti politici della guerra che si stava appropinquando.

“Andrete da Piero, adesso?” chiese, dopo un po', la donna, vedendo che il silenzio tra loro si protraeva e che il suo ospite aveva smesso di bere il vino che gli aveva offerto.

“Sì.” confermò il Landriani: “Ma mi fermerò pochi giorni, poi tornerò a Imola.”

“Non andrete a Milano?” chiese la Sforza, che era stata informata dal fratello del fatto che il padre aveva ancora degli agganci nel milanese e che avrebbe quindi potuto benissimo ritagliarsi un angolino nel nuovo regime di re Luigi.

Gian Piero sollevò gli angoli della bocca e poi scosse un po' il capo: “Ormai sono vecchio. Non sono più in grado di servirvi come castellano, ma voglio restare a Imola. So che avrete bisogno di qualcuno che medi con la popolazione. Quello posso ancora farlo.”

“Potrebbe essere molto rischioso.” fece notare la Contessa.

L'uomo, che stava sulla sedia della scrivania davanti a lei, che invece si era seduta senza troppe cerimonie sul bordo del letto, allargò un po' le braccia e ridacchiò: “Non ho nulla da perdere. Mia moglie è morta, mia figlia è morta e il mio Piero...”

Un silenzioso 'morirà presto' aleggiò tra la Tigre e l'ex castellano, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di dirlo a voce alta.

“In tal caso – riprese Caterina, cercando di darsi un tono – vi ringrazio fin da ora per quello che farete per me. La vostra fedeltà e la vostra dedizione vi fanno onore.”

“Non desidero di meglio, per finire la mia vita. E poi a Imola ci sono le tombe di mia moglie e mia figlia. Mi consola pensare che morirò lì anche io.” assicurò lui, per poi chiedere, con fare molto più disinvolto, come se gli argomenti più pressanti fossero ormai stati sviscerati tutti: “Nemmeno voi avete avuto più notizie di mio genero, vero?”

“No.” confermò la Sforza: “Non sappiamo che fine abbia fatto, Tommaso. Certo è che il Bosco è in mano francese.”

Gian Piero si morse il labbro e poi, annuendo come tre sé, concluse: “Dovevamo aspettarcelo.”

“Forse avrei dovuto cercare di trattenerlo qui.” disse, poco convinta, la Leonessa.

“Non sarebbe cambiato nulla.” commentò, spento, il Landriani.

Alla Contessa non piaceva quel tono fatalista, ma poteva capire colui che le stava davanti. Stava provando un senso di smarrimento – ormai da anni – che lo aveva portato a lasciarsi scivolare addosso tutto. Se lei aveva sempre reagito ai lutti e alle ingiustizie subite con la rabbia e l'impulsività, Gian Piero l'aveva invece fatto con una resa incondizionata.

“Vi serve qualcosa, prima di andare a Forlimpopoli?” gli chiese, quando si accorse che l'ex castellano si stava alzando.

L'uomo scosse il capo: “No, no, grazie, ho tutto quello che può servire a un vecchio come me.”

Quando si salutarono, la Sforza uscì in corridoio e andò a dare un'occhiata veloce al cortile d'addestramento. Sporgendosi dalla finestra vide Galeazzo e Scipione che duellavano, assieme a una ventina di altri soldati.

Bianca era alla finestra dirimpetto alla sua, con Giovannino in braccio, intenta a studiare gli uomini che si allenavano.

Ottaviano, incredibilmente, era anche lui nel cortile, appoggiato al muro, le braccia incrociate sul petto e un'aria truce, mentre fissava – la Tigre se ne accorse con un velo di preoccupazione – il fratellastro che combatteva contro Galeazzo.

Sforzino verosimilmente era intento nei suoi studi nella sala delle letture.

All'appello mancava solo il piccolo Feo. Caterina tentò a lungo di scorgere anche Bernardino, ma non lo trovò. Avrebbe voluto andarlo a cercare, per assicurarsi che non si stesse cacciando in uno dei suoi soliti vespai, quando sentì la voce di Numai chiamarla.

Si voltò e vide il Consigliere che avanzava a passo spedito in sua direzione: “Mia signora – le disse, chinando un po' il capo – scusate il ritardo, ma sono stato trattenuto...”

Solo in quel momento la Leonessa si ricordò di aver fissato un appuntamento con Luffo, per discutere in santa pace di alcuni dettagli riguardanti la messa in sicurezza dei suoi figli. Con un moto irrefrenabile di insoddisfazione, la Contessa gli fece segno di seguirla, ritornando verso la propria stanza.

“Avanti – gli disse, sentendosi come non mai strappata alla propria vita da problemi che non era stata lei a cercare – che se riesco, dopo, vorrei passare una mezz'ora con il mio figlio più piccolo, finché posso...”

Numai fece un sorriso di circostanza e poi, una volta che furono in stanza, cominciò a ragguagliarla su come procedessero i preparativi di un canale sicuro per spostare tutti i suoi figli al sicuro.

“Ovviamente andrà fatto al momento giusto.” concluse il Consigliere, dopo che i due ne ebbero discusso per oltre un'ora.

“Certo.” convenne lei: “Come vi ho detto prima, è fondamentale che il papa non si renda conto della nostra mossa finché suo figlio Cesare non sarà qui. Altrimenti sarebbe tutto inutile.”

“Dovremo aspettare proprio l'ultimo momento utile.” ribadì Luffo.

“Siete ancora sicuro di poterlo fare?” chiese lei, sapendo di aver chiesto moltissimo all'uomo che le stava davanti.

“Vi ho già detto che lo farò, e non mi tirerò indietro.” disse il forlivese, con una vena di sicurezza che alla sua signora piacque moltissimo.

“Bene.” annuì lei e poi, sentendo le campane battere l'ora, chiuse un momento gli occhi: “Che diamine, è già ora del Consiglio Cittadino...”

“Volete che vi anticipi, così avrete tempo per...” provò a offrirsi Numai.

“Per cosa? Per lasciare che tutti i membri del Consiglio si chiedano come mai ho ritardato?” fece lei, con rabbia: “No, no... Non importa.” declinò.

Chiese allora al Consigliere di uscire un attimo. Voleva indossare un abito meno consumato di quello che portava in quel momento. Scelse anche qualche piccolo gioiello, e poi uscì, diretta al palazzo.

Mentre camminava veloce per la lunga strada che da Ravaldino la conduceva in città, passò accanto alla statua di Giacomo Feo e alla cittadella. Se anche le avessero concesso mezz'ora per far quel che voleva, si chiese, cos'avrebbe fatto davvero? Sarebbe corsa a cercare Bernardino? Avrebbe passato quei preziosi minuti stringendosi al petto Giovannino? Oppure si sarebbe infilata nell'alloggio di Pirovano, al Paradiso, per supplire quei pochi giorni che li avevano visti lontani, preda ciascuno dei propri impegni?

Con un sospiro, sapendo che la risposta non le sarebbe piaciuta, la donna mise a tacere la sua coscienza, ignorando il morso che la tormentava, e varcò la soglia del palazzo dei Riario, pronta a spiegare a una folla di Consiglieri inquieti come mai avesse deciso di requisire le scorte alimentari dell'intero Stato, redistribuendole secondo le necessità da lei stabilite.

 

 
 
   
 
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