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Autore: Mary P_Stark    09/09/2019    1 recensioni
Cosa succederebbe se gli dèi dell'Olimpo e gli eroi greci camminassero tra noi? Quali potrebbero essere le conseguenze, per noi e per loro? Atena, dea della Guerra, delle Arti e dell'Intelletto, incuriosita dal mondo moderno, ha deciso di vivere tra noi per conoscere le nuove genti che popolano la Terra e che, un tempo, lei governava assieme al Padre Zeus e gli Olimpici. In questa raccolta, verranno raccontate le avventure di Atena, degli dèi olimpici e degli eroi del mito greco, con i loro pregi, i loro difetti e le loro piccole stravaganze. (Naturalmente, i miti sono rivisitati e corretti)
Genere: Commedia, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3.

Los Angeles – settembre 1971

 

 

Il sottotetto del capannone industriale dove avevano trovato rifugio era ancora dannatamente caldo, nonostante fossero già le nove di sera, ma non importava.

Erano sfuggiti alle forze dell’ordine, nessuno dei suoi amici era finito in galera per le proteste contro la guerra del Vietnam, ed erano soddisfatti per i risultati ottenuti quel giorno.

Si sentiva appagato, fiero di avere degli amici umani che ricambiavano il suo affetto e, più di tutto, si sentiva utile a qualcuno.

Il fatto che, per ottenere questo affetto, avesse dovuto rubare all’interno di un laboratorio di materiali chimici, era secondario per lui.

In quanto divinità, nessun luogo era a lui precluso, e Hermes aveva sempre usato la sua capacità di muoversi con agilità e svicolare abilmente tra le maglie della sicurezza per procurarsi ciò che più voleva.

Lo aveva fatto fin da quando, in fasce, aveva rubato la mandria di Apollo, e divenire adulto non lo aveva cambiato. Erano variati solo i suoi interessi.

Sdraiandosi su un materasso consunto, mentre alcuni dei suoi amici si appoggiavano stanchi contro una parete per bucarsi, Hermes li fissò tutti con amore e sorrise quando Jane lo raggiunse per poi baciarlo.

La sua Jane.

La amava fin da quando l’aveva vista alla prima manifestazione contro la guerra a cui aveva partecipato.

La sua grinta, il suo livore verso le istituzioni – che lei accusava di essere i veri fautori delle morti in battaglia – lo avevano conquistato subito.

Lui, da sempre astuto e truffaldino, da sempre sostenitore di tutti coloro che sceglievano altre vie per giungere ove volevano, si era innamorato dell’ardore giovanile di Jane, della sua strenua volontà di cambiare il mondo.

Conoscerla e divenirne amico era stato semplice e bello. Amarla, facile come respirare. E Jane si era lasciata andare a lui con lo stesso ardore e forza con cui aveva combattuto fin lì le sue battaglie.

Si erano amati più e più volte, dopo il loro primo incontro, e Jane lo aveva fatto entrare nel suo gruppo di pacifisti, devoti all’amore universale.

Avevano partecipato ai festeggiamenti di Woodstock e si erano beati di quell’atmosfera di unione pacifica e di amore tra le genti, entrando in contatto con nuove realtà, nuove esperienze… nuove droghe.

Pur avendole conosciute e provate nei secoli, Hermes si era dichiarato piuttosto restio ad accettare l’uso indiscriminato che, all’interno della sua nuova cerchia di amici, si faceva del peyote e della meth.

Jane, però, lo aveva preso metaforicamente per mano, facendogli sperimentare un nuovo genere di realtà, di sensazioni, e Hermes si era lasciato conquistare.

Forte del suo potere, era riuscito a ottenere per tutti loro prodotti sempre nuovi e sempre più coinvolgenti, e l’amore che era seguito a questi suoi doni lo aveva galvanizzato, stordendolo.

Rendendolo scioccamente cieco.

«Dove sei, Hermes?» domandò Jane, riportandolo alla realtà.

«Qui con te» sottolineò lui, baciandola sul collo.

Lei gli sorrise, vagamente stordita dalla prima dose di mescalina che aveva preso poco dopo il raduno in piazza e Hermes, aiutandola a sdraiarsi, le baciò la fronte e disse: «Dovresti darci un taglio, Jane. O una cosa, o l’altra.»

La giovane rise dolcemente, lo scansò svogliatamente con una mano e replicò: «Ora non fare come mio padre… faccio quello che voglio. Nessun uomo mi darà mai ordini. Men che meno quelli che stanno al Governo.»

«Ma io sono un dio… non sono al Governo» ammiccò lui, levandosi in piedi.

Jane allora gorgogliò una risata da ubriaca, annuì e disse: «Il dio con …»

Hermes le tappò la bocca prima di sentirle udire l’oscenità che stava per sgorgare dalle sue labbra a cuore e, sorridendole dolcemente, mormorò: «So come sono fatto, credimi… e sono lieto che il mio corpo ti piaccia, ma ora resta qui e riposa. Soprattutto, basta rimescolare le cose. Ora sono invocato da mio padre, e non posso mancare, ma tornerò a breve, d’accordo?»

«D’aaaccordooo» mormorò lei, volgendosi su un fianco per poi guardarlo piena di allegria. «Dopo, farai l’amore con me, però. Mi manchi già, perciò dovrai farti perdonare.»

«Tutto quello che vuoi» assentì lui prima di lanciare un’occhiata al membro più anziano del gruppo, Nathan, indicarle Jane col capo e poi svanire in una nuvola dorata.

***

Gli occhi di Hermes si aprirono fin quasi a fargli dolere la pelle e, riscuotendosi da quel ricordo terrificante, si guardò intorno solo per trovare ancora il buio che lo aveva fagocitato, facendolo cadere per un tempo infinito.

Il suo cuore batté frenetico nel petto ma, prima ancora di poter chiedere a Érebos di smettere con quella tortura, le immagini della sua mente vennero sostituite da qualcosa che non aveva mai visto prima.

Intorno a lui riapparve il sottotetto, i suoi amici, il mobilio disadorno e raffazzonato alla bell’e e meglio… Jane.

Una Jane viva. Bellissima.

Sgranando gli occhi l’attimo successivo, vide però altro… qualcosa che forse avrebbe preferito non vedere, né sapere.

Jane mise un broncio dolcissimo, lagnandosi per la mancanza di Hermes, e questo fece storcere il naso di Nathan che replicò: «Ti piace soltanto perché fa cose pazzesche… ma se fosse come me, o Carl, neanche lo avresti degnato di uno sguardo …o fatto entrare nel nostro gruppo.»

La giovane lo fissò storta, troppo stordita dalla mescalina per essere incisiva nella sua offensiva, ma disse perentoria: «Hermes potrebbe essere cieco e sordo, ma sarebbe comunque il mio Hermes

«E’ il tuo spacciatore» sottolineò aspro Nathan.

«Il nostro, anche quanto… e ci dà roba di primissima qualità. Nessuno è mai stato male, grazie a lui» mugugnò Jane, volgendosi prona per poi fissare torva Nathan e aggiungere: «Ma il punto non è questo, Nathan, e lo sai. Mi tratta bene, vuole bene alla mia sorellina e si preoccupa che noi possiamo avere un tetto sotto cui dormire. I nostri genitori se ne sbattono, ma lui no. Lui tiene a noi, e io gli piaccio per quella che sono. Sei solo geloso di lui.»

«Di quel rammollito?» la prese in giro Nathan, levandosi da terra con in mano una siringa ricolma di liquido biancastro. «Dovrei essere pazzo, per essere geloso di un tipo del genere.»

«Hermes è la mia famiglia …si prende cura di me e di mia sorella, e io mi prendo cura di lui» aggiunse a quel punto Jane, scrutandolo dal basso all’altro, mentre Nathan incombeva su di lei come un’ombra inquietante.

Hermes fissò quelle scene con il cuore in gola, il viso cosparso di sudore e la consapevolezza che, di lì a poco, sarebbero tutti morti.

Con le mani cercò di afferrare Jane, di strapparla al suo infausto destino, ma le immagini tridimensionali rimasero a lui precluse, costringendo così il dio a vedere anche il resto.

Nathan si piegò su un ginocchio, l’ago levato sopra il capo come la cuspide di uno scorpione e, afferrata Jane per i capelli, ringhiò contro il suo viso: «Beh, tu non sarai mai la sua famiglia, però!»

Ciò detto, infilò l’ago nel braccio di una sconvolta Jane che, pur divincolandosi, non riuscì a evitare che la dose eccessiva di meth le penetrasse nel sangue.

«Consolati… morirai a causa di roba che non ha portato lui» le sibilò in faccia Nathan prima di volgersi verso il suo folto gruppo di compagni.

Solo alcuni – abbastanza lucidi per aver visto l’intera scena – si erano accorti di ciò che Nathan aveva fatto, e furono perciò i primi a subire la triste sorte che, presto o tardi, toccò a tutti.

Mentre i gorgoglii dolenti di Jane dichiaravano a gran voce l’inizio del rigetto del corpo delle sostanze stupefacenti, Nathan portava indegna morte ai suoi compagni iniettando loro aria nelle vene, procurando così degli emboli gassosi letali.

Uno dopo l’altro, falcidiò coloro che, per lungo tempo, erano stati suoi amici ma che, con l’avvento di Hermes, avevano visto in lui – e non più in Nathan – un capo da seguire.

Quando infine raggiunse la piccola, tenera Claire, Nathan non riuscì però a portare a termine la sua vendetta per il tradimento dei suoi compagni.

Addormentata su una montagna di cuscini, appariva molto più giovane dei suoi diciassette anni e, nel vederla così fragile e inconsapevole, calò la mano, scrutò il delirio che si era lasciato alle spalle e, da ultimo, inoculò l’aria a se stesso.

La morte sopraggiunse poco tempo dopo, quando l’embolo gassoso produsse un arresto cardiaco, e fu su questo spettacolo desolante che Claire posò i suoi occhi, non appena si svegliò.

Trovò la morte a tenerle compagnia, e sua sorella Jane era tra loro.

Le immagini svaporarono, ma Hermes rammentava bene cosa fosse successo in seguito.

Percepì ogni singolo sospiro di ogni singola anima, e a ogni distacco dalla vita, lui provò una pugnalata nel petto. Quando infine gli giunse il sospiro di Jane, per lui fu troppo. Fuggì dal tempio del padre per tornare a Los Angeles, terrorizzato da quel che avrebbe trovato, ma consapevole della verità.

Raggiungere a Los Angeles per compiere la sua opera di psicopompo gli sembrò come un lento, torrido cammino attraverso le fiamme infernali.

Quando infine vide i corpi stesi a terra, i medici impegnati a dichiararne i decessi e le relative anime in piedi accanto a coloro i quali erano stati i loro involucri viventi, si sentì male.

L’anima di Nathan lo vide e, contrariamente agli altri, lo accusò di essere la causa della loro morte. Lo maledisse, pregando che lui non potesse più vivere in pace e, con questo peso sul cuore, Hermes li condusse fino alle porte dell’Oltretomba.

Il chiarore rappresentato da Érebos tornò e Hermes, il volto rigato di lacrime come mai, da quell’infausto giorno, aveva potuto – o saputo – versare, fissò il volto cupo del dio Ctonio, mormorando: «Li uccise lui. Tutti quanti.»

La divinità non disse nulla e, al suo posto, apparve la figura di una donna di mezza età, dai capelli raccolti in uno chignon e abbigliata in maniera allegra e vivace.

Hermes, nonostante tutto, riconobbe subito in quel volto segnato dagli anni la figura di Claire e, scoppiando in un pianto dirotto, crollò in ginocchio e mormorò: «Non li ho salvati… non li ho salvati…»

La donna si accoccolò accanto a lui, lo strinse a sé e replicò: «Eri lontano, e nessuno avrebbe mai potuto prevedere la follia di Nathan.»

«Ma Jane…»

«Jane ti amava, e io ti consideravo il fratello che non ho mai avuto. Eri davvero la nostra famiglia, Hermes…» ribatté la donna, carezzandogli la chioma biondo cenere. «Eravamo tutti sciocchi e presuntuosi, all’epoca, e pensavamo che comportarci così avrebbe portato a qualcosa di buono. Tu ci hai solo assecondato, mai obbligato.»

«Avrei potuto fermarvi… ma ho… io ho…» tentennò lui, stringendosi alla donna con tutta la sua forza.

«Hai fatto quello che altri ti hanno chiesto… immagino, per lo stesso motivo per cui io e Jane ti stavamo sempre accanto. Tutti noi ci sentivamo soli, e la compagnia dell’altro ci faceva sentire vivi» mormorò Claire, carezzandogli il viso con un tocco delicato della mano.

Hermes non riuscì a rispondere, limitandosi a piangere tutte le lacrime che, per tante decadi, aveva trattenuto dentro di sé ma, quando risollevò il viso per chiedere perdono a Claire, trovò soltanto Érebos.

Sconvolto, Hermes esalò: «Era… era un tuo sortilegio?»

Scuotendo il capo, lui si limitò a dire: «Sono le sue parole, così come il suo volto. Solo, non è potuta venire di persona, perché ricoverata in ospedale. Altrimenti, sarebbe venuta fin qui per chiederti perdono.»

«Chiedermi… perdono?» gorgogliò Hermes, confuso.

«Per non averti cercato, per aver perso i contatti con te. Ora, però, è tempo di andare, Hermes» decretò Érebos, levandosi in piedi e allungandogli una mano perché lo seguisse.

Hermes, però, scosse il capo e replicò dolente: «Non voglio morire. Non voglio svanire in un lampo di luce. Voglio conoscere le mie nipotine, vederle crescere, voglio poter stare accanto ad Artemide, e darle una spalla su cui piangere quando sarà il momento.»

Il dio rimase in silenzio ed Hermes, sospirando, aggiunse roco: «Parlerò con loro… dirò loro ogni cosa, ma permettimi di stare ancora con la mia famiglia.»

Érebos allora sorrise e disse: «Avevi già scelto questa via quando le tue lacrime sono finalmente scese, ma mi ha fatto piacere sentirtelo dire.»

Hermes si levò in piedi, lo abbracciò – venendo ricambiato – e domandò curioso: «Come potevi sapere, tu? Non l’ho mai detto a nessuno.»

«Ho avuto delle buone consigliere ad aiutarmi…inoltre, a quanto pare, era questo il mio compito, fin dall’inizio del tuo filo del destino. Inoltre, anche tuo padre ne era a conoscenza» gli spiegò Érebos, sorridendo sghembo. «La tua mente era così indebolita dal dolore, che Zeus non ha avuto problemi a leggerla …e a capire.»

«Ma non ha fatto nulla per fermarmi» mormorò Hermes, prima di levare coraggiosamente il capo e aggiungere: «Ma ora sapranno tutto. Le mie sorelle e i miei fratelli.»

«Molto bene» assentì Érebos.

Mentre le porte del mondo oscuro si aprivano per loro, Hermes domandò alla divinità Ctonia: «Pensi che potrei rivedere Claire?»

«Si offenderebbe se tu non l’andassi a trovare» gli sorrise il dio. «Quando mi sono recato da lei per sapere se si ricordasse o meno di te, mi disse le esatte parole che tu hai sentito nella visione. Lei vorrebbe dirti di persona. Perciò sì, vai da Claire. Stai con lei, e guarisci, Hermes.»

L’attimo seguente, in un lampo di luce, svanirono dal mondo oscuro per ritrovarsi dinanzi alla porta di una stanza d’ospedale, nel reparto di ortopedia.

Hermes si guardò intorno turbato ma, grazie ai poteri di Érebos, non solo nessuno li vide giungere, ma neppure entrare nella stanza.

Lì, il dio vide la donna della visione – Claire – sdraiata in un enorme letto e con una gamba ingessata e tenuta in sospensione da alcuni cavi metallici e, suo malgrado, rise dolcemente.

A quel suono, la donna si destò, fissò per un attimo stranita i suoi visitatori dopodiché, nel riconoscere Hermes, allungò una mano verso di lui e mormorò: «Fratellone… non sei invecchiato di un giorno…»

Le lacrime, cocenti e amare, tornarono a debordare dai suoi occhi e, mentre il dio Ctonio si allontanava non visto per poter lasciare loro un po’ di intimità, Hermes abbracciò la donna e ricordò con lei gli eventi che lo avevano quasi portato alla follia.

***

Érebos riprese forma nel corridoio antistante la camera da letto di Artemide e, quando questo avvenne, ciò che avvertì il dio furono le sue urla furibonde della dea silvana e i tentativi di Athena di chetarla.

Nel vedere, però, Demetra e Maia con le due bambine in braccio e Felipe assieme a loro, si tranquillizzò un poco: il problema non era dato dalle neonate, ma dalla scomparsa improvvisa di Hermes.

Sorridendo incoraggiante a Maia, che lo dispensò di un cenno ossequioso del capo, il dio Ctonio si affacciò sulla camera della neomamma giusto in tempo per evitare un cuscino lanciato a gran velocità.

Intercettatolo al volo, Érebos chiosò: «Denoto che stai già bene. Ne sono lieto.»

«TU…» ringhiò furiosa la dea silvestre, rossa in volto per l’ira e per il parto gemellare appena sopportato. «… riportami mio fratello, o giuro su tutti i pantheon di questo mondo che troverò il modo di ucciderti!»

La divinità Ctonia non diede adito di prendersela per la minaccia e, ammiccando ad Athena, che appariva abbastanza provata, celiò: «Deduco che tu le abbia detto qualcosa…»

«Non tutto, ovviamente, visto che non hai specificato il problema» sbottò a sua volta la dea, fissandolo aspramente.

Érebos sospirò, a quel punto, scosse il capo e commentò sarcastico: «E’ proprio vero che non potrai mai accontentare le donne, neppure volendo.»

Ciò detto, si avvicinò al letto, si sedette sul bordo e, carezzando il viso di una rabbiosa Artemide, disse seriamente: «Vostro fratello ora è al sicuro, ma avrà bisogno del vostro appoggio e del vostro aiuto, in seguito. Io ho solo spezzato un circolo vizioso, ma voi dovrete fare il resto.»

Accigliandosi leggermente, la dea silvana si chetò un poco, replicando: «Come se ci fosse bisogno di chiederlo. Certo che saremo al suo fianco!»

Érebos accennò un sorriso e Artemide, impallidendo leggermente, mormorò turbata: «Era… in pericolo?»

«Non più. Ma potrebbe ricaderci, per questo deve sentirvi vicine, a costo di obbligarlo ad accettare la vostra vicinanza. Almeno per un po’» la rassicurò lui, levandosi da letto per tornare da Athena.

Lì, la abbracciò, lasciando trasparire parte del suo disagio per essere stato costretto a fare suo malgrado del male a Hermes, facendogli rivivere quello scomodo, terribile passato.
Athena, perciò, lo tenne avvinto a sé, assorbì i suoi tremori impercettibili e, prima di vederlo svanire, mormorò: «Ti amo. Sempre.»

Lui assentì e, in uno scintillio dorato, svanì, lasciando nella pace la camera che aveva trovato nel caos.

Affacciandosi dopo qualche attimo e trovando finalmente un’atmosfera distesa, Felipe sorrise alla compagna e domandò: «Ora vuoi abbracciare le tue piccoline? Penso che abbiano entrambe fame.»

Scoppiando a ridere, Artemide assentì e, allungando le braccia verso di lui, chiosò: «Come se la cosa mi dovesse sorprendere. Quelle due hanno sempre avuto fame!»

Felipe assentì divertito e, nell’osservare Athena, mimò un labiale per chiederle se tutto andasse bene, trovando in lei un assenso completo.

Un poco più tranquillo, Felipe permise a Demetra e Maia di rientrare con le bambine e, mentre le due dee consegnavano le neonate alla madre, l’uomo si avvicinò alla ex cognata per mormorare: «Poi mi spiegherai, vero?»

«Appena ci capirò qualcosa, di sicuro. Ho idea che nostro fratello Hermes avrà bisogno di un po’ di supporto psicologico, anche se non so bene perché» assentì lei con un mezzo sorriso.

«Nessun problema. Siamo una famiglia, no?» chiosò Felipe, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Lei assentì, gli diede un familiare colpetto spalla contro spalla e annuì. «Sì, lo siamo.»

***

La testa reclinata all’indietro sulla sua poltrona ergonomica da ufficio, Érebos sobbalzò per la sorpresa quando udì Alekos chiamarlo.

«Pa’, posso entrare?» mormorò il quattordicenne, affacciandosi dubbioso nel suo studio.

Lui sorrise a mezzo, e assentì.

Alekos aveva iniziato a chiamarlo a quel modo da un giorno all’altro, dopo una domanda a sorpresa di una sua compagna di classe alla secondary school.

Nel vederli assieme dopo l’uscita da scuola, Barbra si era avvicinata ad Alekos per un saluto e, sorridendo a entrambi, aveva chiosato: «Tu e il tuo pa’ vi somigliate, anche se non sei nato da lui, sai?»

Da quel giorno, Alekos aveva preso a usare quel gergo – pa’ – che a Érebos era subito piaciuto moltissimo, così come ad Athena.

Dubbioso, Alekos si avvicinò al dio Ctonio e, poggiandosi contro la scrivania, domandò: «Ti senti bene? Percepisco tanto dolore, in te.»

Non era ancora ben chiaro a nessuno come funzionassero i doni di Alekos, ma era abbastanza sicuro che avessero a che fare con il dolore e l’ansia delle persone. In lui era innato il desiderio di vederle sorridere.

Érebos, perciò, non si stupì di quel commento e replicò: «Sono molto stanco perché ho dovuto fare una cosa di cui non vado molto orgoglioso, ma che era necessaria per far guarire zio Hermes.»

Alekos, allora, sorrise sollevato e disse: «Sono lieto che tu lo abbia fatto. Io sapevo di non poter fare nulla, perché il suo dolore era troppo profondo e troppo radicato, perché riuscissi a comprenderne i contorni.»

Annuendo, la divinità Ctonia lo attirò a sé per una carezza, asserendo: «Immaginavo che avessi avvertito il suo disagio. Non ti sentivi in grado di affrontarlo, forse?»

«Aveva a che fare con cose che non riuscivo a comprendere, ma speravo che prima o poi lui ce ne avrebbe parlato, così avrei potuto tentare di fare qualcosa» ammise il giovane, stringendo Érebos in un abbraccio. «Tu hai risolto la questione, ma ora stai male per lui.»

«Succede quando vuoi bene a una persona, ma sei costretto a farla soffrire prima di vederla nuovamente stare bene. E’ un procedimento assai complesso» disse stancamente il dio, accettando e rispondendo di buon grado all’abbraccio.

«Starò un po’ con te, così anche il tuo dolore andrà via… spero» dichiarò Alekos, sorridendogli nell’appoggiare il capo contro la sua spalla.

«Grazie a te, andrà via di sicuro… e non per via dei tuoi poteri, ma perché sei tu, Alekos, a farmi stare bene» asserì il dio, sospirando e lasciandosi cullare dall’affetto del figlio adottivo.

Non aveva bisogno d’altro, in quel momento, per ritemprarsi. Solo dell’affetto del suo figliolo.

 

 

 


 N.d.A.: che ne dite, Hermes avrà finalmente capito? Correrà ancora un rischio simile, o finalmente si fiderà della sua famiglia?

  
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