3.
Los
Angeles –
settembre 1971
Il
sottotetto del capannone industriale dove avevano trovato rifugio era
ancora
dannatamente caldo, nonostante fossero già le nove di sera,
ma non importava.
Erano
sfuggiti alle forze dell’ordine, nessuno dei suoi amici era
finito in galera
per le proteste contro la guerra del Vietnam, ed erano soddisfatti per
i
risultati ottenuti quel giorno.
Si
sentiva appagato, fiero di avere degli amici umani che ricambiavano il
suo
affetto e, più di tutto, si sentiva utile a qualcuno.
Il
fatto che, per ottenere questo affetto, avesse dovuto rubare
all’interno di un
laboratorio di materiali chimici, era secondario per lui.
In
quanto divinità, nessun luogo era a lui precluso, e Hermes
aveva sempre usato
la sua capacità di muoversi con agilità e
svicolare abilmente tra le maglie
della sicurezza per procurarsi ciò che più voleva.
Lo
aveva fatto fin da quando, in fasce, aveva rubato la mandria di Apollo,
e
divenire adulto non lo aveva cambiato. Erano variati solo i suoi
interessi.
Sdraiandosi
su un materasso consunto, mentre alcuni dei suoi amici si appoggiavano
stanchi
contro una parete per bucarsi, Hermes li fissò tutti con
amore e sorrise quando
Jane lo raggiunse per poi baciarlo.
La
sua Jane.
La
amava fin da quando l’aveva vista alla prima manifestazione
contro la guerra a
cui aveva partecipato.
La
sua grinta, il suo livore verso le istituzioni – che lei
accusava di essere i
veri fautori delle morti in battaglia – lo avevano
conquistato subito.
Lui,
da sempre astuto e truffaldino, da sempre sostenitore di tutti coloro
che
sceglievano altre vie per giungere
ove volevano, si era innamorato dell’ardore giovanile di
Jane, della sua
strenua volontà di cambiare il mondo.
Conoscerla
e divenirne amico era stato semplice e bello. Amarla, facile come
respirare. E
Jane si era lasciata andare a lui con lo stesso ardore e forza con cui
aveva
combattuto fin lì le sue battaglie.
Si
erano amati più e più volte, dopo il loro primo
incontro, e Jane lo aveva fatto
entrare nel suo gruppo di pacifisti, devoti all’amore
universale.
Avevano
partecipato ai festeggiamenti di Woodstock e si erano beati di
quell’atmosfera
di unione pacifica e di amore tra le genti, entrando in contatto con
nuove
realtà, nuove esperienze… nuove
droghe.
Pur
avendole conosciute e provate nei secoli, Hermes si era dichiarato
piuttosto
restio ad accettare l’uso indiscriminato che,
all’interno della sua nuova
cerchia di amici, si faceva del peyote e della meth.
Jane,
però, lo aveva preso metaforicamente per mano, facendogli
sperimentare un nuovo
genere di realtà, di sensazioni, e Hermes si era lasciato
conquistare.
Forte
del suo potere, era riuscito a ottenere per tutti loro prodotti sempre
nuovi e
sempre più coinvolgenti, e l’amore che era seguito
a questi suoi doni lo aveva
galvanizzato, stordendolo.
Rendendolo
scioccamente cieco.
«Dove
sei, Hermes?» domandò Jane, riportandolo alla
realtà.
«Qui
con te» sottolineò lui, baciandola sul collo.
Lei
gli sorrise, vagamente stordita dalla prima dose di mescalina che aveva
preso
poco dopo il raduno in piazza e Hermes, aiutandola a sdraiarsi, le
baciò la
fronte e disse: «Dovresti darci un taglio, Jane. O una cosa,
o l’altra.»
La
giovane rise dolcemente, lo scansò svogliatamente con una
mano e replicò: «Ora
non fare come mio padre… faccio quello che voglio. Nessun
uomo mi darà mai
ordini. Men che meno quelli che stanno al Governo.»
«Ma
io sono un dio… non sono al Governo»
ammiccò lui, levandosi in piedi.
Jane
allora gorgogliò una risata da ubriaca, annuì e
disse: «Il dio con …»
Hermes
le tappò la bocca prima di sentirle udire
l’oscenità che stava per sgorgare
dalle sue labbra a cuore e, sorridendole dolcemente,
mormorò: «So come sono
fatto, credimi… e sono lieto che il mio corpo ti piaccia, ma
ora resta qui e
riposa. Soprattutto, basta rimescolare le
cose. Ora sono invocato da mio padre, e non posso mancare, ma
tornerò a
breve, d’accordo?»
«D’aaaccordooo»
mormorò lei, volgendosi su un fianco per poi guardarlo piena
di allegria. «Dopo,
farai l’amore con me, però. Mi manchi
già, perciò dovrai farti perdonare.»
«Tutto quello che vuoi» assentì lui prima di lanciare un’occhiata al membro più anziano del gruppo, Nathan, indicarle Jane col capo e poi svanire in una nuvola dorata.
***
Gli
occhi di Hermes si aprirono fin quasi a fargli dolere la pelle e,
riscuotendosi
da quel ricordo terrificante, si guardò intorno solo per
trovare ancora il buio
che lo aveva fagocitato, facendolo cadere per un tempo infinito.
Il
suo cuore batté frenetico nel petto ma, prima ancora di
poter chiedere a Érebos
di smettere con quella tortura, le immagini della sua mente vennero
sostituite
da qualcosa che non aveva mai visto prima.
Intorno
a lui riapparve il sottotetto, i suoi amici, il mobilio disadorno e
raffazzonato alla bell’e e meglio… Jane.
Una
Jane viva. Bellissima.
Sgranando
gli occhi l’attimo successivo, vide però
altro… qualcosa che forse avrebbe
preferito non vedere, né sapere.
Jane
mise un broncio dolcissimo, lagnandosi per la mancanza di Hermes, e
questo fece
storcere il naso di Nathan che replicò: «Ti piace
soltanto perché fa cose
pazzesche… ma se fosse come me, o Carl, neanche lo avresti
degnato di uno
sguardo …o fatto entrare nel nostro gruppo.»
La
giovane lo fissò storta, troppo stordita dalla mescalina per
essere incisiva nella
sua offensiva, ma disse perentoria: «Hermes potrebbe essere
cieco e sordo, ma
sarebbe comunque il mio Hermes.»
«E’
il tuo spacciatore» sottolineò aspro Nathan.
«Il
nostro, anche quanto… e
ci dà roba di
primissima qualità. Nessuno è mai stato male,
grazie a lui» mugugnò Jane,
volgendosi prona per poi fissare torva Nathan e aggiungere:
«Ma il punto non è
questo, Nathan, e lo sai. Mi tratta bene, vuole bene alla mia sorellina
e si
preoccupa che noi possiamo avere un tetto sotto cui dormire. I nostri
genitori
se ne sbattono, ma lui no. Lui tiene a noi, e io gli piaccio per quella
che
sono. Sei solo geloso di lui.»
«Di
quel rammollito?» la prese in giro Nathan, levandosi da terra
con in mano una
siringa ricolma di liquido biancastro. «Dovrei essere pazzo,
per essere geloso
di un tipo del genere.»
«Hermes
è la mia famiglia …si prende cura di me e di mia
sorella, e io mi prendo cura
di lui» aggiunse a quel punto Jane, scrutandolo dal basso
all’altro, mentre
Nathan incombeva su di lei come un’ombra inquietante.
Hermes
fissò quelle scene con il cuore in gola, il viso cosparso di
sudore e la
consapevolezza che, di lì a poco, sarebbero tutti morti.
Con
le mani cercò di afferrare Jane, di strapparla al suo
infausto destino, ma le
immagini tridimensionali rimasero a lui precluse, costringendo
così il dio a
vedere anche il resto.
Nathan
si piegò su un ginocchio, l’ago levato sopra il
capo come la cuspide di uno
scorpione e, afferrata Jane per i capelli, ringhiò contro il
suo viso: «Beh, tu
non sarai mai la sua famiglia, però!»
Ciò
detto, infilò l’ago nel braccio di una sconvolta
Jane che, pur divincolandosi,
non riuscì a evitare che la dose eccessiva di meth le
penetrasse nel sangue.
«Consolati…
morirai a causa di roba che non ha portato lui» le
sibilò in faccia Nathan
prima di volgersi verso il suo folto gruppo di compagni.
Solo
alcuni – abbastanza lucidi per aver visto l’intera
scena – si erano accorti di
ciò che Nathan aveva fatto, e furono perciò i
primi a subire la triste sorte
che, presto o tardi, toccò a tutti.
Mentre
i gorgoglii dolenti di Jane dichiaravano a gran voce l’inizio
del rigetto del
corpo delle sostanze stupefacenti, Nathan portava indegna morte ai suoi
compagni iniettando loro aria nelle vene, procurando così
degli emboli gassosi
letali.
Uno
dopo l’altro, falcidiò coloro che, per lungo
tempo, erano stati suoi amici ma
che, con l’avvento di Hermes, avevano visto in lui
– e non più in Nathan – un
capo da seguire.
Quando
infine raggiunse la piccola, tenera Claire, Nathan non
riuscì però a portare a
termine la sua vendetta per il tradimento dei suoi compagni.
Addormentata
su una montagna di cuscini, appariva molto più giovane dei
suoi diciassette
anni e, nel vederla così fragile e inconsapevole,
calò la mano, scrutò il
delirio che si era lasciato alle spalle e, da ultimo,
inoculò l’aria a se
stesso.
La
morte sopraggiunse poco tempo dopo, quando l’embolo gassoso
produsse un arresto
cardiaco, e fu su questo spettacolo desolante che Claire
posò i suoi occhi, non
appena si svegliò.
Trovò
la morte a tenerle compagnia, e sua sorella Jane era tra loro.
Le
immagini svaporarono, ma Hermes rammentava bene cosa fosse successo in
seguito.
Percepì
ogni singolo sospiro di ogni singola anima, e a ogni distacco dalla
vita, lui
provò una pugnalata nel petto. Quando infine gli giunse il
sospiro di Jane, per
lui fu troppo. Fuggì dal tempio del padre per tornare a Los
Angeles,
terrorizzato da quel che avrebbe trovato, ma consapevole della
verità.
Raggiungere
a Los Angeles per compiere la sua opera di psicopompo gli
sembrò come un lento,
torrido cammino attraverso le fiamme infernali.
Quando
infine vide i corpi stesi a terra, i medici impegnati a dichiararne i
decessi e
le relative anime in piedi accanto a coloro i quali erano stati i loro
involucri viventi, si sentì male.
L’anima
di Nathan lo vide e, contrariamente agli altri, lo accusò di
essere la causa
della loro morte. Lo maledisse, pregando che lui non potesse
più vivere in pace
e, con questo peso sul cuore, Hermes li condusse fino alle porte
dell’Oltretomba.
Il
chiarore rappresentato da Érebos tornò e Hermes,
il volto rigato di lacrime
come mai, da quell’infausto giorno, aveva potuto –
o saputo – versare, fissò il
volto cupo del dio Ctonio, mormorando: «Li uccise lui. Tutti
quanti.»
La
divinità non disse nulla e, al suo posto, apparve la figura
di una donna di
mezza età, dai capelli raccolti in uno chignon e abbigliata
in maniera allegra
e vivace.
Hermes,
nonostante tutto, riconobbe subito in quel volto segnato dagli anni la
figura
di Claire e, scoppiando in un pianto dirotto, crollò in
ginocchio e mormorò:
«Non li ho salvati… non li ho
salvati…»
La
donna si accoccolò accanto a lui, lo strinse a sé
e replicò: «Eri lontano, e
nessuno avrebbe mai potuto prevedere la follia di Nathan.»
«Ma
Jane…»
«Jane
ti amava, e io ti consideravo il fratello che non ho mai avuto. Eri davvero la nostra famiglia,
Hermes…»
ribatté la donna, carezzandogli la chioma biondo cenere.
«Eravamo tutti
sciocchi e presuntuosi, all’epoca, e pensavamo che
comportarci così avrebbe
portato a qualcosa di buono. Tu ci hai solo assecondato, mai
obbligato.»
«Avrei
potuto fermarvi… ma ho… io
ho…» tentennò lui, stringendosi alla
donna con tutta
la sua forza.
«Hai
fatto quello che altri ti hanno chiesto… immagino, per lo
stesso motivo per cui
io e Jane ti stavamo sempre accanto. Tutti noi ci sentivamo soli, e la
compagnia dell’altro ci faceva sentire vivi»
mormorò Claire, carezzandogli il
viso con un tocco delicato della mano.
Hermes
non riuscì a rispondere, limitandosi a piangere tutte le
lacrime che, per tante
decadi, aveva trattenuto dentro di sé ma, quando
risollevò il viso per chiedere
perdono a Claire, trovò soltanto Érebos.
Sconvolto,
Hermes esalò: «Era… era un tuo
sortilegio?»
Scuotendo
il capo, lui si limitò a dire: «Sono le sue
parole, così come il suo volto.
Solo, non è potuta venire di persona, perché
ricoverata in ospedale.
Altrimenti, sarebbe venuta fin qui per chiederti perdono.»
«Chiedermi…
perdono?» gorgogliò Hermes, confuso.
«Per
non averti cercato, per aver perso i contatti con te. Ora,
però, è tempo di
andare, Hermes» decretò Érebos,
levandosi in piedi e allungandogli una mano
perché lo seguisse.
Hermes,
però, scosse il capo e replicò dolente:
«Non voglio morire. Non voglio svanire
in un lampo di luce. Voglio conoscere le mie nipotine, vederle
crescere, voglio
poter stare accanto ad Artemide, e darle una spalla su cui piangere
quando sarà
il momento.»
Il
dio rimase in silenzio ed Hermes, sospirando, aggiunse roco:
«Parlerò con loro…
dirò loro ogni cosa, ma permettimi di stare ancora con la
mia famiglia.»
Érebos
allora sorrise e disse: «Avevi già scelto questa
via quando le tue lacrime sono
finalmente scese, ma mi ha fatto piacere sentirtelo dire.»
Hermes
si levò in piedi, lo abbracciò –
venendo ricambiato – e domandò curioso:
«Come
potevi sapere, tu? Non l’ho mai detto a nessuno.»
«Ho avuto delle buone consigliere ad aiutarmi…inoltre, a quanto pare, era questo il mio compito, fin dall’inizio del tuo filo del destino. Inoltre, anche tuo padre ne era a conoscenza» gli spiegò Érebos, sorridendo sghembo. «La tua mente era così indebolita dal dolore, che Zeus non ha avuto problemi a leggerla …e a capire.»
«Ma
non ha fatto nulla per fermarmi» mormorò Hermes,
prima di levare coraggiosamente
il capo e aggiungere: «Ma ora sapranno tutto. Le mie sorelle
e i miei fratelli.»
«Molto
bene» assentì Érebos.
Mentre
le porte del mondo oscuro si aprivano per loro, Hermes
domandò alla divinità
Ctonia: «Pensi che potrei rivedere Claire?»
«Si
offenderebbe se tu non l’andassi a trovare» gli
sorrise il dio. «Quando mi sono
recato da lei per sapere se si ricordasse o meno di te, mi disse le
esatte
parole che tu hai sentito nella visione. Lei vorrebbe dirti di persona.
Perciò
sì, vai da Claire. Stai con lei, e guarisci,
Hermes.»
L’attimo
seguente, in un lampo di luce, svanirono dal mondo oscuro per
ritrovarsi
dinanzi alla porta di una stanza d’ospedale, nel reparto di
ortopedia.
Hermes
si guardò intorno turbato ma, grazie ai poteri di
Érebos, non solo nessuno li
vide giungere, ma neppure entrare nella stanza.
Lì,
il dio vide la donna della visione – Claire –
sdraiata in un enorme letto e con
una gamba ingessata e tenuta in sospensione da alcuni cavi metallici e,
suo
malgrado, rise dolcemente.
A
quel suono, la donna si destò, fissò per un
attimo stranita i suoi visitatori
dopodiché, nel riconoscere Hermes, allungò una
mano verso di lui e mormorò:
«Fratellone… non sei invecchiato di un
giorno…»
Le
lacrime, cocenti e amare, tornarono a debordare dai suoi occhi e,
mentre il dio
Ctonio si allontanava non visto per poter lasciare loro un
po’ di intimità,
Hermes abbracciò la donna e ricordò con lei gli
eventi che lo avevano quasi
portato alla follia.
***
Érebos
riprese forma nel corridoio antistante la camera da letto di Artemide
e, quando
questo avvenne, ciò che avvertì il dio furono le
sue urla furibonde della dea
silvana e i tentativi di Athena di chetarla.
Nel
vedere, però, Demetra e Maia con le due bambine in braccio e
Felipe assieme a
loro, si tranquillizzò un poco: il problema non era dato
dalle neonate, ma
dalla scomparsa improvvisa di Hermes.
Sorridendo
incoraggiante a Maia, che lo dispensò di un cenno ossequioso
del capo, il dio
Ctonio si affacciò sulla camera della neomamma giusto in
tempo per evitare un
cuscino lanciato a gran velocità.
Intercettatolo
al volo, Érebos chiosò: «Denoto che
stai già bene. Ne sono lieto.»
«TU…»
ringhiò furiosa la dea silvestre, rossa in volto per
l’ira e per il parto
gemellare appena sopportato. «… riportami mio
fratello, o giuro su tutti i
pantheon di questo mondo che troverò il modo di
ucciderti!»
La
divinità Ctonia non diede adito di prendersela per la
minaccia e, ammiccando ad
Athena, che appariva abbastanza provata, celiò:
«Deduco che tu le abbia detto
qualcosa…»
«Non
tutto, ovviamente, visto che non hai
specificato il problema» sbottò a sua
volta la dea, fissandolo aspramente.
Érebos
sospirò, a quel punto, scosse il capo e commentò
sarcastico: «E’ proprio vero
che non potrai mai accontentare le donne, neppure volendo.»
Ciò
detto, si avvicinò al letto, si sedette sul bordo e,
carezzando il viso di una
rabbiosa Artemide, disse seriamente: «Vostro fratello ora è al sicuro, ma
avrà bisogno del vostro appoggio e del vostro
aiuto, in seguito. Io ho solo spezzato un circolo vizioso, ma voi
dovrete fare
il resto.»
Accigliandosi
leggermente, la dea silvana si chetò un poco, replicando:
«Come se ci fosse
bisogno di chiederlo. Certo che saremo al suo fianco!»
Érebos
accennò un sorriso e Artemide, impallidendo leggermente,
mormorò turbata: «Era…
in pericolo?»
«Non
più. Ma potrebbe ricaderci, per questo deve sentirvi vicine,
a costo di obbligarlo ad accettare
la vostra
vicinanza. Almeno per un po’» la
rassicurò lui, levandosi da letto per tornare
da Athena.
Lì,
la abbracciò, lasciando trasparire parte del suo disagio per
essere stato
costretto a fare suo malgrado del male a Hermes, facendogli rivivere
quello
scomodo, terribile passato.
Athena, perciò, lo tenne avvinto a sé,
assorbì i suoi tremori impercettibili e,
prima di vederlo svanire, mormorò: «Ti amo.
Sempre.»
Lui
assentì e, in uno scintillio dorato, svanì,
lasciando nella pace la camera che
aveva trovato nel caos.
Affacciandosi
dopo qualche attimo e trovando finalmente un’atmosfera
distesa, Felipe sorrise
alla compagna e domandò: «Ora vuoi abbracciare le
tue piccoline? Penso che
abbiano entrambe fame.»
Scoppiando
a ridere, Artemide assentì e, allungando le braccia verso di
lui, chiosò: «Come
se la cosa mi dovesse sorprendere. Quelle due hanno sempre
avuto fame!»
Felipe
assentì divertito e, nell’osservare Athena,
mimò un labiale per chiederle se
tutto andasse bene, trovando in lei un assenso completo.
Un
poco più tranquillo, Felipe permise a Demetra e Maia di
rientrare con le
bambine e, mentre le due dee consegnavano le neonate alla madre,
l’uomo si
avvicinò alla ex cognata per mormorare: «Poi mi
spiegherai, vero?»
«Appena
ci capirò qualcosa, di sicuro. Ho idea che nostro fratello
Hermes avrà bisogno
di un po’ di supporto psicologico, anche se non so bene
perché» assentì lei con
un mezzo sorriso.
«Nessun
problema. Siamo una famiglia, no?» chiosò Felipe,
come se fosse la cosa più
naturale del mondo.
Lei assentì, gli diede un familiare colpetto spalla contro spalla e annuì. «Sì, lo siamo.»
***
La
testa reclinata all’indietro sulla sua poltrona ergonomica da
ufficio, Érebos
sobbalzò per la sorpresa quando udì Alekos
chiamarlo.
«Pa’,
posso entrare?» mormorò il quattordicenne,
affacciandosi dubbioso nel suo
studio.
Lui
sorrise a mezzo, e assentì.
Alekos
aveva iniziato a chiamarlo a quel modo da un giorno
all’altro, dopo una domanda
a sorpresa di una sua compagna di classe alla secondary school.
Nel
vederli assieme dopo l’uscita da scuola, Barbra si era
avvicinata ad Alekos per
un saluto e, sorridendo a entrambi, aveva chiosato: «Tu e il
tuo pa’ vi
somigliate, anche se non sei nato da lui, sai?»
Da
quel giorno, Alekos aveva preso a usare quel gergo –
pa’ – che a Érebos era
subito piaciuto moltissimo, così come ad Athena.
Dubbioso,
Alekos si avvicinò al dio Ctonio e, poggiandosi contro la
scrivania, domandò:
«Ti senti bene? Percepisco tanto dolore, in te.»
Non
era ancora ben chiaro a nessuno come funzionassero i doni di Alekos, ma
era abbastanza
sicuro che avessero a che fare con il dolore e l’ansia delle
persone. In lui
era innato il desiderio di vederle sorridere.
Érebos,
perciò, non si stupì di quel commento e
replicò: «Sono molto stanco perché ho
dovuto fare una cosa di cui non vado molto orgoglioso, ma che era
necessaria
per far guarire zio Hermes.»
Alekos,
allora, sorrise sollevato e disse: «Sono lieto che tu lo
abbia fatto. Io sapevo
di non poter fare nulla, perché il suo dolore era troppo
profondo e troppo
radicato, perché riuscissi a comprenderne i
contorni.»
Annuendo,
la divinità Ctonia lo attirò a sé per
una carezza, asserendo: «Immaginavo che
avessi avvertito il suo disagio. Non ti sentivi in grado di
affrontarlo,
forse?»
«Aveva
a che fare con cose che non riuscivo a comprendere, ma speravo che
prima o poi
lui ce ne avrebbe parlato, così avrei potuto tentare di fare
qualcosa» ammise
il giovane, stringendo Érebos in un abbraccio. «Tu
hai risolto la questione, ma
ora stai male per lui.»
«Succede
quando vuoi bene a una persona, ma sei costretto a farla soffrire prima
di
vederla nuovamente stare bene. E’ un procedimento assai
complesso» disse
stancamente il dio, accettando e rispondendo di buon grado
all’abbraccio.
«Starò
un po’ con te, così anche il tuo dolore
andrà via… spero» dichiarò
Alekos, sorridendogli
nell’appoggiare il capo contro la sua spalla.
«Grazie
a te, andrà via di sicuro… e non per via dei tuoi
poteri, ma perché sei tu,
Alekos, a farmi stare bene» asserì il dio,
sospirando e lasciandosi cullare
dall’affetto del figlio adottivo.
Non
aveva bisogno d’altro, in quel momento, per ritemprarsi. Solo
dell’affetto del
suo figliolo.